Troppo mitico! di Gianfranco Liori illustrazioni di Margherita Allegri Š 2011 Editrice Il Castoro Srl viale Abruzzi 72, 20131 Milano www.castoro-on-line.it info@castoro-on-line.it Pubblicato in accordo con l’Autore c/o Agenzia Letteraria Kalama
ISBN 978-88-8033-593-1
Gianfranco Liori
Troppo mitico! Illustrazioni di Margherita Allegri
PROLOGO
E
ra una calda domenica di primavera e io ero ancora nella pancia di mia madre. Papà aveva avuto la bella idea di portarci allo stadio, nella curva dei tifosi. Io, al calduccio nel mio comodo sacchettino, percepivo un’insolita agitazione. Sentivo urla, schiamazzi, il battere dei tamburi... Ogni tanto forti squilli di tromba mi facevano tremare. Cominciai a scalciare e a sgomitare dentro la pancia. Anche la mamma diventò nervosa, non so se per l’andamento della partita o perché sarei dovuto nascere entro pochi giorni. La partita era molto importante. Il campionato stava per finire e l’Olimpya, la squadra della nostra città, rischiava di precipitare in serie B. Sfidava la Zenit che, invece, era prima in classifica e giocava per lo scudetto. Nonostante le due squadre ce la mettessero tutta, nessuno era ancora riuscito a segnare e, a cinque minuti dalla fine, il risultato era ancora zero a zero. 5
Nel frattempo io ero riuscito ad addormentarmi; chissà, magari stavo sognando qualcosa di bello; e mi ciucciavo il pollice. All’improvviso ci fu un boato pazzesco, un rumore fortissimo che fece vibrare tutto il mondo intorno a me. Mi svegliai terrorizzato. L’Olimpya aveva segnato. Mi sentii sballottato da una parte all’altra, e in su e in giù, nella pancia. Il mondo si capovolse e non riuscii più a trovare la bocca per infilarci il pollice. Tentai di urlare e... e credo che in quel preciso momento pensai che l’unica salvezza fosse scappare da quel posto. In poche parole, pensai che fosse giunta l’ora di nascere. Il resto non me l’hanno raccontato bene. So solo che mia madre fu soccorsa da alcuni spettatori e caricata sull’ambulanza dello stadio. E io nacqui proprio lì, dentro l’ambulanza. In pochi minuti ero già avvolto in una copertina, lavato, profumato e senza cordone ombelicale. Strillavo come un maialino da latte. Per quanto cercassero di calmarmi, continuavo a urlare. 6
Lo spavento che avevo preso allo stadio mi aveva come traumatizzato, e nessuno poteva farci nulla. Da quel giorno (cioè da quando sono nato) ho sempre avuto il terrore dei rumori forti, e anche delle sirene delle autoambulanze e della polizia (ho anche paura di un sacco di altre cose, ma questo lo scoprirete presto). E il calcio? Beh... il calcio mi è sempre stato un po’ indigesto. La storia della mia nascita suscitò un certo scalpore, tanto che il giorno dopo apparve anche un articolo in prima pagina sul quotidiano della città:
Partorisce allo stadio grazie al gol del cobra santonastangelo. Lieto evento ieri in curva nord. Protagonista una donna di 32 anni. Il neonato è un bel maschietto di 3 chili. Il giornalista aveva sbagliato, visto che ero nato nell’ambulanza, non allo stadio. L’articolo – che conservo ancora – diceva che il giorno dopo la partita il capocannoniere Santonastangelo era venuto a farmi visita in ospedale: il suo gol aveva anticipato la mia nascita e io sarei stato di buon auspicio per la salvezza della squadra. Il Cobra fece gli auguri ai miei genitori, ma non riuscì a 7
fare una foto decente insieme a me, perché io piansi tutto il tempo. Quell’episodio ebbe una conseguenza spiacevole nella mia vita. Infatti, prima di allora era deciso che il mio nome sarebbe stato Leonardo (un nome meraviglioso). I miei genitori invece cambiarono idea all’ultimo momento. Siccome la squadra si doveva salvare, trovarono più giusto affibbiarmi il nome di... indovinate un po’... Salvatore. Salvatore... Salvatore... A me non è mai piaciuto. Proprio mai. Qualcosa di simpatico però successe lo stesso. Anche il Cobra Santonastangelo cercò di farmi smettere di strillare perché dovevamo essere ritratti nella foto ricordo. Mi prese in braccio e mi coccolò per un po’. Ma io niente, non mi calmavo. Allora mi sollevò delicatamente in aria, un poco sopra la sua faccia, e mi dondolò dicendo le solite paroline sceme che si dicono ai neonati, tipo “gni-gni-gni, gna-gna-gna” oppure “piccinobellopiccolopiccolo...”. In quel momento mi venne un singhiozzo e rigurgitai una bella quantità di liquido giallognolo proprio sugli occhi, la faccia e i baffi del famoso giocatore. Per un attimo smisi di piangere e feci un sorriso. Il giornalista fu lesto e scattò la foto proprio allora. Flash! La stessa che finì anche su diversi giornali. Eccola qua.
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Per la cronaca, l’Olimpya si salvò.
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1. UN EVENTO ECCEZIONALE
N
onostante il calcio non fosse decisamente uno dei miei giochi preferiti, a volte capitava che a scuola mi invitassero a fare una partita. E io non dicevo mai di no. Non era nel mio carattere rifiutare qualcosa, se potevo farla. Non volevo dare l’impressione di essere troppo superiore per queste cose. E poi alcuni compagni avevano cominciato ad affibiarmi nomignoli tipo secchione oppure soggetto, e io volevo comportarmi nel modo più normale possibile. Così quel pomeriggio giocavo a pallone con alcuni ragazzi del doposcuola. Avevamo formato due squadre da sette e ci stavamo sfidando stancamente. Non era una partita strepitosa e il nostro impegno era nella media, anzi un po’ sotto. E poi mancavano i più bravi della scuola. L’evento eccezionale accadde verso la fine della partita. 10
A bordo campo vidi mio padre che guardava la mia partita con le braccia incrociate e il telefonino in mano. Da quanto tempo era lì? A differenza degli altri genitori lui non si era mai fermato a vedermi giocare. In tanti anni non era mai successo che venisse a prendermi. Di solito non gli importava quello che facevo, e per questo ero un po’ invidioso dei miei compagni, che spesso erano “assistiti” e incoraggiati dai genitori anche durante le partitelle scolastiche. Forse aveva voluto farmi una sorpresa. Mi fermai in mezzo al campo e mi sbracciai per salutarlo, ma soprattutto per dimostrare agli altri che anch’io avevo un padre in carne e ossa, un genitore vero che si interessava a me. Lui rispose al mio saluto agitando il braccio. Ebbi uno slancio di orgoglio e così mi impegnai per far vedere a mio padre di essere un bravo giocatore (cosa che in realtà non ero) e che poteva essere fiero di me. Fino ad allora avevo giocato svogliatamente ma da quel momento, invece di rimanere in difesa, dove mi avevano piazzato gli altri, andai a cercare la palla. Dopo averla rubata a uno dell’altra squadra, la depositai in rete con un tiro sotto la traversa. 11