SETTIMIO BIONDI
UNA FESTA AMERICANA e altri scritti
CENTRO CULTURALE EDITORIALE PIER PAOLO PASOLINI
SETTIMIO BIONDI
UNA FESTA AMERICANA e altri scritti
CENTRO CULTURALE EDITORIALE PIER PAOLO PASOLINI
Settimio Biondi
UNA FESTA AMERICANA e altri scritti
CENTRO CULTURALE EDITORIALE PIER PAOLO PASOLINI AGRIGENTO www.centropasolini.it www.centropasolini30.it - centropasolini@libero.it
con il patrocinio ed il contributo della Regione Siciliana -Assessorato Regionale Beni Culturali, Ambientali e Pubblica Istruzione. Dipartimento Beni Culturali ed Ambientali ed Educazione Permanente e dell’Architettura e dell’Arte Contemporanea Altri testi di: Beniamino Biondi, Maurizio Masone e Tano Siracusa Foto di copertina di Tano Siracusa © Copyright: Centro Culturale Editoriale Pier Paolo Pasolini, 2011
Biondi, Settimio <1937-> La festa americana e altri scritti / Settimio Biondi. Agrigento : Centro culturale editoriale Pier Paolo Pasolini, 2011. ISBN 978-88-85418-21-9 858.914 CDD-22 SBN Pal0231 CIP - Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”
al professore Edoardo Pancamo, recentemente scomparso, al quale debbo molto
IL PRESTIGIO DALLA CONOSCENZA di Maurizio Masone
In ogni comunità e in ogni epoca è sempre esistita una figura dal prestigio riconosciuto. Ora, non so se “prestigio” è il termine esatto o se sarà accolto positivamente dal protagonista ma è ciò che penso io e gran parte degli agrigentini che lo conoscono e che gli vogliono bene. Un uomo di prestigio perché credibile, perché in sé assomma una serie di fattori determinanti quali la conoscenza definita e completa della storia della città, delle sue genti, dei suoi poteri, delle sue prevaricazioni o degli abusi (anch’essi potrebbero essere storicizzati) e contemporaneamente perché riesce a trasmettere, non semplicemente ma efficacemente, quella visione d’insieme di fenomeni storici e culturali di una città come Agrigento, di per sé complessa. E’ di Settimio Biondi che parliamo, un uomo che ha dedicato una vita alla sua città alla sua comunità e che ha guadagnato il prestigio dalla conoscenza come anche dalla parallela umiltà. La sua esperienza è pienamente contenuta in questi scritti, sintesi di una vita di studioso, di uomo impegnato tra i lavoratori - spesso i più deboli -, in politica da dirigente comunista o da stimato funzionario pubblico al Comune di Agrigento. Il Centro Culturale Pier Paolo Pasolini, volendo dare completezza al suo Trentesimo anno di attività, non poteva farlo che con il meglio che la città ci poteva consegnare e La festa americana e altri scritti di Settimio Biondi è quel meglio. Infatti, la lettura di questi scritti, in particolare gli inediti, coinvolgeranno il lettore immediatamente e, quasi naturalmente, verrà coinvolto in una cavalcata tra storia, riflessione politica, rivendicazione culturale, approfondimento antropologico. In qualche caso, attraverso i fatti o le leggende di una comunità e le sue reiterate nefandezze, il lettore troverà tanti elementi utili per capire come una società possa uscire dall’angolo della povertà culturale e politica per fondare un nuovo comune sentire. Una cosa è certa alla fine di questa lettura saremo forse meno rassicurati del solito ma avremo conosciuto meglio un uomo prezioso al quale dire grazie centinaia e centinaia di volte. Intanto inizio io: Grazie.
L’ALTROVE E IL SUO ABITANTE di Tano Siracusa
La redazione di Fuorivista apriva come la coda di un pavone l’ampio ventaglio generazionale dei collaboratori, che si allargava dai ventenni agli ottantenni. Ne eravamo orgogliosi. Quelle sventagliate erano un ulteriore espediente per far ruotare le prospettive e moltiplicare i punti di vista, gli spiazzamenti. Per la nostra testata avevamo scelto un buon nome, decisamente programmatico. Ma se cercavamo un inedito altrove, privo di esotismi e semplificazioni, se volevamo uscire dalle nostre cornici interpretative che raccontavano la città e il mondo, se eravamo curiosi delle distanze psicologiche e geografiche, sociali e culturali, era quasi inevitabile che si finisse per gravitare attorno a Settimio Biondi. Lo andavamo a trovare nel suo studio che si affaccia su piazza Bibbirria, quasi un eremo laico ai bordi della città diocesana. Il nome arabo della località congiurava ad alonare il luogo di un oltranzismo delle lontananze che faceva assumere alle nostre visite le proporzioni e gli sconfinamenti del viaggio, del pellegrinaggio. Piazza Bibbirria in fondo è vicina, dieci minuti a scendere e il doppio a salire da via Atenea, ma lo studio di Biondi era lontano. Ci si andava raramente, come raramente si parte. Perché si vive nella ferialità che è fatta anche di domeniche e feste comandate, di abitudini, ripetizioni e sonnambulismo. Però ogni tanto, rimanendo nella propria città, si decide di partire; e allora anche le regolarità più ostinate cedono all’eccezione, al deragliamento nell’imprevisto, nell’azzardo del non ancora visto e pensato. Andare a trovare Settimio Biondi nel suo studio era la nostra eccezione alla ferialità, il nostro deragliamento, la festa del viaggio. Andavamo per ascoltarlo, rammaricandoci ogni volta di non aver portato con noi neppure un piccolo registratore. Già infatti sciupava e scoloriva nel ricordo il gusto dell’incontro, l’iniziale disorientamento e poi lo stupore e una specie di euforia bizzarra, che sembrava inalata da un’invisibile sostanza esilarante. La droga erano le sue parole, lo scorrere delle sue parole, quel suo prodigioso estro affabulatorio che viene arginato da scorrimenti
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sintattici funambolici, da continui scarti e digressioni, deviazioni e rientri, e alimentato da un magma lessicale che rimescola strati profondi di italiano letterario e siciliano, greco, latino e arabo. I suoni e i segni, le stratificazioni diverse di ‘senso’ che hanno abitato nei millenni la sua città - mondo. Nelle parole di Biondi non c’è infatti solo la città e neppure il mondo senza la città. Biondi pensa Agrigento attraverso il mondo e guarda il mondo attraverso il prisma del microcosmo cittadino. Ho colto tante volte sulle facce di quelli che lo ascoltano la stessa espressione sospesa fra la stupefazione e il rapimento che si osservava fra le piccole folle che circondavano nelle piazze del Marocco i narratori popolari, i cantastorie. Volti troppo rapiti per capire il trucco che in effetti non c’è, perché è reale solo il talento, quel saper soffiare la magia nelle parole. E’ reale solo quel dono. Nel caso di Biondi la lingua è il calco di una intelligenza sinuosa, che predilige le complicazioni ipotattiche, i percorsi imprevedibili e laterali che offrono vedute spericolate e improvvise su paesaggi inediti, connessioni inaspettate, camminamenti ipogeici che rasentano gli illusionismi di Esher e le paradossali simmetrie dei labirinti: per approdare alla fine ad una verità tanto plausibile quanto deviante. Forse miraggi, forse verità storiche. Biondi si definisce uno storico ed è un grande narratore. Dello storico possiede la passione e il puntiglio per le fonti, il gusto filologico, del narratore la certezza che le fonti sono a loro volta frammenti di un unico grande arazzo narrativo che non si può mai fare a meno di ritessere ed estendere. L’ultima verità è sempre provvisoria, ed è sempre costruita dalle parole, dall’artificio letterario che, nel caso di Biondi, esprime una predilezione molto politica e morale per il basso, il periferico, per il fuori le mura. Come Rabato, il quartiere occidentale sorto fuori le mura chiaromontane, il rovescio arabo e contadino della città dei grandi signori laici ed ecclesiastici. L’inversione oppositiva e anarchica alla città del potere. Lì Biondi è cresciuto, quel quartiere è lo scenario favoloso della sua infanzia, e la sua realtà è quella immaginaria e vera che solo il mito e la letteratura possono creare. Rabato come Macondo, come Aci Trezza, come un altrove che è anche alterità: morale, civile, culturale, politica. E Biondi scrittore fa tornare il bambino, l’adolescente, che osserva e interroga, ascolta e ricorda per lo scrittore che racconterà mezzo secolo più tardi quel mondo, quei personaggi: mons. Vaianella,
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il contadino diventato prete e formidabile grecista, mons. La Rocca, gigantesca figura di uomo e di intellettuale, oppure Grassìa, il “fiero e sboccatissimo Grassìa: un traditore della terza età, un sicofante del passato e dei suoi nascondigli, uno spregiatore di ogni arte e mestiere, un cavalcante di vita e di morte e di altro ancora, che pari non ce n’erano”. E i luoghi, le tresche, le avventure, e se stesso bambino. Personaggi leggendari e realmente esistiti, esattamente come è Biondi oggi e come sarà quando un altro Biondi lo racconterà per averlo conosciuto da bambino; e sembrerà ai postumi un personaggio inventato, un altro Vaianella, un altro La Rocca o Grassìa: l’iperbole di un romanziere. A torto, perché il destino della letteratura è di non essere creduta anche quando racconta la realtà. A ragione, perché la realtà del racconto non è mai la realtà raccontata. Fra noi ne discutevamo. Cos’è Biondi, uno storico, un saggista, un narratore? Nei testi che ci passava ormai con regolarità per la rivista, sembrava che la verità storica venisse conferita innanzitutto dalla necessità del linguaggio, dello stile, dalla evidenza allucinatoria della creazione letteraria. Così sembrava a noi, anche se non toccava a noi stabilirlo, o comunque tocca a chiunque lo legga. Ci dicevamo che fa pensare a Vico più che a Cartesio, più a Gadda che Calvino. Ma noi eravamo e siamo dei dilettanti di fronte ai suoi testi. Anche e molto nel senso del nostro, soggettivo diletto di lettori. Questo volume, che ai testi pubblicati su Fuorivista aggiunge ‘Una festa americana’, ormai introvabile, e alcuni inediti, può offrire ottimi materiali per cominciare una riflessione criticamente adeguata sulla sua produzione, in gran parte inedita. Fuorivista era più un’utopia che un azzardo; e tuttavia di ritorno dagli incontri con Biondi nel suo studio e poi leggendolo sapevamo che quel luogo utopico, quell’altrove dove la periferia si ribalta nel centro e si rovesciano le gerarchie, coincide con un luogo reale e con uomo che lo abita. Averlo capito e potere permettere ad altri di capirlo è stato uno dei meriti principali di Fuorivista.
UNA FESTA “AMERICANA”
Avevamo quindici anni e mio cugino venne da Vallelunga in provincia di Caltanissetta ad Agrigento dove non era mai stato. Io conoscevo invece il suo paese, un cumulo di caccole dilavate e calcinate in un barellante panorama di colline che muffivano d'inverno verdi ed algenti ed in estate stagionavano come carogne di cartone. Nei miei viaggi il taxi e lo stradale erano stati microscopio e telescopio, lo mettevano a fuoco, l’ingrandivano, lo riavvicinavano. Il bagaglio comprendeva un coppo di limoni contro i conati di vomito, su alcuni l’ebrezza del viaggio dava infatti sullo stomaco. Mia madre era previdente. Il cumulo lontano formicolava, sembrava di assistere allo sviluppo di una carta fotografica; si allargavano le vibrazioni, apparivano gli abitanti. Il paese aveva case e chiesa e una fontana recinta da puntoni acuminati, altissimi. Esposto al freddo fumigava (ma forse erano i densi fiati dei camini, le spire dei braccieri furiate dal vento sui marciapiedi). Alla calura era un grembo che raccoglieva condense. Su alcune immagini avevo costruito la mia prima falsità del paese, alcuni anni dopo avrei ascoltato dolenti storie di sesso, dette cioè senza piacere né invidia. Era senza rossore il grigiume di quelle case di gesso, lontananza e antichità mi apparvero ipocrite e rinnovai la mia scorrettezza. Ma mi sovvengo di non essere mai stato definitivo e di attendere ancora, su queste come su altre circostanze, fortunate smentite. Contemporaneamente credevo che Agrigento non fosse paese ma città, ed ancora oggi mi ci appiglio e ci discetto sopra, non senza le allitterazioni e il concorso correo di tante tra quelle sovrastanti ragioni che mi hanno preceduto: le tare ed il senso infettivo della storia, che è storia maggiore quando non manca di prepotenza. Luglio era succeduto a Giugno come un papa ad un altro l’uno meglio dell’altro, e mio cugino era curioso d’Agrigento e della rinomata festa di San Calogero, senza pretermettere che Caltanissetta di abitanti ne annoverava ventimilia e forse trentamila di più, ed era quasi due Girgenti in una, così garantito mi dava pace togliendomi ogni speranza. Quella era un' età di brave millanterie. Approssimavamo tutto
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all’ingiuria ed alla monta dei pensieri, e vidi chiaro come un cieco vendicativo, sospettando che nel conto della mortificazione ci mettesse anche San Calogero. Se credessi a certi miracoli sacramenterei che fu proprio il santo ad imbeccarmi, a dirmi togliti di mezzo che mi ci metto io. Se del santo si confessassero tutti i miracoli e se tutti venissero dati per buoni, si potrebbe concludere che San Calogero i miracoli li chiede a noi col dirci ad ogni piè sospinto levatevi di mezzo che ci penso io. E tuttavia non ci ha mai spodestato dalla nostra facoltà di cronisti e narratori d’un rapporto tanto delicato e martellante, forse a salvaguardia delle apparenze. Certo S. Calogero deve aver visitato, la notte nel sonno, la testa di mio cugino e la mia, come una civetta di Atena, per disporre a libito dell’ambito intero del proprio intervento, del gioco delle sue regole, ed anche dell’espediente d’abbrivo. Aveva pensato proprio a tutto, cosicché mio cugino si svegliò con la fregola di visitare la nostra Cattedrale ed io con l’eccitazione di accompagnarglielo. Miracolo, disse mia madre che mi conosceva pigro e poco accondiscendente di primo acchito. Dal Rabatello ove abitavo la Cattedrale era ad un tiro di schioppo, una distanza che un passero avrebbe percorso senza posarsi. La strada più semplice è quella solinga di S. Marta, ma invasato com’ero lo menai in giro risalendo la Via Garibaldi, discendendo per via Empedocle, procedendo per via delle Torri, fino ad ascendere alla Madonna degli Angeli. Dio che piacere, far dipendere la distanza dalla mia inventiva e dalla cura di non commetere l’errore di reiterare lo stesso percorso, ché da lì imboccammo e attraversammo in lungo e in largo un rosario di vicoli, straduzze e scalinate, tessendo lungamente una stanchezza che mi inebriava mentre mio cugino la registrava col trarne continue ed imbarazzanti conclusioni circa la sesquipedale mole della città. Arrivammo che era quasi mezzo dì, e l’interno della chiesona apparve proporzionato al cammino impiegato, e ci reificammo e asciugammo malamente nello stagno di quel fresco velato; all’esterno un lieve scirocco sapeva di saliva marina. Ancora ricordo che la bianca facciata spiegata sullo stollo del campanile mi apparve simile ad una enorme vela latina di tela greggia rammendata mille volte. Fu un mio problema reinventare la via del ritorno, era come se San Calogero, dopo la soddisfazione, m’avesse abbandonato. La sera confidai la mia torta risorsa ad un coetaneo tracagnotto e rotto ad ogni malizia.
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Aveva la febbrile acutezza del ragazzo morto di fame e lo chiamavamo, dall’ingiuria dei suoi, Debolezza. Lo stimavo pel timore di non saperlo imitare bene del tutto secondo le mie occorrenze, ma non l’ho mai raggiunto: un maestro mancato, o io un alunno fallito. Fossi stato in grado di riprodurlo in me! A quest’ora chissà dove mi lucerebbero gli occhi, forse a Sala d’Ercole o più in alto ancora, a Montecitorio. La scaltrezza a servizio della fame è spesso un propulsore piantato nel culo. Il Debolezza fu augurioso e beato dell’imbroglio. “Gliel’hai fatto vedere”, mi disse coll’estrema sintesi del suo linguaggio; quando parlava a lungo era solo per irretire. Il suo selettivo “facere videre” aveva sempre un risvolto oscenamente liberatorio”. Hai fatto come San Calogero, che allunga Giurgenti quanto gli pare, avanti e indietro come il cordaio, e certe notti invece l’accorcia al punto che Giurgenti non esiste più, e con un passo va dalla sua chiesa all’Addolorata, ed è il cordaio che coglie la matassa”. Alludeva alla processione del santo, all’andirivieni sui propri passi, ai suoi scambi e ripensamenti direzionali, avanti e indietro, per tessere la città. Ed alludeva ancora ad una credenza popolare: che San Calogero potesse contemporaneamente trovarsi fuori Porta di Ponte ed entro Porta Addolorata, forte del misterioso dono dell’obiquità, che nella credenza era forse una metafora dei suoi occhi sgranati, pronti a schizzare dalle orbite per atterrare agli antipodi. Di tale potenza ci davamo pace, pensando che anche il vescovo doveva esserne parte, forse anche lui paurosamente, tant’è che aveva nominato rettore delle sue chiese - il romitorio del santo ad oriente, e la crucciata chiesetta dell’Addolorata ad occidente, con le spalle al vento come un lungo martello sulla montagna - lo stesso prete, padre Binuzzo, Beniaminuccio Lauricella, fratello d’un forte questore. San Calogero sorvegliato speciale? No, s’intendeva che era un modo per giustapporre all’ubiquità dell’uno quella, invero assai rimediata, dell’altro. Lo vedo ancora vivo, padre Binuzzo rettore di San Calogero e dell’Addolorata, enormemente nero come monte Cefaglione dopo che prese fuoco per mano dei bracconieri di conigli, ma con un volto a macchie ceree e paonazze emergente dal colletto stirato ad amico ed ingiallito come i tasti d’un vecchio Harmonium. Io, ad onor del vescovo, tra la festa tragica per eccellenza (quella del venerdì santo e dell’Addolorata) e la festa per eccellenza bacchica (quella di San Calogero) ci trovano un legame di radici.
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Sopra la terra in faccia all’aria ogni cosa appare causalmente pudica o tutt’al più balzana, e le foglie delle fronde sembrano profondere dall’attaccatura vuota della luce alle rame quasi per sfizio di visitazione, con meravigliosa e indipendete leggerezza. Ma la terra che vediamo ai nostri piedi è a sua volta il cielo rovescio di un sostegno profondo. Credevo in un paradiso delle radici e in una sotterranea necessità. Il venerdì santo lo coglievo per immagini come la saga di fidanze delicate e la festa di San Calogero come la volta dei maritaggi procaci. Sempre per un limite della vanità ero assicurato della contraria corrispondenza. Il legame di radici lo scorgevo nel “drama”, che nel venerdì santo era “drama” d’analisi e dilemmi, di offerte impermalite, di monte di nodi e di alambiccati svuotamenti; e nella festa di S. Calogero era invece “drama” di scelte scoppiate, disfrenate. “Drama” satiresco, di scelta per la scelta. Scoppio, dunque sono. Il venerdì santo era festa di donne, ciascuna voleva la bacca nuova, il nicchio nuovo, petali e colori nuovi. Le dita delle sarte si pungevano veloci straendo e riconficcando agli aghi nitidi nelle lanette e nelle cotonine. Piccolissime apprendiste andavano in giro consegnando a domicilio le nuove robe avvolte in lindi sudari di madapolam, apprendendo a richiedere mance prima ancora che mercedi. Molte sarte, figlie di famiglia, tenevano l’asino in casa, le robe s’appigliavano di afrore di stallatico per quanto grandi fossero le cautele. Occorreva che l’afrore sventasse, soccorrevano al chiuso rametti d’alloro e rosmarino, bucce d’arancia incoticate e petali imbalsamati di rose. Ma il principe tra tutti i rimedi era stendere le nuove robe all’aria, perciò qualche giorno prima di stendere le coperte per la processione le donne stendevano i vestiti novelli, ed a me quella visione dava l’idea di un potente teatro dove si va per vedere per migliorare per capire per piangere o, se una cosa va storta, per ridere. Dove non si può non andare, se uno non vuole recitare con sé stesso. Le robe allestite invece dalle sarte buone per le signore bene non sapevano di stallatico, d’altronde le signore bene non stendevano le coperte per la processione, ed i fatti corrispondevano alle circostante. La gran processione, il suo giorno, era prevalentemente di donne, rassegna drammatica e purgatoriale di anime vestite a nuovo. Ruffiana la primavera che aveva l’agrume e l’acquosa dolcezza delle prime mandorle verdi, dopo la festa fioccavano i fidanzamenti. Metteteci ora la festa e la processione di San Calogero senz’ordine
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e senza ludo e principalmente senza misurabile costrutto, e delle quali si può dire parafrasando Aristotile che sono esse stesse festa e processione. Stesse per esse, ed al loro confronto, non ci sarebbero più né feste né processioni, come sono dotate di una triste e virtuale forza d’esaustione. Paradossalmente e per celia si potrebbe dire che la religione di S. Calogero tende ad una mancanza di religione ed alla affermazione di una totalitaria osservanza con una sola entità e cinquantamila o giù di lì profeti. Una sorta di musulmanesimo girgentino. Dopo aver misurato l’immane grandezza del colle di Agrigento s’imbattè mio cugino nella festa del santo, ma già era meno insulso che al suo arrivo, e volle dirmi che a suo giudizio quella di San Calogero era una festa “americana”. Il Debolezza s’inquietò a lungo prima di sancire tale fondabile sproposito, e se sancì fu forse per non smentire una invidiabile prontezza d’animo. Tuttavia almeno in quella occasione la sua intelligenza subì il personaggio che gli avevano tributato. Oggi, pensando a quei ricordi, apprezzo l’aggettivo “americano” nel significato di inanità e grandezza, di gigantismo sostitutivo d’altro ed a volte d’altro riparatore; di un nostro essere americani che ha preceduto la scoperta dell’America. Penso all’americanismo dei nostri antichi acragantini, dai quali officiamo ogni dì una risibile discendenza; al titanismo del loro tempio di Giove Olimpico brutto e imponente, dal quale abbiamo tratto lo stemma trinitario della città. Penso all’arrivistica e stupendevole dotazione di una chiostra di delubri, degni di una Akragas - New York, ed anche penso alla sovralimentata ricchezza che fu, allo splendore consumistico e svertebrato, all’intrinseca fiacchezza militare, alla mancanza di una flotta, pur con tanto di mare a riempire gli occhi. E scorro e penso ancora all’americanata del martirio di Libertino, primo tra tutti i santi cristiani per essere stato ucciso da cristiani, con in bocca la legge del taglione. Ed alla spacconata “kennedyana” di cui fu vittima il beato Matteo, vestito suo malgrado da donna per inferirne che con donna aveva avuto commercio. Quì i rodio - cretesi scoprirono ante - litteram la loro America, già popolata da pellirosse sicani. San Calogero dunque come archeologia di un “continuum” storico, etnico, ed antropologico. San Calogero come tentativo di misura della dismisura. E ripenso a padre Beniaminuccio Lauricella, anziano, nutritissimo e di buona famiglia. Per secoli i suoi avi avevano venduto stoffe nella via delle Lavine. Dietro gli occhi ho una sua sorella, vecchia bacucca e di cera vergine,
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ancora bellissima. E intravedo affocalistiato un suo fratello sindaco della città. Tutti rispettavano, girgentini di comando e accomodanti, padre Binuzzo in particolare. Tra San Calogero e l’Addolorata, dall’inizio della primavera alla metà di luglio, stava a lui curare il “drama” delle due grandi feste agrigentine. Era il rifilatore di grandi masse di donne devote, di borghesi ed artieri e, per quanto concerneva la festa estiva, del popolo di San Calogero, dei villani del contado, della gente del Rabatello e di San Michele. Stava a lui saldare i conti delle spese e delle questue. Se gli chiedevano ragione del venerdì santo, rispondeva ch’era rimasta una lira di soverchio e che essa sarebbe andata ad impinguare la festa di San Calò. Se gli chiedevano ragione di questa, rispondeva che il debituccio di una lira era stato rimesso col resto del venerdì santo. Ancora drammaticamente contadini e borghesi si ritrovavano senza scampo in una comune radice contabile. San Calogero era la festa del Rabatello ed il Rabatello era la festa di San Calogero, che appariva e spariva nei sogni, bastonava, intimoriva, dava segni, consolazioni. La più grassa delle speranze era la sua festa, e non veniva negata a nessuno. All’evento la gente si preparava con le cautele di una annuale abitudine. Tanto di soldi, tanto di frumento e tanto di pane. I vestiti nuovi, se possibile (una sorte di auto-promessa). Il paramento degli animali, dei carri o dei carrocci: che erano dei camions d’oggi, tirati dai buoi. Gli addobbi venivano discussi, progettati dal vicinato. Si sconosceva l’arte scientifica di sedurre San Calogero, ma l’empirismo era in materia assai progredito e la gente tirava ad accivettare il vecchio con sempre nuove invenzioni. E non mancavano in tanto caldo le candele promesse (“i blannuna”) e i grandi pani anatomici o antropomorfi. Quella di San Calogero era una fame promessa, d’altronde mangiava una volta all’anno, dipendendo dalla terra che solo una volta all’anno pagava. Il santo era e rimane un collettivo denominato e santificato (assurto, cioè) e la sua era ed è una fame collettiva. Quello che riceveva era ed è quello che dava e che ancora dà. Al Rabatello l’antica notorietà della mia famiglia mi consentiva d’infilarmi tra i contadini come nell’olio, con l’aria di trastullarli mentre svolgevo le mie palpitanti e curiosissime inchieste. Avveniva nel barbiere zoppo di palazzo Agugliaro, nella taverna della zia Tina (che sapeva sempre di fave) o in quella dello Sguali (che sapeva di frittura e caffè di polpi) o dei Tartari (che sapeva d’abete imporrito di vino);
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nella bottega del calzolaio Callari (che tutti per crudeltà volevano si maritasse con una vedova di nove figli, e lui a resistere come un leone) o in quella del falegname Grassia, epico personaggio che dormiva in una cassa da morto. Questi erano i circoli del Rabatello. Tra i presenti ero il più piccolo e l’ospite d’onore. Tutti chiedevano della salute dei miei nonni o erano disposti a parlarmi dei miei bisnonni, mentre io avevo la testa a San Calogero e ad altre storie ancora della città. Temevo di morire prima di conoscerle tutte, probabilmente era un inconscio desiderio di longevità. Sentii ed ho appuntato discorsi e narrazioni del Cacafagioli, del Pizzo-Falcone, del Pirripicià, del Calamignoto e d’altri cento. Non opinavano ma dicevano per episodi e menzioni. Forse esageravano e falsavano, ma non certamente al di là di ciò che era naturalmente esagerabile e falsabile, e che dunque rappresentava trasposizione ma non mendacio. Erano sempre all’interno della verità, e cioè della legittimazione della parola. Si diceva che tra tutti i proprietari San Calogero fosse il più ricco, pur senza usare di terre, di falce e di zappa, tenendo anzi le mani eternamente impegnate ad appoggiarne una sul bastone ed a sorreggere con l’altra un libro. E neanche libro di conti si diceva che fosse, né di meriti o di demeriti, ma libro di buoni consigli, per capire lui quello che avesse da suggerire. Ma l’idea era che S. Calogero fosse più lesto a farle che a dirle, e per questo aveva il bastone, antidoto del libro, che passava per essere al bisogno un randello. Così ragionavano i contadini. Forza e saggezza s’equilibravano sui piatti delle mani, nella primitiva bilancia delle braccia, con l’ago della mente che risolve. E questo mi appare come un modo integrale di aver pensiero e di veder l’uomo nel suo collettivo, riandabile ad una concezione puramente ellenica. Due annotazioni sul libro e sul bastone. Un libro come quello del santo lo aveva sempre tra le mani un ricco e sordido proprietario del Rabatello di cui, per considerazioni personali, non rendo il cognome. Costui vi registrava partite di lavoro, acconti concessi, multe elevate, recuperi per pioggia che interrompeva o alleggeriva il lavoro e quindi interrompeva o alleggeriva il salario: proprio tutto segnato. All’uomo del libro i conti tornavano sempre, ai lavoranti quasi mai, ma volevano mettere in dubbio la scrittura? C’era una certa confusione tra l’invenzione della scrittura e la sua strumentalità. I contadini subivano il fascino del primo aspetto, e questo era un
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atteggiamento nobile. l’altra faccia del problema, e cioè l’analfabetismo dei soggetti, era in fondo una invenzione dell’uomo del libro. Che non era il libro di San Calogero, tutti dicevano. Un dì l’uomo sordido venne a morte e la famiglia desolata si diede da fare, tanto sapeva che nessun contadino del Rabatello avrebbe seguito la salma, in un tempo in cui dal numero delle orfanelle del Boccone del Povero appositamente affittate si desumeva il potere della famiglia a lutto, e dal numero degli accompagnatori il suo rispetto. Cosicché vennero affittati i braccianti che avrebbero seguito la salma, tanto a testa, un capitale in tutto. I ricordatori diceva: Al santo diamo noi, da “quello” abbiamo preso per grazia di San Calò. E sul bastone ho da riportare un arditissima e popolaresca versione dei vangeli, narratami da certo Attardo. San Marco, dopo aver scritto e scritto, si rese conto di non aver solleticato alcuno. Uditori e lettori rimanevano increduli. San Marco meditò sui propri errori e si disse: debbo dare forza alla verità. Detto fatto, inventò il fucile, un miracolo. La “scupetta” dell’Attardo non era altro che il bastone di San Calogero. Da una ricca serie di racconti, versione e favole interiori mi son fatto la seria opinione che San Calogero NON È il santo dell’agricoltura o degli agricoltori. Ed invero posso dire di non avere mai colto un collegamento tra il santo e le fatiche campestri o la condizione degli addetti, se non per via d’elezioni e di circostanze, che sono elementi del tutto contingenti rispetto al rapporto sinallagmatico tra il protagonista ed il suo popolo. Questo popolo è divenuto contadino o, in quanto popolo, era composto prevalentemente da contadini. L’idea che noi abbiamo del mondo contadino scaturisce dall’affermazione e dalla difesa di altri ceti che non si sentivano più contadini e che pertanto si allontanavano - allontanandolo - da quello ch’era stato il loro mondo. Anzi opino che il rapporto tra il popolo e il santo sia di carattere “civile”, ch’è di più del carattere semplicemente e limitatamente urbano, in quanto precede la sua differenziazione in relazione alle vicende siciliane (e girgintane in particolare) altomedievali. Oggi i contadini non ci sono più ma la festa resta. Supposi un tempo che il colorito scuro del santo dipendesse dalla raffigurazione dal campagnolo cotto al sole. Ne feci cenno in un articolo pubblicato su La Scopa, e l’asserzione mandò in sollucchero l’avv. Malogioglio. Oggi non esito a smentirmi. Non riuscivo a comprendere e ad interpretare fino in fondo la risposta popolare al quesito: è ni-
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guru pì l’antichità. Si vole dire ch’era nero per degrado tipologia iconografica e stilistica, e non già che fosse divenuto nero per degrado o che fosse stato annerito per antichizzazione. La statua cinquecentesca imita o si rifà ad altre opere e raffigurazioni, immagina immagini, arresta la tradizione e poi la trasmette in quanto la testimonia. La statua è stata resa e lavorata nel solco della tradizione bizantina che ha lasciato Madonne scure e Crocifissi scuri. Tale separazione idealmente cronologica (l’antichità - la modernità: quanto a dire, San Calogero marmoreo del Gagini e il nostro) mette l’accento sull’evocazione della diversità: che è, come diremo, di natura sostanzialmente liturgico - religiosa. A mio fermo giudizio il modello iconografico - stilistico della statua sancalogerina è da ritrovare nel poderoso affresco quattrocentesco esistente nella cappella sull’acrocoro di Monserrato, tenuta e ufficiata dai Canonici Regolari di San Giorgio in Alga. Volto intensamente sereno, aggrottato di pensieri interiori, eppur vigile; complessione d’un vecchio robusto e aggrazziato; spalle tese per l’occupazione doppia dell’incesso e della lettura; epidermine assai scura, mora; e libro e bastone ed occhi sgranati: oltre al tradizionale camauro ed all’abito bianco e nero basiliano. Accanto al nostro, erano frescati altri santi d’antico culto locale, che squadravano da ogni lato i visitatori di quello spazio potentemente chiuso. Oggi la cappella non esiste più, ed è ancora una nostra storia americana. La sua esistenza era del resto ignorata persino da quella autorità che ne aveva potere e responsabilità: ma un' opera d’arte che crolla, se è ignota, è come se non fosse crollata. Dicono che a distruggerla sia stato un temporale; oggi al suo posto sta una stalla di mucche, forse eretta dallo stesso temporale. Oltre al colpire mascalzoni e farabutti, farisei e strozzini, marpioni e prevaricatori, San Calogero raggiungeva col bastone le mogli adultere nel sonno, o costoro sognavano d’essere pestate: il che, dal punto di vista positivo, è quasi la stessa cosa. Non lapidazione dunque, ma fervorini convincenti. E quì il motto spremuto dai narratori era questo: volevi il santo? pigliati il santo. d’una di queste facete storie l’Avena m’ha raccontato una versione intrinsicamente raddoppiata, chè oltre a capire la moglie il vecchio ebbe di mira anche il marito, lei per aver tradito e lui per essere venuto meno al proprio dovere di non farsi tradire, ch’era anche un diritto. Da mesi infatti aveva dismesso la moglie (forse per fiacchezza, forse per altre cure), e San Calogero guardava tanto agli effetti quanto alle cause, che era a loro volta effetti dell’altro. Ecco per-
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ché si diceva, e forse ancor oggi si dice, che il santo aveva “gli occhi torti”, e guardava ai due capi. d’un bastonato pentito ho ascoltato il più vivido e devono resoconto: Totò Messereporco era un narratore nato e un autobiografo fine come la menta. Il santo era insaziabile, l’incursione era stata un terremoto. “Meno male che la carne non crolla come le case, ma si addolora e passa dopo qualche giorno, ma quello che è pensiero resta, e ciò che resta, resta per sempre”. Io ci annotai le parole hybris, contrappasso ed altre, come un medico che butta l’anamnesi, ma ero confuso. Della punizione l’uomo parlava come di un patto, di un essere stato scelto e onorato. Più tardi ho reiteratamente rinvenuto questo tipo di psicologia in molti distici e quartine di poesia popolare sul tema delle richieste di matrimonio, onore dato e/o ricevuto. Nella fattispecie il motto era questo: santu tu ca santu iu. Era un intrallazzo di parole, che dette velocemente ed arruffate si capivano come “salta tu che salto anch'io”, mentre afferivano in effetti alla visitazione santifica o comunque ad una vigorosa nettatura: santo tu e santo (son divenuto) anch’io per merito tuo. Gl’interventi erano messaggi ultraterreni e messaggi di strigile; questo era costituito dal solito bordone dell’eremita. ’U vastuni di San Calò fà sempri miraculi, dicevano il Linora ed il Carnirascati; il primo sembrava riferirsi a ciò che era già accaduto, ed il secondo all’immanente ed al possibile. Quello m’appariva provocato e costretto ad epigrafare, con qualcosa di labile, struggente e reminiscenziale sopra; questo invece aveva l’aria dell’uomo furiosamente libero e provocatore. Con queste esperienze scoprivo la polisemìa del bastone di San Calogero, ora flessuoso bastoncello e gambo d’aspersorio fattivo, poscia mazza espiatoria. Il rapporto tra il santo ed i suoi visitati costituiva una fidanza di sottomissione-assunzione-mistione che, come ho detto, mi rappresentava una sorta di approccio elettivo per fini maritali, misteriosissimo ed onorante. In siciliano un appropinquamento ed un annuncio di tal genere si rendono col vocabolario “’ncuitatina” (che punta più sul rimescolio e sul turbamento spalancante, piuttosto che sulla effettualità), e coll’accezione davvero intraducibile ed introvabile sui vocabolari di “’nningatina”. Essere visitati dal taumaturgo, sia con le buone che con le cattive, incuteva straordinaria e vitale inquietudine, uno stato di svegliatezza che col tempo si faceva risolutezza e dolcezza: era insomma un morso della torpedine. E per gli esclusi era un morso la probabilità della prova, la possibile verificazione della credenza. Tra le buone e le cattive, i messaggi sussurrati e le bastonature, ci intuivo la conducente dissomiglianza che c'è tra il sogno ed il sonno.
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Dal bastone i visitati dicevano di essere stati svegliati come ma non da un sogno, ma da seria avventura, doloranti. A volte il vecchio appariva e parlava a lungo in continua atmosfeta di giallore di bozza, lui tanto nero. Era in effetti come se San Calogero, santo vigorosamente maschile connotato da saggia vecchiezza (che è somma mascolinità riparata dal parodistico pericolo del commercio lascivo) devolvesse doni emozionali femminili. A livello singolo e collettivo, l’emozione recepita dal suo popolo è femminina, ancorché raggiunta (per esempio, nelle processioni) attraverso la pantomima ed il gestuale resoconto di gesta maschie in tanto perdenti in quanto rappresentate. In particolare la rappresentazione può essere considerata, nel contesto processionale, come la deverbalizzazione dell’offerta: la risulta disarmante della mobilitazione. Una folla che alza le braccia e poi le lascia cadere, una moltitudine che issa il fercolo e poi lo lascia cedere, una ressa che serra e poi si disserra, una turba che si ritorce e poi si rispruma, una caterva che si allaccia e quindi si slaccia. Ad ogni azione montante e lievitatrice corrisponde un esito che accetta desistenza e tenero ricetto. Ora il santo non ha pondo ma improvvisamente viene incentrato dal peso del mondo, viene deposto e scaricato. Questo contratto gestuale tra tendenze polari e movenze orizzontali, tra issamenti e slargamenti, tra la cagnara ed i pneumi del silenzio, depone per una possibilità di comprensione che muovendo dal gesto si placa nell’emozione e si lascia calumare dalla condizione, per riproporre incessanti tentativi dei due archetipi comportativi. Quando i portatori tendono la gragnuola dei pugni e delle mani palmate compiono un gesto mascolino, ma il gesto di ritorno è sempre dolce e placato, femminino, senz’essere un ripiegamento. Agli uomini le donne del popolo di San Calò hanno affidato anche la loro parte. È appena il caso di osservare che i gesti di elevazione di iniziativa dei portatori del santo derivano dal mondo del lavoro e dall’ingegneria delle antiche fatiche. Tornando alle botte solfeggiate dal santo, mi capacito che esse erano ritmi e balli, trasalimenti e spasmi, e penso all’esternante ritmo dei tamburi, alla loro funzione che in altro scritto indicai come anestetica e che non ne esclude una cinestesica. I tamburi coprivano nel passato le grida di coloro che venivano sottoposti a cielo aperto ed al cospetto del santo al rientro delle ernie e dunque ad empiriche drammatiche guarigioni mediante violenti
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compressioni manualmente esercitate sui gliuommeri straripati. L’ultimo degli incruenti cerusici sarebbe stato, secondo una testimonianza del La Rocca, un narese che aveva stanza in Girgenti e che veniva appositamente chiamato. Per diapedèsi c’era forse un pervenuto ed alambiccato riferimento a tale tipo di chirurgia nel detto “’impastari u pani di San Calò”. Non ho mai escluso che ci si riferisse alla manipolazione della farina annacquata per la tradizionale panificazione offertoriale ed alla richiamata manipolazione delle carni dolenti. Per questa via, ma non solo per essa, la santimonia del vecchio veniva dedicata ai disturbi genitali maschili, non già come a fomiti o a conseguenze di vizi, ma come a fomiti o conseguenze della fatica: l’ernia infatti era considerata un attentato al lavoro inumano e sgarbato della virilità. Per questa via, e forse solo per questa, il santo era visto come uno specialista di uomini e per contrappasso d’innocenti. Uomini, che erano la parte più esposta dell’intera umanità. Una statistica sui dati di mortalità dell’ottocento, divisa per sessi, mi sta consentendo di appurare che si moriva più da uomini che da donne, e che da uomini, specie tra popolazione contadina, in media si moriva a poco più di trent’anni (il tempo di mettere la barba, procreare e lasciare una vedova abbandonata da Dio); mentre le donne soverchiavano questa media di tanti anni, il tempo di vedere i nipoti. Dunque l’uomo e contadino come innocente, per quanto fosse ferino e inculto, spregioso e padroneggiante. Le donne almeno avevano tempo di rinascere alla libertà. Le botte di San Calogero, la patite e le paventate, e lo straordinario battito cardiaco dei suoi tamburi volevano chiaro e tondo che quando si è nel ballo occorre ballare. Ma chi ha una elementare dimistichezza con le fenomenologie etno-antropologiche legate ai fattori ed alle motivazioni ritmico-religiose, non può dispensarsi dal pensare ai balli sacri legati a San Vito e ad altri santi, specie nel meridione d’Italia: propulsioni rigenerative, confessioni vitali, riconquiste amniotiche. Ed anche i preclari botti del castel di fuoco sancalogeriano entravano nel torno: botte e botti in siciliano si dicono allo stesso modo, e gli scoppi delle bombe aeree dopo strascici assordanti sono enormi e convessi rimbombi di cuori e di tamburi nel cielo. Per altro le crisi convulsive degli epilettici girgentini venivano in qualche modo ricondotti al santo. Nel 1953 uno di questi poveretti cadde e s’agità in vista del santo la prima domenica della sua festa, tra i numeri civici 185 e 187 di Via Garibaldi. Gli venne accostato il
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fercolo del santo, la bara venne issata da dietro, con pratica e con giudizio, per modo che il vecchio, posto in posizione obliqua, potesse meglio operare, per quanto noi vedevamo, cogli occhi. Il mare s’era fatto lacuna, quella era una folla di silenzio, e nel silenzio si sentiva la madre del poveretto invocare il santo. Non chiedeva il miracolo né chiedeva; intercessioni ed interventi di questo genere normalmente si atteggiano a procedure - come dire? - giuridiche: si postula, d’ordinano e si subordinano le domande, con o senza recesso, si perora. La madre di quel poveretto parlava soltanto con il santo, senza chiedere, e sembrava da quello che potevamo prendere da lei che il santo l’ascoltasse, ed era questo il miracolo, dato più che cercato. In qualche posto di casa debbo ancora avere il fotogramma che riuscii a riprendere con una Bencini. l’indomani mi si disse che quello era stato niente, e che in passato non meno di tre o quattro fedeli ballavano ad ogni processione, e così il passato s’aprì in cono subitaneo di luce e si rinchiuse su di sé presto: chi sapeva sapeva. *** Ciascuno di noi vanta entro di sé una propria antichità, e in relazione a San Calogero la mia rimonta a Salvatore La Rocca che mi è accaduto di menzionare. La storia dei popoli è fatta di immigrazioni ed emigrazioni. Per qualche secolo in Europa abbiamo creduto di poter razziare gli altri a casa loro senza ricevere a nostra volta le loro visite. Il diavolo dell’est è morto e ciascuno se lo ritrova sopra sotto dento, nel letto e nella coscienza, nell’acqua e nel giornale. Siamo soli senza il diavolo e male accompagnati tra di noi. E degli altri abbiamo tanto da apprendere, ci sentiamo ignoranti. È questo nuovo medioevo tecnologico e dotatissimo. E però la storia degli uomini è fatta di conoscenze e ripudi, e così la loro preistoria. M’interrogo su San Calogero e vi ritrovo l’enorme complessione di Salvatore La Rocca, amico di mio padre. Era un gran volto carnuto e dai filanti capelli bianchi, era anche in casa enormi brachesse, manone delicate sui libri, l’astucciola ed i foglietti, abbondanti e cerosi sorrisi che spremevano miele. Spesso si ammiccava compiaciuto, si trovava interessante e s’annotava; sul più bello di un discorso lasciava la parola e prendeva la penna per non dimenticarsi. Scriveva di tutto sui più disperati supporti, sui classici minuscoli foglietti di calendario da scrivania, dai numeri porporini ed i compendi minuscoli; su fogli d’ordinanza scolastica, scompagnati, residuati e recuperati dalla sua attività di docente e correttore di
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temi e versioni, e persino su ventaglietti di carta solforina da sapone dalle più smanciate forme d’isole e continenti, sabbiosa allo scricchiolio del pennino. Da casa sua in via Bac Bac entravano ed uscivano libri, come turisti che visitavano un' isola felice o devoti di una basilica; alcuni provenivano dalle più lontane biblioteche. Il La Rocca era sacerdote, e aveva potuto mettere le mani sui più gelosi documenti, sugli incartamenti più riposti di una città che un tempo è stata sostanzialmente ecclesiastica e quando non lo è più stata non ha saputo diventare altra, con un potere civile che è sempre stato da ridere. Era sacerdote solo per questo, e per aver potuto alloggiare molti anni nella Biblioteca Lucchesiana, i cui incomodi pesano meno sui talati che sui laici. Nel passato lo avevano addebitato d’una storia che il Bandello non avrebbe ricusato di stendere con larga cinquecentesca indulgenza. Crescendo lo discolpai per mia grazia sovrana, di cui ciascuno dispone a proprio piacimento, avendo appreso di illustri ed antichi precedenti ed avendo visto coi miei occhi certe spurie caricature ai danni del Gioeni, dove non mancava la dama, massonicamente conservate proprio nella Biblioteca Lucchesiana. È stupefacente pensare come l’indicata vittima del La Rocca, in carne, ossa e prestigiosissimo nome di donna, sia potuta morire accompagnata da strabocchevole fama di virtù e battagliere. Mi ci insegna Boccaccio che la donna pugnace è sempre vergine. Conobbi il La Rocca che avevo pochi anni, o meglio fu lui a conoscere me e ad accettarmi silenzioso com’ero, con domande sempre in bocca per difendere il mio silenzio che era piacere d’ascoltare le risposte. Quando conseguii la licenza elementare mi regalò un savoiardo e un libro con dedica, di poche pagine stampate su cartone, onde il dono era spesso e voluminoso, ed ero lieto di poterlo leggere in mezza giornata credendo di aver divorato un tomo. Il volume sapeva di ciambelle per vicinanza e di conserva, mentre il savoiardo aveva appreso il ligneo tanfo diafano della carta. La Vita di San Paolo, ma di San Paolo il La Rocca mi parlava come di un altro libro, e mi chiedevo dove stesse la verità: in quel cartone stampato e voluminoso come una cartelletta, o in quella voce? Non ero conscio dell’universo dei libri né forse di quello degli uomini. Col tempo l’amicizia andò maturando, ed ora mi ci rivedo come se essa avesse avuto inizio proprio nel momento e per le circostanze per cui ebbe termine, la sua malattia; come se, precedendo a ritroso, mi fossi accomiatato nel momento in cui ricevetti il libro pesante. Il La Rocca era accanito ricercatore di dati sancalogeriani. Sul santo
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aveva scritto e pubblicato, e si proponeva di far meglio, dunque raccoglieva; e però nel suo fare coglievo due contrastanti atteggiamenti. Per un verso parlava e ascoltava, voleva che io svuotassi il sacco delle mie conoscenze e che da capo andassi a riempirlo con nuove indagini tra la gente. Ero pago e neanche mi sembrava vero di poter dare una forma alla mia curiosità, legittimandola entro di me ad uso di nuove sfacciataggini e intrusioni tra gli adulti del Rabatello. Per darmi tono assumevo quel piacere come lavoro, ed a volte mi ci lamentavano per scoprire il mio animo. Da parte sua, svuotava il suo sacco che, per quanto fosse grande, tirava ad esaurirsi: il La Rocca era vecchio e podagroso, e non gli era agevole mettersi in mezzo alla gente e scoperchiare le cisterne in cui ciascuno conserva l’acqua della memoria e dell’esperienza, raccogliendola dagli embrici della vita. Per altro verso, invece, constatavo come il poligrafo poco nero mettesse sul bianco, limitandosi a stillare da carte e libri spostati dal nastro trasportatore delle sue mani stentumi e notiziole inani e insignificanti, mentre innanzi a noi, ogni anno, stava la festa di San Calogero. Mirava alle notizie certe ma non era certo della certezza, sia di quella delle fonti che delle loro fonti; ed infine le certe notizie lo menavano fuori del campo che più gli stava a cuore: la potenza della figura del vecchio, la fenomenologia demoreligiosa del suo culto, il rapporto tra il santo e il suo popolo. Certo sarebbe stato felice, il La Rocca, se fosse riuscito a scoprire il nome del nonno di San Calogero o il mestiere d’un suo zio materno, e avrebbe preteso di mettere a rumore la città. Ma di quei dati di agnizione il popolo di San Calogero ero e sono convinto che se ne sarebbe fottuto e niente sarebbe cambiato del nostro livello di conoscenza. Cosicché un bel giorno mi venne di fargli un esempio rispettosissimo e quindi appositamente paradossale. Ammettiamo di occuparci, gli dissi, di un famoso brigante che ha disegnato l’epopea, seminando speranze e terrori, lasciando vittime e seguaci, questi a decantarlo e quelli ad esecrarlo. Arriva vossignoria, gli dissi, e per comprendere gli avvenimenti s’occupa di quisquilie e coserelle. E un bel giorno mi viene a dire che il brigante era nato la vigilia dell’ascensione e la madre aveva avuto le doglie lunghe, e ci scrive almeno un capitolo... Con l’età il monsignore sbavava dissaporoso tra lingua e palato, ed era boccheggiando come se si apparecchiasse a parlare ed in definitivo a buttare alle urtiche i suoi appunti e ad occuparsi sul serio delle cose che contano, perché in definitivo la vita di uno conta poco quando è vissuta dalla
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vita degli altri; e la vita di uno la facciamo noi, quando in molti ci pare o avviene che sia necessario, o in ogni caso quando è accaduto ed accade; e quando noi la vita di uno la vogliamo scrivere è di noi che dobbiamo occuparci. Ed io ero e sono convinto che la vita di San Calogero, quand’anche ci riuscisse di scriverla passo a passo, sarebbe pur sempre una vita falsa. Il problema è questo: mille anni e più della vita di San Calogero, perché da secoli dura la sua vita e noi in essa prendiamo le spoglie di una vita sana e eroica: che cioè è durata al di sopra del consueto naturale. Ed ancora paradossalmente: un funerale, una celebrazione o un banchetto nuziale che tanto a lungo durassero porrebbero il problema degli intervenuti e dei commensali a preferenza di quello del defunto o degli sposi. Parallelamente ai suoi interessi di cattiva scienza, il La Rocca nutriva timido grande amore per la buona scienza, cui tuttavia ammanniva solo conversari, febbrili consultazioni dialogiche e straordinari mezzi verbali. Ed io volevo che lui di questi risultati avesse scritto, ed oggi mi rendo conto che volevo, com’è giusto volere, qualcosa che apparteneva solo a me. Dal La Rocca ho appreso centinaia di storielle, fatti e aneddoti sul santo. Sulle bastonature che comminava, conobbi che lontani membri della mia famiglia, parenti, ed affini, non ne erano stati immuni: i Bonfiglio, gli Argento e parecchi dei Trainiti. Ad uno di costoro, che il giorno prima aveva levato le mani su un faticatore, il santo era apparso in sogno diffidandolo col bastone. Le sue parole volavano e circonfondevano la mente lievemente, tutte all’opposto del suo bastone. E dal La Rocca ho appreso il decorso storico con cui in questo secolo l’ufficialità ha tentato di inibire e proibire il lancio del pane, e certo non già per eliminare lo spreco e distruzione di ben di Dio: ché il pane, fino a qualche decennio addietro, veniva raccolto e mangiato fino all’ultima mollica. A padre Massaro che diceva ai devoti “meno pane buttato e più offerte portate” per conquiderli, costoro si giravano dall’altra parte e mormoravano “pi forza, patri Massaru è massaru pi daveru”. Alla morte d’un suo giovanissimo fratello, si buccinò in giro ch’era stato il vecchio a prenderselo. Capolavoro di sottile preoccupazione fu un manifesto, anzi un avviso sacro, stilato e fatto affiggere dal vescovo Peruzzo in periodo fascista.
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Dopo il consueto fervorino sull’opportunità di non lanciare il pane, il prelato ammonì che i trasgressori sarebbero stati segnalati al potere secolare. Per risoluzione vescovile, in sostanza, un uso della tradizione veniva affidato alla pubblica sicurezza perché lo conciasse e l’abolisse. Ed in effetti i trasgressori vi furono, il primo in persona di certo Guglielmo Patti e gli altri via via numerosi come il pane lanciato. Per ogni “muffulettu” lanciato era un uomo lanciato verso gli uffici della questura; si temette di riprodurre negli uffici e nello spiazzo della questura la folla di San Calò. E poiché i trasgressori erano teoricamente da considerare come violatori dell’ordine fascista, si temette che per causa del santo Girgenti fosse da considerare città prevalentemente antifascista, onde i fermati furono immediatamente rimessi nelle condizioni di riprendere la processione ed il lancio dei pani che si tenevano mimetizzati sotto le gonne delle anziane, e nascosti in sporte e marsupi, o in panieri all’ombra dei balconi. “Quel manifesto fu un coniglio, diceva il La Rocca, tant’era cucinato all’agrodolce”; ma io, che ne ebbi in regalo una copia (caratteri color marrone su carta perpetuina) vi trovai ad esser prudente un certo livore litterario. Per dirla in siciliano, l’avviso puzzava di “zarcu”. Son convinto che il vescovo non ravvivasse nel lancio dei pani esercitazioni insurrezionali. Può marginalmente darsi che l’uso gli riuscisse inammissibile, essendo uomo del nord ricco d’orpelli e fervidamente chiuso alla nostra misteriosa umanità. È probabile che ad istigarlo siano stati in tanti. È appena meritevole di menzione la versione volgare del movente, secondo la quale esso andrebbe riferito al teorema di p. Massaro: più soldi e meno pane. C'è una linea programmatica e politica continua che percorre quasi tutto il nostro secolo e che osteggia la perpetuazione della tradizione. Di volta in volta ha fatto appello alla sanità ed alla civiltà, all’interiorità ed alla depurazione delle consuetudini. Noi crediamo che essa, a livello inconscio, nasconda qualcosa di molto serio. È la preoccupazione di evitare parallelismi teologici antipatici e pericolosi, per affermare una rigorosa univocità sul significato del pasto sacro. Ed invero il pane di San Calogero non è altro che il corpo di San Calogero, un elemento consimile alle altre “cose” di San Calogero: le tumide labbra da baciare, il sudore da tergere e conservare nei fazzoletti fittiziamente intrisi, e così via. Naturalmente la mansueta e pedagogica tradizione riferisce ad una epidemia ed ai pericoli dell’infezione l’originaria necessità di lanciare il pane ai bisognosi nell’intento
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di evitare i contatti fisici: il lancio preservava la carità del contagio. Ma una cosa è la tradizione, ben altra la molla di determinati comportamenti antropologici universalmente rinvenibili, storicamente accertati e scientificamente studiati. Sul tema del pasto sacro disponiamo di un enorme massa di tradizioni e varianti concordamente riducibili “ad unum”, e di una copiosa letteratura antropologica che li converte e li risolve scientificamente. Tuttavia non è per questa via limitatissima che si può avviare una seria riflessione sul significato storicamente permanente e centrale della sagra di San Calogero, o sul rapporto - per dirla in termini teatrali - tra il santo ed il suo popolo. La comunione generale attraverso il pane di San Calogero è solo un momento del significato, una sfaccettatura inerente ai valori coesivi che si vogliono riaffermare e riproporre. Ma che cosa veramente intendiamo per festa o sagra di San Calogero? Su tale semplice interrogativo, per il fatto che non è stato mai posto, si è spuntata ogni possibilità di quella seria osservazione la cui esigenza ponevamo come problema di responsabilità culturale, almeno per chi vuole che la città, dopo aver prodotto determinate significazioni, ne produca altre secondo i mezzi e le capacità della nostra epoca: e dopo aver prodotto una “festa” tanto esclusiva vi si interroghi, la interpreti e la comprenda. Il problema pertiene al metodo ed anche al merito dell’interesse. Arriveremo ad indicare come non procedere perché sia possibile pervenire ad un' alto livello di ricerca culturale, scansando gli intralci coloristici e le varie pregnanze attrattive della sagra, per individuare quell’essenziale che li pone e li muove. Potremo essere contestati, ma da un livello inferiore o particolastico di attenzioni. Non ogni critica supera, ed in quella che supera, invece, ci si ritrova ed è un piacere. Fin’ora la festa è stata vista 1) come un momento religioso tradizionalmente mercantile - ludico e/o 2) come un momento religioso. Come momento mercantile-ludico. Fiera, mercato, baccanale, luminaria, baraonda di bande, trasparenti e giochi d’artifizio, deambulazioni e compere etc. Sono gli amminnicoli e le fronde di ogni manifestazione del genere, le escrescenze del nucleo, e non offrono né hanno mai offerto alcunché di speciale, originale e suggellante. Peraltro anche gli aspetti commerciali e mercantili, le compravendite e le transazioni fiorenti nel tempo che fu rientrano nella normale marchiatura di un progetto ripetitivo e ritrovabile ovunque di festa pae-
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sana e stagionale. Può il folklorista illustrare tutti questi aspetti o alcuni di essi, ritrovandone ed esaltandone le peculiarità di poco momento, facendo opera di patriottismo minore e di pubblicistica, o allestendo veri e propri contributi alla piacevolezza della ricerca ed alla scalata delle maggiori questioni, senza tuttavia poter pretendere di aver dato una risposta o il suo prodromo al problema: che è quello della festa essenziale e non del suo apparato. Alcune delle caratteristiche sono infatti adattamenti locali dei numeri e delle inventive di una occasione ludico-mercantile in concomitanza di un fattore religioso. La festa è stata vista come un momento religioso. E qui e in quest’ambito si è aperta la caccia alle streghe, è scattata l’opera di discettazione tra l’emergenza dei valori religiosi e lo spalancamento del baratro naturalistico, il sentimento della fede guidata e quello della fede brada e inculta. In generale si tende a ritrovare la fede dei siciliani depurando la loro religiosità da una serie di condizionamenti naturalistici, di scorie pagane eternamente agitate, ed oggi anche dal gravame mastodontico e nubilo delle c.d. fenomenologie folkloriche. Tuttavia, poiché il procedimento distintivo e depurativo procede per via di conoscenze sistematiche, il rischio di trovare alla fine o ad una tappa del cammino non già la fede depurata ma la sua mera conoscenza è assai grande. Per essere conosciuta e venire vissuta essa richiede una fenomenologia. Non so se la fede abbia una capacità di autodepurazione senza incorrere nei procedimenti conoscitivi e logici. A questo punto appare la convenienza di parlare di proposte della fede, così come fanno i sociologi, piuttosto che di purificazione della fede. Sembra che la storia come successione di problemi e di soluzioni di cui al presente tentiamo di ipotizzare le più circostanziate dipendenze, indifferentemente dai loro contenuti di valori relativi, rechi scandalo. Questo avviene quando i valori vengono subordinati ed ideologicamente preordinati, dando a qualcuno di essi valore assoluto. Anche la specializzazione, al postutto, può diventare una forma di ideologia, ed anche lo “status” di laico lo è (figuriamoci poi degli altri stati). Motto del laico dovrebbe essere questo: sono anche laico, ma non solo. Odio la carta stampata, quando leggo di scoperte ed individuazioni d’usi, tradizioni, e abitudini pagani: nelle celebrazioni primaverili-pasquali, ad esempio. Non vi è saggio ed elzeviro; articoletto, notorella o didascalia, di quelli ordinati a corredo di depliant e pubblicazioni foraggiate, dove non trovi di queste pillacchere. L’estensore
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distingue sempre ciò che è pagano da ciò che non lo è, e così facendo viviseziona ciò che è. Penso che la primavera in quanto tale, con quanto ha comportato e non smette periodicamente di comportare sulla biologia umana, sia all’origine di quelle manifestazioni dalle quali pare invece di capire che essa sia paganamente discesa! L’estremistico rilievo lamentato da qualcuno, secondo cui le scienze umane sono state privilegiate sulle scienze tecnologiche, è vacuo proprio nella misura in cui risale alle impostazioni teoriche e metodologiche delle prime. Ciascuna scienza si dà le impostazioni che può, e non è dato alcun portulano di carico che ad essa possa dire “ti sei dato di troppo”. La festa di San Calogero non può tutta risolversi nel fatto religioso, così come non può manifestamente ridursi in quello folklorico. Chi tentasse una tale riduzione opererebbe come quel restauratore che, dopo aver staccato dall’infimo involucro i pigmenti colorati dell’opera d’arte, non disponesse di alcun supporto su cui poggiarli, e non solo per non averlo predisposto. Studi ed occupazioni finalizzati agli aspetti devozionali ed agiografici tornano utili quali contributi all’insieme ma non quali contributi sostitutivi di esso. *** Salvatore La Rocca aveva un aspetto lievemente bachiano, gli mancava solo il parruccone; i suoi discorsi andavano dalla larghezza alla contrazione, sentivo concerti di Brandeburgo. S’affacciava e non sapeva buttarsi, e lo capivo con rabbia, dunque lo capivo poco. Bramava di scrivere della festa e non ardiva, legato com’era alla peleografia, al pascolo dei suoi occhi grandi, consunti e scerpellati sui feudi delle carte e dei libri. Era uno che aveva fatto vuoto di erudizione e s’era trovato vecchio ad amare la cultura, che ormai gli poteva venir figlia. Gli avrei voluto dire (ma allora non sapevo, ed era solo una cova) che l’erudizione è giusto che sia solo mezzo, ma non mezzo di sequestro. Col pensiero vado parenteticamente ad un altro valent’uomo, il canonico rabatellese Salvatore Vajanella che parlava correttamente il greco classico ed il latino l’ebraico e l’arabo, e la notte per addormentarsi d’appigliava ai poemi d’Omero in originale, mentre dall’altra parte del suo letto, oltre la paratia di mattoni, stronfiavano alla greppia i muli del fratello contadino, battendo gli zoccoli come nel linguaggio Morse. E si doleva di non conoscere il sanscrito, il suo dolore di cuore, diceva. Ma a portargli da tradurre versi di Saffo, di Catullo e d’altri
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così, erano guai, perché greco e latino li aveva dupurati di gran parte della letteratura greca e latina, conquistando in erudizione quello che aveva perduto in cultura. Un altro La Rocca. Ora a me pare così, che a molti di questi eruditi stretti in città sia accaduto di imbarcarsi sulla nave dell’umanismo italiano staccandosi da terra, come se fosse questa a staccarsi dalla nave per perdersi nello spazio. Fermo davvero su qualcosa che si muoveva davvero era il La Rocca, e di quel viaggio, mentre studiava il mezzo, non gli sfuggivano i piaceri di guardare oltre bordo, di osservare e comprendere le voci, i suoni, le forme che parlavano e significavano, ma sempre ritornava alle parole e ai documenti scritti, sperando forse di trovare scritto quel che invece avrebbe dovuto vivere e concludere. Era insomma legato all’erudizione ed alla filologia, all’esame delle parole e delle proposizioni, per mungere da una vacca morta un latte fermo. Ma intanto aveva la testa fuori. Che avesse pronunciato un voto di castità zeppo di rifiuti del rinascimento francese, del cartesianesimo, dell’empirismo, dell’illuminismo e delle scienze umane? Non so, ma stava male quando parlava della rivoluzione francese, ed anche il vescovo Peruzzo stiede una volta male parlando della rivoluzione francese a noi studenti radunati con la forza dagli sguardi dei docenti, alcuni più di noi incazzati, nell’aula di San Francesco d'Assisi. Fu una scena di un tribunale, con qualcuno che sta male - il presidente in errore o l’avvocato disapplicato o l’imputato avvertito - e molti a slacciarsi e respirare. Quando uscimmo fuori sembrava che il sole vibrasse e parlasse, e c’era un venditore che vantava i suoi carciofi come figli. Una ricerca richiede numerosi mezzi di ricerca ed un campo di ricerca accettato così come esso è, con tutte le sue fenomenologie. Ciò che documenta un campo è qualcosa che si comprende e che soverchia i mezzi, talché li dobbiamo adattare e logorare, fino ad adottarne di altri. E dei documenti alcuni sfuggono talmente al concetto che ne ha il ricercatore da indurlo a non documentarli con la sua ricerca. Dell’opera dell’ingegno in ogni caso non si può fare a meno. Che ferro debbo usare? - chiese un apprendista al maestro. E costui gli rispose: la testa. Libera, s’intende, e non censuata. E mi sovvengo di uno scritto di Matteo Collura, Sciascia e i Libri, dedicato al viaggio di Sciascia alla volta dei libri, e dei libri alla volta di Sciascia. Scritti e scrittore s’incontravano a mezza strada. Poiché i libri non volano né camminano, la scelta avveniva “ope ingenii”, cosicché lo scrittore scopriva qualcosa che al limite non aveva oggetto, un libro -
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quel libro che non aveva un libro ma una smarrita figliolanza capace in ogni momento di adottare una paternità. In fondo il ricercatore s’inverte nella ricerca, e vuole ciò che gli accade. Spesso procede ad occhi chiusi (una conseguenza dell’oscurità), ma non può aprirli per scansare ciò in cui s’imbatte, per il motivo che non lo ricercava. Ad una ricerca di campo sulla festa di San Calogero è perfettamente applicabile una metodologia di storiografia totale. È possibile riscrivere la storia della rivoluzione francese studiando le note delle lavandaie dell’epoca. Non vi sono discipline immeritevoli di apporti. La riscrittura della storia sta dando oltr' alpe risultati strabilianti. Per quanto ci riguarda, ci stiamo dedicando ad una ricerca di campo limitato che ha richiesto la conoscenza di centinaia di migliaia di dati apparentemente irrisori e indegni di conoscenza (scorie, si direbbe, e non fonti). Essi tuttavia hanno conosciuto la conoscenza della città, talché per opera di umile finezza ci sentiamo storicamente conosciuti dall’emersione dei significati. l’immondizia del passato viene rigenerata, i risultati sono sconcertanti e si va colmando - o su di esso ricresce l’erba - quel deserto che disuniva le conclusioni sulla storia agrigentina negli ultimi due secoli da quelle cui sono pervenute alcune indagini sociologiche: cito ad esempio quella di Carola Gugino Sciortino. Una ricerca di campo della festa di San Calogero dove muovere dall’essenziale al delineamento del campo della ricerca. Tale individuazione a me pare essenziale per un avviamento metodologico, e richiede la compresenzialità di numerose attenzioni prima ancora dell’utilizzazione di altrettanti strumenti disciplinari. Proviamo dunque a spoliare la festa di San Calogero da molte di quelle affastellature che non siano “sine qua non”, o che sia dozzinalmente rinvenibili in altri schemi mobilitativi folklorico-religiose. Che rimane della festa? Una insorgenza periodica o spontanea, innanzitutto. Le caratteristiche esplicative, le gestualità e le pulsioni di questa insorgenza non sono preordinate ne è possibile che lo siano. Quì ci occorre un dato nobilmente empirico da utilizzare e subito dopo da emarginare in quanto non essenziale: tutti i tentativi per regolamentare o disciplinare o imbrigliare l’insorgenza sono stati vani. Essa non può secernere un nettare di cui non dispone né può nascere da semi che non sono i suoi. Sorgono e vengono posti comitati e sodalizi - c'è anche una con-
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fraternita di San Calogero - e vi si fà un gran parlare; ogni anno pare la volta buona perché la festa sia quella che si vuole e non già quella che è (confusa con quella che fu). In questi comitati s’intrufolano cittadini di varia estrazione, alcuni accorrenti ovunque e devoti di tutto, altri con mire di ritorni elettorali e di notorietà, altri ancora attratti dal sollucchero di onesti guadagni organizzativi e professionali, e via dicendo. l’essenziale è che il giorno della festa la festa si capovolge, sfugge dalle mani della lunga vigilia, ritorna quel che si dice ed intendiamo per festa di San Calò. Da almeno un secolo e mezzo è documentabile la presenza in chiesa o nel suo sagrato di un certo numero di quest cittadini, per lo più borghesi (organizzatori, devoti disciplinari etc.) nel periodo della lunga vigilia. È menzionabile “’u circulinu” (il conversare a cerchio) di padre Beniaminuccio Lauricella e dei suoi accoliti, per prendere il fresco nel sagrato e parlare della festa, a volte ascoltando i tamburi chiamati a svegliar la memoria. In un documento del 1872 ho appreso del funzionamento di uno di questi circolini: era una forma di villeggiatura, la chiesa si spalancava come “roba” di campagna, e in fondo, nel buio, il santo ed il lumino ad olio che misurava l’oscurità. I contadini accettavano questo stato di cose con la frase, ascoltata ripetutamente da me ed a conoscenza autonoma del La Rocca: a giugnu a' iddu ed 'a lugliu a navutri (a giugno la chiesa è al prete, o dei suoi, o di chi si vuole; ed a luglio diventa o ritorna nostra). Qui va utilizzata una credenzuola che rischia di essere sommersa e smemorata. La gente credeva che, approssimandosi la festa, il santo non uscisse più dalla chiesa, quasi per non dar confidenza dei suoi movimenti e del suo continuo miracoleggiare. A dar contezza e conferma di ciò che era Cassarino lo scaccino, personaggio a me noto attraverso una serie di testimonianze di chi lo conobbe, del La Rocca e di contadini del Rabatello. Nel cui quartiere pare fosse nato. Un tappo vecchissimo d’uomo che campava la vita mendicando porta dietro porta l’olio per la lampada votiva di San Calogero. Dell’olio vendeva il soverchio e si sfamava. Dormiva in una sacrestia ingombra e squadrata ove riposava un frate mezzo imbalsamato: l’ultimo fratello lasciato a custodire la chiesa dopo la sua occupazione governativa, diceva il La Rocca che ne possedeva notizie. In compagnia dell’erudito visitai la sacrestia quando Cassarino non c'era più, ma il luogo mi si disse era rimasto tale e quale, e potrei osservare il corpo mezzo cotto del fratello laico, vestito marrone, i cui resti dopo qualche tempo furono svuotati nella fosse comune di Bonamorone.
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Di Cassarino posseggo un ritratto, e vi dirò come. Possedevo e ancora posseggo un numero straordinariamente bello del Corriere dei Piccoli, compratomi il 27 dicembre 1942 da un parente: avevo 5 anni. Campeggi in copertina il dolce fumetto di Cencio Vecchio: La vigilia in cielo sale / già l’annunzia del natale / Cencio vecchio va in città / a cercar la carità... Come fu o non fu, molti anni dopo il giornalino finì sotto gli occhi di un contadino venuto a casa nostra per farsi scrivere una lettera: ma quello è Cassarino, mi disse. Ed anche i miei dissero che era Cassarino, forse indispettiti di non averlo già scoperto. Ed anche il La Rocca, cui sottoposi il fumetto, disse ch’era Cassarino. Così posseggo il suo ritratto. Cassarino metteva in giro e poi confermava che S. Calogero, normalmente di notte, andava in giro per la città, che a tante sue ispiezioni in chiesa aveva trovato la nicchia disabitata, e una volta aveva addirittura visto il santo che, venendo da fuori, risaliva sull’altare come su una rupe, aiutandosi coi piedi e le ginocchia. Veniva dal bastonare, dal miracolare. E Cassarino lo custodiva senza parole, come una madre che s’alza per vedere se il figlio è rientrato dalla notte, e quando lo vede non dice nulla ma sa di aver fatto il giusto. E naturalmente Cassarino diceva quello per cui era programmato, subiva il miracolo di coloro che il miracolo volevano, s’attendevano e non avrebbero mai rinunciato alla confessione di chi sapeva. Desiderando la verità, la imponevano, e certamente non diversi erano i procedimenti giudiziari degli antichi tribunali e della santa inquisizione. Ma in prossimità della sua festa il santo non usciva più, era come se quella lunga vigilia lo infastidisse, come se subdorasse un pericolo. In quel giro di giorni molti devoti solevano raggiungere la chiesa scalzi e di prima mattina; predominavano le donne che son rimaste a perpetuare la tradizione del voto. Prevaleva da parte degli uomini un altro tipo di offerta personale, ch’era un supplizio ed un orrendo atto di umiltà: la “lingua a strascinuni” per tutta la lunghezza della chiesa, quasi per nettarne l’impiantito, o per scrivere sui mattoni d’argilla, col sanguigno lumacore dell’organo ferito, pietose disobbligazioni o disperate petizioni. Spesso per più giorni gli offerenti non riuscivano a parlare, ed era questo l’ammirato “silenziu d’u santu” messo in bocca ai più irriducibili dei suoi devoti, che passavano tra i suoi figli migliori e per quelle temporanee mutezze da simulacri. Possiamo sottrarre dallo schema molti elementi particolari: ne rimane un quadro di sorda tensione atto a scompaginarsi e ad esplodere in occasione della festa, quando del santo non si bacia più l’im-
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piantito della dimora ma la bocca. Questi elementi rituali vanno riferiti al culto della parola, di cui il silenzio è una fondamentale componente. Ed omettiamo ancora di dilungarci sulla luminaria pubblica del venerdì, sulla fiera, sugli spassi. Alcuni di questi addendi son venuti meno e la festa è rimasta. Tutto accadeva all’insegna della riconquista attraverso la trasgressione, e assumendo per azioni quelle che potevano compiacersi per consenso del codice della quotidianità borghese, ora si mettevano in essere comportamenti disgreganti, non già perché fossero avversativi, quanto perché non erano omogenei e misurabili. Non era dato insomma alla classe dominante che subiva la festa la possibilità di classificarla, tant’è che la festa veniva diciamo così “offesa”, ridicolizzata, profondamente scongiurata. Risalendo per porta Mazara i contadinelli del Rabato andavano alla conquista della città (del paese, dicevano). Una tra le loro più scelte occupazioni consisteva nel tormentare, i musicanti della banda in palco, in faccia facendogli smorfie da saltibanchi, da dietro vellicandoli alle caviglie mentre soffiavano negli strumenti. È possibile che le licenze del genere non fossero riducibili a brutte monellerie: la festa era tutta una licenza (ed ancora nel suo nucleo lo è) e si poneva quindi come l’altra festa, la festa degli altri. E non che la festa fosse provocatoria; semmai essa, nei suoi giorni, si sentiva provocata dalle correnti norme, ma sempre finiva coll’avere torto e venire subissata, perché durava pochi giorni a cospetto dei tanti che fanno il grigiore di un anno. Innumeri erano le strampalaterie della festa quale manifestazione sboccata e spampinata, e dire degli scherzi che la facevano e insieme la disfacevano ci porterebbe molto lontano. Possiamo dire che non erano pertinenti ad essa e che non si sprigionavano dalle sue situazioni; piuttosto braccavano il carattere della città, dei cittadini della non festa. E non solo per timori relativi ma per un serio, secolare partito preso i borghesi la rifugiavano. Chi poteva, andare in villa e scompariva; “signureddi” e “signurini”, per non dire dei seriosi signori in mustacchi e barbe che ci voleva un giardiniere a curarli, alla processione assistevano da dietro le persiane, quasi per vedere come andasse a finire. Timore? Paura? Spocchia? Vergogna? Albagia? Di tutto, e certamente non era un sentimento rassicurante, e veniva da molto lontano. Raffaello Politi, con la sua prosa raggirante ed ironica, suggeriva alle degne persone di evacuare la città come si può lasciare una postazione ai nemici o un casale al contagio. La contrapposi-
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zione tra contadini e cittadini era irrimediabile. Diciamocelo: in occasione della festa i cittadini temevano i contadini. E a mio giudizio era nel profondo delle cose e nella storia smarrita dell’esistente rispetto al preesistente. La sfilata di muli parati (rectius: la processione, come dicevano gli interessati) era una carovana che muovendo dalla chiesa Addolorata raggiungeva quella di San Calogero, portando all’ammasso le normali offerte in grano trasportate dagli animali in sella, da carri e carrocci tutti al meglio addobbati, e quando si dice al meglio s’intende dire che erano bardati e addobbati come di più non sarebbe stato possibile. Il buon gusto era sostituito dal massimo gusto, ma non ironizziamo. Gli è che chi più ne aveva più ne addossava e spillava e sovrapponeva roba di domestica galanteria sugli animali che aveva un ruolo, quello di essere visti naturalmente da San Calogero, il quale dagli animali avrebbe giudicato gli uomini offerenti, e specialmente le donne apparatrici. Era tutto il vicinato dell’offerente a bardare l’animale o il carro, che spesso apparteneva a persona diversa dall’offerente. Sarebbe stato inconcepibile e pericoloso ricusare un trasporto al grande e temibile vecchio che parlava e ovunque arrivava per forza di cose e d’interposte persone. Teoricamente la migliore paratura era quella che comprendesse le cose migliori di un vicinato o di una famiglia, ed anche le più preziose: fazzolettoni di gala, coperte di ciniglia, traforate, ricamate negli antichi punti siciliani, tovaglie, giriletto e così via. Erano atti di notorietà e di ostensione con cui la famiglia pubblicava la propria partecipazione ed in certo senso si confessava baroccamente. Uso che faceva il paio con quello femminile di indossare in occasioni di feste l’intero corredo aureo, con che si rassegnavano i corredi mobili e personali che le fanciulle avrebbero portato agli uomini in ragione matrimoniale. Usi quindi non prettamente né esclusivamente sancalogeriani, e dunque non essenziali. Abbiamo parlato di normali offerte in grano, non solo riferendoci al tipo di cereale, il più regale tra tutti, ma proprio alla normalità dell’offerta, alla sua annualità, indipendentemente di grazie chieste o ricevute: così avveniva anche del pane. V’era un vuoto innominato, a contenuto potenziale o a risparmio, che consisteva proprio nel promettere grano o pane (o soldi) in cambio del futuro, o meglio della grazia da nominare nel futuro. Era un negozio sacro molto in voga, così come era molto in voga, nel campo dei negozi giuridici, la compravendita a favore di persona da nominare; quì da nominare era lo
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scopo, se vi fosse stato, o meglio il bisogno; ma già erano scopi e bisogni maggiori questi preventivi adempienti. Certo si sapeva che tutto il frumento offerto non sarebbe servito per la festa, le cui spese vive erano in verità assai contenute, ma il popolo di San Calogero voleva e faceva sì che la “raccolta” del santo superasse ogni altra raccolta di ricco proprietario con grande cognome e feudi. Alla fine dell’ottocento il comitato borghese che intendeva sensibilizzare il Municipio perché partecipasse attivamente agli aspetti ludicomercantili della festa, esternava che la raccolta del santo era più che sufficiente, enorme. Poiché la stragrande maggioranza dei devoti apparteneva ai ceti indigenti o sofferenti, se ne consegue che la "gabella” pagata al santo era felicemente assai onerosa: due tumuli di frumento erano già un tesoretto per il bracciante, e quattro lo erano per il piccolo borghese, ma l’esborso non era afflittivo né rappresentava un mistico atto di liberalità o un riflesso demenziale, così come, del resto, non aveva assolutamente il carattere di un livello di baratto. Forse il meccanismo psicologico era questo: mi privo e dò a San Calogero, il quale riceve, e tutto ciò che riceve ritorna ad essere mio dopo essere stato moltiplicato. Più che di una addizione la raccolta constava di una moltiplicazione, di un miracolo. Possiamo avere grosse perplessità sul meccanismo, pure in questa come in altre manifestazioni operative e partecipative sono presenti forme di comunismo religioso: dò a San Calogero secondo le mie possibilità e San Calogero mi dà secondo i miei bisogni. La religiosità di questo contratto sta tutta quì: il devoto riceveva quel che voleva, e nel volere abbisognava del santo e non andava oltre. Ed il valore con i suoi contenuti non rovinava in cose, bene e risorse (spesso dai miracoli si pretendono atti di mera prevaricazione a danno della natura o del prossimo) ma aleggiava in una dimensione più politica che effettiva. Si davano, è vero, i miracoli positivi, importanti, classici, inspiegabili, che finivano documentati nelle tavolette ex voto. Assai più interessanti ci appaiono tuttavia quelli “spiegabili”, minori, continui. I miracoli precauzionali, preventivi, che implicavano onniscienza, prontezza d’intervento, amministrazione dei bisognosi e ratto al volo dei pericoli incombenti. Era già miracolo il non verificarsi del danno, quindi cadute evitate o ben risolte, infezioni guarite, malesseri superati, piccole fortunose svolte di vita. Ed anche le bastonature erano considerate miracoli d’intervento, atti di gestione punitiva e di forte recupero.
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Nel complesso queste manifestazioni di potenza, d’interminabile sorveglianza e di intervento attuato non afferiscono ancora all’essenziale della festa, ma s’incastellano di elementi tali da avvalorare ed obbligare alcune ipotesi ad esclusioni di altre. Veniamo dunque alla festa, anzi al suo germe, alla processione mattutina, sia della prima che della seconda domenica. Ora ci troviamo veramente di fronte ad un “unicum”, in cui confluiscono molti degli elementi ritrovati nelle sovrestrutture culturali e ludiche, e dal quale spira la coesione dell’insieme. Cresce attorno alla chiesa una grande folla che imbottisce le ombre fino all’interzia totale del mezzodì. Alcuni specializzati espugnano l’altare, la statua del santo calata a terra, issata sul fercolo che viene barellato dalla parte anteriore, da quella posteriore, trascinato, piantato in asso di botto, o tenuto in sospeso, lievitato, sulle ali di cento spalle. Porta il santo la folla, o è la folla calamitata dal santo, appesa ai bordoni della macchina, e non è di pubblico e di attori, ma folla enormemente solitaria e vociante. Non ha un programma, se non quello di rimanere folla attraverso la città, avanti e indietro come certezza parossistica. Non c'è ordine perché non si ammetto gerarchia, supremazia, responsabilità. È una folla sovrana, il tutto rispetto alle parti, ed anche rispetto al proprio essere parte. Non accetta neanche un ordine interno, neanche la scampanaccia dell’incaricato che pretende di far sollevare e deporre il fercolo a tempo, onde la scampanacciata s’incanta e continua a sferragliare come una bandiera bianca senza padrone e senza potestà. Non c'è sincronia perché non c'è con chi sincronizzarsi. l’unico punto fermo sembra essere la statua che si muove coll’intero movimento. E sulla statua saltano e montano i devoti come capre sul mandorlo per divorarne i tenerumi. Tergono il santo sudato del loro sudore, lo specchiano nei bambini spogliati dai votivi abitucci di petalo, lo baciano in fronte, nelle gote e sulla bocca, senza mai stuccarsi, pronti a resistere agli strattoni del fercolo che freme come un toro selvaggio, pronti a scivolare sul sapone delle groppe, pronti a rimontare e ribaciare il volto di legno che è frutto donna ferro pietra insieme. Il bacio in bocca è certamente il punto segretamente centrale di questa espugnazione pubblica, e quello in cui la folla ammette il valore oggettivo dell’intimità. Col bacio si suggella nel silenzio la parola, si dice di non dire, si ascolta l’impossibile, ma la formula è quella di
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una equazione tra la parola ed il silenzio: l’una sanziona l’altra, in quanto tra di sé reciproca tentazione. Va quindi sbandito ogni pseudo-simbolismo sessuale, a meno di non risalire al dramma della virilità quale sesso dell’onore rivenibile nella cultura propostorica sicula, in presenza di un mancamento alla fede pubblica e privata su questioni federative vitali. Ma sesso sta quì per soggettività e personalità, passibili di feroci conseguenze al proprio venir meno. Ricordo che Leonardo Sciascia per spiegarsi il genio e l’enigma di Antonello da Messina andò a rileggere Cicerone e gli riuscì. Quando le origini coincidono con i caratteri è difficile distinguere i giorni dai millenni. Che San Calogero sia il santo della parola si evince proprio dalla credenza, perché non si può evincere da altro. Ma dalla stessa credenza si evince che è “un santo” e non “un mito”. E credenza e tradizioni hanno curato ed aggiornato una crestomazia in cui trovi il grande vecchio a guarnirne la parola, a tutelarla con interventi e irruzioni per rammemorarla e se del caso per reintegrarla “manu militari”. E la prima parola concerne proprio voti e promesse assolutamente da onorare e mantenere, se non si vuole incorrere nella sua proditoria ira. Questa sembra essere la condizione senza la quale il santo non accetta il rapporto. Senza fede non vi può essere trasgressione perché non si dà luogo ad alcun miracolo, neanche a quello del bastone. Sorvolo sui tanti episodi da me raccolti e dal La Rocca e che mi bollono in mente: mi piace menzionarne due recentissimi ed afferenti a famiglie d’alto prestigio, di cui per ora non è lecito precisare, le quali per lunghi anni si sono sentite battute dal santo (con febbri, sogni orrendi, traversie nei giorni del suo ottavario), scoprendo infine di non essere venute meno a voti e promesse a suo tempo liberamente assunti. Ora pace è fatta. Il ritmo esplosivo - implosivo della processione di San Calogero è proprio di un mondo che cerca il mondo. Naturalmente è possibile visitare la festa ed il culto sancalogeriani in termini psicoanalitici e medico - scientifici. Vi sono persone che in questo potrebbero individuare la loro ricerca, così come per un sarcedote, dal punto di vista spiritualmente religioso, potrebbe essere delusiva, e per un carabiniere massacrante, e via dicendo. Mettetevi tuttavia nei panni di chi volesse avere contezza e ragguagli della festa attraverso le relazioni dei carabinieri di servizio! Tuttavia quando il canonico Giovanni Cucchiara dovette portare a compimento un grave atto
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di giustizia i cui termini avrebbero potuto a suo giudizio irritare l’idoleggiato vescovo Peruzzo che non soffriva fumo negli occhi, si volse a San Calogero e gli chiese coraggio. “Parlavo e non mi sentivo, raccontava il canonico, mentre non mi sfuggiva nulla dei presenti che sembravano addormentati come se mi sognassero”. Venne smascherata la turpitudine di un potente beneamato del vescovo, il quale non se ne adontò: miracolo. E tale che più grande non sarebbe stato possibile, anche per le circostanze e gli intricati dettagli, e San Calogero ricevette quell’anno una grossa offerta importantissima perché sborsata da un canonico cui per vocazione si era imprestato. Si dica quello che si vuole, ma io di San Calogero mi guardo, soleva dire il Cucchiara, che pure tra i preti non perdeva la berretta e mi pareva un francese. Sulla mancanza d’ordine della processione soggiungiamo che non può essere né colta né concepita per termine contrario. Se l’ordine manca, manca pure il disordine. l’autoconvocazione della folla non corrisponde alla possibilità di una classificazione. Abbiamo detto di una folla solitaria di una città che celebra il santo in sfrenata solitudine. l’intimità è così stringente che si fà comune. Si supera anche il concetto della “sulità” - la spagnola soledad -, come se ciascuno, sbucando dalla privazione di scenario e libertà in cui la città lo stringe e lo vuole, s’imbattesse nel concittadino andando al santo, e ad alta voce congiurasse strada facendo di ricostruirla sul serio, questa benedetta città. Se San Gerlando è “senza danno” San Calogero è un santo per mancanza di noia, di ufficialità, di apatia, e quindi santo per mancanza di vittoria. Quando mio cugino chiamò “americana” la sua festa, forse voleva dire: cercateveli da voi la festa, il filo e la coda di questo arbitrio. *** San Calogero venne in Sicilia da Cartagine vandala toccando terra presso il Lilibeo, la sua prima processione che ci riguarda. Forse in quella occasione le sue viscere gioirono obliquamente e con gioia soffersero dei primi colpi e contraccolpi: la barca era un fercolo portato dalle onde. Quel tragitto era una pista tracciata da quelle capre marine che sono gli uomini. Per quanto labilmente aperta dal giudizio della brevità e dallo sparagno delle ore da trascorrere in salamoia, la pista veniva rimarginata dalle acque, sulle scie delle prore ricresceva il barellante cupore del canale. Dalla chiesa di S. Calogero a quella dell’Addolorata, ed all’origine
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da Cartagine alla Sicilia; ma all’approdo non rullarono i tamburi, che rimbombarono invece allorquando una folla musulmana, ripercorrendo secoli dopo la stessa pista, metteva piede a Mazara per conquistare l’Isola. All’epoca di San Calogero la Sicilia sembrava un continente ove poteva trovarsi quello che ci cercava, scamparvi, sognarvi un futuro d’oro. I tempi erano difficili ma l’Isola galleggiava come un gavitello tra gli scogli. Calogero venne in compagnia di amici, ma la sua non fu spedizione isolata. I grandi cambiamenti di scenario, il flusso delle popolazioni nuove che con vocabolo greco si chiamavano barbare (mentre barbare sono, reciprocamente, tutte le popolazione che non si conoscono) determinavano riflussi considerevoli. La Sicilia, esposta a chiunque, proprio per questo sembrava una terra riparata. I fuggiaschi erano sant’uomini che quì volevano rifarsi una vita, cioè continuare a vivere la loro vita, rendendosi utili in ragione delle loro esperienze. Questo avveniva verosimilmente tra la fine del V ed i primi del VI secondo d.C. Calogero dimorò in Sciacca e in altri luoghi, la sua venerazione si diffuse, raggiunse quasi tutta la Sicilia, si collegò a tradizioni e venerazioni di altri Calogeri, le unificò e le impose unitariamente, giugendo sino a noi. Nello studio sul santo ed il suo culto l’illustre prof. Domenico De Gregorio ha riesplorato tutte le fonti storiografiche ed innografiche sancalogeriane, pervenendo a risultati fondamentali, definitivi ma non esaustivi. Un così grande punto di arrivo della ricerca filologica ed agiografica è inevitabile che sia un non meno importante punto di partenza per esplorare il vissuto ed il sommerso, per recuperare manifestazioni e credenze periture, per affrontare complessivamente la fenomenologia agrigentina del culto secondo i metodi delle scienze antropologiche. I risultati non potranno non sviluppare una illuminante interazione dell’insieme, sì da potere assurgere con cautela a fonti sussidiarie del procedimento storiografico. Rimandiamo intanto alla lettura dell’opera del grande studioso che opera e scrive in mezzo a noi, dopo avere segnalato (e forse ci guida il bastone di S. Calò!) come le sue ricerche, in questo e in altri numerosi campi, non siano mai state incoraggiate e incentivate dalla mano pubblica, i cui foraggi sono tutti andati ad allavare guitti, a spronare imbecilli e ad incettare tonnellate di carta illegibile. Crediamo bene che una ricerca antropologica sulla devozione agrigentina per San Calogero dovrebbe sistematicamente muovere
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dall’acquisizione della nozione teologica popolare della santità del vecchio. Dieci interviste sull’argomento mi hanno dato il seguente risultato: tre devoti sono stati in grado di collocare il culto all’interno dei principi fondamentali della fede e dell’ortodossia religiosa; sette, pur essendo consci della preminenza degli atti di onore e di fede da tributare a Dio, alla Trinità ed alla Madonna, hanno risposto che tuttavia il culto di San Calogero “è un' altra cosa”. L’approfondimento e la precisazione di questo concetto ha portato a risultati interessanti: San Calogero è nostro - ci conosce - la sua festa esiste da sempre etc. In sostanza: San Calogero è noi, e noi siamo San Calogero. Crediamo perché ci crediamo. l’identificazione avviene ad iniziare dall’identità. Il credo di molti di questi fanatici devoti potrebbe essere questo: calogerianamente credo in Dio etc. È una fede “dalla parte” di San Calogero, una soggettività storica. L’indagine andrebbe estesa, approfondita, ma il suo saggio ha confermato in me un profluvio di impressioni, di suggestioni volate per incapacità di sospenderle ed esaminarle, di ricordi di cento altri dati del genere emerse nel corso delle mie verbali scorribande al Rabatello; e mi conferma le frasi gettate senza controllo dai portatori del santo che si accingevano a smontare la statua dall’altare per issarla al fercolo, raccolte da quel provocatore di Salvatore La Rocca che s’installava appositamente in un cantuccio, per quanto dovesse ospitare il suo gran fisico, sì da capirle e farne memoria, anche se poi non se ne diede mai ragione o non volle darsene. Frasi alcune orrende e veramente irriguardose per il luogo e la sfera d’una fede ortodossa; altre scoppiate di senso, emerse e vaporizzate; ma tutte fatte di una rabbia di lontananza che poneva, accanto al problema psicologico, anche quello storico. La fede di San Calogero, pubblicamente scoraggiata ma non proibita né osteggiata in periodo arabo, dal pubblico si rifugiò sempre più nel privato, s’accese di più, forse s’ammalò, servendo tuttavia ad alimentare la permanenza di una identità etnica, religiosa e culturale. E questo non avvenne allo stesso modo in tutta l’Isola, che a farci caso in Val Demone la dominazione musulmana s’appostò quasi tre anni dopo l’inizio della occupazione ed ebbe carattere più politico ed amministrativo che radicale. La Sicilia era nominalmente tutta araba, ma la Val Demone continuava a rimanere Bizantina, liberandosi quasi da sola e in pochi anni all’apparire dei normanni. Altrove, e nella terra agrigentina in particolare, la resistenza araba sarebbe durata quasi due
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secoli. Questo deve avere esercitato una certa influenza sul culto di San Calogero, ma non tanto rispetto al tempo della dominazione musulmana - relativamente permissiva in tutta l’Isola - quanto nel periodo della liberazione normanna. Immaginare infatti che in Val Demone le pratiche religiose cristiane siano state più favorevolmente tollerate che altrove va contro la storia e la conoscenza che abbiamo della civiltà musulmana, fondata su prescrizioni religiose precise: ed il dominio sulla Val Demone si sarebbe fatto assai più rigoroso e stringente, ad onta della scarsa appetibilità di quelle impervie contrade montane, se solo i suoi abitanti avessero inalberato la pretesa di una assoluta confessione cristiana. Quella che dunque appare come una più favorevole tolleranza religiosa non è altro che la stessa tolleranza ammessa e amministrata dagli arabi nei confronti di tutti i cristiani nelle tre valli dell’Isola, con la discriminante di fatto e di territorio di praticazioni e frequentazioni culturali diverse, sia per effetto della situazione preesistente sia anche, in permanenza dell’occupazione, per il diverso livello di immigrazione e ripopolamento dell’elemento semitico. Nelle regioni occidentali e centro-meridionali più esposte all’arrivo ed all’impianto degli arabi e dei berberi il cristianesimo deperisce e sembra occultarsi non già per il venir meno della tolleranza o l’acuirsi dell’intolleranza, ma per circostanze statistiche, per un saldo sempre meno favorevole alla popolazione cristiana. La situazione che si ritrova dunque all’atto della liberazione normanna è diversificata per grandi comparti ma non rimane immune da nuove e in parte riannodabili conseguenze di diverso momento. Il De Gregorio osserva che nella distribuzione geografica del culto calogeriano il santo delle zone occidentali presenta la decisa fisionomia dell’eremita mentre quello della zona orientale presenta lo spiccatissimo aspetto dell’abate. Sulle circostanze storico-ambientali di tale differenziazione possiamo risalire al periodo precedente l’occupazione. L’archeologia e la storia non ci documentano di notevoli insediamenti bizantini, di monasteri e cenobii in terra agrigentina. La tradizione antica indica due grotte - una alle pendici occidentali della Rupe Atenea e l’altra nel vallone del Caos o di S. Calogero tra la città ed il suo antico molo - soggiorni eremitici del santo. E nelle località Mizzaro, Grotticelle di Raffadali, Cardillo, Racabo e tante altre si osservano necropoli trasformate in trogloditici abituri certamente in quell’età e non dismessi per lunghi secoli.
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Le ultime vicende politico - militari bizantine che precedono la conquista musulmana dell’Isola non privilegiano la terra agrigentina, che era certamente regredita in condizioni di vita preistoriche, fatti salvi alcuni distretti ove perdurava la favilla greca e dunque poteva alimentarsi il tepore della civiltà bizantina. La liberazione normanna di Girgenti non comportò il ristoro dell’antica religione d’osservanza bizantina praticata “in loco”: il superstite culto di San Calogero, non trovando la via di uno sviluppo fluivo e versorio, rifiutò la paratìa dell’innesto. Un ramo selvatico della devozione sorse ai piedi del tronco ammansito, convivendo con esso, esprimendo la specie, la natura e popolarità della primeva religiose cristiano-bizantine che, per capolavoro gerlandiano, si schiariva in religione romana. Per dirla col Borsari, è un atto di “fedeltà alla religione dei padri”. Il pensiero di Gregorio, abate del monastero di San Filippo di Fragalà, che “nel suo testamento ricorda gli anni del dominio musulmano... e i mali che dovè affrontare, finché non giunse Ruggero a liberarli” è una citazione che ben si attaglia alla situzione della Sicilia orientale, ma non a quella della terra di Giurgenti. Ed infatti in quelle contrade Ruggero fu attento a costruire e a rinsaldare il proprio potere attraverso la chiesa di ubbidienza bizantina, tant'è che proprio l’abate di S. Filippo di Fragalà venne sottratto all’autorità ed all’ingerenza di vescovi ed arcivescovi, pervenendo alla distruzione delle gerarchie ecclesiastiche della chiesa romana: che era un modo singolare di esercitare la legatìa, come osserva il Lanza Tomasi, e facendo della legatìa uno strumento dell’assegnatario più che del pontefice concedente. Il voltafaccia era imposto dal più elementare realismo politico e corrispondeva ad un uso intelligente e cauto delle prerogative regie, essendo quelle province forti di una vivace cività bizantina ed essendo aliene dal subire la mimesi della loro religione. In Sicilia settendrionale Ruggero può dar corso agli insediamenti del monachesimo occidentale; vengono agostiniani e benedettini; sorgono Cefalù, San Giovanni degli Eremiti, Monreale, la Trinità di Delia. Nella Sicilia centro - meridionale viene insediato l’abile e suadente vescovo Gerlando di Besançon, il cui primo passo - quasi con gesto colombiano - è quello di convertire il regulo arabo. La missione del vescovo non distingue i motivi politici da quelli religiosi, stretti nell’incarico ricevuto di istituire (o di rafforzare fino all’egemonia) il rito latino. La documentata notizia di una piccola colonia di cristiani di osservanza romana conservatasi, accanto alla popolazione di rito greco, per
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tutta la dominazione araba, sembra corrispondere all’avvertita esigenza di precostituire (almeno ex post, sui documenti) una testa di ponte per l’iniziale intervento missionario. In verità il vescovo normanno assume in proprio potere demaniale la parrocchia greca di S. Maria, ne assorbe le decime, con esse istituisce le prime prebende canonicali, e subito dopo mette le mani alla costruzione di una parrocchia antagonista, anch’essa dedicata alla Madonna. Questo processo di acculturazione religiosa, pacato, lento, progressivo, potente, non può non aver lasciato conseguenze. In Sicilia orientale si svolse sul doppio binario della continuità nella diversità: viene rafforzato il rito bizantino ma mi sa che la monarchia aderisce a quello latino. Nella Sicilia settendrionale è affidato al monachesimo latino il compito di controllare in termini comunitari e missionari la popolazione, riassorbendola attraverso un impegno squisitamente religioso che si appoggiava alle imprese votive ed architettoniche, alla reviviscenza del progresso economico ed al restauro in chiave occidentale del favore e della grandezza capitalizia araba. In terra di Girgenti, e quindi nella Sicilia centro - meridionale, il processo è religioso in quanto politico, e la legatìa viene mediata ed eseguita in maniera perfetta. Già con i successori di Gerlando si assiste ad una chiesa infeudata nelle ragioni di stato, con una azione ligia ed attenta che tende ad un crescente peso esterno, ed all’interno tende al controllo pesante e imperdonabile del territorio. Non si dà luogo a nobiltà, fatta salva la prepotente parentesi chiaramontana; non si dà luogo a concessioni monastiche né ad apporti variabili. Cresce la cittaduzza ai piedi della cattedrale: che è una metafora straziata dalla puntualità realistica e dalla verità. E questo fino al 1812, quando ancora il vescovado non sapeva capacitarsi di dar luogo alla pratica abolizione della feudalità ed al ristoro dei ceti meno abbienti, opponendo intralci speciosi e causidici e subernando persino (come verrà buccinato, e come certe scritture sembrano documentare) gli avvocati del comune perché la soppressione degli usi civici non avesse luogo ed i contadini di Girgenti non fruissero, vigliacchi, della concentrazione e della censuazione delle terre. E così fino al 1860, e ancora oltre, in difesa delle decime di Ruggero. La chiesa girgentina restava a guardia della logica gerlandiana e del poderoso concetto del Regno di Sicilia, sostanzialmente immutato da Ruggero all’equivoco garibaldino. In un quadro storico che va studiato ed approfondito con lealtà intellettuale, fuori da parti ed abiti - siano quelli attillati dei laici, che
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quelli comodi e talari - la festa di San Calogero rappresenta quello che noi diciamo uno “scasciu”: una denuncia senza contenuti, una esercitazione d’identità e di personalità collettiva. Propendiamo ad interpretarla come una potente, spontanea emersione di valori sommersi, il colpo di schiena della resistenza culturale e religiosa bizantina di Girgenti ad una antica acculturazione che sembrava non aver lasciato tracce ed invece le ha lasciate. Dunque una festa “scasciu”. Il cuore del primo millennio che fà i conti col secondo millennio alle porte del terzo millennio. Lo “scasciu” emerge qualche giorno, scorazza e poi si subissa profondamente per un altro anno, ma da un anno all’altro sembra che nulla più di tanto debba accadere, e comitati e comitatini ci lavorano sopra col sale e l’aglio. Poi, improvvisamente, è la festa. Alla domanda perché essa sia così e non diversa, si potrebbe rimandare alla storia, ma non sarebbe serio ammettere l’interrogativo. Celiando si potrebbe considerare che una città tanto quatta e mastica - spavento è giusto che abbia nobilmente una sagra tanto scollacciata di pazza santimonia. È l’affermazione del popolo di Akragas, impoverito, divenuto atterrito, ritornato contadino, superstite per sacche su acrocori e vallette, colto da rovinosa grandezza, da regresso mirabolante come il passato che ancora sapeva di cova; tribolato dagli uomini del mare, berberi magri, brucianti di religione, anch’essi affamati ma posti dall’altra parte della fame, dalla sponda dei padroni; indaffarati e risoluti a moltiplicare il tempo e le granaglie. Il popolo di San Calò, accordato con le cattive e le buone, rimase, mise benessere e conservò memoria. Poi vennero Ruggero, Gerlando e gli amici, ed il popolo disse “si, va bene, ma c'è prima di tutti San Calogero”. Va bene, possono avere detto Ruggero, Gerlando e gli amici, potete ricordare, purché sia solo una festa. Ma quando una festa è così, è sempre qualcos’altro.
IL SANTO E IL PANE Il rapporto tra il sacro e il religioso nell’ebbrezza del rito sancalogerino che la chiesa tenta di normalizzare
L’incapacità di concordare documentalmente il modello storico della festa di S.Calogero rappresenta per lo studioso una linea di provvisorietà e di armistizio tra l’accettazione della tradizione e le ragioni della critica. Lontani dalla etnica e numinosa malia dei giorni ricorrenziali e trascorsa la festa, la tradizione offre a ritroso uno sprofondamento. Una tradizione come questa si fonda su tutto il presente agrigentino e per simmetria su tutto il suo passato. Ignazio Matte-Blanco ci sobilla a pensare che se sono disponibili soltanto relazioni simmetriche, non può esservi spazio né distinzione nel senso fisico - matematico del termine. In virtù del principio di simmetria sia lo spazio che il tempo svaniscono. E se non vi è tempo non può esservi alcuna alterazione per il suo passaggio. Se spazio resta, non può essere che di natura fenomenologica e come ipotesi di distinzione politica, attinente cioè alla ricerca ed al suo corso. Per questo non può esistere lo studioso delle tradizioni, se non come immaginario ed augurale patriota nel senso lacaniano dell’espressione. Per la simmetria tra presente e passato, senza di che la tradizione non sarebbe tale, il ricercatore si trova di fronte ad una sorta di cronaca del tempo mancante, in cui l’inesistente come mai esistito è trattato quale identico al presente. Ciò che si nega o non si riscontra viene incluso in un tutto più vasto e diventa identico a ciò che viene presentato. Le tradizioni quindi vanno sempre lette dall’esterno, al limite del futuro o se vogliamo nel passato che le precede e ricomprende. Sotto l’azione dissolvente del principio di simmetria, infatti, l’interno della classe diventa un tutto omogeneo “in cui ogni cosa diventa ogni altra cosa”. Da qui l’esigenza della cautela, che è il mestiere dello storico e del ricercatore. Non è dubbio che la festa sancalogeriana, così come la vediamo, riproduce un modello ottocentesco, già in questo ma non in quanto questo, “tradizionale”. Com’era la festa prima che fosse così? Dal Politi sappiamo che era una manifestazione spregiata e sconsigliata ai borghesi, alla gente che si poneva problemi di gusto ma non era tenuta a dare spiegazioni: alla gente bene, delicata e responsabile che
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la disertava lasciandola alla plebaglia tenutaria, protagonista e committente assieme. Il poligrafo riproduceva con acrimonia, incomprensività ed una certa paura un giudizio settecentesco, cristallizzandolo nel momento in cui la festa si affermava come manifestazione popolare, potentemente girgentina, sgarbata perché esplodeva senza ammennicolare, senza preparatori velluti: sbraitando, assordando, stambureggiando. Era come un pauroso improvviso ricordo, o come una subitanea gloriosa vittoria. Il consiglio era che la città si spaccasse in due, e che i dissenzienti uscissero di porta, ricusassero punitivamente la festa fino alla normalizzazione della città. Ma la città rimaneva compatta, con la minoranza dietro le stecche delle persiane ad assistere a quel mulino, al lento scorrere di una lava umana con sopra il cippo di un’icona nera che nei suoi ghirigori e ghiribizzi raccoglieva grappoli umani. Il santo, raccolto nelle spalle rincantucciate e in inferiore equilibrio di mani veniva continuamente deterso dal copioso immaginario sudore (che era quello di chi lo detergeva) e riceveva migliaia di baci in bocca sulle labbra rosse di fuoco sul bruno facciale: baci orientali, acini spiaccicati, bave e mosto di fede, di parole, infusioni d’anime. E pioveva sulla folla il pane come manna, e i suoi mielosi tracciati decisi e curvilinei come voli di rondini acquistavano per il sudore che ingrondava le ciglia iridescenze d’arcobaleno. Il lancio del pane costituiva il progetto grafico dello slancio degli uomini verso il santo. Era la raffigurazione di un lavoro collettivo e della cumulativa potenza d’inerzia. Chi volesse occuparsi delle sue motivazioni d’origine rimarrebbe fuori strada, e la farebbe da cronista ragazzino, da piumoso folklorista, da innocuo affabulatore. Intanto si ha il fondato sospetto che in antico accanto al pane si offrissero i maccheroni. Il ciclo dell’offerta e del ritorno era perfetto e comprendeva il santo, i portatori e gli offerenti: produzione, offerta, ingestione. Ma contro il lancio del pane, simmetricamente al lancio del pane, si è mossa da un “sempre tradizionale” la chiesa. Non possiamo documentare il più antico passato: ma non era padre Binuzzu (Lauricella) a suggerire “soldi e non pane”? Era una rozza forma di crematistica. Si chiedeva al popolo di S. Calogero un sacrificio storico di riconversione in cambio di un beneficio epicureo per il comitato dei festeggiamenti. Ed è da ricordare, come grande e illuminante, l’infortunio occorso al vescovo Peruzzo quando, avvalendosi dei rapporti d’acciaio tra chiesa e fascismo, fece ricorso al braccio secolare per stroncare
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l’usanza. Peruzzo, che da vescovo di Oppido Mamertino aveva scritto al duce, uomo della provvidenza e quindi di Dio, di essere un suo fedelissimo, pose l’equazione d’equivalenza tra i lanciatori e gli eversivi antifascisti. Il numero dei primi fu talmente grande che, alle identificazioni di polizia, il vescovo fu costretto ad ammettere la tradizione e se vogliamo a fascistizzarla. Anche quest’anno 1999 c’è stata in grande una ripresa della ostilità, simmetrica - dicevamo - alla tradizione, anzi la stessa tradizione vista dalla chiesa e dalla propria parte. Perché? Che cosa teme o non vuole la chiesa al di là di preoccupazioni sanitarie che si lascerebbero a chi di competenza se non ne esistessero di più fonde? O al di là della precettistica moraleggiante sugli sprechi etc? O non è stato un pubblico spreco, quest’anno, l’assunzione degli oneri interi dei festeggiamenti da parte del dissestato bilancio comunale? O per l’istituzione non vale il precettismo? La chiesa teme del lancio quello che il lancio è: un pasto sacro, una comunione del popolo autoreferenziato nell’ebbrezza risolutiva del rapporto tra sacro e religioso. Perché è manifesto che rispetto al sacro terrifico sancalogeriano il popolo offre rimedi religiosi: si offre cioè in pane, si comunica in pane, e nel pane trova la divinità che ad esso si offre per il pasto sacro. E’ stato appurato che la fame propone angosciosamente il senso dell’esistere e contemporaneamente la paura della cessazione dell’esistere. Col pane l’uomo vuol restare nell’essere. Per quanto riguarda la festa di S. Calogero, vuol restare in quello che essa rappresenta: una residuale, occulta certezza bizantina anteriore all’’acculturazione missionaria gerlandina. Da qui, paradossalmente, ne viene che l’azione contro il lancio (col succedaneo spreco del lancio di minuscoli volantini tipo “Baci Perugina”) è antistorica, e, nel profondo della natura umana, anti-antropologica e anti-scientifica. Si teme sempre, infatti, quello che non si è in quanto si teme ciò che si è.
HILLARY E LA PAURA DELL’ACQUA
La fine del comunismo ha reso possibile il dilagamento capitalistico nel mondo. Non è il trionfo dopo una lunga attesa murata ma un avvenimento ascrivibile alla natura del capitalismo. Al crollo delle dighe che avevano consentito la fredda coesistenza tra due modelli, uno dei due mondi è precipitato sull’altro: né avrebbe potuto fermarsi a tempo o delimitarsi. Il capitalismo è una forma plastica e pressante, richiama l’acqua coi suoi fanghi sommersi e i seducenti lustri di superficie. Anche nel ristagno conserva la forza di dirompere, ove soccorrano varchi. Tuttavia il comunismo è venuto meno rispetto a sé stesso. Come progetto teleologico sovrapposto alla storia non poteva sopravvivere senza una propria prospettiva e Lukács lo aveva già capito. Esso si era ridotto a scuola di pensiero, a pensiero progrediente ed elitario. Di questo pensiero impazzano più che mai le università americane, dove circola come aria salubre tra ateliers e workshops, mentre in Europa teologie e sociologie ne fanno incetta sulla spiaggia del riflusso. E siamo appena all’inizio del successo postumo. Ma questo pensiero, che ha contrassegnato culturalmente il secolo, non era più in grado di distillare valori. La partecipazione delle masse e dei sudditi era assicurata dalla propaganda e dall’altro ciarpame: un progressismo positivistico o un sociologismo moralistico. Il comunismo era stato imbalsamato prima della sua fine, di conseguenza “era già morto”. Poi c’è stata la sua incruenta esposizione. Il capitalismo invece non richiede e non ha richiesto una ideologia e un pensiero, ma quella performatività studiata tanto bene da Lyotard. Ecco perché abbiamo detto che era un bacino d’acqua che attendeva, dietro l’argine, di srotolare. Questo suo programma di natura era in fondo presente sin dalla metà del secolo scorso, e l’acqua da allora è montata. Dal colonialismo ed imperialismo siamo passati al globalismo. Il mondo tutto diventa un enorme mercato di merci e di informazioni. I confini, da geografici, politici e coloniali, sono trasformati in discriminanti di influenze, in varianti quotidiane. L’ecumene è percorso da
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decisioni repentine, apparentemente volubili, da brividi di allocazioni e investimenti e da decisioni di disinvestimenti, di deindustrializzazioni, il tutto all’insegna del profitto massimo, della ricerca di una produttività che non può mai decrescere né ristagnare, diversamente sarebbe la fine del sistema. Questo capitalismo post-moderno, al limite estremo del proprio compimento (performance) ci richiama alla legge di funzionamento degli altiforni, che per produrre non debbono mai essere spenti, pena la distruzione del ciclo e l’inservibilità dei mirabolanti impianti. Anche il capitalismo deve produrre sempre e sempre di più, pena il disastro, la rovina e la miseria di centinaia di milioni di uomini, i quali di fatto verrebbero espropriati dalla loro condizione e travolti dal crollo. Ad essere coinvolti sarebbero, in prima battuta, i cittadini dei paesi più ricchi e industrializzati. Quelli dei paesi del terzo mondo potrebbero non accorgersi della catastrofe e comunque imboccare una alternativa ai loro problemi di sopravvivenza: salvo i contraccolpi nelle aree urbane (vedi Indonesia, Corea, etc.). Da qui insurrezioni, sommosse, agitazioni. Qualcosa del genere è avvenuto in aree periferico-regionali, e paventandone l’allargamento infettivo le nazioni più ricche hanno fatto fronte comune concedendo prestiti di controllo e di asservimento: con la conseguenza di rendere ideologiche non solo le politiche escogitate in loco dai singoli governi, ma anche le ragioni successive delle proteste. Un ricordo ideologico, infatti, può guidare tanto una ribellione di massa quanto scaturire postumamente dalla sua compressione, dal controllo operato su di essa, dai mezzi impiegati per averne ragione. La contraddizione del capitalismo dunque non ha nulla a che fare con la presenza del comunismo, che oggi non è più presente, ma col capitalismo stesso e con la sua infrenabilità. Dopo il mercato del mondo non è più dato ipotizzare altri sviluppi. O si crea un mercato aggiuntivo, appendicolare, magari lunare, o il capitalismo si trova di fronte alla propria battuta di crisi. Già qualcosa del genere si subodora allorquando negli stati economicamente più deboli il capitalismo attinge profitti dalla liquidazione dello stato sociale non potendoli più attingere dallo sviluppo produttivo. La globalizzazione è dunque il punto di arrivo finale di un sistema che per essere quello che è necessita di continuativi successi, e cioè di ulteriori punti di partenza. E’ manifesto che la globalizzazione comporta integralismo economico, una monocultura essenzialmente fondata sull’economismo,
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anche negli esiti più dilettanteschi. Vediamo quindi che accanto alle tifoserie e al gergo calcistico si sviluppano consorterie di cittadini dediti ad un linguaggio preso in prestito, succubi di moda e di acculturazione. Si inneggia al rischio, si gioca alla borsa; i rialzi seducono e invogliano, gli improvvisi tracolli ben concertati dalle centrali finanziarie, costringono alle restituzioni. Dopo essere stato sottomesso alla cattiveria millenaria dei gruppi di potere politico, il cittadino comune si trova sottomesso al gioco dei potenti gruppi finanziari. Si fà ricorso ai tanti nuovi giochi di stato, si tenta di decifrarne le leggi cicliche da cui sortire risultati miliardari. Siamo sempre nell’ambito di una cultura pseudo-economicistica coniugata, questa volta, al divisamento fatalistico, al sortilegio. Pare che in tutti, anche a causa del millenarismo incombente e strombazzato si faccia strada come sottofondo di una modesteria economicistica la riconsiderazione sottomissiva di un fato che tutto regge. L’integralismo comportato dal globalismo suscita a sua volta ogni altro integralismo: religioso, etnico, tribale, razziale etc. E l’idea globale distingue questo nostro neo-medioevo come l’idea imperiale, sacra e romana, distinse il più antico medioevo: pompe entrambe di parole orbiculari che nascondono subissamenti, particolarismi, conati vari e laidi regolamenti di conti, secessionismi, cacce alle streghe e ai bambini, nuovissime ignoranze. Ma l’immagine del mercato globale potrebbe trarci in inganno ed essere vista in stallo, ove non riandassimo col pensiero alla considerazione che mentre il mercato si è esteso e non è ulteriormente estensibile se non nella linea di sfruttamento verticale, i centri di produzione industriale e di rifornimento mercantile rimangono nei siti di poche nazioni industrializzate. Chi non può partecipare ai benefici di mercato tende dunque a beneficiare ai benefici del lavoro per potere disporre delle ambite e propagandate risorse di consumo. Alla spirale economica corrisponde una controspirale emigratoria, invasiva. Il capitalismo, come acqua, ha invaso il globo; i diseredati, i senza lavoro, i poveri su quest’acqua invadono lo stesso mondo del capitalismo. Si fronteggiano quindi due sistemi: l’uno economico, l’altro demografico, umano. Gli uomini vogliono lavoro per accedere al mercato dei consumi, il capitalismo vuole consumi per tentare di dare lavoro. Ora viene in Italia Hillary Clinton a parlarci di rispetto di tradizioni e identità, com’è avvenuto qualche settimana addietro a Firenze. L’attivismo premuroso della piacevolissima signora ci sembra sospetto e dettato, per le corde patetiche che ha pizzicato, più dalla paura e dal
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presagio che dalla risolutezza. E non perché il globalismo non si potrà fermare dall’essere anche, come vorrebbe la stabilità di mercato, un fenomeno di instabilità umana, di movimento carnale e culturale, di sintesi e quindi crisi di culture e tradizioni diverse, ma perché quello che sta accadendo non ha ideologia, non è ideologia, ed è anzi un fenomeno non meno performativo del capitalismo post-moderno. Ciascun immigrato o disoccupato in cerca di lavoro tenta la propria performance, ma all’intero coro non può che applicarsi un altro concetto, quello di “affordance”. Il movimento tenta di appigliarsi, di trovare ciecamente radici. Questa forza a tutti non può che venire dalla forza di ciascuno, da native tradizioni, da ancestrali condizionamenti. Potremmo anche discriminare e misurare biometricamente e culturalmente tali energie ma non ne caveremmo un ragno. Forse la first lady d’America sognava di alludere a tradizioni statiche, funzionanti “in situ”, visitabili in mandre zonali, studiabili ed encomiabili a livello accademico. No, le tradizioni, ciascuno se le porta dietro. Gli albanesi in Italia, stanno dimostrando di essere null’altro che albanesi: uomini risolutissimi giocolieri dei rischi, sprezzanti delle fatiche e delle remore morali, con la dominante lealtà del coraggio. Non erano del resto questi gli albanesi che secoli addietro salvarono l’Europa dai turchi e che furono onorati, compensati e coccolati da re, imperatori e papi? Le cose naturalmente cambiano quando si assottigliano le distanze residenziali. Si, il messaggio di Hillary ci sembra dettato più dalla paura che dal tradizionalismo, a difesa della tradizionale performatività lyotardiana del capitalismo: da qui l’apparente visione antiglobalistica della flessuosa ospite che ponendosi di salvare il mondo dalle conseguenze del mercato, in effetti vuole salvare il mercato da un mondo risvegliato dagli imbonitori. Rispetto ai quelli gli antichi e feroci ideologi appaiono sempre più simili a chierici salmodianti.
MA È UNA COSA SERIA Una conversazione sulla mafia di Giandomenico Vivacqua con Settimio Biondi
Mafia. Più indietro del secolo scorso, gli storici rigorosi non vanno: scelta di metodo, scopertamente convenzionale, che appagandosi di recuperare ad una forma di intelligenza sistematica i pochissimi documenti di cui disponiamo (alcuni ambigui biglietti di prefettura, la voce polverosa di un delegato di questura) ha barattato alcuni millenni di metafisica con 150 anni di stentata storiografia. Ne è venuta fuori una storia di campieri, di guardiani del feudo, di facinorosi della classe media, pacieri e ricattatori: la protezione privata. Un bozzetto ottocentesco, un capitolo della più vasta questione meridionale: la mafia come proiezione criminale di una società non ancora guadagnata alla modernità, adusa a regolare ogni genere di questione attraverso transazioni violente, indifferentemente riconducibili allo schema dello scontro di classe, a quello del conflitto politico o a fisiologici episodi di delinquenza. All’estremo opposto, di quello che potremmo chiamare riduzionismo ottocentesco, la mafia è tutto, è in tutto, è una cultura; di più, è una dotazione cromosomica, determina i nostri comportamenti, anche quelli apparentemente leciti, si esprime nei silenzi e si nasconde nelle parole: tutti, con i nostri disincanti, col nostro scetticismo, col nostro gattopardesco rifiutarci alla storia, la onoriamo, le siamo contigui, complici. Oggettivamente! La mafia è un assoluto, contro cui serve alimentare utopie palingenetiche, tensioni catartiche (ma, avvertiva Sciascia, le tensioni sono destinate, prima o poi, a cadere). La mafia è una possessione della società siciliana: si combatte con gli esorcismi, i riti di liberazione, le veglie, le processioni, i lenzuoli, le catene umane. I mafiosi sono delle icone del male assoluto, degli anticristi, riempiono il posto che nelle brumose mitologie danubiane è dei vampiri, dei non morti. Sono gli anni in cui pochi eretici dell’ortodossia antimafiosa avvertono che la mafia si contrasta col diritto. Solo col diritto. Oggi, dopo le catture e i processi, la mafia è un santuario profanato dai giudici, una famiglia svergognata dai pentiti, un impresa marginalizzata dalla vorace concorrenza delle consorterie orientali,
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un cliente con la sportula vuota scaricato dai suoi protettori, un devoto scomunicato da Santa Madre Chiesa. Escono di notte dai loro squallidi ricetti, uomini del disonore, e, più per rabbia, abbruciano una saracinesca, grugniscono spietate minacce in un telefono; uccidono ancora, sforzandosi di assomigliare a sé stessi, ma è tutto quello che gli resta. Non sanno di storia e che la guerra è finita: come soldati giapponesi persi in una giungla del Borneo, si aggrappano alla loro ferocia e resistono, resistono. *** Mi sembra che attorno all’argomento mafia, alla fine si addensi solo cattiva letteratura, cattiva mitologia. Il comune senso grossolano della storia, che si nutre di fole, oggi si sazia delle “acquisizioni processuali”, degli oracoli del pentimento di massa, come ieri delle parabole edificanti dei picciotti dritti. Oggi chiediamo ai giudici che, in nome del popolo italiano, scrivano, con le sentenze, interi capitoli di storia; deleghiamo ai tribunali l’elaborazione non solo giuridica, ma anche etica e culturale del fenomeno, abdicando al faticoso ma insostituibile esercizio della ragione. Io mi sento di escludere la proprietà di una delega che consenta al giudice di fare storia, e probabilmente anche di fare cultura. Anche il giudice che eleva una voce, che si occupa di mafia, che istruisce un processo di mafia diventa oggetto di conoscenza storica. Credo che la mafia sia percepita come un fenomeno talmente vasto, rispetto al quale il processo diventa fenomeno così partitivo, così minuscolo che nessun osservatore, nessun cittadino riesce per suo mezzo ad uscire fuori dalla dimensione onirica, misteriosa della mafia, dall’immaginario collettivo nel quale si è lungamente sedimentata. Nessuno “sentirà” mai che la mafia è processata in quei cinque o dieci imputati, e neanche nel caso in cui, come nel maxiprocesso, gli imputati siano molti di più. C’è sempre una “dismisura”. Si parte sempre dalla incapacità di cogliere il fenomeno mafioso; la mafia non ha confini per l’osservatore comune: per i suoi agganci, per l’universalità in situ del fenomeno, per la sua capacità di sopravvivenza, per le sue caratteristiche di ingegneria sociologica, di biologia sociologica. Un fenomeno vastissimo, paragonabile ad un’ infezione che può dirompere dalla cultura in vitro di un determinato virus. Non è quindi l’entità della mafia a slargare ed universalizzare nell’immaginario il fenomeno della mafia;
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è la capacità moltiplicativa della mafia di dislocarsi, di imperversare, di riprodursi per cariocinesi, per talea, per generazione, di infiltrarsi e scombussolare gli apparati contraddicenti e mimetizzarsi in essi. Rispetto a questo universo confuso e senza tempo, che si dà esso stesso il suo tempo e i suoi ritmi, il cittadino non riesce a concepire l’inquadramento del fenomeno nella funzione processuale e nell’identificazione di alcuni rei che vengono condotti in gabbia e processati. Costoro appaiono, anzi, come le scorie del fenomeno, come i capelli caduti dalla chioma rigogliosa di una grande diva. Una sorta di immanenza imperfetta. Appunto. Quello è il corpo debole della mafia che è caduto in trappola, ma la mafia rimane mafia, come un mito, pronta a riprodursi, se è il caso a rimpicciolirsi, sempre a migliorarsi come mafia, cioè a peggiorarsi come fenomeno delinquenziale. Non credo, perciò, che esista una identificazione di questo tipo: “stanno processando la mafia”. Questo sarebbe l’errore più imperdonabile che si possa fare, per chi si occupa di queste cose come osservatore professionale o come semplice quilibet; non si processa la mafia, che è un modo di interpretare il fenomeno, o, se vogliamo, lato sensu la storia della Sicilia, gli scontri che vi si sono verificati. Ribadisco che il mafioso che cade in trappola, che viene processato, da quel momento non è più mafia. Certo, può continuare ad agire da mafioso; e forse è quanto gli rimane. Probabilmente il fenomeno del pentitismo è un fenomeno di riciclaggio, per utilizzare una terminologia che si richiama ad una teoria oggi in voga, per cui il residuo di un certo processo tenta di autoriconvertirsi, per sopravvivere, diventando un’altra cosa. Senza questa tecnologia del ricambio, della riconversione l’unico sistema di sopravvivenza era quello di infradicire nell’immagine, di rimanere legati all’immagine. Oggi no: il rifiuto diventa buon concime. Può essere letto così il fenomeno del pentitismo; la carta straccia diventa carta riciclata. Prima si rimaneva ad imputridire sotto la maschera; oggi si cambia la maschera, ma è tutt’altra cosa. Costoro, i pentiti, continueranno a parlare di quella mafia che, loro estromessi o caduti, loro fuoriusciti dalla familiarità, in quel momento non esiste più, perché la mafia senza di loro è un’altra cosa, ha già reagito organizzativamente in maniera tale che debba ritenersi irriconoscibile e quindi anche irriferibile. Questo penso del fenomeno mafioso, che andrebbe perciò affrontato più dallo storico e dal sociologo agenti con i ferri delle loro arti, rinunziando alla comoda tentazione di utilizzare impropriamente acquisizioni pro-
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cessuali che hanno una ragione diversa, afferente la punizione di uomini e non la comprensione di fenomeni. Il magistrato si occupa di ciò che è stato e non di ciò che è; il processo riguarda inevitabilmente il passato, un passato di giorni, di mesi, più spesso di anni, ma non può mai riguardare il presente. Fuori dal livello penale, quindi, il processo è una attività insufficiente ai fini della conoscenza del fenomeno. Io paradossalmente direi che, rispetto alla volontà, al desiderio, all’esigenza di conoscere la mafia, il processo supplisce con una propria conoscenza, una conoscenza giuridica, o meglio, una conoscenza di stato. Lo stato soddisfa e tranquillizza l’opinione pubblica, i cittadini, soddisfa e tranquillizza se stesso con un linguaggio suppletivo della realtà, quindi della conoscenza reale, con una civiltà giuridica con cui tenta di illuminare delle zone buie, tenta di far parola in deserti di mancanza di parola, di omertà, di silenzio assoluto. Lo stato tenta di collocare una conoscenza dove invece esiste l’insondabile, l’inconoscibile; operazione che per essere fatta con successo implicherebbe che lo stato diventasse rivoluzionario nelle strutture che si vogliono realmente conoscere e cambiare. Lo stato fornisce servizi; la funzione giurisdizionale è uno dei principali servizi: dà luce, rassicura, dà versioni, verità: verità di stato, verità convenzionali. Probabilmente anche la mafia è una organizzazione convenzionale, ma è un’altra cosa. Il processo, allora, riempie i vuoti, crea delle verità, ma non la Verità; dà delle risposte, ma non dà l’unica risposta possibile. Forse la mafia è un fenomeno così complesso perché è un fenomeno semplicissimo, e si è potuta salvare perché è stata attaccata con maglie così universali che ha potuto sempre sforarle, penetrarle e addirittura permearle, in maniera iridescente, beffandosene, senza mai rimanerne imbrigliata. Quello che dice mi fa pensare alle forme biologicamente più semplici e rozze, le uniche in grado di salvarsi dai grandi cataclismi naturali o da una catastrofe atomica. Io credo che in caso di arrivo stremato di questa nostra nazione ad una sponda qualsiasi, in caso di naufragio, si pensi ad una catastrofe economica, probabilmente la mafia sarebbe una delle poche cose, dei pochi valori (intesa questa espressione in senso virtuale e non certo virtuoso) in grado di sopravvivere. Io credo che le radici della mafia siano estremamente antiche e si riconnettano a delle caratteristiche tribali delle prime popolazioni del-
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l’isola. Ricordo che agli dei palici si sacrificavano, presso i laghi prosciugati di Alcara Li Fusi, coloro che avevano tradito la federatio, la fede tribale. Ebbene, lo sfregio che si faceva a costoro era di natura sessuale, ad es. l’amputazione dei testicoli con cui si occludeva la bocca. Il c.d. incaprettamento era già praticato presso quelle comunità. Siamo circa 2 millenni avanti Cristo. In queste risorgenti caratteristiche ci sono delle forme di continuità che andrebbero, in quanto tali, studiate, ma vorrei dire ammesse, se vogliamo profondamente capire il fenomeno della mafia, verso il quale Falcone, in quanto fenomeno aveva certamente rispetto, come lui scriveva. La cosa peggiore per non combattere la mafia è combatterla todo modo, cioè combatterla a viso aperto, senza però saperla penetrare, saperla risolvere, nel senso chimico del termine. Credo che sia, quindi, un fenomeno estremamente antico, che si riconnette a date caratteristiche del popolo siciliano. Del resto se volessimo descrivere l’uomo mafioso da reclutare, il mafioso che ancora non esercita mafia, bisognerebbe andare alla descrizione del siciliano da parte di Cicerone, personaggio che non si può accusare di debolezze o di sviste, laddove descrive il siciliano come un popolo estremamente vivace e intelligente ma chiuso e sospettoso. Tutto ciò che viene dal mondo classico ci lascia pensare che questo humus, questa cultura, questa organizzazione ha acquistato toni sempre più criminosi nel momento in cui la società si è perfezionata. L’incidenza del fenomeno della mafia in una società diversa dalla nostra, disgregata, antiquata, arcaica, sarebbe una incidenza di gran lunga inferiore. Un fenomeno simile, se noi lo volessimo proiettare a ritroso in una situazione socio-politica, demografica, economica quale poteva essere ad es. quella del periodo federiciano o di Tancredi o di Ruggero, certamente non sarebbe preoccupante come lo è oggi. E’ stato il perfezionamento della scienza giuridica, della coscienza civile del paese, è stata anche l’elevazione del tenore generale di vita dei siciliani a fare emergere ed esaltare il fenomeno. Il metro del fenomeno è divenuto ciò che non era più mafioso. In una società più arcaica diminuisce la portata e anche la visibilità della mafia, e credo anche il suo tenore criminale. Allora si potrebbe imputare alla mafia una scarsissima capacità di evoluzione, anche come fenomeno delinquenziale. Io credo che altri fenomeni delinquenziali si correggano e si evolvano, accelerano il loro corso di sviluppo.
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La mafia, credo, malgrado avverta l’esigenza di investire, acquistare banche, riciclare i capitali accumulati, abbia sempre il gusto di rimanere mafia, cioè di consumare la propria caratteristica nella organizzazione del raggiungimento immediato dei fini criminosi che di volta in volta si propone, quasi come se l’accumulo di denaro fosse solo una posta che consente il godimento del gioco stesso. Nella mafia c’è l’incapacità di evolversi. Se noi guardiamo la situazione della Lombardia nel 1600, descritta anche da Manzoni nei Promessi Sposi, noi vediamo una società che, grosso modo, equivale alla società siciliana dell’ottocento: il bravo al servizio del signorotto, che si mette a disposizione per ogni genere di prevaricazione e sopruso, anche sessuale. Però la Lombardia si è saputa evolvere. In Sicilia il fenomeno non si è evoluto, o meglio, si è evoluto in maniera del tutto estrinseca, dedicandosi al dominio del territorio, nel momento in cui il territorio era tutto; al dominio della politica, nel momento in cui la politica ha quasi preso il posto del territorio come bene reale, come bene spaziale in cui vanno poi collocati i fenomeni che costituiscono potere. Il meccanismo è rimasto quello che era in antico, non è un meccanismo diverso: una congrega, una pace, una confederazione di interessi, l’incapacità di imperare su questi interessi e di estenderli, e quindi di creare una famiglia vasta quanto tutta la Sicilia. Non credo, pertanto, che la mafia possa mai aspirare alla conquista dell’intera Sicilia. Questo è il fenomeno, e rimane come se fosse uno dei tanti fenomeni che coesistono in Sicilia, quasi come se fosse il retaggio di una parte che non può mai diventare tutto. Questa incapacità di crescita, e questa capacità di dominare l’insieme attraverso la dissuasione armata, minacciosa, attraverso l’incombere su ogni altra componente della realtà è la mafia. La mafia è rimasta fenomeno tribale, ristretto, e si avvale, anche oggi, di simboli, di modi processuali e sanzionatori che, più che arcaici, appaiono preistorici. Il suo carattere consiste nel non essere riuscita a crescere. Un’oligarchia primordiale. Si, che però non è tipica di un mondo pastorale o agro-silvano. Se volessi elucubrare un concetto che ho sempre pensato, direi che la mafia è più fenomeno siculo che sicano. Mi pare che sia da ricondurre a delle caratteristiche etniche e culturali ed a fenomenologie storiche proprie dei siculi, più che dei sicani, anche se poi lo stanziamento ideale, in epoca storica, è stato
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quello della Sicilia centro meridionale e parzialmente occidentale dato che è parzialmente in contrasto con la mia ipotesi. Non è un fenomeno pastorale né rurale, ma tribale. La mafia non può che essere mafia di paese ed in una città non può che essere mafia di quartiere. Non credo che la mafia abbia la capacità di “conquistare” una città, di diventare fenomeno delinquenziale urbano, di possedere Palermo, ad es., di diventare la cultura di Palermo. Palermo può essere conquistata come la paura di qualcosa di piccolo ma di immanente, di incombente, come la paura di una radiazione o di una infezione può conquistare un organismo vastissimo. Palermo può essere dominata, zittita così, ma la mafia rimane sempre un fenomeno che si attaglia al vicolo, al quartiere, alla zona. La mafia di cui parla sembra l’espressione di una antropologia che non è mai uscita dallo stato di natura hobbesiano, e che di conseguenza non ha mai sottoscritto il contratto sociale che legittima il magistero punitivo. Farò un esempio, scomodando l’etnografia: immaginiamo che in Australia un tribunale dovesse processare un antropofago reo di omicidio e vilipendio al cadavere della sua vittima (caso che è realmente accaduto), ed immaginiamo la vedova della vittima costituirsi come parte civile e chiedere giustizia ed un risarcimento per il torto, per lo sfregio subito. Il cannibale non credo che si renderebbe conto di essere processato sul piede della parità con la vedova, rimarrebbe probabilmente a guardare il giudice come colui che gli potrebbe rendere, se corrotto, se minacciato, la libertà. Non credo allora che il mafioso possa mai guardare all’altra parte, saltando l’ago della bilancia che è costituito dalla giustizia. Il mafioso non capirà mai il senso della giustizia che è, appunto, la parità delle parti nel processo. Il mafioso non riconoscerà mai la parità processuale con la sua vittima, e se la sua vittima è un altro mafioso, che è stato ucciso, o che è stato minacciato, che si è pentito, ebbene quello non è più uomo. Se è morto non è più mafioso, e non è un mafioso morto perché un mafioso morto è un morto. Se invece la vittima è, per c.d., una vittima laica, una vittima estranea alla mafia, un cittadino per bene che ha frapposto resistenza, che non ha voluto pagare il pizzo, allora quello è un infame, una persona che non merita, che non fa parte della casta, un semplice ostacolo, l’uomo al gradino più basso, l’uomo come natura, un sasso rispetto
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ad un altro uomo che avanza, che ha da sbrigare le sue cose, che ha da agire. Non credo che nel processo ci sia parità tra queste due parti. Specularmente l’uomo comune si rifiuta di vedere nel mafioso un uomo, un criminale comune (in senso atecnico) e non prova imbarazzo quando pensa “prendeteli tutti e uccideteli”. Anche noi pensiamo di essere un’altra cosa, quando ci troviamo di fronte ad un mafioso acclarato come tale, quando vediamo Riina e pensiamo: “ma a cosa servono questi viaggi da un tribunale all’altro, perché non l’uccidono”. Noi consumiamo così la nostra diversità da Riina. I mafiosi hanno un punto di vantaggio, o di svantaggio rispetto a gli altri: noi possiamo pensare, magari inconfessabilmente, “uccidiamo tutti i mafiosi”, mentre i mafiosi non possono pensare di ucciderci tutti. Credo che si limitino a non riconoscerci, ecco, noi siamo quelli che ci sono, in senso esistenziale, filosofico; loro sono quelli che sono, loro sono la realtà. No, non può esserci parità processuale tra fenomeni che non sono contestuali, contemporanei, tra due entità incommensurabili. La commensurabilità dovrebbe essere data dall’attualizzarsi della norma che dovrebbe essere assunta contrattualmente come rimedio alle dispute, alle insorgenze, come strumento di convivenza. Io non credo che la mafia abbia mai sottoscritto un contratto del genere. Ci sono strati profondi e umorali delle popolazioni siciliane, filoni, torbe, geologie povere di questa civiltà, criminose miniere della cultura etnica siciliana che non hanno mai sottoscritto un contratto sociale, che non solo non sanno, in profondo, che è stata fatta l’unità d’Italia, che non sanno neppure che è stato fatto il Rinascimento, che è stato fatto lo stato moderno, che è stata fatta la Rivoluzione francese. Io mi stupisco che un concetto simile non sia ritenuto accessibile, giustificabile, quasi che gli uomini dovessimo essere tutti uguali. Il popolo celtico crede ancora, in buonissima fede, alle fate ed alle streghe, agli gnomi, tutti ci credono, dal filosofo al poeta, dal sacerdote cattolico al vecchio libero pensatore. Bernard Shaw credeva a questo mondo che ci condiziona, ad un mondo invisibile, semplicemente perché discendeva dall’uomo di Cro Magnon, perché era un celto, perché aveva quella struttura antropologica. Gli zingari, i gitani e gli zigani, non si sono ancora fermati, non sono stati ancora allettati dalla civiltà stanziale, non sono stati adescati dalla civilizzazione come la intendiamo noi, non si persuadono del beneficio di fermarsi, di consolidarsi per specializzare i loro compiti,
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di coltivare la terra. Gli zingari continuano ancora a girare. Eppure è una popolazione indoeuropea, vicina a noi. Mi stupisco che altri non pensi che nel fondo della cultura etnica, nel profondo della sostanza siciliana ci possa essere una tale durezza, una tale caratterizzazione che, scontrandosi con l’attualità, con le forme vigenti, onorate e rispettate dalla maggioranza delle popolazioni immigrate in Sicilia, finisca per determinare fenomeni che noi chiamiamo criminosi e che potrebbero essere soltanto fenomeni di controllo tribale. Per quanto riguarda i commerci della mafia, credo che siano indifferenti, non soltanto storicamente differenti. Se oggi commercia in droga, fra cento anni, continuando così le cose, probabilmente avrà il monopolio dell’acqua potabile in Sicilia, dell’acqua di fonte. Credo che sia indifferente la materia dell’occupazione della mafia. A me interessa di più il meccanismo con cui la mafia si attualizza, e credo che il meccanismo sia sempre lo stesso. Possono cambiare i formalismi, gli stilemi, ma il meccanismo rimane invariato, indipendentemente dall’oggetto, che può costituire un pretesto per l’esercizio della funzione di quel meccanismo culturale-antropologico assai risalente nel tempo. Con questo non vorrei concludere per l’eternità del fenomeno; potrei concludere per l’eternità degli sforzi per stroncare il fenomeno, ed apparentemente avrei detto la stessa cosa. Non sarebbe la stessa cosa, però, perché il distacco tra i due concetti, tra i due delineamenti è costituito dal fatto che noi dovremmo scendere al livello di ammissione della mafia come atto di umiltà intellettuale, atto di dubbio sulla nostra comprensione del fenomeno mafioso, meglio della struttura mafiosa. Dicendo questo forse dico cosa inaccettabile, perché in epoca in cui si universalizzano i rapporti, si spalancano le barriere e non ci sono differenziazioni che tengano, andare a concettualizzare l’antropologia di un determinato popolo potrebbe apparire un tentativo di criminalizzare quel popolo. Ma l’atto della criminalizzazione non appartiene al fenomeno criminalizzato, piuttosto appartiene all’incapacità culturale di chi opera queste distinzioni, di chi dovrebbe limitarsi a cogliere un dato di fatto, un dato verificabile, registrabile anche statisticamente. Parlando in questo senso della mafia, vorrei porre il problema della sua oscurità rispetto alle indagini che sono state condotte. Bisognerebbe farsi raccontare dal mafioso non che cosa ha fatto, ma che cosa
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ha pensato o pensava prima di fare qualcosa per penetrare il tipo di risposta intellettuale, il senso che egli dà alla vita. Siamo molto lontani da questo, ma più vicini rispetto al passato: credo di avere visto un rispetto del fenomeno studiato, e quindi anche un rispetto di sé stesso, in Giovanni Falcone, magistrato che si è posto il fenomeno della mafia come fenomeno serio e non soltanto come fenomeno preoccupante. Fenomeno serio, come serio è il fenomeno, ad es., del suicidio nel mondo baltico; serio come il fenomeno del nomadismo zingaro; serio come il fenomeno degli indici di pazzia nel mondo slavo. Noi che cosa sappiamo delle esperienze dei popoli che sono venuti in Sicilia? Ecco il dilemma. Cosa sappiamo del popolo siculo, da dove veniva, in quali imbattimenti si è trovato a coesistere con altri, che incroci ha subito. Il problema andrebbe rifondato, partendo dalla etnologia del fenomeno stesso, dalla antropologia, per poi passare a tutte le consequenzialità storiche. Il fatto che il fenomeno si sia localizzato geograficamente potrebbe essere significativo ai fini della distrettualizzazione dei concetti che abbiamo espresso e della ereditarietà culturale e biologica di certe caratteristiche che inducono alla produzione dei modi comportamentali che noi definiamo mafiosi. Per un fenomeno del genere, quindi, non credo che sia sufficiente l’aula della giustizia, ad un fenomeno simile dovrebbe aprire le porte l’Università. E’ una categoria del vivere siciliano, la mafia, che va guarita attraverso dei processi di identificazione, di assimilazione, di liberazione, partendo dalle ammissioni più radicali, cioè partendo dalla condizione di mafioso. Bisognerebbe sviluppare, svolgere la condizione del mafioso partendo dalla identificazione col mafioso. Spiare il mafioso per consegnarlo a se stesso. Una grande opera, quindi, di pedagogia sociale, di pedagogia governativa; una grande rivoluzione della politica e della cultura che finora non è stata fatta.
SORVEGLIARE E COGNOMINARE Una piccola storia indecente di come nel passato i gruppi dominanti di Girgenti attribuivano i cognomi agli “esposti” per riderne e spingerli a irridersi.
In questa vita al postutto non rimane che di collezionare uomini e libri. I libri li compri per liberarli dal reclusorio di una spaventevole dentiera libraria, dal lenocinio di chi li vende. Li raduni e li vuoi dalla tua parte per sentirti libero di essere quello che hai, di avere questo da fare, di sentirtici: uomo sempre in attesa d’essere liberato. Affatturi in libro la tua metamorfosi umana, ti metti dalla parte di Omero per schermarti da Circe che gli uomini di Odisseo, destinati a divenir libro, li cambiò in porcelli, chè altro non sentiva di sapere. I libri c’è poi da scioglierli dalle anchilosi e dalle attaccature della giacenza, districarli dalle cotte dei caratteri tipografici, slacciarli dalle candide camice di forza della carta, in una parola leggerli. Ogni acquisto è un obolo dato con atavica destrezza di cuore e di mente, che quando si allenano sono la nuda natura in persona. Prendi il libro e riscuoti il beneficio, poi va via come un ladro senza lasciartelo incartare, per fretta, per tema che ti si scorga in compagnia, da solo che eri. Hai lasciato al libraio una carta di prestidigitazione, chiamata comunemente denaro. I libri li paghi ma è un inganno eccellente; ne porti via anima e corpo, lasci il prezzo di copertina. La larva è costosa ma sempre larva è. Certo ti sei innamorato a colpo d’occhio di quel libro, o lo hai incontrato per preavviso e sensaleria di recensore; o ti ci sei imbattuto per avventura, per solitudine, per sommissione, come si può finire negli occhi di un cane che sembra dirti con sguardo umano “ecco il mio cane”. Il libro lo sciogli ed emancipi dalla galera della mensola e da quel momento ti appartiene senza ritegno, farà i tuoi comodi, attenderà ma in ogni caso comanderà. Ti mette contro qualcuno, non è escluso te stesso; o ti pacifica, ti punta come un dito, ti specchia o ti rivolta. Non sei più quello di prima, dopo ogni libro sei il tuo successore. Così diventi pastore di grandi mandrie di libri, re di schiavi ai quali è data ogni licenza, sui quali puoi tutto ciò che ti rendono possibile. Barone con mero e misto impero. Nulla puoi invece contro gli abi-
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tanti della tua mente se non l’infamia distruttiva del rogo, escogitata avant’ieri, l’anno 1605, dal barone Montaperto principe di Raffadali, allorquando volle bruciare i libri d’Orosco de Leyva de Covarruvias in piazza del seminario che dopo quel fuoco è divenuta tanto algida da non tiepidare mai più. Qualche Nume in Olimpo deve aver preferito l’acre fumo dei libri a quello grasso e sfrigolante degli agnelli, ed in quello monsignor Francesco Bysso, ordinatore del fuoco, deve avere subodorato lezzo di carne deviata. Perché gli agnelli si bruciano per gloria, i libri per vanità. In materia di questo impero che danno i libri e di tavola imbandita del loro montante arengario, può osservarsi che il loro collezionamento (o lo scriverne qualcuno, che quando non viene abortito è come mettere al mondo un figlio dopo averne adottati tanti) si equivale all’immaginifico esercizio di uno jus populandi. Infatti ogni testa è un deserto che va trasformato in feudo e questo a sua volta va popolato di uomini e casali, e rimontando alla testa va popolata di libri. Perché in verità ogni testa è un libro e non sa stare se non tra i libri, e quando la testa nasce è un libro bianco, libro da scrivere, desertico. Il seno della madre prepara tutt’al più la carta e lo scrittore. Dio disse ad Adamo: tu non leggerai di quel libro. Era caldo d’inchiostri, dal titolo breve e stimolante, manuale, articolabile sin da mantrugiare, ben rilegato, forte e cedevole. Lo prese Adamo dallo scaffale fiorito, lo lesse e segnò. A leggerlo parlava, imprevedibile ben oltre copertina e risvolto. Dio disse: crescete e moltiplicatevi - scacciando i due libri dalla libreria terrestre, perché l’uomo peccando s’era fatto libro e il libro donna, diventando la stessa cosa, l’uno metafora dell’altro. Si aprì l’era della mano, delle stagioni e del lavoro: un mondo di libri, un mondo di uomini. Anche gli uomini, invero, si collezionano come libri. Ci imbattiamo in essi per caso o li ricerchiamo per titoli di testa, di vita o di utilità. Li curiamo a lungo o li scartabelliamo curiosamente, in odio o in amicizia. Li mettiamo all’indice o li sentiamo nel nostro pensare, nel loro pensare, raddoppiati o sdoppiati. Ormai non è più lecito bruciare gli uomini quasicchè fossero di carta, come si soleva quando era possibile bruciare i libri, ma il diritto positivo trova dissenziente e scellerata l’immaginazione di alcune coscienze rituali, che in cuor loro durano ancora a bruciare e libri e uomini. Ci sono libri che continuano a vivere come uomini in carne ed essa, influendo, agitando e mettendo in discussione ogni presentanea certezza informata a fronteggiare il solo futuro. Questi libri ritornano o so-
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pravvengono capricciosamente e casualmente, ma ci deve pur essere una legge ancora sconosciuta che presiede alle cadenze di tali meravigliose intrusioni, una legge insita in ogni presente per la forza e la tara di quel passato di cui è ineludibilmente segnato. Dunque il passato si presenta, coerede, assieme alle attese future, del presente. Quando ci siamo, non ci siamo, ma è così che padroneggiamo il tempo. E ci sono anche uomini che finiscono col trapassare in libri. Lazzari vengono fuori, Lazzari s’introducono dentro. A guardare una sola cosa alla volta è sempre un miracolo, ma il tempo è un bilancio. E finiscono, gli uomini, col trapassare in libri o perché li scrivono o perché vi vengono iscritti, prelevati, introdotti, infilzati come farfalle per le aluzze nelle campane di vetro. Alcuni muoiono sul serio, altri vanno avanti e indietro per i libri, padroni e felici. C’è chi viene studiato a piacimento degli autori, scolato di certe scorie, manipolato, fruconato. Chi scrive trova spesso tutto il male che fa, tutto il bene che vuole, perché concia a piacimento, imbelletta con cere ed argille, imbottisce come paglia nuova. Cosicché se alcuni uomini vengono messi in libri, questi libri diventano i loro autori. Per Lazzaro che esce c’è Lazzaro che s’inoltra. Forse la storia non è altro che il rimedio intellettuale al passato, un gioco per non cambiare il tempo dei tempi. Ma se di alcuni uomini che furono, tornati in libri, possiamo leggere, di altri ignoti sappiamo che furono libri non scritti, o impossibili da scrivere, o libri bruciati. Uomini, cioè, di fantasia, vissuti come strambotti popolari, distici o quartine o ottave, secondo quel che fecero, dissero e sentirono. Ed altrettanto ignoti ci furono quegli uomini che non poterono essere i loro autori. E’ tutto un mondo sommerso, lontano dalla nostra lontananza, impareggiabile per la nostra impossibilità ad invertire i due capi del rapporto, mellifluo eppur marmoreo. Molto di questo mondo è andato definitivamente a fondo, dunque ci affidiamo scetticamente al futuro. Di una parte di esso è possibile tentare un recupero, celando il pugno nel fondiglio della brocca per una presa d’olive, come avvenne a quel villico che poi per la mano ingrossata non riusciva a sprigionarsene: né gli veniva in mente di lasciar la presa, idea che ebbe invece il gran medico Serroj (ma c’è chi dice e giura: Martinez) chiamato in gran fretta a quel ridicolo capezzale di bestemmiatore prigioniero della brocca. Serroj o Martinez ebbe l’idea: lascia le ulive. Il villico liberato voleva sapere come e in qual modo avesse fatto il medicone, non già quanto all’idea, di cui ora si capacitava perfettamente, quanto piuttosto alla trovata. Perché una
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idea, pensava alla maniera di Platone, esiste di per sé e nessuno ci ha merito, ma nel prenderla, nell’averla, nel capirne il lato giusto, in questo stava la genialità del merito. Non basta l’idea, diceva, ci vuole la trovata, che gli costò due uova di casa per complimentarsi col medico. A voler poi sottilizzare, che sono le uova se non le idee della gallina e le trovate degli uomini? Anche il Bugeja, come si chiamava il villico, non era meno del medico. E per sottilizzare ancora, non vi sembra che il Bugeja sia tutto d’un pezzo il prototipo del Li Casi de la Giara di Pirandello? Con la distinzione che il Li Casi si calò nella giara quand’era fessa, larga una vera di pozzo, mentre il Bugeja calò il braccio nella salamoia di una brocca integra e non per effetto di restringimento del suo collo si sentì catturato. Integra era l’anfora, non s’era mossa, il collo breve e rigonfio, il labbro cianotico arrotondato, le anse rettilinee sezionate a nastro. Cosa da chiamare il medico, com’era avvenuto. La testa del Bugeja era rimasta fuori del vaso e del sortilegio, tuttavia non s’era potuta capacitare; quella del Li Casi era finita invece dentro il grande orcio, divenuto la sua nuova casa, la sua complessione, il suo mondo. Coltivata da Pirandello la vicenda del villico diventava storia diogenea, esistenziale e cosmica; metteteci la notte, la luna, il baccanale; i simbolismi e le ambientazioni arabici ed ellenici colti dalla popolarità delle terre girgentina; e l’epilogo sordamente sonoro e polveroso della terraglia - vero parto di Giove; metteteci cioè la cultura di chi colleziona libri, libri scrive e libro diventa: mentre la povera vicenda del Bugeja fu breve storia vera, dunque non verosimile. Ed è dell’uomo, se rimane schietto ed alieno dai libri, la dimenticanza. Altra importante distinzione mi pare la mancanza di un personaggio dalla trovata decisiva, quale non è l’avvocato chiamato per consulto dallo Zirafa. Paglietta, anzi affarista come i vari Broccio, Luca Gallo, Candeloro e i cento altri calabroni del foro di Girgenti, l’avvocato non riuscirà ad avere l’idea, a tagliarne il laccio che la tiene sollevata da terra, nel mondo iperuranio, come un caciocavallo o una forma di provola nella trave del soffitto. Il medico del Bugeja aveva invece tagliato il laccio. Esponendo il ventre alla luna tutta una notte, discettavano i medici arabi del medioevo, si sgrava il ventre, il corpo si allucina, smagrisce e si alluna come levriero. Sono le manifestazioni della licantropia. Se l’avvocato avesse saputo! La notte del baccanale era di luna, forse il Li Casi sgravato e sma-
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grito sarebbe potuto fuoruscire della giara senza romperla, e questo per effetto di quella stessa luna per cui invece la ruppe. Sembrano parenti stretti del Bugeja, loro antenati, i personaggi di una vicenda occorsa ad un umile infermo girgentino, e che ha l’aria di essere più antica di quella, tant’è che dell’infermo si è smarrita la cognominazione. L’infermo era dunque grave e allettato, e i suoi si davano da fare per strologare il male. Morendo non avrebbe lasciato che il letto, i suoi non avevano interesse che morisse, guarendo lo avrebbe lasciato lo stesso, ed una volta alzato avrebbe portato a casa qualcosa. Strologavano invano, il male era forte. Qui ci vuole il medico, disse un giorno un familiare, e medico fu. Sapendo del medico tutti i parenti si presentarono per sapere, per vedere, per rubargli il mestiere. L’infermo fu visitato come un materasso da comprare o prendere in pegno, per ogni costura e sella anatomica; spianato, picchiettato come per sentirvi cavità di rosumi o suono di sepoltura, auscultato per cogliere spasimosi pigolii negli invisibili midi del male. Borbottando il medico testificava tra sé e sé mali, rimedi, sospetti, esclusioni, chissà. Oh Dio, capirci qualcosa! Alla fine di quella messa trasse dalla borsa un calamaietto una penna un foglio e vi prescrisse qualcosa. Si accostò alla parete di tufo, vi stropicciò i polpastrelli e lasciò sfumare sul foglio la polverina erosa, che sembrava tabacco di naso, per asciugare e scolorire la scrittura fresca e imperlata d’inchiostro. “Fate quel che ho scritto e guarirà”, disse evangelicamente. Il malato chionzo e lagnoso lo guardava come per dirgli: non si preoccupi, ci sono anch’io. La cura fu meticolosa ma l’infermo non guariva; venne richiamato il medico. “La pozione, quante volte gliel’avete somministrata?” - “Tre volte al giorno come ha detto vossignoria abbiamo grattato il muro, proprio nel punto dove vossignoria ha grattato, e la polvere gliela abbiamo dato con l’acqua. Se non ci credere, guardate il muro, una fossetta si è formata che ci si potrebbe mettere un lumino”. Ignoriamo la reazione del medico. Si sarà scompisciato dalle risa? Avrà contrapposto all’accaduto una pietosa dolente pedagogia? Si sarà recato nel caffè di Romeres o nel Casino Empedocleo a sfottere quei montoni che avevano due dita di fronte in testa a due dita di fango sotto i piedi? E il malatello? Tutt’ossa e pelle mezzo morto, aveva voluto soccorrere i suoi, sacramentando con un filo di voce e gli occhi che si aggrappavano ai confini della luce che la cura era stata precisissima. Il medico aveva da raccontare a casa a quell’angelone di sua moglie, e poi al Casino e al Caffè. Quando uno sa di una storia buona,
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dramma o farsa che sia stata per quelli che ci sono stati, se ne avvale e la racconta per venirne fuori. Oppilati di mente, quell’infermo e i suoi familiari? Cervelli di macco? Cardoni e torzoli di cavoli? Dite per vostra importanza come vi aggrada ma non diteli privi di una loro cultura, che certamente non era quell’incultura e rozza ignoranza che buona parte della borghesia girgentina addebitava ai villici ed alle classi subalterne. Ma procediamo con ordine. “Fate quel che ho scritto e guarirà” - aveva detto il medico. Facile come la parabola del cammello che non entra nella cruna dell’ago. Per comprenderla la comprendi, ti entra, ti pervade tanto ricca da sboccare. Ma se vuoi comprenderla con finezza e cautela di scienza non si fa’ incrunare, ti trema il senno. Ogni attimo una greggia di cammelli entra nella cruna dell’ago, piccolo arco di trionfo della prevaricazione. Vero e falso, possibile e impossibile non sono uguali per tutti. Per quei villici il medico non era stato retto; invitando a fare quello che aveva fatto aveva scritto cosa diversa del suo fare. Con la scrittura aveva incomprensibilmente annichilito il gesto. E posto un dilemma che solo lui conosceva, con la lingua lo aveva deposto. Di comprendonio quei villici ne avevano uno soltanto, avevano fatto il fatto del medico; perché uno che nel fare scrive, che cosa può mai scrivere se non quel che va facendo? Non sapevano di scrittura, della sua possibilità di peccato del gesto. Il gesto dato aveva obbligato: ora, senza quest’obbligo la vita sarebbe torre di Babele; ma da un ceto all’altro di uomini è sempre torre di Babele. Se il peccato originale venne consumato nel passaggio dai nobili istinti animali all’eccelsa e bisbetica ragione umana, la prima inane ingiustizia venne consumata certamente coll’invenzione della scrittura. Pur avendo commesso il peccato d’origine, quei villici erano ancora immuni dalla scrittura. No, non erano propriamente incolti. La collisione col medico era stata come nel rapporto difficile tra il Santo e il prete: San Calò fa’ i miraculi e’u parrinu dici’a missa. Come per dire che la messa sembra più difficile dei miracoli, con il latino, la teatralità e la teologia che richiede. Il miracolo invece è semplice: un attimo che obbliga la natura, come per esempio quando il cammello non passa per la cruna dell’ago. Eppure c’era e forse ancora c’è in certe zone della borghesia agrigentina un oscuro maledetto desiderio di ritorno, di sommersione e sprofondamento, per raggiungere e palpare attraverso una flessione di classe la propria scaturigine e da lì ritentare, se possibile, una nuova
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avventura del cosiddetto spirito, dell’autorappresentazione, una diversa evoluzione di ceto: meno triste e aberrante di quella che ha portato alla fulgida, vivissima, inutile ed ironica intelligenza locale e quindi alla sua castrazione. Ogni agrigentino con la coscienza di essere una bella copia di cittadino, o con la spocchia e la pretesa di divenire tale, si colleziona di un gran numero di brutte copie, ora sciolte ora allegate, da sfogliare, chiosare, compulsare, appallottolare e distruggere a piacimento, secondo i comodi e la temperie dei tempi pubblici e interiori. Brutte copie e non maschere: queste camuffano secondo i tipi posseduti, prive di caratteri organici e compositivi, e non vanno mai oltre il numero del loro armamentario. Volete mettere le brutte copie? Appunti, scalette, note, tentativi possibili di vita, di memoria. Compongono un alfabeto con cui ciascun agrigentino provvisto della coscienza di essere una bella copia sa essere quello che vuole o, senza scelta, quello che può. Ora queste brutte copie sono fatte di umanità disossata, di vita estrapolata; sono aneddoti, fattarelli lubrici o dolorosi, acuzie rinvenibili a bacchetta, ardiri ed ottusità, baleni e ciance acrimoniose, memorie bianche come grandi vele ingravidate dal vento, memorie verdi come barche affondate da secoli, memorie nere come il pozzo senza luna. Grazie a queste brutte copie la cultura borghese agrigentina rigonfia le forme delle proprie facoltà, si dà una gabbia universale, vi svolazza come uccello in gabbia: pinzando, spiumando, trillando. Sola e in vista solo della propria logica drammatica, si autoplagia, si percorre, si infetta. Nessun uomo che non sia un libro o un suo macero, una sua slegatura, è tanto adoperabile quanto l’uomo agrigentino. Quando parliamo di ceti sottomessi troviamo un parallelismo nei libri sottomessi, dal sangue succhiato, defezionati o defenestrati; rovinati, ricordàti a volte da strane superstiti accensioni di memoria per loro particolari. Il padrone parla per bocca degli schiavi, quando poi vuol tacere uccide gli schiavi. Un concetto, una locuzione, a volte un aggettivo che procede a braccetto con un sostantivo, come figlio col padre. Ricordiamo l’appunto. Tutto qui d’un libro, quando non è più nel novero del nostro essere libri. Non diversamente avviene dell’uomo da parte dell’uomo; c’è naturalmente un problema di subordinazione, ed anche la storia, o il tempo che le occorre, determina circostanze similari. Ma come è potuto avvenire la trasformazione di uomini in coriandoli, per la fretta dei committenti? Come si è potuto mantenere in vita
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qualcosa di uomini travolti e dimenticati? Degli scomparsi si può ricordare il loro essere stati attori, come li abbiamo fatti noi o coloro ai quali ci colleghiamo o dai quali, con i loro identici bisogni di supremazia e di cultura, discendiamo. Come, in sostanza, li abbiamo voluti. Forse sono i vivi a creare e fornire l’anima ai loro scomparsi, rubando lo spirito alle vittime designate, a coloro che votiamo così alla scomparsa definitiva. La cultura della subordinazione, anche nei termini di una storia della subordinazione, è commercio di anime in numero insufficiente per tutti. Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli, beati coloro che saranno stati derubati dell’anima perché ne avranno una. Alla fine della storia solo gli esclusi avranno una storia. La microstoria agrigentina pullula di polvere umana, di innumerevoli bagliori di esistenze. I poveri di spirito non sono mai stato altro che i derubati di spirito. Per giustizia gnoseologica, se vogliamo conoscere qualcosa del mondo sommerso dobbiamo costringere quello emerso e storiograficamente solidificato a restituire qualcosa del maltolto. Sembra che una delle principali attività della borghesia agrigentina sia consistita nel passare il tempo, dominandolo nel paesaggio, e con esso dominarne le pericolose eventualità. Da qui un assoluto silenzioso controllo dei ceti subalterni, del contadiname innanzi tutto. Si conveniva ed osservava una scrupolosa uguaglianza degli uguali, a scapito naturalmente degli ineguali. Gli uomini scelti a campione degli uomini che non dovevano esserci, venivano trasformati in diceria, in nome, in facezia, in storiella. Di alcuni non si poteva fare a meno di reinventarli integralmente in personaggi, cioè in macchine sottane, organi e condotti divaganti. Ogni divagazione era un diversivo. Mentovando, citando, raccontando non si faceva che licenziare i soggetti: bollandoli per sé, per le loro comunità, per le cerchie e condizioni di appartenenza. Esemplari a tal proposito risuonano le cognominazioni attribuite agli esposti, detti con termine compendiativo e sbrigativo “muli”: a quegli esserini abbandonati appena nati, per lo più paonazzi, ignudi e moribondi, negli angoli delle strade, dietro le chiese: esposti quindi alla pietà dei ceti che maneggiavano le leve del potere ed amministravano la Città. Venivano invero raccolti, avviati all’ospizio, ed immediatamente battezzati e cognominati: a centinaia, ogni anno. La madre naturale, da lì a qualche giorno, avrebbe offerto al Comune i propri servizi di balia salariata, riappropriandosi del figlio. Ma a quel punto lo trovava e riaveva con un cognome diverso da quello maritale, marchiato d’in-
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famia. Ufficiali dello Stato Civile e Sacerdoti trasformavano il bambinello in un lazzo, in un crudele o risibile o evocatore appunto. Lo chiamavano con nomi di animali: Pernice, Pecora, Rana, Lumaca, Aglino, Pappardello, Mosca, Lupaccio, Siccia, Picchio, Cavallettone... O gli attribuivano nomi di vegetali: Persico, Mellone, Radice, Zucca, Olivano, Pomorosso, Droga, Giunco, Zuccone, Gramigna, Pironello... O gli appioppavano nomi comuni: Cirino, Libretto, Mare, Cenere, Tabacco, Croce, Ferro, Coppola, Stivale, Ricotta, Bomba, Sporta, Macco, Pentola, Tenaglia, Scatola, Precipizio, Maccarrone, Chiave... O gli aggiudicavano un aggettivo volto in cognome: Pazza, Ripulita, Raccomandata, Matutino, Oscuro, Infermo, Irritante, Molesta, Penosa, Miserabile, Rimina, Pagano, Pernicioso, Buffo, Penitente, Pilato, Orribile... Non mancano un Giuseppe Squilibrato, un Giovanni Graziato, un Luigi Scillirato... E poi Feroce, Tonante, Mortale, Soppresso, Scaleno... Quei roganti, ufficiali e ufficianti, avevano un mattone al posto del cuore, la saliva di fiele, avevano una coglia al posto della testa, ma quella coglia tutelava e sviluppava il pensiero dominante della classe borghese di cui erano i rappresentanti intellettuali, economici e amministrativi. Esso sta alla base del pensiero e della cultura contemporanei agrigentini quali storicamente sono andati ponendosi e sviluppandosi. Altrove, in Sicilia, venivano attribuiti ai poverelli sputati soli a questo mondo cognomi di sorvolante pietà, correnti, mascheranti, tali da non incutere spregio e lancinamento. In Girgenti la bollatura della prole umana segretamente espulsa in casaleni e catodi, frettolosamente abbandonata sulle strade notturne alla mercé dei passanti (se pure non avessero la meglio i cani) ubbidiva invece ad una luciferina sottilissima logica dominicale e soprastante: offendere la coerenza dell’umiltà, depravare la povertà, ottunderne e confonderne l’antica cultura nominativa e comunicativa, sconciarla. Quei cognomi, agganciati come collari, venivano sguinzagliati e internati nel tessuto delle classi subalterne per sottoproletarizzarle e scardinarle vieppiù, per renderle quindi internamente irriconoscibili. Erano umori velenosi e alienanti iniettati nella carne del demo per riderne ma anche per indurlo a irridersi. Da parte dei forestiero esterrefatti poteva quindi dirsi che il nome della Città stesse per Agri-Genti. La nomea, diffusa, era diventata isolana. S’era coniato il motto - AgriGentu, bedda la Città, Agri-li-Genti. L’antico Libertino, il santo vescovo domestico martirizzato dai suoi correligionari, non aveva forse defi-
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nito gli agrigentini Gens Iniqua, Plebs Rea? Certo lo aveva ucciso chi poteva, e si può anche uccidere con i nomi, e Libertino lo ha fatto; anche i roganti e i padrini degli esposti lo hanno fatto. Penso agli arceri dei cognomi, al loro quotidiano lavoro di specillarli, assembrarli, deciderli tra quelli possibili senza alcun limite, di gusto o di pubblica morale, dal lato dell’impossibile. Era possibile chiamare una bimbetta Troja o Assassina. La si chiamava Troja o Assassina, diventava possibile. Penso ai primi dicitori di quei cognomi, signori grassi o improsciuttiti, in giogaie o pappagorge, dalla faconda buaggine o dalla controllata malvagità. I neonati, appena mondati dal peccato originale, erano fottuti da un cognome strepitoso, amplificativo. I signori prendevano appunti. Ogni conio, per quanto dettato da contingenti e beceri moventi, da concomitanze di calendario, da causalità climatologiche, da associazioni d’idee o da fonde inspiegabili voglie, tendeva a mortificare la bassa popolazione in cui tutti i proietti cresciuti si sarebbero ritrovati per gravitazione e reiezione sociale. Cosicché scacciando i proietti i signori cacciavano gli operai, le basse maestranze, i villani, i bordonai, i martellatori e tutti coloro che stavano socialmente affondati. Coi loro appunti i signori facevano la guardia al mondo, e quel mondo era Girgenti l’altro ieri. Ecco perché s’incanivano sui neonati, non perché avessero colpa ma perché loro malgrado avrebbero finito col ritornare utili in quella caccia alla distanza. In vitro questa storia si rinveniva nella sozza e satisfattiva occupazione di un riccone, certo Sajeva, che per proteggere dai topi il ripostiglio delle grascie e delle derrate di casa, ne intrappolava qualcuno, ne imbottiva e sarciva la sacca anale di peperoncino, e libero e pazzo e affetto da satiriasi lo lasciava, perché sgominasse i suoi simili. Ripeteva ossessivamente che i sorci lo proteggevano dai sorci. Allo stesso modo i derelitti proteggevano gli abbienti dai derelitti, ma a tal proposito gli abbienti dovevano darsi da fare, e in cento modi, compresa l’attività cognominativa, si davano invero da fare. Anna Sventurata non si sarebbe mai più avventurata, Gaetano Infermo non sarebbe guarito mai, e ciascuno dei suoi figli sarebbe stato un Infermo. Gaetano Disgraziato non sarebbe mai stato lustrato. E che dire di un Ambrogio Precipizio, di un Andrea Sicarro, di un Michele Acquadimare? Costui tutta la vita si sarebbe sentito palleggiato e incalzato da frasi del genere: proprio d’acquadimare dovevi essere - fossi stato almeno d’acqua da bere come quella di Zunica - solo buona per lavarvi le pecore prima dell’estate, l’acquadimare - neanche buona per
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salamoja d’ulive. Il nostro divenne mandriano e gli appiopparono il soprannome di Fetu (Fetore). Almanacco che un giorno qualcuno, subodorandolo, si sia lasciato scappare “puzzi, malgrado l’acquadimare che sei”: così, o in modo consiliare e relative, può essere stato inferito quel soprannome. A cognomi decisi per citazione eruditica o per sfizio culto venivano gemellati nomi giustapposti. Si puntava sul ridicolo divario tra portatore e portato, su effetti che le vittime non sarebbero mai riuscite a sbrogliare, su baie che non avrebbero saputo comprendere, anzi si confidava proprio su questo. Negli anni a venire gli apportatori avrebbero potuto seguire le peregrinazioni dei loro scherzi viventi. Già a priori questa possibilità riusciva esilarante. L’omerico Achille Armigero sembra assimilato ad un soggetto dell’opera dei “pupi”. Filippo Magno con la propria magnitudine vuole anticipare quella del figlio Alessandro, mentre se ne insignisce “ex post” per sovrana arteriosclerosi, buio delle vite distrutte promana Giuseppe Chesanto, manifestamente riferito al Patriarca di Nazareth di cui all’anonimo infliggitore era devoto. In Ilaria Uova la forestiera delicatezza del nome viene smaccata dal sostanzioso realismo del cognome; e poi Ilaria sarebbe stata chiamata Laria e quindi Ladia. Per ragioni di rima ci imbattiamo in Lorenzina Tappina e in Agatino Matutino, e in altre ricercatezze di questo genere sperimentate “in corpore vili”. Il saturnismo quaresimalistico e la cornucopia agiografico-scritturale raggiungono esiti di tremenda maestà impositiva: Domenica Passione, Santa Cenere e via dicendo. Il nome di Maddalena impone i cognomi di Penitente, di Sventurata e di Troja, ed altri consimili. Prescindendo dal grado dell’affettazione ipocrita, dicevano la stessa cosa. Evinciamo dagli atti di morte che quelli tra gli esposti bollati dai più orrendi cognomi decedevano (non tenendo conto del numero di quelli che non riuscivano a raggiungere la maggiore età) per lo più da “schietti”: aggettivo la cui antica e lucida metafora morale risultava, nella fattispecie, sconclusionata. Quegli schietti erano alberi senza rami, senza fogliatura e senza radici, alberi senza albero. E trovati nelle vie, dopo una vita combattuta dalle difficoltà e difficoltà moltiplicate dal sospetto, andavano a trovare la morte, che era un’altra esposizione, la trovatella meno desiderabile. E la morte era, a ben guardare, più continuazione che fine. Forse morendo si davano quella paternità che non avevano avuto e facevano tornare i conti.
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Questo non fermarsi, questo rimanere schietti può essere messo in relazione ai cognomi someggiati. Comandati da un nome, erano entrati nella sua parte, ne avevano servito il sortilegio. Per questa via si finiva col controllare le loro inumane formazioni umane e i relativi meccanismi procreativi. Certi nomi comportavano sterilità, divaricazione di vasi, ripulsa. Invero coloro che davano un nome davano un destino, scusandosi col dir - se mai li adescasse rimorso - di averlo semplicemente desunto o giocato come indifferente numero. Forse i signori non lo sapevano e non lo volevano, carichi di possibilità e di abitudini, ma tutto questo gli riusciva lo stesso. Il sistema di potere è sempre perfettamente pensato e il ruolo dei protagonisti e dei partecipi è solo quello di conservarlo. Le vite dei protetti venivano dunque scritte tutte dai cognomi. Erano libri bianchi col solo titolo che si moltiplicava per rotazione, per cariocinesi quotidiana, per un turbinio esistenziale. Il titolo finisce collo scrivere il libro. Nulla per esempio sappiamo di Rosalia Scanzatravaglio, ma la sua vita non può essere stata che la vita di Rosalia Scanzatravaglio. Si è arrabattata come ha potuto: lavandaia, carbonaia, spigolatrice, tanti duri mestieri da Scanzatravaglio. Tutti ignoriamo delle sue coetanee borghesi di due secoli addietro, dai cognomi onorati e inappigliabili. Il paradiso è più sbiadito dell’inferno, sembra anzi un inferno tramontato. E quand’anche ci imbattessimo nel cognome dell’amministratore comunale o dell’ufficiante che Scanzatravaglio scelsero e attribuirono (compreso l’errore di ortografia) probabilmente non ne sortiremmo alcun dovere biografico: sono veramente morti. Ugnata dal cognome che le diedero a portare, invece, Rosalia Scanzatravaglio ci appare ancora viva. Morta da schietta, non è da escludere che abbia conosciuto il letto per faccende diverse dal sonno o dalla morte, e la smentita del suo cognome può essere accaduta, se pure avvenne, proprio a letto, per un diverso sorprendente zelo. Se invece visse da schietta verginale e mai toccata, il suo cognome può averla lapidata sotto il peso della virtù, e con la celia che anche in quel campo fosse scansafatiche. Non è vero che non sappiamo nulla di Rosalia Scanzatravaglio. Per quell’essere che fu ebbe sempre una smentita, dolorosa o accordata ma giunta sino a noi. Perché un tempo cognomi come quelli che abbiamo letto potessero venire attribuiti usualmente, è mestieri di istituirne la possibilità in una plurisecolare e tardigrada cattiveria di generazioni impilate e
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insensuali, arricciate e incarognite in loro cultura dedita implacabilmente alla propria omologazione. Per allignare e assuefare quei cognomi, per renderli totalmente possibili, bisognarono decine di migliaia di uomini abbienti, di foro, di chiesa e di studi. La responsabilità non può essere tutta addossata, anche per la parte che “in illo tempore” fu di merito, ad una manica di cialtroni addetti agli stenti comunali ed agli occasionali battesimi dei cosiddetti muli. Nonostante la complessità della compagine ogni città ordisce funzioni semplici e unitariamente impressionanti. Girgenti era anche una ameba che si macerava, si dava fama di città letterata, luminare, erudita e didattica. La sua vita grama, titillata da cospicue risorse imbalsamate e infeudate dalla chiesa, ora si inaspriva e ora si spossava di privazioni, di torbide querimonie, di serpeggianti ribellismi, inturgiditi regolarmente dalle periodiche penurie d’acqua ed in concomitanza con la festa di S. Calogero, che dava quel po’ di coraggio necessario ad alzare la cresta. Al di sopra dei brividi di questa maretta s’alzavano e correvano le onde lunghe dei ricorsi storici, delle querele apologetiche rimirate alla “grandeur” del passato e a quel che la città credeva di essere rimasta. Invero la sua società viveva di servigi conserti, di correlazioni e propinquità mutualistiche che ne facevano un sistema chiuso ed autarchico nel senso più deteriore. L’esprit dei cittadini era spesso malizia e maldicenza. L’acutezza, fondata sull’esercizio e sulla disciplina della rettorica, ingenerava grandiloquenza. La sua ricaduta nella quotidianità si risolveva in un furore analitico alternativo agli esiti di una ironia struggente e dissociativa o al dramma magniloquente capace di magnetizzare e annichilire futuro e passato, ponendo al loro posto un presente falsamente ideativo del tempo. La città viveva all’infuori dei circuiti economici e culturali dell’epoca: basta leggere i titoli dei libri presenti nel ‘700. L’attenzione era interamente rivolta alla erudizione. Girgenti era dunque stata in grado di incutere quei cognomi che abbiamo visto, grazie ad un potere monoclassista, coerente fino al rifiuto della modernità e particolarmente attrezzato a resistere ad ogni rischio di implosione che tuttavia, per questa via, veniva ad essere provocata e progettata: com’è regolarmente accaduto nella seconda metà di questo nostro secolo. Il culto del potere era dunque altissimo, anzi Girgenti non era altro che potere, anche rispetto a sé stessa. Per quello che è sopraggiunto e che non è poco, è interessante porre mente al potere che i politici
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credono di avere proprio sul potere, e al potere che hanno coloro che ne sono fatti oggetto di sentirsi quasi protagonisti della loro sottomissione. Null’altro che una divisione del potere. Ancora migliaia di volte risuona in città la frase: comandare è meglio di coire. Si sia capostanza o aiutoinfermiere, capocondominio o archivista capo (per non parlare di essere qualcosa in più) comandare è meglio di coire. E’ certamente una metaforica perversione, ma viene da lontano come una barca piena d’uomini i quali certamente non possono dire che la barca è venuta da lontano senza, per ciò stesso, narrare la loro avventura e collocare in seconda linea quello della barca. Dunque comandare è meglio di coire. Osservo che, per quanto abbia aguzzato l’udito, la locuzione risuona male e di rado nel resto di Sicilia. E’ una frase tipicamente nostra, chiatta e mondata. Oggi anche le donne la pronunciano sempre di più; d’altronde non hanno mai ignorato i due termini del giudizio, e possono prendere partito. La norma motiva tanto chi esercita il comando quanto coloro che lo subiscono. I primi perché lo fanno in quanto lo possono, i secondi perché lo farebbero se lo potessero. Ma chi subisce si immedesima in chi lo sovrasta e prevarica, appunto perché comandare è meglio di coire. E’ il caso di riflettere che il significato del verbo non depone per un concetto di buon governo, di governo necessario o altro similare. “In loco” il comandare designa l’uso e l’adoperamento di una funzione di supremazia, senza valore che non sia per il fatto di poterla esercitare. S’intende che la funzione comporta affermazione di posizionamento sociale, emungimento e profittazione economica per effetto del comando. Anche il coire, d’altra parte, comporta notevoli soddisfazioni: eppure, al confronto, viene posposto. Comandare, in sostanza, è un coire che non si ferma al coire. Un coire che dura, che rende, che si somatizza. Le scellerate apposizioni cognominative su cui ci stiamo intrattenendo rappresentano atti ricognitori e gratuiti di un comandare che è meglio del coire. L’esposizione e l’inferenza, muovendo da un baluginante presupposto morale, possono essere così: non dovrei ma posso, dunque debbo. Nella microstoria di Girgenti si coglie reiteratamente una estatica accettazione dell’ingiustizia. Ogni sofferenza era correlata al godimento del comandare. Per quanto graduati i due momenti appartene-
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vano alla stessa vite. Vedevamo che il sistema del potere girgentino era chiuso e perfetto ed internamente abissale. Se i trovatelli incappavano in cognomi lunghi tutta la vita e discorribili finché durasse, da altri uomini si voleva che si aprissero come libri, che si vivessero - magari senza saperlo - come se si scrivessero. Che si facessero leggere pure a lungo, anzi il più a lungo possibile, persino dopo la morte. Erano costoro i personaggi tipici, le tipiche figure: soggetti toccati da deficienze o malattie, o sventuratamente finiti nel coppo della pubblica attenzione per casi ripetutamente accadutigli e dai quali si potesse prendere lo spunto per stare alla posta, per tendere agguati alla vita, per notomizzarne le tramature. Cave e cavie nel medesimo tempo: liberi di vivere per produrre il massimo di situazioni, di figurazioni, di materiali fabulatori, di inconsapevoli aneddoti, novellette e facezie, ma nel contempo tenuti a farsi fruconare, estrarre, mentovare a uso dei loro clienti. Erano dunque uomini destinati ad essere raccontati: soggetti di burla, di sperimentazioni, di impietose analisi della loro umanità fino alle soglie dell’inumanità, dell’atomismo scompositivo e ricompositivo; uomini declinati in tutte le possibili digradazioni; declinati anche nei regni che non son propri dell’uomo ma della pianta flessiva, delle pietra balorda o della bestia padrona sempre di sragionare. Qualunque fosse la loro estrazione, costoro venivano chiamati ad una sottoproletarizzazione peculiare ed elettiva. Verso il sottoproletariato infatti la borghesia di Girgenti era molto permissiva ed incoraggiante: l’allargamento della sua base avrebbe permesso un maggior riposo della propria base. Cosicché se mancano ad esempio norme e provvidenze in favore dei lavoratori poveri, non mancano mai quelle in favore dei poveri non lavoratori. Le cosiddette opere di bene venivano predilette e preferite a quelle di utilità sociale. Era quindi il sottoproletariato non già l’area di cultura quanto quella di riporto dei “personaggi” assunti della città per farne i suoi pubblici teatranti, le sue onorate vittime, l’oggetto dei suoi parlari e dei suoi spiriti. E questo accadeva a prescindere dei mestieri che i prescelti potessero esercitare o avere esercitato, dei cognomi posseduti o delle collocazioni familiari. Ogni elemento di agnizione personale andava obnubilato: i prescelti venivano assunti in ruolo sottoculturale a servizio della cultura del potere. Essa voleva essere ludica, esperta, sperimentatrice, gioiosa
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e vivissima. Richiedeva dunque vittime, prove, riscontri. Era disposta, relativamente, a confrontarvisi e ad illustrarle. Questi personaggi di spasso e di piazza, noti se non più noti del vescovo e del sindaco, poterono assolvere al compito di assicurare ai borghesi, a loro libito e bisogno, la possibilità di pasteggiare con spocchiosa bonomia una delle primarie occupazioni riempitive della vita, l’autoconservazione e l’elevazione sugli altri. Ma le vittime, questi uomini ridotti e riformati, reagivano come potevano, spesso portando alle estreme conseguenze l’articolazione delle pagliacciate che subivano. Controriformavano il loro ruolo, la facevano da specchi. Per la storia, era una partita tra due condizioni di uomini. In taluni casi le vittime erano predestinate: per particolari fisici, per peregrine inclinazioni, per pietosissime ed aizzate infermità mentali, o perché avevano dato luogo senza volerlo ad una esilarantissima situazione ed erano tenuti a comando e a pagamento a reiterarla. Uno dei personaggi più antichi di cui si conserva memoria pressoché sbiadita è stato Giurlannu Gammi Sicchi, facchino e in particolare trasportatore di carbonella di legna. Malfermo sulle cannelle delle gracilissime gambe, sotto il peso di enormi coffe che fumavano di nerume, per mancamenti che apparivano sfizii soleva incorrere in strepitose e mirabolanti cadute. Il bello veniva, dopo, al tentativo di ricaricarsi, di rimettersi sotto le coffe, solo aiutato dalla propria ombra, nel cerchio degli spettatori che lo aiutavano a voce contorcendosi dalla partecipazione e dalle sghignazzate. Lo seguivano per vederlo cadere, non v’era portatore più accompagnato. Si ricaricava a stento e per lunghi miracoli, ed ecco un signore del pubblico buttargli a terra la moneta per ripagarlo del disturbo. Gammi Sicchi finiva col cadere di nuovo, nel tentativo di scaricarsi del fardello e raccattare la moneta; la puliva, la intascava e riprendeva a sollevare le coffe, a farsi piccolo sotto il peso, ad allungarsi sulle maledette cannelle. Una nuova moneta roteava a terra sotto i suoi occhi, come una trottola civetta. La storia finiva col ridere dei soldi, o meglio coll’inaridirsi del buon cuore degli elargitori. Giurlannu andava in pace ma non poteva non cadere, forse era un misero gracile odioso profittatore, o uno che vedeva cadere gli altri quando cadeva. Arzillo, invece, e vispo, farfugliante, gli occhi scerpellati sul naso lungo affilato, era Japicu il facchino, specializzato nel trasporto di grandi e compatti carichi da un capo all’altro della Città, specie in salita: sacchi accuratamente legati o vecchie valige o cartoni che conte-
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nevano spesso sterro o pietrame. Lungo il tragitto il committente si defilava, ma all’arrivo erano in molti ad attendere il trafelato lavoratore per assistere alla sua pantomima ed udire bestemmie sempre nuove. Nel caso di scherzi seri veniva retribuito, ma al di sotto del merito e del lavoro: meglio che starsene fermo a Santa Rosalia arrotolato sui gradini senza buscare, gli dicevano con forza. Dopo tanto ridere i signori si facevano improvvisamente severi. Peppi ‘u Babbu era uno dei servi dell’Istituto Schifano, il più servo di tutti, e insieme esempio e quintessenza di ogni stoltezza e cretineria, tant’è che lo seguivano, lo procedevano, lo affiancavano per leggergli negli occhi, nelle mosse, nei compimenti. Lo furiavano per assistere da che punto desistesse da quel suo essere disarmato e crescente coglione per ritornare, al giro di boa dell’estrema gazzarra provocatoria, un uomo normale. A nessuno tuttavia fu dato di guarirlo. Con voracità animalesca rosicchiava le maniche ed i pettacci della giacca, forse una forma di disperato autoannientamento, di autocannibalismo. Gli donavano dunque giacche smesse, per lui nuove da rosicchiare. Abitava in cortile Fronda. Cuvolova, cencio, d’uomo piccolo e chioccio, trascorreva lunghe ore della giornata intessendo un continuo andirivieni per via Sferri. Bassissimo, pieno, canuto pareva sempre pronto a volare, col rutilante passettino di passero. Era un incedere tremante e debolissimo che sembrava spedito e sicuro. Da giovane era stato venditore ambulante d’uova, per un soldo ripeteva tre volte l’antico verso del mestiere, cuvolova, che era anche il suo soprannome. O, a scelta, per un uovo faceva l’uovo. Dal fondamento, beninteso, non cavava che l’ovetto che gli avevano porto sottomano come anticipato compenso. Ma assistevano anche al suo continuo andirivieni innanzi la calda e vaporosa bottega dei pastai Vinci, chiamandolo alle volte a fare il verso o a fare l’uovo, perché tutti sapevano che il passeggiatore, incrociando i cassoni di tela tesa su cui venivano messi i cavatelli ed essiccare, allungava la vecchia manina dalla manica della lunga giacca e sottraeva due-tre cavatelli alla volta. Donna Luzza Marullo, che aveva taverna di fronte, glieli cucinava di sera o a mezzodì, quando il vecchio nella tasca ne avesse ammucchiati in buon numero. I Vinci pastai, precisissimi ed avari, conoscevano di quello sgarro continuo ed ordito con tanta fatica d’incenso, e ci avevano gusto di convenienza, perché dicevano che Cuvolova invogliava i signori a recarsi in via Sferri a comprare proprio dai Vinci la pasta. Ninu l’Orbu abitava in fondo al cortile Bosio, in un catodio a scendere da quel breve e cieco intestino viario senz’aria e senza sole, per
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sette gradini: ché, dicevano tutti, neanche l’asino per la cui stalla era stato locato il catodio prima che ci si buttasse l’Orbu, aveva voluto scendersi, credendo di andare a morire. Ma Ninu non aveva fisime, in fondo era cieco, anzi non vedeva altro che ombre. Ombre ferme e ombre che si muovevano, e queste erano gli uomini o gli animali, a Ninu distingueva questi da quelli perché i primi parlavano e gli si svolgevano con una specie di falso bisogno, puntando sulla granitica fede religiosa dell’orbo. I benpensanti lo aiutavano ad uscire dal catodio, lo caricavano di un crocifisso che Ninu teneva in casa- l’unica cosa buona che avesse - e lo mettevano a processionare. Chi voleva vedere una processione andava da Ninu, che però ai lazzi della gente rispondeva con vituperii e volgarità arditissimi, sempre nuovi e fantastici, lanciando contro il pubblico indovinato il bastone e qualche volta il crocifisso. Il lessico dell’orbo faceva il giro del quartiere e girava per la Città. Chiappararo, invece, produceva e vendeva in casa ottimi gelati di fronte il Boccone del Povero, e verseggiava piccanti poesiole pornografiche recitate di getto, velocissimamente, per tema di trascrizioni che avrebbero diminuito la vendita dei suoi gelati, direttamente collegata al desiderio asciuttante di rapire di quei versi licenziosi e volanti, indovinati più che positivamente ascoltati, com’erano borbogliati ad arte tra il lusso e il brusco del sillabario di un sagacissimo illetterato che coi suoi scioglilingua sapeva anche sdilinquire i nervi degli ascoltatori. E a dirgli “ripeti” Chiappararo si faceva ancora più precipitevolissimo. La sua era insomma una pura pornografia che gravava sporcamente sui suoi indovini. La vendita dei sorbetti era notevole, Chiappararo sapeva produrre ad un tempo il caldo e il freddo. Maria Pecora, figlia di scema e moglie di scemo, era una visitatissima scema perché col piangere belava, Sapeva fare la pecora, dicevano. Era inimitabile per timbro, per verso, per tremolo e fiorettature. Più semplicemente, sapeva piangere a quel modo, e forse si rendeva conto che soltanto col piangere per negozio poteva evitare di piangere per fame o per busse: ché il marito, per quanto scemo, aveva capito l’ingranaggio dell’impresario, e con le buone induceva la moglie a piangere, diversamente l’avrebbe fatta piangere con le cattive, e per lui sarebbe stato lo stesso, per lei no. Maria non avevano potuto soprannominarla, con quel cognome esatto che si trovava e che spaziava dal registro di stato civile all’incarnazione “in corpore vili”. La circostanza costituiva occasione propedeutica di ilarità, forte del bello di poterla sentire belare.
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Ora ci occuperemo di Tiniddu Costa, che non era un reietto, non viveva di altrui sufficienze né di pubblica elemosina, anzi era un civile uscito da una bonissima famiglia, e però era inoltre una spina dolente nella carne della borghesia di Girgenti, o un suo osceno infantile offerto redentore. La famiglia Costa aveva annoverato e ancora annoverava ricchi proprietari di case e terre, pubblici amministratori. Funzionari e professionisti, tutti con nel sangue qualcosa di magniloquente, pletorico ed adirato che era la propria irriducibilità. I Costa, come foglie e rame dello stesso albero, tutti erano nati signori da signori per mettere al mondo altri signori, tutti dotati del coraggio delle quotidiane azioni con cui a Girgenti concorrevano alla storia della loro classe. Tutti naturalmente anticonformisti per il permanere generazionale di un siffatto bizzarro conformismo all’aria della famiglia. Ora, io suppongo che i Costa appartenessero ad una di quelle distinte famiglie spagnole peregrinate dalla storia nell’immiserimento e nel ristagno della Sicilia, e rimaste attaccate con varie ed istintive escogitazioni al bisogno di distinguersi, al congenito istinto di mostrare che c’erano. Anche le famiglie dei Vella, dei Sala e dei Grassìa erano accese e rosicate dalle stesse smanie, da frenesie e addobbamenti che impiumavano i loro cognomi iberici. Vedetelo, Tiniddu Costa, miserello di complessione, permaloso e impettito, far vita di ufficio volontario nello squallido terragno stanzone dello stato civile posto, quasi a farvi concorrenza, dietro il teatro Regina Margherita. Ancora vedetelo, Tiniddu Costa, nerovestito per montura di gravità imposta ai civili dalla moda del tempo, il panciotto a quattro tasche, il Roskoff incatenato d’oro come un ladro trovato con le mani nel sacco del tempo, il feltro in capo, il bastoncello da una mano all’altra, andare in giro per la città a sciorinare la propria incredibile e smisurata erudizione di stato civile: nascite, decessi, sponsali e matrimoni di migliaia di cittadini; migliaia di dati di cognizione, di date, di circostanze; e luoghi di nascita e di decesso; e nomi di testi e compari di nozze, e di impiegati riceventi e ufficiali dello stato civile. Questa erudizione, servita da una spaventevole memoria di cui più che l’orgoglio superbioso avvertiva candida e fanciullesca felicità, era la sua vita. Sciorinava e si commuoveva, ma non di morti e di nascite, sebbene di certa rapita eternità che credeva di aver fugato ai fatti, involandoli con la memoria e trasformandoli in racconti laconici e precisissimi. A volte appariva simile al commosso e beato padrone
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di una innumerabile mandria i cui capi conoscesse uno ad uno, o al dio coesivo di un popolo di creature per le quali si sfiatasse. La ragazzaglia non si commuoveva per questo, ché anzi l’abito nero del Costa e certa sua permalosa abitudine di spolverarselo con le mani in su e in giù tentavano molti a lordarglielo con una fumata di farina appositamente lanciata in aria al suo passaggio. E quando mancava la farina, che non era di tutti i pugni e si prestava a scherzi di birbe abbienti, popolarmente si suppliva col gesso a buon mercato, che aveva più presa grassa e spolverata imbrattava di più il panno nero dell’abito maculato. Dopo ogni fumacchio Tiniddu Costa minacciava di sparire dalla faccia di Girgenti, che così sarebbe sparita dalla faccia di Tiniddu Costa, come Sodoma e Gomorra. Le sue erano tuttavia ire passeggere e senza incalcolabili conseguenze, ché i ragazzi finiva sempre col ricercarli. Li tentava col suo vecchio faccino di mela raggrinzita, a sua volta accinto e conquistato dalla loro fidanzata. Si faceva promettere che mai più sarebbero volati in aria i cartocci di gesso o di farina che poi sarebbero volati in aria come promesse non mantenute, e via di seguito. Resta da dire che l’omino nerovestito, con le subitanee ire, la formidabile memoria che registrava ogni alito di vita o di morte, e le sue melensaggini, era un gagliardo pederasta, un “remedium concupiscietiae” a tutela della virtù delle fanciulle. Uno che si dedicava ai giovanissimi della città per traghettarli da una sponda all’altra dell’età, per registrarli insomma come uomini maschi; per sopperire, in questo, all’unico atto mancante di stato civile, quello puberale. Mentre agli adulti Tiniddu rimaneva ad offrire lo sfoggio spaventevole della registrazione, facoltà assieme regale o babbea. Se Tiniddu Costa non sembrava un pederasta perché sembrava un signore, ed era invece l’uno e l’altro filati e ritorti nell’esistenza, Peppi l’effeminato (“l’Affimminatu”) era dato per un unitario ed esclusivo pederasta in quanto nato e cresciuto nello strato più basso della società. Pederasta, dunque, senza rimedio. Campava la vita accudendo ai più umili e sostitutivi lavori donneschi, “criatu” e lavandaio, addetto alle speserie dei più umili generi, faccendiere utilizzato per i negozi più vergognosi e ricercato per le bisogne più stomachevoli. A disdoro di una membruta complessione aveva movenze femminili, anzi esageratamente femminili, lente, sinuose, uniformi, retrattili: com’erano, fino ad un cinquantennio addietro, i moti della stragrande maggioranza delle donne. E aveva la voce impastata sulle note alte, con inflessioni aspirate da un languore
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nudo, volgare e strascicato. Parlava e il suo parlare sgusciava le parole, lo spogliava e serviva con la grossa lingua di pezza. Lo avessi ascoltato senza vedere da quale corpo venisse trombata quella voce, l’avresti detta voce di vecchia non saggia ma lasciva, voce di mezzana. Proprio quella voce, e le deduzioni e inferenze che da essa erano state tratte, e la conclamata conclusione con cui si dava la baia al povero effeminato, costituivano il lasciapassare insospettabile e accreditato perché Peppi potesse accedere a chiamata nelle case della borghesia non molto abbiente ma pretenziosa, senza rossore e temenza, per affaccendarsi con vere donne o del tutto sostituirle a mercede nei lavori domestici, nel diguazzare anche i più intimi panni o nell’acciottolio delle stoviglie: serva e famula nel falso uomo che era. Forse che un tempo nelle case di corte gli eunuchi non la facevano da cagnole dietro le sottane delle donne? Per compensarlo del mancante, e dargli soddisfazione in vece di altre soddisfazioni che, privo come si diceva di punto d’appoggio non avrebbe potuto prendere con le proprie mani, e risarcirlo moralmente di un danno di natura, erano tutti a dire che lavandaie come Peppi “affimminatu” in Città non si dava trovarne: forte, preciso e pulito, infaticabile. Passarono gli anni e in molte case servite dall’effeminato nacquero bambini che col crescere inclinavano ad apparenti effeminatezze per voci e movenze simili a quelle di Peppi e per altri meno volubili segni, per statura e tratti d’occhi, di nasi, di occipiti; e dicendo e non dicendo si disse che l’ingerenza di Peppi e la sua frequentazione di quelle case avesse ingenerato mere formali commistioni. Che per impressione i suoi particolari si fossero emotivamente ammollati negli embrioni solo per via d’occhi, che sono vulve fotografiche i cui vasi conducono i semi dell’immagine. Peppi era fatto etereo incolpevole telepadre. Nel contempo si scoprì che Peppi segni positivi di pederastia non aveva mai dato, non aveva mai per esempio guardato con certi occhi e programmi i mariti delle mogli né i figli delle madri, e questa fu per i mariti una brutta scoperta. Le mogli non li seguivano, paghe delle prima conclusione fotografica che inflessibilmente e con finissimo bisogno volevano imporre ai quattro venti. Le donne sono come gli specchi, che specchiano anche se non li affatturi e non li prendi in mano - dicevano molto meglio per prendere in mano la situazione. I feti nel decorso di gravidanza subiscono voglie, sogni e ripulse delle madri, che sono specchi lati come laghi. La vita è una registrazione: in questo poteva aver detto qualcosa di vero Tiniddu Costa.
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Naturalmente l’effeminato andò perdendo il lavoro e il pane, i mariti temevano di accasarlo nelle loro dimore. E non per questo l’effeminato desistette dal bisogno di vivere e sopravvivere, decidendo di vendere la propria fedeltà. Era una inane tragica fedeltà verso casa Savoia, l’indomani del referendum che aveva visto, non senza brogli, la monarchia soppiantata dalla repubblica. Peppi era più monarchico del re spodestato, che almeno della monarchia aveva conservato qualche vantaggio, e non aveva problemi di minestra. Peppi, che li aveva, aveva anche quello della monarchia; riuscì a metterli di fronte e a trarne vantaggio venale ed insieme onorifico. A coloro che, in cambio di cinque lire o un pane o una minestra, gli chiedevano l’abiura alla sua fede istituzionale, gridava con voce sempre più vecchia ma persistentemente afrodisiaca che no, non l’avrebbe mai fatto. E per mettere punto, gridava - Viva il Re! Gli interlocutori questionavano, lo aizzavano, raddoppiavano il pattuito corruttivo compenso. - Viva il Re! - gridava l’effeminato. Si accanivano gli scommettitori, procuravano mirabolanti promesse, analizzavano il rapporto tra la rinuncia e il risultato, con mellifluità o con esasperate durezze tentavano di imbonirle. La risposta era sempre quella - Viva il Re! - variata intimamente per emozioni diverse, acciaccata, fiorettata, impostata a diversi livelli di cuore o d’ugola. Venendo ormai appellato “Viva il Re!” l’effeminato aveva stretto anche i più sfegatati repubblicani a compiere, almeno con la bocca, le loro abiure; e certamente, se avesse potuto, li avrebbe prezzolati per questo. Era invece verificato il contrario, in quanto agli esiti scontati delle scommesse i provocatori lasciavano nelle mani dell’effeminato alcune lire o un pane, o gli scodellavano nella “buatta” un ciato di minestra. Dai proventi contanti sbarcati dall’effeminato immancabilmente usciva ogni sera la spesa di un lumino o di una candeluccia, accesa e votivamente collocata innanzi l’altare di S. Giuseppe, che tra tutti i santi era quello che più gli ricordava il re. Peppi trascorreva le sue notti all’interno di uno dei portoni che si aprivano nel primo tratto a scendere della via Atenea, mentre per lui nel buio asserragliante della chiesa di S. Giuseppe una fiammella continuava a ripetere “Viva il Re!”. Di altri innumerevoli personaggi si potrebbe dire. Della rabatellese vecchia dell’aceto, per esempio, che incedeva dritta come uno
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stollo ed ermetica nell’ampia mantiglia nera che non faceva un solo svolazzo, sotto cui infagottava due fiaschette fondigliute ricolme di aceto forte come acqua di ragia, da vendere a misurini liturgici. Di lei non si sapeva che male dire, dunque la si sospettava di tutto. Con una formula inquisitoria tanto ineccepibile e logica da riuscire eterna: potrebbe essere malacarne, dovrebbe dimostrare di non esserlo, invece tace. Taceva invero la vecchia, taceva sempre, parlando con gli occhi e le dita per indicare i centesimi del costo dell’aceto. Le si attribuiva per intero l’onere di provare i sospetti e le paure altrui, ma non era chi gliele facesse cenno. D’altra parte non avrebbe risposto, forse non avrebbe compreso. Probabilmente il timore che suscitava risaliva ed era ascrivibile ai misfatti della palermitana Giovanna Bonanno, inforcata a Palermo nel 1789 per aver somministrato aceto arsenicale ammazzapidocchi ad alcuni mariti, procurando così alle loro mogli di ereditarne gli averi da scialacquare coi loro ganzi. L’antico impressionante episodio di cronaca nera era stato divulgato nel 1880 da Salvatore Salomone Marino. Girgenti aveva voluto partecipare all’universale emozione, incarnando e perpetuando attraverso acconci personaggi scelti a crudele casaccio l’esemplare lezione dell’avvenimento. Ciononostante l’aceto della vecchia rabatellese era buono e tutti ne compravano, con quel brividore di attesa dalla cui smentita, come accadeva, avrebbero poi tratto coraggioso piacere. Ben diverso personaggio era la vecchia della rena, venditrice d’un flavo talco lievissimamente abrasivo, giacente alla Consolida, insuperabile per strofinare e detergere gli oggetti di rame. La rena era venduta a misurini come l’aceto, ma la vecchia di questo meschino commercio era agli antipodi della sua collega dell’aceto: affettata e dichiaratamente buona, parolaia disponibile a tutto, logorroica, ruffiana, mosca portatrice di spore. Veniva amata, per quanti equivoci ingenerasse: così vanno le cose del mondo. Infine Serafina, che era una pezzente orgogliosa e forte, increspata da un milione di rughe nel volto bigio carnacciuto simile ad una maretta al tramonto del sole, con l’isola di un naso levigato al centro e due occhietti di maccalube. Emanava complessivamente un’aria grigia, oltrecchè fortore di umana sporcizia, e la sua voce in linea era sgradevole grave e per così dire soffocata di quella grigia circonfusione. Viveva accattonando e per vestirsi riceveva gli abiti dimessi dalle sue benestanti soccorritori: organze, panni princisbecchi, veline, finiture cascanti, sete vaie...
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Indossava compositivamente di tutto, come una scimmia delle benefattrici, e dagli spettatori (ci si mettevano anche le persone serie, e non ci escluderei i mariti e i figli delle benefattrici medesime) veniva scovata, raggiunta, inseguita con l’epiteto di “Serafina cu ‘a vesta fina”. Sapeva difendersi con il lancio dei sassi e della parole, scendeva dagli altari i santi e dai palagi i signori, individuando in coloro che solevano indossare quei suoi abiti raccattati i veri responsabili della persecuzione cui veniva fatta segno, e trovando così nei benefattori i veri malfattori del suo viaggio. Ho conosciuto un poema, Raffaele e il suo Asino. Mi pare rispettosamente ed amaramente esatto indicare l’animale con l’iniziale maiuscola. Nella nostra parlata il titolo del poema suonava così: Raffieli c’u sceccu. Ma in italiano il complemento di compagnia avrebbe un senso distorto. In siciliano questo complemento non esclude un coprotagonismo, tant’è che per dire dello stesso poema l’Asino diventava soggetto e Raffaele, il suo buon padrone ed amico, complemento specificativo: “u sceccu di Raffieli” era null’altro che “Raffieli c’u sceccu”. L’Asino apparteneva al cuore di Raffaele il carrettiere, e Raffaele apparteneva alla carne dell’Asino, suo sesto senso esterno di cui probabilmente non avrebbe più saputo fare a meno. Carrettiere, Raffaele? Si, ma da ridere o piangere: carrettiere urbano, dato a percorrere le vie cittadine per piccoli servizi non richiedenti particolari cure né premure. Non è che la città fosse facile da percorrere e da raggiungere tutta in ogni sua zona, a piedi. E naturalmente l’Asino di Raffieli camminava sulle zampe, funzionale sinonimo di quell’evoluto eufemismo con cui indichiamo i nostri arti inferiori. Si sa che la città è in forte colle, ha una conformazione ronchiosa, china e scoscesa; ha natura rupestre: è una “capraria”. Tutt’al più l’Asino di Raffieli raggiungeva Bonamorone o la Spinasanta o Pitarresi, per andare a prelevare una botticella di vino o per un trasporto di stallatico; ed in estate qualche volta, ma ai bei tempi, raggiungeva San Leone, stracolmo di ingombranti leggere masserie di villeggianti che volevano sparagnare. Con l’occasione Raffieli bagnava l’asino e meriggiava in riva al mare: la propria villeggiatura. L’Asino io lo ricordo macilento, bianco di pelo vecchio ad eccezione di alcune costure lungo il pettorale, segnato da orribili guidaleschi per lo strofinio della stanghe e l’attrito delle cinghie. Il carretto era una cassa imporrita su due ruote cigolanti e sbilenche. Raffaele cisposo, incrostato ed eruttante aveva la tipica canizie del tipo olivigno, con capelli di sale e pepe.
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Del carrettiere, egli e l’Asino, non avevano la vita, la libertà logorante e avventurosa; non erano cresciuti agli orizzonti dei colli montanti come marosi, lungo gli stradali che da lontano apparivano simili a scie biancheggianti su un mare cupo, sommosso e pietrificato. Raffiele credeva nell’Asino e l’Asino credeva in Raffiele. Si sentivano, si consultavano, si comprendevano e anche si parlavano. L’Asino con gli occhi, le orecchie e il muso mobilissimo; Raffiele con le mani e la parola. E di ogni cosa decidevano assieme. Incedevano di concerto, quasi mai Raffiele montava in cassa. Entrambi si contraffortavano. L’Asino, collocato a destra di Raffiele, spingeva a destra. Così impuntati i due tiravano in avanti. Quasi sempre il pondo era costituito dal carro vuoto, ma era un bel peso; e poi ciascuno dei due sosteneva l’altro. Così andavano. All’Asino Raffiele raccontava tutte le passate della città, le traversie della cosa pubblica e i più eclatanti avvenimenti privati quotati in piazza dall’opinione pubblica. Quell’amore sublime indispettiva gli sfaccendati, i quali con malizia solevano intrudersi nel rapporto e con trovate, sevizie e crudeli bizzarrie tentavano di guastare l’incanto, mettendo l’uomo contro l’animale e viceversa. Si cominciava collo scambiarne le denominazioni, Raffiele diventava l’Asino e questo veniva appellato Raffiele. Si confidava maggiormente sulle reazioni dell’Asino, nelle cui orecchie venivano introdotte mozziconi ancora accesi di sigarette, perché potesse sospettare di essere tradito dall’amico e scalciando scalciando potesse rompere il carro e il sodalizio. Ed una volta ho visto e sentito un signore molto cristiano e importante soffermarsi e consigliare ad alcuni curatori di cospargere del sale sulle ferite dell’Asino per ridere meglio. Era un signore vivo che ora è morto, e quando è morto tutti hanno detto ch’era stato “bonu e galantuomuni”: ma io so che con la faccia di coglione timorato era un uomo cattivo. Si diceva: Raffaele e l’Asino sono uno sconcio per una città che s’ammodernizza. Si disse poi decisamente e in maniera precipua allorquando un maggio odoroso quel vecchio Asino ebbe una impressionante eruzione fallica in piazza. Il vento di scirocco aveva portato per ogni dove la pruriginosa cipria delle fave che in campagna mostravano a Febo i loro membri satireschi. La cipria era penetrata negli interstizi di ogni essere vivente, le mosche cavalline dell’Asino danzavano le loro coreografie amatorie, l’Asino aveva sentito di morire e aveva visto in fantasia l’asina della
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morte. Così era accaduto. D’urgenza era stata chiamata una Guardia Municipale che si era dato da fare per indurre Raffiele ad indurre all’Asino di aver rispetto almeno per l’ora e il luogo centrali in cui si svolgeva l’avvenimento, e rispetto per le donne e i bambini. Anzi, per evitare la propagazione dello scandalo, bloccò in piazza le passanti e i giovani passanti, perché si vedevano cose che non potevano vedere. E Raffiele venne multato. - Vesti l’Asino, Raffiele! - E voi vestite i tre giganti, maiali! Ho sempre pensato a quell’Asino come al Cristo di quella chiesa di cellule e molecole che era Raffiele. L’Asino era Sancio, Raffiele era don Chisciotte. Per quanto siano stati sconfitti, non è dubbio che la città non vinse, e che resta mulino a vento.
DOMENICO ALVISE GALLETTO E IL ROSSORE DEL POTERE
Alla domanda “chi era Carneade?” sono in molti a rispondere: quello dei Promessi Sposi. Il romanzo ha reso famoso un personaggio che continua tuttavia a rimanere sconosciuto. Mi è venuto in mente Carneade (antico personaggio ben più importante del moderno Manzoni) pensando a Galletto: o può darsi che ad accadermi sia stato l’esatto contrario. Non si sa mai quando si è svegli da un pensiero all’altro. Io comunque debbo parlarvi di Galletto e non di Carneade. Di Domenico Alvise Galletto, come si legge negli eleganti frontespizi dei suoi importanti numerosi libri. O di Mimmo Galletto, come si sente in giro e si adocchia nelle locandine dei suoi fortunati lavori teatrali di cui, mettendovi tant’anima e accortissima bravura, come a far concorrenza all’autore e dunque a se stesso, è attore protagonista. Mi pare di poter dire che la differenza tra quei due suoi primi nomi, che ci sembrano preparati e vestiti a festa per una immortale citazione dell’autore, ed il suo secondo nome, (confidenziale, abbreviativamente rinforzato dal roboante raddoppio delle due nasali) corre la stessa tra la sua fama e la sua conoscenza: nel senso che chi sa di Mimmo Galletto non può non sapere di Domenico Alvise Galletto. Come Carneade, infatti, è personaggio più famoso che conosciuto. E uso appositamente a mò di epiteto la parola personaggio, a disdoro possibile di chi, osannando l’attore, non ne conosce che il paludamento o tutt’al più la pelle, senza avere notizia e senza far caso al serio studioso, al poeta e all’autore di commedie di costume. Non vi può essere conoscenza senza questi riconoscimenti. Il famoso Galletto resta così fumosamente sconosciuto. Come attore Galletto è amato e inchiodato ad una fama generosissima. Nella nostra terra qualche volenteroso giovane e qualche signorile anziano hanno recentemente avuto la ventura di diventare attori professionisti, cogliendo così il frutto dei loro meriti ed i tocchi della fortuna. Non è stato certamente il nostro ambiente culturale a deliberarli, a promuoverli, ad offrire loro le opportune possibilità di spunto. Tutt’altro: la terra agrigentina rappresenta un’ara sacrificale. Qui l’oro di-
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venta, nell’aia culturale, concime, quello per intenderci fatto di rifiuti, di difetti e limitazioni umane, diventa princisbecco: quello che un tempo si sentiva oro di Bologna o falsoro. In questi trent’anni decine di giovani della nostra terra hanno affrontato il teatro, con un complessivo esito proiettivo inversamente proporzionale alla capacità, spesso straordinarie, di alcuni. L’ambiente culturale agrigentino è un enorme tubo digerente finalizzato al controllo ed alla omologazione dei risultati. La plastica manifattura, lo scolto indurimento e la comparsa dei campioni di successo avvengono per processi di chimica politica, per vacuatoria chimificazione. Protagonisti della vita culturale diventano gli araldi stomachici di una oscura fabbriceria ventresca, i rutti dell’epa, i brigatori, gli sfacciati, gli enzimi delle spanciate. Per coloro che praticano autenticamente l’arte, che non vedono contraddizioni laddove la maggioranza allocchita le vede e ne teme; per coloro che si affacciano a nuove libertà di bellezza o di pensiero e ce ne raccontano, non c’è praticamente avvenire. L’intellettuale agrigentino dev’essere necessariamente un avventizio ed un attendente. Galletto, che ha tutti i numeri per diventare un grande personaggio, culturale nazionale, continua a fare la gavetta a libito di personaggi spiccioli e arraffanti, di marpioni e sinforose, di mercanti di cavalli, di uffici di collocamenti familiari, di amministratori analfabeti. Lo diciamo con tecnica serenità, perché parliamo di un attore-poeta autore di straordinario rilievo, il cui obiettivo, né in quanto se lo possa dare né in quanto possano attribuirglielo, non può essere quello di avviarlo con questo o quell’altro viaggio pagato da questo o da quell’altro ente locale, ai festivals per emigranti o alle piazze dilettantistiche. Non è uomo di diplomi e di primi premi estivi. Bando agli equivoci, dunque, per non avere vergogna di tutti noi. Allo stato odierno dell’arte cupa di questa nostra realtà culturale, la fama di Galletto è e resta essenzialmente televisiva. Infatti, molti di coloro che accorrono alle sue rappresentazioni lo fanno sull’onda della pubblica stima televisiva, della referenza. E’ famoso perché è andato in televisione. L’immagine televisiva svapora in fama corrente, fumigazione del personaggio: e la fama è di frequente l’autorisarcimento di coloro che la tributano, per il loro non approfondirsi e chiedersi, per il loro piantarsi in asso. Ora non è dubbio che, rispetto a Galletto, noi tutti ci siamo piantati in asso, sudditi di coloro che vogliono così. Come fama televisiva, quella di Galletto è propagatrice quanto mai,
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ma anche mancante di approfondimento e di commento, e senza ogni altra debita ragione d’interesse. Nell’impatto televisivo l’occhio è portato ad un appagamento presuntuoso, sostitutivo della realtà cioè di ciò che circonda l’apparenza ed il suo stesso impatto. L’occhio è il meno vigile dei sensi. Certamente non possiamo incolpare la televisione di essere quello che è, e cioè un mezzo culturale limitato; ma a noi sembra che questa sua caratteristica fisica sia stata politicizzata in una resa di strumento limitativo, e cioè di sorveglianza e delimitazione degli avvenimenti culturali, dati secondo le scansioni e le sincopi amministrative programmate. Né di questa fama del Galletto, tagliata fuori da una vera conoscenza, possiamo fare esclusivo addebito al pubblico che anzi ama l’attore, lo ricerca, lo attende se lo ripropone nelle citazioni e nel ricordo quotidiano. E’ però ancora necessario insistere sul pubblico, e cioè su una entità demografico-culturale partitiva, che non si identifica col noi tutti né con l’entità reale o ideale del popolo. Il pubblico non è altro che una folla organizzata. I suoi interessi sono pur sempre commissionati. Il suo disinteresse a conoscere per intero un personaggio che pure avvolge di fama può costituire un sentimento candido, un onesto accasciamento su posizioni di pozione fruitiva esternamente prescritta: una inconsapevole desistenza della continuità di interesse civile-culturale (il prima e il dopo del momento televisivo), e persino desistenza da quella certa curiosità che dovrebbe pervadere ed accompagnare come croce vincente l’alfabetismo per bene e l’impegno dei vivi. Il grande pubblico, poveretto, non ha colpa, se non quella di non sapersi ritrovare nel popolo, di non scomporsi e dibattersi, di non ricusare il ruolo di pubblico che gli si dà, di non sapersi trasformare da pubblico in attesa in pubblico di istanza: di non sapere, al limite, porre dissonanze di domanda nella differenziazione del proprio essere pubblico, del proprio più o meno fortuito ritrovarsi. Un pubblico così ha la sola colpa, ma grande come la “mirabilis aula gigantum”, grande quanto la Bataranni, di rappresentare una folla ligia, attendente ed organizzata come suddita. Dunque il posto che Domenico Alvise dovrebbe occupare nel panorama della nostra cultura, ed in tanto lo dovrebbe occupare in quanto culturalmente lo occupa, non è occupato. Ma la mancanza di Galletto muove proprio dalla sua presenza. Quando poniamo il problema della sua conoscenza, poniamo in verità il problema della nostra conoscenza da parte
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sua. Perché rimanere suoi personaggi e non divenire i co-protagonisti di un coinvolgente processo culturale autenticamente agrigentino, che va dalla reviviscenza delle antiche fonti etno-antropologiche e storiche della poesia popolare di questa terra, alla voce poetica dell’attualità, cadente come un annuncio; dalla satira alla commedia dei costumi? Perché non confrontare il mondo culturale agrigentino, quale noi crediamo che sia, con quello che è divenuto anche grazie e principalmente per opera di Galletto? Si sa: la Chiesa Cattolica canonizza e la televisione rende famosi. Ma conoscenza e santità sono, laicamente, ben altro. E per capacitarci di una fama in assenza di una vera conoscenza e quindi di una intera valorizzazione del nostro grande poeta (ed attore, e autore e studioso) abbiamo voluto passare in rassegna i dirimenti possibili e le eventuali scusanti dell’inspiegabile fatto, senza mai avere escluso che i motivi possano essere diversi: più gravi e preoccupanti, più oltraggiosi, di maggior peso e momento. In una realtà territoriale d’insieme quale quella agrigentina, attraversata dalla mafia, quella indigena e quella scampata; interessata dal malcostume, dal culto autarchico della piccineria; stremata dalla disoccupazione giovanile, dai voltafaccia politici, dall’inossidabile nichilismo di angeli ed arcangeli in carriera, da amministrazioni che operano come uffici elettorali; dalla stagnazione quindi di idee, linguaggi e speranze, non è da escludere che anche la nostra cultura corra gli stessi pericoli e venga attraversata dalle stesse intemperie. Che venga cioè incaprettata (“accrastagnata” direbbe il commissario Montalbano). Sotto certi aspetti può esserne anche responsabile, può aver provocato o soltanto consentito ciò che ora subisce. E’ certo che ci troviamo di fronte ad una cultura di frontiera, ai cui confini troviamo ancora la barricata e la manovra vincente, lo sguardo degli spazi e il panorama ricompositivo del ristabilimento; e nel cui cuore nero fino alla zoccolo più duro, troviamo già soccombenza, piatteria, trionfo del concime. Da una parte Galletto e una cultura agrigentina come quella cui Galletto si richiama con opera prosecutrice e insonnia d’incanto. Dall’altra parte una cultura vieta e bieca, affaristica, mortificante, ciabattona e cialtronesca, scritta nel libro maestro del dare-avere, degli incarichi, delle ripromissioni, dei ritorni: una cultura organizzata come forma mafiosa di un potere mafioso, coassiale e guardiana. Una cultura, in una parola, traguardata e col compito di essere ostica e retrograda.
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Ora ci sembra perfino ovvio e lapalissiano scontare la scarsa e delimitata conoscenza di Domenico Alvise Galletto, a fronte della borra e della fama di cui inevitabilmente gode, sull’intellettuale e sul protagonista che egli è di una battaglia decisamente culturale e di avanzamento civile che è la sua battaglia. Galletto è scomodo perché è libero, non può essere commissionato né commissariato, non ha parrocchie né chiese, pronai o angiporti; non ha deambulatori partitici di collegamento o di attraversamento: Non è appoderato. Non ha da legare amministratori pubblici con ampelodesmi promettitori-ricattatori. Non sa ricambiare o percentualizzare. Non partecipa a fondi comuni Forse non sa fare i propri conti perché si tiene in gran conto. Sa soltanto essere poeta, autore ed attore: e di che livello, coloro che dovrebbero farcelo conoscere si guardano bene dal dire... Anzi politici, amministratori e organizzatori lo ammirano con timore, lo apprezzano a voce bassa. Temono di finire tra i suoi personaggi e i suoi tipi, di ispirarlo ulteriormente. Per non farsi riconoscere si stringono e non lo riconoscono. Egli viene permanentemente controllato, in attesa della morte di tutti - mors omnia solvit- quando la notorietà del poeta potrà adergersi fuori da ogni pericolosità degli interessi attualmente viventi e costituiti. Verrà annoverato tra i grandi poeti siciliani, a seguire Alessio Di Giovanni. E magari ci sarà un futuro marpione che lo commemorerà: col beneplacito dei marpioni di oggi, tutti in quella lontananza morti. In effetti Galletto ha cantato, con la sua opera, in profondo, lungo e largo, i nostri tempi, l’epoca che viviamo nella nostra realtà, gli uomini che vi scorazzano. La conoscenza di Galletto coincide quindi con il vero problema di fare il punto della nostra cultura, di non accettarne la normalizzazione ma di scardinare quest’ultima da ogni censura riuscita, dalle voci della bacchettoneria e degli interessi conservativi, dalla sua situazione di fatto e di potere. Sarà ritrovata quella cultura che avrà un potere di canto, di scandalo, di bellezza e di verità su ogni altro potere, ad incominciare da quello che tenta di normalizzarla. E’ quindi un problema di riconoscimento: non per cambiare, ma per riconoscere ciò che è già cambiato e le voci della denuncia, del canto e del cambiamento. Galletto, in buona sostanza, dev’essere un nostro problema, così come la realtà che ci compartecipa è stato e rimane il suo. Noi, politici, amministratori, canonici e vecchine, contadini e perdigiorno, ar-
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tigiani e dottori; noi tutti con i nostri problemi,col nostro porgerci e rapportarci, con le ritrosie e le prestidigitazioni; noi con i nostri tipi arroganti o cheti, con i lestofanti e gli umili, con la memoria che cova ed attende; con la nostra realtà umana, affaristica, sentimentale, con i valori e le depravazioni, i segni sociali e linguistici gli abbiamo porto le pietre che ha innalzato e quelle che ha scagliato, le cortecce che ha arrapato, i mieli e i fieli che ha intruso. Nostra è stata l’aria che ha insufflato per cavare le sue parole, per montare i versi. Conoscerlo vale dunque un conoscere ciò che di questa nostra realtà è accaduto in lui. La superficialità e l’affrettatezza con cui, dopo avergli tributato fama, si affetta di conoscere il nostro poeta- attore-scrittore può evincersi pudicamente (e polemicamente) dai risultati di una mia amena inchiesta esperita nell’ambito delle mie conoscenze, tra gente di un certo merito, di consueto attenta ed intellettualmente alacre. Due e semplicissimi i quesiti rivolti: Chi è Galletto - Dove è nato. Una attore che ha scritto qualcosa, è stata ad un dipresso la prima risposta. La seconda risposta è stata sorprendente: Galletto sarebbe nato a Favara, Raffadali, Racalmuto, Realmente: e addirittura a Sutera (forse lo si è confuso con Nonò Salamone). Se la prima risposta risente di quella perimetrazione di cui abbiamo parlato, la seconda preoccupa non già per l’imprecisione o la disinformazione, quanto per l’inconsideratezza. Non che sia, beninteso, importante sapere che è nato a Raffadali. Importante è desumerlo, indipendentemente dalla notazione anagrafica, dai contenuti, dalle modalità e dagli orizzonti dell’opera del poeta; ed anche, per quanto riguarda l’attore, dalle sue inflessioni, dai suoi bilici, dalla recitazione espositiva, come di chi finge o si sente sempre sul banco degli imputati, e vuole intrattenersi e intrattenere, convincere per prendere tempo e nello stesso luogo prendere tempo per convincere. Basta aver visto, sentito o letto Galletto per conoscere che è nato a Raffadali: o diversamente non sarebbe nato. Chi indicava come luogo di nascita Favara, forse non stava bene. La soluzione era nel sapere che fosse Agrigento che fosse Favara che fosse Realmente e così via. Per un poeta tanto denso e marchiato come Galletto, che scrive volentieri o prevalentemente in lingua siciliana, il luogo di origine non è anagrafe ma catapulta e boomerang assieme. Il fallo del mio notabile conoscente, dunque, era di metodo e di albagia, pronto com’era a non riconoscere per parere di conoscere.
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Basta leggere le poesie di Salvatore Sciortino, che è di Favara ma non poeta del rango di Galletto, per renderci conto di ciò che è Favara e per converso di ciò che è Raffadali. Possiamo forse non disperare di conoscere con compiuta conoscenza le porziunzucole culturali dei nostri casali e paesi all’interno della cultura agrigentini in cui fervono o ristagnano, e nella quale, in ogni modo, ristanno? Che sa la cultura agrigentina, nel momento in cui si dice cultura, della cultura di Favara o Raffadali? Su un mondo da conoscere doviziosamente, se vogliamo farcela e risalire la china dell’arretratezza, si abbattono gli appiattimenti, le approssimazioni. Spesso si desiste dal conoscere per non conoscere le arretratezze: ma l’arretratezza è proprio in questa ricusazione. Da qui l’arrembaggio dell’appiattimento, l’introduzione di modelli alieni, senza una corretta bilancia del nostro import-export culturale. Nato dunque a Raffadali, Domenico Alvise Galletto si è venuto a trovare con Enzo Salvatore Argento, Nino Romano, Domenico Cufaro, Enzo Alessi, Enrichetta Maltese, Salvatore Di Benedetto, Anna Savarino, Salvatore Maragliano, Giannino Lombardo: con coloro cioè che in quel paese si occupano di memoria, enumerati secondo la mia fallibile e disordinata memoria. L’elenco peraltro potrebbe essere emendato, cosa che si tenta di fare, con l’aggiunta di Salvatore Tabone, Francesco D’Anna e Pasquale Sciara, voci di una certa lontananza scoperti da un fiume in piena come i suoi greti anteriori. Ciò che travolge, spesso scopre e spiega. In ogni caso ogni piena ha bisogno di una spiegazione, e quando non sia disponibile, la surroga con la tautologia della manifestazione. Naturalmente non tutti questi poeti sono poeti. La poesia è una eredità originaria che preesiste al poeta, del quale costituisce un legato di voce e una voce di quella liberalità che è, al sommo grado, la lingua del poeta. Per citare me stesso, possiamo provare ad immaginare la funzione della poesia come l’operazione di preservazione e di pulizia dello strumento linguistico, e quindi come la prova continua e l’evoluzione dello strumentario per evitare il rischio di una mancanza di rischi; come, insomma, la salute stessa del pensiero: qualcosa della sua funzione che ne precede le operazioni logiche. Senza la poesia lo storiografo, il filosofo e persino il giurista e lo scienziato verrebbero a non disporre più di strumenti comunicativi avanzati. È il poeta a legittimare l’uomo e non è vero il contrario, perché l’uomo, se si pone un tale problema, lo fa da poeta: e poi può costruirvi sopra, col ricavato e il mitologema, un sistema di organizzazione prosaica, filosofica e di attenzione scientifica.
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A me pare che il folto gruppo di Raffadali non sia tutto di poeti. Si tratta in gran parte di uomini intenti alla poesia, che sentono cioè poeticamente la tensione di tendere ad essa e stanno come per incrociarla ad un appuntamento che molto spesso hanno fissato tra sé e da soli. Ma in generale ciascuno tende a ciò da cui muove: una preservazione della memoria, spesso confusa o identificata con la lingua; un anelito al recupero di fatti e valori sociali specillati o intravisti nella lottizzazione lirica, nelle latebre giovanili o nei specimen familiari. In tutti, tendono alla luce dalla luna: ma il fenomeno è serio, rispettabile, da non pretermettere. Del gruppo è giocoforza segnalare Domenico Cufaro (più scrittore che poeta, in verità), onesto, chiaro, di inarrivabile eleganza morale. La sua prosa, anche la più impegnata, è impastata sempre di poesia, di accortezza onirica e di profezia; spesso fa persino il miracolo di apparire impietosa rispetto al presente. Cufaro è un sacerdote sui generis, nella misura in cui molti, troppi sacerdoti sono sui generis rispetto a lui. E da citare è anche Salvatore Maragliano, lirico accorto e delicato i cui versi somigliano all’argento lavorato a sbalzo; Nino Romano è invece una voce sostanzialmente parca capace di coniugare il popolare e l’individuale e di guardare all’epica della memoria con i valori soggettivi della risacca psicologica. Da non trascurare qualche altro, ed Enzo Argento, che sembra avere a tratti compreso la lezione di Galletto e ha spunti che si fingono antichi e sono invece dolorose e moderne invenzioni. Del resto il gruppo non esiste in quanto tale, non ha cioè connotato programmatico-istituzionale, forse manca persino di coesione amicale. È un gruppo ex post, desumibile criticamente dalla sua esistenza, e quindi citabile, convenzionalmente, come gruppo. I numeri postulano una memoria, in ogni caso la pongono. All’origine della traboccante poesia di Raffadali potrebbe essere stato Giuseppe Serroy, singolare figura di medico, politico e poeta: ma l’ipotesi, caso mai fosse un assunto, sarebbe tutta da dimostrare. Serroy operò prevalentemente a Girgenti, diviso tra un classicismo di formazione e un romanticismo d’istinto. La sua poesia differisce da quella anonima e popolare delle età precedenti per essere in certo qual senso rovesciata. Intanto il poeta se la intesta, in secondo luogo la desume dalla sensibilità del popolo per proporla ai suoi astanti. Spesso sembra un suo giuoco di spirito invertire l’orecchio con la bocca, creare una poesia che ha l’aria della preesistenza e del ritrovamento. In effetti utilizza moduli antichi per effetti sorpresi dalla modernità. In que-
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sto preciso senso è poeta tipicamente raffadalese che ha tanto inoculato alla cultura girgentina. Non possiamo certamente sottoscrivere per la prosa ciò che abbiamo detto per la poesia, ché proprio a Raffadali opera e scrive quel Salvatore Di Benedetto il cui sole ha saputo di caso in caso adombrare e chiarire tutti coloro che hanno operato e scritto nello stesso centro: e non solo. Ora, Di Benedetto è più scrittore che poeta, la sua prosa artistica è in certi esempi ad un livello superiore di quella sciasciana, percorsa da uno stile che si appella continuamente a sé stesso e che ci richiama al grandissimo Gide. E del resto egli appare nel panorama letterario della nostra cultura come un francese agrigentino, un uomo vincolato ad un passato senza tempo, persino irritante per cadenza di fantasia e di spiegata riflessione. Ed è proprio a Di Benedetto che noi riandiamo, ed è da Di Benedetto che noi discendiamo quando vogliamo comprendere o almeno impostare l’insorgenza culturale di Raffadali. Sindaco, parlamentare per moltissimi anni, laico rispetto al blocco temporale e culturale dell’arcipretura di quel paese fino ad un post-conciliare e rimediato cambiamento, le voci di Raffadali partono tutte da lui. Chi in quel centro parla, scrive o recita, gli deve storicamente qualcosa; anche i suoi rivoltosi gli debbono di non trovarsi fuori della storia di tutti, cioè anche della loro storia. È, come si vede, un discorso tutto da approfondire, mentre intanto l’obiettivo da raggiungere è di riconoscere a Galletto quello che gli appartiene, e cioè la sua conoscenza da parte nostra. È appena il caso di dire che tra tutti i poeti del numeroso manipolo di Raffadali Domenico Alvise Galletto è il poeta più vero, profondo e dotato, per la bellezza che troviamo nei suoi versi anche dopo di averli spogliati dalle cento e cento astuzie della stesura letteraria. Per la bellezza insomma della nudità poetica, che sembra figlia della lingua e invece ne è la madre. La poesia si legge per il bello che dà, ma essa è anche il bello che è: in essa essere e habeità si identificano, logica e prelogica, volo e risultato; ed è bella a risalire da essa, dalla sua nudità agli abiti linguistici che indossa, al patrimonio filologico dei suoi intimi involucri, ai monili del vocabolario. Ogni cosa aggiunge bello al bello, perché il bello c’è ed il bello ha, a queste condizioni, da esserci. In poesia si può parlare di una bellezza verticale, come del camino di un pozzo, a condizione che nel profondo del verso vi sia la poesia e non qualcosa che dovrebbe esservi e non c’è, e che nel fondo
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del pozzo vi sia lo specchio dell’acqua; se no il verso rimane frasca da uccellare, e il pozzo rimane un ipogeo cannicchio. Ora noi diciamo che in Galletto questo bello c’è, e che dall’imo dei versi risale allo loro esteriorità strumentale, attraverso i mille gradini e le mille staffe del congegnamento. E dalla musicalità, dalle figurazioni, dai conci terministici ridiscende sempre a quell’imo: il critico, l’illustratore e il commentatore di una poesia di Galletto è così nello stato di occuparsi di poesia anche quando sembra occuparsi di esegesi, anche quando ne annota questo o quel particolare, anche quando ne disvela il ricorso a questo o quel tecnicismo retorico, questo o quel rimando biografico. Leggere, comprendere, spiegare fanno parte del medesimo piacere di intrattenersi col bello, perché esso -ripetiamo- c’è. Questo scritto non vuole sostituirsi al piacere culturalmente debito di una lettura o rilettura dell’opera poetica del nostro. La bellezza è propagandabile e riferibile ma non è surrogabile. Rimandiamo pertanto alla lettura di Aria di prima matina, di Lustrura d’acqua, di Lu ‘ncantu e la parola, di Li radici di l’Arma, di Un tirribuli viaggiu (‘A scinnuta o’ ‘nfernu)... Raccolte, antologia e poemetti che fanno la fama del poeta, sulla quale noi dobbiamo operare quella sua conoscenza nel grado culturale di farne la nostra conoscenza: e qui mi richiamo a quanto ho già detto. Vorrei soffermarmi su Un tirribuli viaggiu (‘A scninnuta o’ ‘nfernu), poema che sulla fama che ha, sulla conoscenza che deve ancora riscuotere, rappresenta un importante momento della carriera letteraria del poeta, e a nostro giudizio un importante momento del suo ricorso, del suo sopravvivere, della sua immortalità nella storia della poesia siciliana. Nelle otto pagine della mia presentazione del difficile e coinvolgentissimo poema, ho tentato provocatoriamente di collocare Galletto nella storia della poesia della nostra Isola: sono riandato al grandissimo Antonio Veneziano (l’amico di Miguel Cervantes de Saavedra, per intenderci; essendo costui, come ben si potrebbe dire oggi, a parità di grandi riconoscimenti, l’amico di Antonio Veneziano) e da lui sono disceso ai nostri giorni, passando in sintesi i grandi poeti intermedi. L’intento satirico di un poeta essenzialmente lirico come Galletto, diventa nel poema citato un momento non solo di crescita ma di responsabilità, cioè di sintesi. Il poeta si è trovato di fronte al proprio da fare; avrà pensato ai suoi tanti altri poemetti, da La dignità d’un pappagaddu al post-conciliare Serafinu Candore; da L’assassiniu d’Abeli a Sdrirraggiunamentu
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e pazzia di Orlandu etc. etc. Questo pensiero del poeta sul proprio operato, che è qualcosa che ne comprende l’opera ma anche l’umanità, la biografia, può non essere avvenuto mai, o comunque può essere avvenuto in un senso diverso da quello causale cronologico: ma poeticamente è avvenuto. Dopo avere visitato costumi e sentimenti, Galletto ha voluto materiare la propria poesia della cultura agrigentina di oggi, della sua antropologia: politici, ruffiani, profittatori, infelici, prevaricatori... I buoni, i normali, gli utili non vi sono: e come potrebbero esservi, nell’inferno? Essi sono in quel paradiso che non è stato scritto, che forse non verrà mai scritto. La poesia di Galletto si fa potente, miele e fiele danno un imparabile sarcasmo civile e morale, la vita di questi anni e di questa nostra terra viene scoperchiata. Per un poeta così grande e pericoloso di poesia e di coraggio è forse giusto quello che gli accade: questa fama che lo accompagna senza riconoscerlo, perché lo controlla come se lo lisciasse, per non farne sprigionare l’enorme portata significativa, il suo ruolo, la sua voce, la sua voce intelligibile: coloro che lo temono lo plaudono per delimitarlo, per finirlo nella fama: è il loro puntellarsi: coloro che dovrebbero incoraggiarne la conoscenza che dovrebbero cioè avviare un dibattito di incontri sulla sua fama, un confronto sul suo valore di intellettuale e di poeta. Lo infrenano soffocandolo di fama detta e di fama sentita. La conoscenza, abbiamo visto, è tutt’altra cosa, ed è quella che non si vuole. Godetevelo, sembrano dire, a condizione di non conoscerlo. Sappiate di lui quello che vi arriva e quello che vi diciamo, ma non osate di conoscerlo del tutto. Galletto resta così prigioniero della propria inestricabile grandezza, destinato -speriamo di no- a rimanere il primo tra nomi e soggetti, persino indegno di essere tra gli ultimi. A volte lo si ospita, lo si chiama, lo si fa recitare, lo si incarica secondo turni e scalette che tengono presenti altri interessi prioritari e più forti aspettative galoppine di cialtroni e dilettanti da ridere che nulla hanno a che vedere con un vero autore e un vero poeta. Deve esserci posto per tutti ma dobbiamo, perdio, distinguere tra i recitanti augurosi e ammanigliati e i veri artisti. Il pericolo è che Galletto, sentendo il pericolo, lo voglia sconfiggere sullo stesso piano, in vece che districarsene e piantarlo in asso. Ci sono due culture agrigentine: quella anestetica del consenso, del codazzo, dell’intrattenimento, e quella minoritaria e vera tenuta fuori
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dalle risonanze, tenuta come clandestina e indesiderabile, o tutt’al più, se risulta sfondante, ammessa con la museruola della fama. Una famosa non-conoscenza è quindi l’ordigno ai danni di questo grande agrigentino di Raffadali, la cui opera, fatta per risvegliare, viene assopita e come data assiomaticamente, da parte di una certa cultura che, propria di chi detiene mezzi e potere, agisce come vera cultura agrigentina: quella cultura che è invece da scoprire in Galletto e che gli viene usurpata ad uso di infingimento e di nascondimento. Forse la satira del poeta sta in parte di questa coscienza. D’altronde la cultura si pone e si sviluppa per agone, ha sempre un intento di affermazione contro il raggiro: c’è una satira in poesia come c’è una satira in filosofia e persino nel progresso scientifico. La satira di Galletto è, sotto il profilo culturale e letterario, il recupero di una dimensione storica e spirituale che mancava alla nostra terra: dove ad essa, ma confusamente con la favolistica, si era solo avvicinato -ma senza scienza di responsabilità- il canicattinese Peppipaci (Giuseppe Pace). La nostra realtà perduta, digredita, amaramente retrostante, con le sue sofferenze, la deboscia amministrativa, i silenzi sottomessi, i controlli biliosi, la mancanza di progresso veniva affrontata in termini dolenti e francescanamente cantata e quasi (in senso religioso) comunicata. Gli è che la nostra cultura generale, quindi popolare, non era stata intentata da quel fenomeno illuministico e disinibitorio che in altre terre e province si allaccia ai nomi di Meli, Domenico Tempio, Leonardi, Reina, Paternò-Castello, Sardo e altri. Senza questo contributo, la poesia del grande Di Giovanni si era fatta elegiaca e fraternitaria. Galletto recupera il tempo, lo salta perché non trova un settecentismo agrigentino erotico-eroico, sensuale e scanzonato, scaltro e irriguardoso. In Girgenti settecento e ottocento erano stati secoli ligi e buonini: tempi di casa e chiesa, con qualche sommossa, qualche adesione rivoluzionaria e molti profitti. La rivoluzione del 1848, ad esempio, aveva procurato alla buona borghesia facilità di truffe e arricchimenti. Le fortificazioni non vennero mai costruite ma i finanziamenti vennero recapitati. Galletto recupera queste oscure parentesi, si imprime un salto di impegno che richiede alla poesia civile e di critica sociale e del costume di farsi satira, di darsi cioè succhi e strumento di sostegno. Ecco Un terribuli viaggiu. Chi non aveva interesse ha finto di non capire, avendo interesse contrario. Sul come e sul perché di questa straordinaria esperienza culturale
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e poetica del nostro, bisognerebbe spendere qualcosa in più del tempo di una articolo, ed andare ad un saggio o ad una serie di ricerche. Non ci risulta che qualche neolaureando abbia chiesto di scrivere e trattare una tesi sperimentale su Galletto. Forse le difficoltà allontanano dai doveri culturali. E dire che sarebbe utile studiare il rapporto tra lingua italiana e lingua dialettale nel poeta e nel filologo che sono in Galletto. Anche qui gli interessi si accavallano. Galletto studia, esplora e pensa il siciliano con interessi di lingua italiana; e naturalmente arricchisce la lingua con quella severità che proviene dai contributi di cui si possono scorgere o appurare i titoli. Se non si colloca tra i prosatori sconfinanti, dall’illustre ed irripetibile Stefano D’Arrigo al più vicino, copioso e bonario Andrea Camilleri, è perché intende in poesia i contributi farli scaturire non già dalle falle o apparenti trasgressioni, ma farli affiorire dalle opere morte delle due lingue, dal loro fasciame sottomarino, dalle loro storie di mondi -quello nazionale e quello regionale- diventati diversi pur muovendo coassialmente dalla primogenitura nazional-regionale di Sicilia, antico e splendido Regno. Galletto scopre nel siciliano il siciliano, e quindi anche il bisogno dell’italiano. Segue da poeta un tragitto inverso a quello dello storico. Un ulteriore campo di vasto interesse per chi voglia approfondire l’opera di Galletto viene offerto dalla sua attività di studioso e ricercatore, iniziata con la pubblicazione di Voci antiche, amplissima raccolta di canti, canzoni, proverbi e preghiere del popolo raffadalese; proseguita con corsi saggi e vari studi, ed in procinto di darci un poderoso lavoro di ulteriori ricerche e riflessioni. Voci antiche è stata saccheggiata e di essa si è fatto, come dire?, un lucroso commercio di spermatozoi. Sono stati in tanti ad utilizzarla e a mettere le mani nel sacco, senza mai una citazione di fonte.
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E ci rammarichiamo che Galletto non sia vissuto tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento, che non abbia potuto operare in quella grande e parentetica reviviscenza di orgoglio culturale, di studio e di documentazione. Come contraddittoriamente ci rammarichiamo che non sia nato tra cent’anni, in un tempo nel quale l’augurio lascia sperare che la nostra terra potrà liberamente ed in progresso generale e democratico, senza impacci di sottomissioni, comprendere i suoi uomini migliori. Fama e conoscenza di Domenico Alvise Galletto. Pietro Amato, critico di scuola sciasciana e amico fidato dello scrittore, in un corso di insegnamento presso l’istituto Tecnico Commerciale, ha avuto a dire qualche anno addietro che Galletto è l’unico agrigentino che fa poesia. Tace infatti la voce di Antonino Cremona, e son taciute per sempre le voci di Giuseppe Zagarrio e Alfonso Zaccaria: altri uomini con interessi diversi da quelli di Galletto; interessi più prognostici, più disperati, più culturali, più autopsitici. Mi scuso col professore Amato se sul punto manco di riservatezza, ma mi serviva la sua autorità. Decine di intellettuali agrigentini, nel chiuso del privato, nei loro studi, in ristrettissime conversazioni, esprimono lo stesso concetto. Ma i poteri non l’intendono; e non perché non se ne intendono, ma perché hanno temenza e rossore: ma un rossore avaro e senza frutto. Temono infatti di essere conosciuti, una volta che venisse conosciuto Galletto. Che intanto merita di essere conosciuto, perché lo meritiamo anche noi di questa terra d’Agrigento.
LA FRANA RIVOLUZIONARIA
Ora che ci penso, la frana agrigentina del 19 luglio accadde nell’aspro silenzio del primo mattino con un gran baccano, come se tuonasse e le voci alzassero un polverone, e i suoni esalati restassero sospesi in aria e non toccassero terra per paura, udibili ma irraggiungibili nella loro sospensione; una nube di sabbia sonora, di toni messi in salvo, di versi segnalatori. In basso la terra eruttava sempre nuove voci e suoni. L’aria era ferma, col crescere della paura il cielo si abbassava sulla terra e i suoni non avevano più la forza di trascenderla. Insistono sui ricordi, senza mai lasciare una presa stringente, i ricatti e i consensi dello spirito, diabolico ed. angelico manipolatore. Suppongo che i miei ricordi siano irrimediabilmente falsi, divenuti cioè tali, cresciuti, guarniti e circonfusi come cesti di canna che un tempo contenevano solo l’oggetto, la mera e circoscritta memoria di quei soli e pochi giorni di frana, mentre in seguito mi ci son trovato per intero, senza rispetto di distinzione. Mi consta impossibile prendere le distanze dai ricordi che in fondo mi rimembrano interamente. Mi ci trovo come su una barca e non posso defilarmi. I ricordi li padroneggi per poco, dopo sono essi a prenderti anima e corpo, mai schietti, sempre intentarii e con la fregola di una retrospettiva immortalità. Chi è vivo è eterno, ti dicono. La vita è una esaltante forma di presunzione: lo spirito ci inganna e ci offre svaghi corrispondenti. I ricordi ne rappresentano il sesso, e il pensiero abboccato non smette mai di frequentarli. Ora che ancora ci penso in meglio, i miei ricordi di quel giorno di primo mattino mi appaiono inquinati da una lettura successiva, come cioè se ricordassi la frana per averla letta. Mi riferisco al prologo crescente de La ultima mujer y el proximo combate, il magnifico romanzo del cubano Manuel Cofino: “Una confusione, come se la terra stesse spingendo giù altra terra, come se parti di terra, dentro, stessero combattendo con altre parti di terra”. Nel romanzo trovo un formicaio, una palma e un allevamento di cavalli. E un cavallo e una palma ricordo di aver visto la mattina della frana, e qui è come se la frana avesse presagito per immagini simboliche il romanzo, con un
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lustro di anticipo sulla pubblicazione e il credito di un ventennio sulla mia prima lettura. Il cavallo lo vidi in via Garibaldi, per la briglia di un uomo che diceva di condurlo in salvo. S’assumeva che la città stesse tutta per crollare, e chi lo diceva, dopo avere adempiuto ad alcuni urgenti obblighi di sgombro, sembrava averne il sottile piacere dell’attesa e della previsione, pur confidando nel piacere maggiore della smentita. Mi è rimasta impressa la flessuosa palma che verzica ancora sopra Porta di Mare, appartenuta nel passato al giardino dei Mendolia, prensile e affacciato sul corrimano delle mura arabo-normanne. Che succede? Nulla, rispondeva la palma. Ma forse questa immagine è stata ripescata dalla lettura dell’opera di Cofino, per un risalire e ridiscendere di funi nel condotto del pozzo. Quanto al formicaio del libro, Agrigento era quel giorno un imponente formicaio. I conti tornano ma resto in debito con La ultima mujer, nel senso che i miei ricordi possono essersi legittimati di ben altro e di più importante. La frana stava sfondando l’esile paratia che separava la città dal proprio micro-macrocosmo. Era insieme, come il romanzo, presente, passato e futuro. Arrivava la rivoluzione sotto specie di frana e spiazzava l’antica vita dei regnicoli girgentini, l’accidiosa compunzione del primo dopoguerra, la mercatura del secondo dopoguerra: le cosiddette bonarietà, i cosiddetti apatismi della nostra vita di cerchia periferica, contegnosa e garantita dalla disappartenenza ad una storia che non fosse, qual’era semplicemente stata, la nostra pittima storia. Anche il romanzo di Cofino si svolge all’ombra di una rivoluzione, col prodromo della frana del formicaio. Coloro che vollero subito avere a che fare con la frana, dal freddoloso sindaco Ginex al giovane e vispo assessore che vi vide occasione dì pubbliche relazioni e private conoscenze, dai parlamentari locali che si ritennero più indispensabili della Croce Rossa e dei vigili del fuoco a Mario Alicata che volle occuparsene con alcuni interventi parlamentari travedenti nella sostanza e rimasti astrattamente degni, per la loro mirabile fattura, di venire letterariamente riletti pur senza un reale profitto storico o scientifico, ebbero a perdere, come vediamo oggi, il loro tempo. Il sindaco defenestrato se ne umiliò fino a trascorrere da lì alla fine anni fatui e dolorosi di vita. Gli premorì Mario Alicata, spentosi per sforzo di teoria e fino all’ultimo incapace di cogliere dalla frana il vero fatto e non solo la prova dimostrativa di un processo ricostruibile. Ed
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il vero fatto della frana era ed è stato il valore rivoluzionario che ha avuto, non già per le sue conseguenze geo-sociologiche (e dunque per il fenomeno che è stata in sé) quanto per le causazioni storiche che avrebbe reso possibili. La frana è avvenuta senza saperlo, al modo stesso come è nato Napoleone, ma per gli uomini una frana o la nascita di uno di essi può avere conseguenze assai significative. Ricordo ancora quel 19 luglio come se fosse ora, e tanti sono stati i fatti delle sue conseguenze da immaginare che non ci sia mai stato un giorno prima, un 18 luglio, quasi per contrastare il pericolo di fantasia che il 19 luglio sia stato un giorno diverso, un giorno speciale, perdigiorno, bordone, smagliato fuori dal tempo per procurare un rattoppo di lacerazione, un solco colmabile. Forse bisognerebbe dare in pasto alla stessa fantasia l’ipotesi immaginaria che sia stato un giorno perso, saltato dal giorno precedente al susseguente senza mettere frutto, giorno fatto di una doppia notte dominata dal sogno smanioso di un cattivo risveglio. Forse solo così, dal presente, potrebbe rilevarsi la necessità di quel 19 luglio e quindi, fuori di ogni ricordo, l’avvenimento della frana. Da allora la storia ha continuato non senza storia. La frana ha tolto alla città le sue parentesi, il segretume dei panni, una certa modale pavidità di esternazione, l’autorità degli storci1eggi, la riservatezza clitoridea delle proprie effusioni, l’aura bigotta di certa trepida e cognatizia coesione intestina. Molti giochi sono venuti alla luce, molte antichità d’animo sono state spazzate, gli interessi civili e ideali si son resi non meno forti (e non meno brutalmente chiari) di quelli venali. La sofferenza è naturalmente cresciuta con la crescita e la trasformazione della città e del suo linguaggio, ma non possiamo rimpiangere gli anni mielosi del silenzio conserto, delle ossequiosità conformistiche, della conformistica e schiacciante sigillatura paciale imposta dalle autarchie. Oggi quanto meno bruscherie e gelate filature di opinioni, venti di idee e tempeste di pensiero ce le fiatiamo sui volti guardandoci negli occhi. La città si spacca perché si dissoda e cresce. Non ci sono più certezze comandate ed autoritative. Alcune guarentigie e smancerie protettive risultano smaccate. Ora siamo quelli che siamo divenuti, e lo dobbiamo certamente all’effetto rivoluzionario della frana. Ora la città potrebbe espungere il proprio nome decadentista e richiamarsi risarcitoriamente Acragante.
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E quanto alle quotidiane storie e resistenze agrigentine, alle storie senza storia, ai tentativi autoperpetuativi di forme di vita sub-civili e sub-moderne, all’utopia di condannare la storia in nome del passato e delle sue comodità, all’identificazione reazionaria della ricomposizione degli animi con i pregressi costumi dell’unanimismo conformistico e omertoso, essi ci appaiono come speranze ritagliate nella frustrazione e nella rimembranza: conati patetico-consolatori, per quanto siano qua e là interzate da autorevoli suffragazioni, rispetto a fatti dati storicamente e culturalmente coordinati. Esistono beninteso e continueranno ad esistere, ma scalzati e pervicaci, alcuni sentimentali cultori dell’inesistenza o quanto meno della retrodatazione. La pastorale laica di questo presente storico è fondata sul superamento magmatico delle barriere psicologiche e culturali di una comunità già in forte ritardo sulla modernità; sul recupero attuale rispetto ad una secolare (e se vogliamo dolcissima ed estrinsecamente contegnosa) arretratezza negli atti del tacere, del parlare, del pensare e del fare. Pertanto gli “impiegati” del passato dovrebbero comprendere che una cosa è prendere il treno che si muove mentre tutt’altra cosa è scendere dal treno in corsa. C’è poi da dire, e ci spiace segnalarlo agli addetti, che la propensione alla dolenza ed al vittimismo, e l’inchino ad una vita collettiva vista, con un falso statistico e percettivo, come oberata dalle iniquità, potrebbe indurci ad interrogare se nel profondo di certi cuori non vi sia, col coniugio delle menti, una goduria di ricerca e di segnalazione del dolce nell’amaro e di piacere nella iattura. Può trattarsi naturalmente di calcoli inconsci o di incolpevoli inclinazioni, ma quello che avviene in certi uomini non può sfuggire ad altri uomini. Quando le parole volano, superano i confini di proprietà di chi le profferisce. La classica fisiologia del piacere e del dolore prima, e la psicologia del profondo oggi ci hanno insegnato che tra i due poli propensivi non esistono confinamenti rigidi. Non è improbabile che chi, come me, ama la città quale è oggi in quanto è reale, e non quella che era nel passato (che và semplicemente ricercata con un amore mosso dal presente), rispetti quel passato e lo ami meglio e più dei passatisti che frucolano nell’oggi quasi fosse morto e frucolano nello ieri quasi fosse ancora palpitante, e nei due casi con lugubre attitudine. In numerosi attestati di affluenza solidaristica alle presentanee iatture cittadine Libido e Tanatos concertano scopertamente. C’è una eccitazione di perpetuazione del perduto
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e del travolto che si sposa ad un culto mortuario della vita. Questo non è preoccupante: è semplicemente illuminante. Forse ricercare il finito dà in alcuni soggetti una ebbrezza d’infinito. * * * Vicino sembra essere quel 19 luglio della frana, tanto vicino da essere ancora causa diretta di eventi vicini e contemporanei, e ragione ventura di altri eventi. Lontano sembra invece essere il 1966, anno di quel giorno e di quel mese, forse perché il calcolo degli anni differisce da quello dei mesi e dei giorni che ritornano periodicamente con compiti di riscossioni memoriali, periodici e celebrativi come i pavoneggianti addetti di un culto. Gli anni al contrario non sfilano mai più: trascorrono, s’involano e rientrano nella nostra mancanza di dominio. La frana trasse il dado dalla bussola di quell’anno, e dopo meno di tre frenetici mesi veniva pubblicato con i tipi della torinese L’impronta la cosiddetta relazione Martuscelli, potente e tribunizia inquisizione. Alla città quell’anno diede questi due soli fatti, e se non fosse perché diede nome alla frana (fino ad esserne, quasi, espropriato) e perché si vide che la frana avrebbe trascinato a corteo una serie di anni famuli avvenire (tant’è che la processione dura ancora), esso ci apparirebbe come un anno magro e una semplice cartella temporale. Da decenni la città non era stata disturbata dalla storia e si era organizzata in un sistema di amicizie e clientele sororali e in confraternite politico-amministrative di osservanza maggioritaria. I gruppi di opposizione e di diversa opinione venivano tollerati alla guisa di necessità anatomiche, come ad esempio le pudende e gli orifizi nei corpi. Tutto era quasi di tutti, ma secondo una rigida “diwan” di appoggi, profitti e pescaggi. Non c’era cittadino, purché conformato al sistema e ai suoi meccanismi di rinnovazione e perpetuazione, che al momento opportuno non potesse richiedere una assorbente ed elastica ricettività delle più strane e disparate trasgressioni. Più che organizzata la vita era inventata sulla base di occasioni, improvvise accensioni, destrezze, progetti sfacciati, colpi di mano coonestati e ratificati. I controlli erano predisposti all’armonia generale, e cioè al funzionamento generale della mancanza di controlli. A questa vita la città si era abituata in una sorta di extra-territorialità, di sovranità domestica. Era il trionfo di una sorta di solidarismo arretratissimo in cui le sanzioni erano sostituite dai ritorni, e tutto veniva rimesso e scontato in termini elettorali.
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Più che travolgere incruentemente qualche scheletro di palazzo, la frana smura questi privilegi autarchici ed incide, più che sulle coscienze, sulla possibilità di certi costumi. La relazione di Martuscelli, vista in verità come quel provvedimento che non era chiamata ad essere, si risolveva in un atto di fondamentale conoscenza e di riacquisizione nazionale della città. Tutto questo era la frana, al di là della sua ludica e laica provvidenzialità e della sua meccanica geologica, e in quanto fatto che rivoluzionava la pigrizia di secoli, veniva ad occupare quell’anno, anzi tracimava e inondava il futuro. Se non fosse stato per la frana, il 1966 si sarebbe improsciuttito nella memoria, fino a ritornare un numero secco. Gli anni in verità non sono tutti uguali, e ogni anno, più che misurare e consegnare lo stesso tempo, l’imbriglia e lo batte in maniera diversa, a seconda di come lo preda all’eternità, sì da farne ostaggio storico. E’ la diversità degli anni e non il loro sistema misuratore a rendere possibile la storia. Ramon Gomez de la Serna, quel gran matematico del paragone e dell’analogia, ha potuto scrivere Senos perché non tutte le donne sono uguali di petto, così come non tutti gli anni sono uguali di storia. Esistono le cifre romane, quelle indiane e quelle arabiche, e Orio Vergani ha potuto dire che esiste anche una cifra ramoniana, e naturalmente è possibile dire che esiste tra le altre una cifra agrigentina: o che, per lavorare di sfumino, è impossibile dire che non possa esistere. I giochi di verità sono giochi di specchi e di scosse: credo che Vergani volesse dire che tante cifre esistono quante le stesse cose riescono a computare, facendone per varietà di apprendimento cose sempre diverse e principianti. Intendere per cose segni o caratteri, eventi e percorsi, fatti e immaginazioni (o come, nel caso dell’anatomico apologo ramoniano, “mamas y ubres”) resta circostanza indifferente e sottomessa. Degli anni dunque può dirsi, come dei seni, che a ciascuno di essi non è dato di somigliare ad ogni altro, fino al punto di poterlo perfettamente comprendere come suo raddoppiamento o rinuncia. Il mito del tempo è fondato sull’avvento del più e del meno. Se il 1966 è stato l’anno della frana, il 1968 è stato l’anno dei primi conti. Morsa e crisi che sembravano stessero oppilando la città, l’andavano invece immunizzando da sé stessa. Agrigento stava imboccando la via di una numerazione diversa della propria intelligenza, per fare diversamente di conto. Era il primo
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tentativo di sbrogliarsi dal proprio imbroglio, di leggere diversamente la propria cosiddetta cordialità, di indagare sulla propria supposta e ammantante apatia. Era chiaramente tentativo di pochi, ed in primis è stato tentativo di una donna. Se la frana del 1966 ebbe a che fare con la terra e fu risveglio del drago domato da Gerlando di Besançon, avvinto in catene e sprofondato nella gora del fiume, la frana del 1968 fu endogena ai cittadini, al loro ordine costituito. Fu slavina di opinioni tracollo di certezze. E se dapprima vi era stata, alla lettura della relazione Martuscelli, una generale messa in discussione dei fatti particolari, ora avvertiva il contrario: si discuteva in particolare sui fatti generali. Non era più dunque frana tra radici e radici, ma frana di emergenze e di sostrati. Ma la frana del 1966 rimaneva la madre di tutte le frane, e anche la frana dei cosiddetti valori pregressi e delle opinioni che non riuscivano più a suffragarli, faceva parte della frana. Molti tentativi di arginare la frana franavano sotto il fatto rivoluzionario con cui la terra aveva offerto storia alla città. Si postularono i deputati locali di maggioranza a mediare il pateracchio, si diede segretezza ad alcune iniziative di riparo che divennero infami e inani proprio perché congiurate, si tentò di nascondere la luce del sole, si sturarono escogitazioni e palliativi apotropaici consoni ad un ributtante primitivismo, e un importante appaltatore di lavori pubblici ebbe l’idea di spedire in anonimo, quasi per conto della città, il ritratto di un famoso jettatore indigeno, perché il destinatario -il ministro Mancini- ne traesse conseguenze: o meglio, Dio per lui, lo fulminasse. Piccoli importanti consiglieri comunali e vari arruffoni si prodigarono per venire in possesso del ritratto. Venne raggiunto un fotografo che si compenetrò nel piano di generale salute. Si tentò di far passare Martuscelli come colui che aveva rubato alcune carte. Con queste ed altre coglionerie si approntavano e si rinnovavano le difese e gli attacchi. Anche il famoso sciopero di mercoledì 21 dicembre 1966 aveva fatto parte della frana vera, risolvendosi in uno smottamento di uomini e mezzi, granuli fisici di uno slargamento di instabilità. Di umano e popolare vi fu la disperazione che in marcia prese il posto del piano segreto. La frana del 1968 è stata tutt’altra cosa: frana di ogni confidamento su ogni ristabilimento, alle condizioni di ciò che era stato prima della vera frana e della sua rivoluzione. Nel 1968, in sostanza, si comprende l’irreversibilità del fatto.
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Agrigento 1968 - Profilo socio-culturale è il titolo ondivago di un serio e singolare saggio di 95 pagine che Carolina Guggino-Sciortino pubblicava in due puntate, nei numeri 30 e 31 dei prestigiosi Quaderni Meridionali di quell’anno. Il quale, per connessione casuale o per zelo unitario dell’autrice e dell’editore, viene ad essere trilobato: anno di esperimento dell’indagine, anno di pubblicazione della stesura che ne dava il risultato, e infine numero cardinale, unitamente al nome della città, come titolo dello scritto. La parte rimanente dell’intestazione (Profìlo socio-culturale) è chiaramente una avvertenza per l’uso della lettura, a bardella dell’altrui cognizione: rimedio per eventuali ed aspettate controindicazioni di critica o d’ipercritica, di biasimo o di censura, e rassicurazione per i ribollimenti reattivi. E’ quasi una nota nel titolo, proposta, al di là dello scrupolo di disciplina e della proprietà metodologica della scienza, come una giustificazione tecnica atta a giustificare e per ciò stesso a circoscrivere l’abnorme verità-eccezionalità del risultato. Quasi a dire: state bene attenti, questa è Agrigento come appare in una indagine socio-culturale; e quasi ad illuderla circa un risultato meno grave e disperato di quello profilato dal saggio,ove lo stesso fosse stato condotto per altre discipline o con diverse metodologie. Parte del titolo era dunque una cautela d’autrice. Ci chiediamo quale diversificazione di risultato sarebbe stato possibile qualora l’indagine avesse mosso alla ricerca di un dissimile profilo: produttivo, o morale, o puramente culturale. Già la GugginoSciortino denuncia le difficoltà “culturali” del proprio lavoro, deferendole quindi ad un giudizio interno e meramente culturale, allorquando annota la mancanza di titoli -libri, saggi, contributi sulla materia specifica e sulla vita e la realtà agrigentine. Nel cinquantennio la predilezione dei pubblicisti agrigentini è andata prevalentemente agli argomenti di illustrazione storiografica classica o comunque antica, una sorta di spiegazione all’indietro della conoscenza, quindi un ripiegamento, parodia scaramantica del presente. Che cosa noi, ad esempio, conosciamo del sesso o della droga in città? Conosciamo molto di più sull’ellenico-acragantino gioco del Kottabo e sui tributi priapei delle nostre classi progenitrici. Contuttociò, mentre accettiamo la ricerca per quei tempi antichi e soluti, ci illudiamo di essere gli eterni elleni. La Guggino-Sciortino si imbatte dunque in questa povertà pubblicistica: in una vera e propria miseria conoscitiva. Proprio questa ca-
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ratteristica di povertà e ingratitudine intellettuale di Agrigento verso sé stessa l’autrice coglie in corso d’opera, e qui il suo merito non è grande, e non solo perché è merito facile, ma perché sembra discendere quasi vendicativamente dall’impaccio di pochezza di fonti. Non è improbabile che la mancanza di contributi conoscitivi derivi proprio dall’avvisaglia dei risultati. Perché inficiare l’auto-opinione della città? Perché sortire dal coro affaccendato in tutt’altre faccende? Perché attentare al canone tautologico di una bassa ma satisfattoria consapevolezza con gli strumenti perforativi del procedimento induttivo-deduttivo? Perchè chiedersi di cause ad incominciare dalla raccolta di fenomeni? Nè è improbabile che la mancanza di reazioni all’importantissimo saggio Agrigento 1968 sia dovuto più ad una mancanza di lettori che ad una capacità di rimozione: e comunque, il risultato della scrittura non è comparabile a quello della lettura. Manca il secondo termine, e non sappiamo se addurlo ad una incapacità del fatto o ad una abilissima capacità della noncuranza. Forse è stato inconsciamente convenuto di consentire al sociologo ciò che sarebbe stato imperdonabile sulla bocca di un opinionista politico o di un oppositore pratico. Ci sono motivi particolari per ritenere che in città la capacità dei cittadini-lettori si risolva, tout bien compté, nel pubblico, e cioè nella noncuranza generalizzata. Agli ignari, se ne avessero contezza, il saggio della Guggino-Sciortino potrebbe apparire come uno scritto più che corsaro, pornografico. Eppure io sono d’avviso che Agrigento 1968 sia ancora da leggere o rileggere, saggio importantissimo com’è e saggio apparentemente unico nel nostro panorama. L’apparenza sta qui per sinonimo di ufficialità di materia: ritengo infatti che, dopo e col saggio predetto, vada compreso nel panorama, e non senza accorgimenti di utilizzazione, la stessa relazione Martuscelli che pure l’ha preceduto; e questo perché, venuto meno il suo pratico scopo di commissione e di pubblicazione, la relazione rimane (si voglia o no) come uno dei pochissimi, filologici strumenti di conoscenza locale: gesta Dei per agrigentinos. E con questo credo di aver fatto, più che una scoperta, una proposta. Il limite invece del saggio della Guggino-Sciortino è a mio giudizio da ritrovare nella mancanza di una idea direttiva e generale, nella omissione di un appigliarsi storico (non dico storiografico), nell’assenza di una tesi: circostanze che possono essere comprese per la grandi difficoltà del lavoro ed il tempestoso assedio dei risultati.
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Agrigento 1968 ci appare pertanto come un vascello partito e mai arrivato, col suo inutilizzato carico di coraggio, di scoperta e di verità, sparito nel nulla agrigentino: ma Agrigento non ha avuto almeno modo di deludersi, risultato che sarebbe stato conformisticamente cullatorio e importante se la frana del 1966 e la con-frana del 1968 (della quale il saggio è insieme frutto e accertamento) non lo avesse reso a sua volta franante e illusorio. Appunto per questo, dato che i tempi della città sono cambiati e vanno cambiando rispetto alle consegne dell’indolente fiducia nel non accadimento, l’importante scritto andrebbe ristampato in forma monografica e in migliaia di copie, capillarmente distribuito, letto, amato o aborrito, per le scosse che dà, le sture, le liberazioni della conoscenza e ad accelerazione di quel processo di riorganizzazione della nostra vita socio-culturale che è in atto in conseguenza della frana rivoluzionaria del 1966. Non è ancora scampato il pericolo (di cui esistono tentazioni, mentre i tentativi falliscono ormai “more geometrico”) che nella propria agrigentinologia l’agrigentinità voglia apparire predominante ed esaustiva rispetto ad ogni scelta di metodo e di disciplina; centrale e falsificatrice (ma si direbbe anche affabulatrice) rispetto ad ogni tentativo di conoscenza specialistica e assonometrica, e di ogni conoscenza tanto particolare che generale. La frana del 1966 ha rivoluzionato la vita della città e continua a farlo. Il processo si concluderà con il livellamento dei vasi comunicanti, quando cioè il riconoscimento degli effetti e delle manifestazioni della vita agrigentina coinciderà col riconoscimento dei giudizi su di essa. Si tratterà in sostanza di una reciproca ammissione e di un accomunamento, fermo rimanendo ciò che è particolare rispetto a ciò che sarà unificatore ed in quanto lo avrà riconosciuto come tale. Non sono in forse le caratterizzazioni storiche, etno-culturali, antropo-sociologiche locali, ed in breve il “genius loci” della città: ma queste forze diverranno progettuali e non più congiuranti e ricusatorie, né più pretenderanno arretratezze privilegiatrici. O è una weltanschauung agrigentina da parte dei locali, o c’è una weltanschauung agrigentina da parte del resto d’Italia. Siamo in pieno confronto tra queste due visioni socio-culturali e spazio-sensoriali di questo nostro mondo indicato come “città dei templi” o più icasticamente, con termine che, per quanta pomposa blandizia abbia, non disdegna una certa ironia, come “valle”.
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Insistiamo ancora sulla chiarezza: per fatto di un evento rivoluzionano come la frana, la cittaduzza o cittadina di citazione pirandelliana è piegata e condotta a rifarsi città. Il caso Agrigento sta tutto qui. Da qui una certa a volte violenta e a volte sorniona resistenza al disturbo, un attaccamento alle mollezze del passato, ai loro plastici fondali, ed una incomprensione che chiede comprensione e conversione di chi si confronta con noi. Il rivoluzionamento della frana non è avvenuto per lunghe diritture, né ininterrottamente, né a ripetizione. Ogni causa di cambiamento ha subito gli effetti dei fenomeni senza prescinderne in ogni altra riproduzione di causa. Si è aperto insomma un discorso, anche se il discorso vorremmo farlo solo noi, ed anche quando asseriamo che a farlo siano soltanto gli altri. La via è stata cosparsa di dolorose iniziazioni. E dilacerazioni, ma una dialettica, se la si sa vedere, c’è stata e c’è. E’ verosimile che allo storico che nel futuro vorrà occuparsi di questi nostri decenni, certi termini di fenomenologie e di scandali che per noi sembrano avere una immobiliarità catastale e prestarsi a inventariazioni volumetriche e di postura potranno risultare piuttosto ambulanti o caudatarie, a servizio cioè dello sviluppo di un discorso o di una polemica con cui si sono andati ricercando e trovando compromessi e soluzioni, spesso di ordine temporale. Mi riferisco ad esempio al termine “abusivismo”. Si è fatta certamente confusione tra il disturbo al panorama dei templi e il disturbo al panorama della legalità. E’ mancato un momento di superamento e di funzionamento unitario dei due fenomeni di abuso. Per parte mia, distinguo bene le leggi dai templi, dei quali potrebbe dirsi, celiando Aristotile, che non soggiacciono a leggi, essendo essi stessi la legge. Di conseguenza ciò che si è trovato giuridicamente regolare è venuto ad avere quella paesaggistica e culturale regolarità che invece il giudizio e la visione frequentemente espungono. Questa promiscuità ha consentito la fluitazione dello scandalo d’ingombro a carico della valle nello scandalo d’ingombro nella valle, degenerando e invertendo così la genesi dell’originario allarme, della denuncia e della richiesta d’interventi dalla prima alla seconda proposizione. Per far questo c’è voluta la pazienza di lunghi anni di polemica, che è storicamente servita ad occultare quello che tutte le parti volevano che si facesse. Agrigento, la città messa sotto accusa per i suoi “tolli”con una puntualissima interrogazione parlamentare che ha preceduto la frana, se
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ne è liberata nel momento in cui ha accettato di perorare l’incorruzione della valle. Se si ammette che una città possa scendere a far questo,è giocoforza ammettere che la stessa città sia liberata dal pericolo di dovere risalire a sè stessa in via -come dire?- pregiudiziale. Cosicché dagli orribili tolli si può oggi dire e vedere che, al confronto, la valle è veramente e relativamente intemerata. Questa commistione tra il giuridico e il culturale rappresenta a ben pensarci un momento di “non-laicità”: di confusionismo e di scolasticismo insieme. Da non sottovalutare tuttavia che il pateracchio ha consentito in termini quasi compromissori (ed al riparo di ogni sfoderamento) l’ avvento del nuovo nel pregresso, quasi all’ insegna di una legge del minimo mezzo tra la domanda e l’offerta, tra il rappresentato ed il possibile. Siamo nel dominio dell’accaduto, le cui logiche e informazioni lo storico del futuro non potrebbe ricercarle che nei fatti, ed in particolare nel reticolo territoriale, dove gli effetti si dislocano e si rapprendono dopo l’urto di esplosione e deposizione della città. A tal proposito la lunga, affettuosa e oggi sopita disquisizione sul centro storico appare simile ad un’opera di intrattenimento e di digressione attorno al palo, per consentire agli avvenimenti di accadere, anche in termini costruttivi, urbanistici ed antropologici, sul territorio. Non bisogna farci incantare dagli amori e dal tempo per non perdere il controllo degli affetti e consentire a nostra insaputa lo scampo della realtà. Lo storico del futuro potrà rendersi conto che la città è cambiata cambiando, e che, uscita a far tempo dal fascismo, da1le proprie mura per compiere qualche tracotanza e numerose razzie territoriali, fuori le mura distrutte in gran parte è rimasta; e saltando forre, valloni, crinali e vincoli, si è sparsa come acque in tante direzioni, spesso stagnandovi. Oggi la città non è più restaurabile urbanisticamente, con il vecchio centro storico a guardia, ora radiosa ed ora grifagna, della propria seminativa perdenza. Dal centro storico si scorge panoramicamente l’accaduto: Villaseta, Vill. Peruzzo e Mosè, S. Leone, Fontanelle, S. Giusippuzzu e Pitarresi, e dietro S. Michele, e dietro ancora un cordone d’altura, Consolida. Montaperto e Giardina Gallotti sembrano divenuti due nobili pretoriani invecchiati e turbati dalla mancanza di confidenza e da una antica lontananza di orecchie. Ed ora sta al centro storico di capire l’accaduto, intendendo per centro storico i palazzi di un potere che non riesce a cambiare ed anzi
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si atteggia (al venir meno della compattezza corporale della comunità, alle sue germinazioni e proliferazioni) a mutria di protettorato. Per una nuova intelligenza di partecipazione regionale e nazionale il cambiamento della città implica quello socio-culturale dei cittadini che lo hanno reso possibile. Nuovi defilati quartieri e fitte case sparse implicano nuove esperienze vitali e organizzative che richiedono un potenziamento di capacità deduttiva. Agrigento empirica richiede quella intellettiva, il nuovo chiede di diventare tradizione. Il centro storico perde sempre di più l’antico stazzo di recinzione e di verifica anagrafica, e dalla funzione di abbraccio deve passare a quella della vocazione. Essere cittadini agrigentini richiede sempre di più un divenirlo, non più sull’onda di una corriva riappropriazione ma su quella della elezione. Il rivoluzionamento della frana sta rendendo possibile questo nuovo modo di esserci, richiedendo spesso rinunzie che costituiscono il lavoro e la fatica della comunità, fino a renderceli -se non li ipostatizziamo come mali- remunerativi.
LA CITTÀ DIOCESANA
Mi dedico spesso, nella mia paga e modesta solitudine, a vedere le cose da lontano, come già passate e accadute, mentre ancora non hanno avuto il tempo di accadere del tutto. Leggere il tempo è un impegno. Scriveva Nietzsche che ricordare significa andare avanti, rivivere nel futuro il passato, scoprire qualcosa che non è chiaro di sé, col dare senso e direzione al pensiero. Il prevedere è una dedica diversa dallo stesso pensiero, la cui circolarità può farci dire che anche il futuro è un ricordo. E’ la “magia dello sguardo lontano” di cui parla Michelstadter vista nelle sue due direzioni. Quando accade non può sorprenderci del tutto. Innanzi agli avvenimenti nuovi solo gli spiriti annegati nelle vicende possono dire di sentirsene sorpresi e delusi, perché i fatti sono sempre riconoscibili e non possono essere mai del tutto conosciuti. C’è sempre qualcosa di nuovo che rimanda a ciò che non c’è ancora, così come nel nuovo c’è sempre qualcosa di passato e riandato. Ogni avvenimento, per quanto appaia concluso ed eclatante, è in verità un nuovo interrogativo che si pone in relazione col futuro e per ciò stesso risulta passato: ricordo di ciò che accadrà. In questa sfiducia nelle cose che apparentemente sono si pone e si sviluppa la nostra libertà di farle, cioè la manifestazione di una umana ed essenziale fiducia. E’ stato notato che la storia studia la storia: la parola è contemporaneamente accezione del profondo movimento del tempo e studio di esso, in ultima analisi rimedio e risalimento. La biologia che studia la vita non è vita, mentre la storia che studia la storia è storia. Incombenti su sé stessi, maturi oltre i loro supporti e fuori di quei baricentri che i fatti, proprio per farsi, travalicano come proiezioni del loro passaggio, essi vanno accadendo un attimo prima che in particolare accadano, e quest’attimo è tanto più breve quando più le cogli dalla lontananza, distante dal gorgo delle preoccupazioni e delle aspirazioni: mentre può durare a lungo se ne fai parte e ti sposti con esso. L’eufemistico termine di “eternità” è uno di questi prigionieri viaggi. Tutto sembra eterno se non te ne avvedi, preso dalle eterne contingenze.
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Da lontano le cose le ordino secondo il loro verso, il peso delle radici e le inclinazioni con cui ricercano le loro luci senza la facoltà di prevedere; anche le scienze, in quanto partecipano della struttura della coscienza, non sarebbero scientifiche ma vittime delle loro certezze. Muovendo da un punto del passato, da un fatto o da una serie di fatti, le cose possono ordinarsi fino a travalicare senza avvertimento l’epigrafe del presente, sul cui soglio è più facile travedere, presi dalle milizie e dalle passioni, più di quanto non sia difficile prevedere invece qualcosa. Sono in fondo severiniano, incantato dell’apparire e dello scomparire degli eterni, ed organizzato in questa cessante intrusione di sovrastrutture fino al punto di assecondarne il moto e quindi di percorrerlo. Per me ere già storicamente accaduta, prima che accadesse, la presa di posizione della chiesa ufficiale di Agrigento sul problema dell’abusivismo in valle. Tra le forze in campo avevo individuato quella pronuba, fecondata da una ben circoscritta ira locale, e ne avevo atteso il parto, mentre gli anni che trascorrevano mi smentivano, salvo qualche falso allarme; e negli anni i mesi e i giorni, ironici sottomultipli, sembravano volere acuire con affronto l’insuccesso di una attesa convinta e indurmi così alla palinodia, quasi fosse fatta di una volgare speranza o di una risentita impazienza. Nulla di tutto questo, la mia attesa consisteva in una lettura previsionale degli avvenimenti, spassionata e scommettitrice, o, se volete, un tentativo di sbagliare nello stesso errore. Quando le ruspe cantarono capii che stava per accadere qualcosa, se parto o aborto non so dire neanche ora che è accaduto e che quindi, secondo il mio modo di comprendere, è già scaduto. Dura, cocente, severa, pesante è stata definita quella presa di posizione, e queste aggettivazioni avevano a mio giudizio lo scopo inane e vanitoso, pur da contrapposte appartenenze, di affliggere l’avvenimento come se fosse decisivamente e definitivamente accaduto. Un’alba nuova, questi aggettivi volevano dire, si è aperta: radiosa o tempestosa secondo gli opposti avvisi. E invece abbiamo ascoltato quello che tutti incredibilmente sapevamo. Il transeunte, l’arzigogolato, l’inceppato particolareggiato, un alto tentativo di rendere credibile l’incredibilità. Lo avevo previsto da anni e quando il fatto si è verificato ho vinto la scommessa, quando già alcuni amici che ne erano a parte puntando su previsioni affatto diverse, giudicavano che la partita fosse ormai chiusa e che dovessi ammettere di aver folleggiato.
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Conosco bene Agrigento e conoscere la sua chiesa è lo stesso modo di riconoscere la città. Mai che lo specchio dia un risultato diverso di chi vi si affissa, un ritratto di rigenerata speranza, del suo dover essere, una iconale emendabilità delle sue forze intellettuali, morali e civili: un grande messaggio religioso, grande perché autenticamente religioso, trascendente le povere ragioni delle venalità emotive e dei ritorni calcolati. Se speranza avevo - frale, patriottica e personale – la riponevo nella fallibilità della mia previsione, in una diversa attesa e nell’essere di un diverso non essere della città. E sempre possibile, rispetto al divenire delle apparenze e ai loro decisivi momenti di falsità, che le contraddizioni si contraddicono lasciando scorgere nel fondo una depurazione. Speravo nell’imprevedibile, al di là di essermi limitato a prevedere il prevedibile. Ora nell’avere azzeccato la previsione non trovo particolare contento né avverto di contro particolare rammarico o alcun’altra fisima. La percezione storica non si dichiara mai scaramantica, e la ragionevolezza non comporta mai afflizione. Come gli uccelli che volano, la speranza atterra sempre dopo di noi, sapendo che tra presente e passato si stende una rete pericolosa. Tuttavia non nascondo una certa soddisfazione intellettuale, di secondo grado rispetto al fatto, dato che si limita all’antefatto, e cioè alla mia stessa previsione. La speranza ha fatto un cammino in più, come un’ombra che non vuole interferire col corpo. Mi sono veramente incavolato quando qualcuno tra quelli con cui tiravo ai pronostici mi ha detto e riconosciuto che avevo addivinato. Ad Agrigento si parla spesso e bene in siciliano, ma qui il problema era nell’erronea preferenza del verbo, equivalente più che al ciurmatorio indovinare, al misterioso divinare che ancora usa in italiano per motivi di sfoggio e di effetto. Così nel campo dell’illustrazione archeologica, quando si mira appunto a divinare, o diversamente a interpretare e comprendere, la difficile foggia compositiva di un reperto, o la figurale positura di una mutilata plastica, o per altri rompicapi del genere, impossibili alle verifiche se non rispetto ed altre divinazioni consimili. Ma perché scomodare gli dei? Arriva a ciò l’umana ciarlataneria, come per vergogna di non sottomettere la complessa naturalezza del pensiero. Io mi ero limitato a prevedere un avvenimento possibile. Sapevo che la chiesa sarebbe venuta in soccorso di un potere comunale pervenuto e impappinato e di un organico di cittadini colpiti in fondo dai loro stessi comportamenti, in cura di una sua storica
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mondanità che in certi cruciali temporali istituzionalizza la città per farne quasi una comunità assoluta. L’accaduto inerisce alla storia più che all’immagine: l’icona di una chiesa che accorre in soccorso, pregna com’è di antropomorfismo sororale-maternale, è semplicemente illustrativa e narrativa, ed inidonea alla giustificazione narratologica. Ben diversi sono gli interventi da intendere come opere di religione: spiazzanti, intimi di superiorità, forti non di forza ma di dolcezza, paradossali fino alla storicità del cambiamento, capace di deporre le parti. In una parola: imprevedibili. L’opera di religione tende a suadere, non ad autorizzarsi. L’antico Tertulliano, se non ricordo male, diceva qualcosa del genere. Non sempre l’autorità della voce produce la parola. La presa di posizione di cui stiamo parlando si è esplicata al massimo livello di responsabilità e di rappresentatività istituzionale della chiesa agrigentina. In seguito l’aggettivo “massimo” tecnicamente impiegato dalla stampa, sarebbe stato ripreso e ripetuto con provocante soddisfazione da parte di una certa, connessa e locale opinione pubblica, che tuttavia lo slembava da quel tecnicismo gerarchico puntuale e corretto, per assolutizzarlo e rinfacciarlo ai prudenti. Cosi risuonava nel parlamento di Porta di Ponte, nelle intente pettegolate, nelle comunicazioni personali. Montava quasi la fiducia nell’esito di una vendetta. Quella presa di posizione, appunto perché massima, veniva invidiata e per l’estremismo della sua qualificazione gerarchico-grammaticale risultava, forse senza volerlo, indiavolata. L’antico ed austero predicatore anglicano Bunyan non soleva ripetere che dalle porte del cielo all’abisso c’è sempre una scorciatoia? E certo sarebbe onesto ed elegante se coloro che assumono forti posizioni, tanto nel campo della chiesa che della politica (e spesso tra i due campi c’è la scorciatoia di cui parlava Buyan) ne misurassero gli effetti scendendo travestiti in piazza, sotto le più mentite spoglie, per non smentirsi circa i pareri espressi o per coglierne la strumentalità di percezione e di comprendonio, o soltanto le sfasature. La moltitudine usa sempre violenza nei confronti delle parole che vuole ascoltare, le inferocisce e le fa ruotare come mazze. Fa di una amarezza uno sdegno di un messaggio un’incursione. Non sempre si raccoglie ciò che si semina, e la greggia fugge di voce al buon pastore, quando è portata in vista dell’abbeverata. Le parole della chiesa hanno avuto infatti due risonanze, finendo col dare autorità a punti di vista demotici, grassamente e sensualmente interessati, finendo quindi con il condannarli a non farli ascendere né a
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depurarli. La risonanza del campo laico è stata invece e quanto meno rispettosa di una presa di posizione che ha implicato la misura dell’attenzione ed il rispetto dell’avvenimento, per non parlare della lealtà, di un coraggio senza traguardo di ritorni. Onde in questa città, paradossalmente, i laici sono stati i veri cristiani, mentre quelli di costoro tra i più miliziani e interessati hanno stravolto e sbandierato talmente le parole del Vescovo cosi da renderle, bene al di la della loro testuale durezza, persino velenose. Abbiamo raccolto un florilegio di questi intendimenti, di questi ligi malintesi, di queste scatenate reazioni sia a storia della memoria e delle sue emozioni, sia per avvalercene nella stesura di una saggio di questa pagina di vita agrigentina. Qui ne vogliamo segnalare la malizia e la volgarità, lì le riporteremo. Dopo l’abbeverata che fa la greggia filata dalla voce del buon pastore? Piscia e defeca. Dal punto di vista intellettuale è possibile reintendere e reificare quel confuso e complesso accadere di fatti e di parole sotto un profilo biblico e semitico. Ci ricordavano del massacro dei quarantaduemila per l’errore di pronuncia di Scibolet in luogo di Sibolet, e dal far giustizia del re di Dahomey; o delle parole di Geremia: “Aedificaverunt emcelsa Thopet, que est in valle filiorum Henno, ut incederent filioso et filias suas igni”. Fumisterie e mineralizzazioni: ecco l’accaduto. Una lettura biblica di questa pagina di storia agrigentina può consentirci, a condizione di esserne consentita, di far decollare la città sull’onda di una sesquipedale metafora e di una enorme futura provvidenzialità atta a richiedere questo metastorico presente. Più compassatamente riteniamo che il molto si sia ottenuto col poco, e cioè col sacrifico di poche case demolite e col significato di una reale incarnazione dell’esempio. Ribaltando il lugubre significato dello sparuto telecronista che vedeva il golgota sul luogo delle ruspe noi diciamo che incominciavamo a vedervi la Pasqua. E’ accaduto per la città un fatto di rinascita che nessuna parole può regredire alla liturgia del dolore e della mortificazione. E per solo questo fatto, i concittadini che sono stati colpiti dal costo di questo riscatto cittadino scritto e registrato “ob torto collo” dovrebbero se fosse possibile venire rifusi dall’intera comunità. Un giudizio a se merita la presa di posizione della chiesa, cosi come si è esternata ed articolata, con i suoi slittamenti e le complicazioni. Gli osservatori più attenti e riluttanti alla pastura emozionale vi hanno trovato qualcosa di sgranato e nel contempo di inceppato nel
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rivolgimento, un falso corrispondere del freno all’acceleratore, un dovere che prendeva il posto della libertà e pertanto zompava l’intendimento religioso. Di contenuto veramente religioso vi è ben poco, salvo che per cosi dire un certo spavaldo obbligo e un riandar posponendo un incesso stilistico ed in definitiva una retorica. Cosa ben diversa è la religione e con essa la religiosità della parola. Riandiamo con vergogna per noi a certi potenti e sfumati incisi di Papa Montini, a certe sgominanti semplicità di Papa Roncalli, a certi digrossamenti teresiani o alle inspiegabili implicazioni francescane. Roba da santi, direte voi: ma in America si dice che un bambino nasce americano per non disperare di diventare presidente. La parola religiosa produce quel silenzio che rende possibile ogni altra parola, non vi si intrude né interza, non partecipa al mondano incannucciato. E’ certo rispetto ad un grande intervento di dimensione religiosa, non frustato, cioè delle esegesi legiste (erronee per altro) o dalle sperimentazioni facoltizzative, la città avrebbe trovato un silenzio preludente all’interiorizzazione anche culturale e civile delle proprie problematiche e sofferenze. Avrebbe saputo rimediare a se. Si sarebbe ritrovata non in questo o in quell’altro episodio ma nel proprio intero fatto. Un giudizio sull’intervento cosi come si è storicamente dato, non può che procedere per tentativi ed ipotesi, sempre col rispetto per l’errore e per l’incompletezza. Dobbiamo supporre che oltre alle parole lette ed ascoltate, altre ve ne siano state, di scritte e riservatamente pronunciate. Eppure abbiamo il sentimento che queste altre non siano servite a far passare e affusolare le prime, quando invece a confermarle o aggravarle. La nostra supposizione è avvalorata dal fatto che l’esternazione non sembra aver sortito alcun risultato di cortesia né attivamente né passivamente. Se chiarimento v’è stato, non può che avere ribadito le posizioni precorse, senza escludere che abbia potuto ripeterne gli avvenimenti, in un rapporto duro di autorità. Ma qui vogliamo guardare all’intervento in se, come sembra non abbia saputo concludersi nella forma, quasi non potesse vivere di una propria ragione primaria ed originale, rinviandosi invece a ragione dalle quali sembra discendere, a considerazioni eteronime, non perfettamente amate neppure dalla sofferenza di prenderne atto o di non potersene liberare: non perfettamente filtrate, approfondite e qualificate. L’esternazione viene cosi a dipendere proprio da ciò che essa avrebbe dovuto condizionare.
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Manca l’atteso messaggio, il superamento delle postazioni, il viaggio di parole e concetti su un terreno nuovo per tutti, spiazzante per gli organi di governo, di rappresentanze politiche e di cittadini e quindi costruttivo per tutti. E manca l’invito a vedere ciò che non si è visto, a rivedere il tutto nella solidarietà del cammino e non già in quella degli sguardi affissi. Manca, ripetiamo, il messaggio, la novità in altezza di un discorso. In effetti, non c’è un documento in tal senso, con i suoi agganci e appigli dottrinali e con un respiro e ragioni diverse dalle “deposizioni” e dagli espedienti degli interessati: l’esternazione ecclesiastica raccoglie ed amplifica una piazza ristretta di opinioni e di supporti argomentativi, imprecisi, fasulli ed esasperati, tenendo in non cale la fascia di cultura e di preoccupazione civile medio-alta della città. Essa non è semplicemente quella che appare alla sua chiesa. Rileggendo gli interventi ci troviamo di fronte ad una serie di atti partecipativi dettati dalla scansione della cronaca, un addivenire alla chiamata, misteriosa sorta di incarico e di inquietazione. Allorquando le ruspe si erano messe in moto c’era stata una protesta piuttosto sgarbata nei confronti della ufficialità ecclesiastica. Alcuni intervistati chiedevano, senza quel cauto e delicato rispetto che avrebbero dovuto commettere al loro interrogare, dove mai in quel momento fosse la chiesa. C’era il vento della sofferenza e si chiedeva la presenza della chiesa, ma come qualcosa di dovuto, di sindacal-burocratico, di avvocatesco e stizzito. Le testimonianze che abbiamo raccolto e che fanno pare dell’accennato florilegio, andavano ben oltre. Puntavano il dito sulla correità, sulla passiva solidarietà in peggio che si sarebbe dovuto fare attiva per cointeresse e senza mezzi termini parlavano di co-abusivismo e se ne facevano entusiasti delatori e disperati sansoni. Con l’intervento questo clima psicologico si è modificato senza recedere dall’arroccamento. Dalle accuse si passava all’entusiasmo, con certa aria sacripantesca. Le prime battute dell’esternazione ecclesiastica sono state vissute come atti di vindice potenza. Non avendo una forma la presa di posizione acquistava forza di rotolamento, la sua stessa forza di inerzia; andava alla puntaglia; non individuava un uditore, un ricevente, un obiettivo trapiantabile. Neanche pare che tendesse a distinguere tra coloro che dovessero ascoltare e colore che potessero provvedere, proprio perché a monte non aveva diramato la responsabilità, se non quella genericità di poterle attribuire all’esterno.
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Sul problema dell’abusivismo edilizio agrigentino si registra da anni una rara e solidaristica solidarietà tra tutti i gruppi politici nazionali. Questo generale consenso può essere stato tratto in locale inganno da alcune vanterie e smargiassate di parlamentari circoscrizionali, perpetrate nelle loro ore di corazzature vicinale e nel rito delle lisciature clientelari. Non è di queste millanterie che possiamo occuparci e di dispiacerebbe di pensare che la chiesa agrigentina le abbia recepite come infiltrabili spiràculi o come basi serie e possibili di rinegoziazione legislativa. Essa dunque non poteva in particolare rivolgersi ad una forza politica senza trovare la decisione di ciascuna delle altre; né avrebbe potuto in particolare rivolgersi ad una forza di opposizione che non fosse anche, sul problema forza di posizione. Non c’erano vie d’uscita né in orizzontale tra le forze politiche né in verticale tra i due livelli di governo interessati: quello nazionale e quelli regionali. Mancavano le dialettiche possibili: il problema risultava già ontologizzato. In questi casi ci si imbatte ciecamente nei cosiddetti organi periferici dello stato, nei rappresentanti e nelle persone che li rappresentano, fatto salvo quell’organo periferico dello stato che è il comune e che la chiesa considera quasi un organo proprio nella misura in cui ne venga appropriatamente ricambiata. Ed ecco l’isolamento del prefetto e del procuratore della repubblica ed il tentativo di isolamento dell’assessore regionale ai BB.CC; ed ecco anche, per via di questi tentativi, l’isolamento della città ed il tentativo di una ghettizzazione sul piano delle più diverse sensibilità: civile, culturale, morale, e legale. Fare di Agrigento un città diversa, autocefala, autarchica, intemerata rispetto ad una nazione isolata, in grado essa sola di affacciarsi su di se e provvedersi, di decidere il bene e il male, il lecito e l’illecito, il possibile e l’impossibile; in grado essa sola di giudicare l’ordinamento, la giustizia; di comprendere le leggi, di censurarne le applicazioni: tutto questo tentativo di isolamento ha avuto uno scotto ed un prezzo: l’autoisolamento della città o quanto meno il non riuscito tentativo di questa disperazione. Non ci risulta che altre chiese siciliane abbiano solidarizzato con quella agrigentina e con cipiglio e sostanziale durezza ad una sorta di contro-ingerenza, l’assessore regionale ai BB.CC ha chiesto è ottenuto dalla conferenza episcopale siciliana il ribadimento dei valori di legalità.
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L’abusivismo edilizio nella valle dei templi va sempre ricondotto all’abusivismo edilizio della città. Coloro che esaltano e dilatano la manifestazione dell’attentato alla valle o agiscono semplicemente alla moda, o non hanno nozione storica di un problema annoso ed unitario come quello agrigentino, o operano ed agiscono per fuorviare determinate responsabilità. Ho sempre sostenuto l’idea sacrificale dell’abusivismo in valle. Credo che essa sia, nonostante la mia caratterizzazione laica, una idea religiosa. Si è condannata la valle per assolvere Barabba, la città. Nella sua interezza comprensiva dei presupposti storici, il problema agrigentino si pone all’indomani del 1860. Con la Sicilia la città entra a far parte dello stato italiano, con la retribuzione e la vendita dei beni della chiesa si accresce il suo ceto borghese, liberandosi dai paludamenti di un clericalismo non semplicemente di facciata e di modalità, ma sostanziato in profondità, nella antropologia e nella cultura, nei rapporti sociali ed economici, nella ubbidienza acquiescente e nella mitezza di una vita comoda, mantenuta, intimamente irresponsabile e inesperta. La chiesa era madre e i figli tardavano a crescere, ben riposti e tutelati, sollevati da molte di quelle ambasce economiche e previdenziali che altrove affliggevano i naturali delle città demaniali e di quelle già feudali. Involato dai paludamenti, il clericalismo si fa anticlericale, cambia cioè la bocca ma non di corpo, si rovescia ma permane. Lentamente rientrerà nella antica e comoda osservanza, quasi per non avere pensieri e per tradizione di trasporti, ma sulla base di rapporti economici diversi. I primi anni dopo il 1860 vedranno la città impegnata in un tentativo di palingenesi urbanistica: si ricava la via Atenea, in prosecuzione di un preesistente progetto: si costruisce il teatro, facendo così seguito ad un sogno pregresso; si abbattono chiese bellissime per fare posto a slarghi e a brutte costruzioni; si allontana il quartiere delle produzioni industriali di terraglie e non le si ricostruisce più; si lasciano deperdere le altre attività industriali, la fabbrica dei fiammiferi, l’officina di salnitro. In cambio di questa riorganizzazione, si abbandona del tutto il progetto di de localizzare l’espansione della città nel previsto sito di Villaseta che avrebbe assicurato la saldatura col molo e la conservazione coerente dell’antica, medievale città murata. Anzi, le mura urbiche sembrano d’impaccio e d’avanzo, vengono abbandonate allo smontaggio.
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Durante il ventennio fascista verranno rase al suolo: il regime non mantiene l’impegno a rimontare una delle demolite torri chiara montane. Si innalzano fuori porta i palazzi della poste, della banca d’Italia, della stazione ferroviaria centrale; e sotto le antiche mura elleniche che proteggevano il quartiere rupestre si costruiscono lotti di casa popolari. Anche l’isolata rupe Atenea non è esente da questo sparso e disparato attivismo e vi si allocano le case Incis. La città è piccola ma ha molto da imbrattare: la dirittura dell’antica floretta o passeggiata viene anch’essa urbanizzata per infugarsi verso il recente ospedale dei pazzi. La valle dei templi resta intonsa ma minacciata dal debordamento meridionale della città e dalla farneticazioni progettuali dello stato che pensa di attraversarla con una via ferroviaria turistica dopo averne attraversato la porta aurea adeguatamente allargata o mediante lo scavo di una affiancata galleria che bucasse le mura akragantine, per raggiungere l’apposita stazione di servizio dell’odierno piazzale Hardecastle. In questo quadro si pone dunque un problema di responsabilità da parte dello stato e del suo livello centrale, ma è indubbio che ad animare, macchinare e consentire questi interventi fossero anche elementi locali di spicco. Non facciamo colpa al vescovo Lagumina, archeologo ed arabista, per la scusante della sua inoltrata età e le sofferenze fisiche di cui era affetto quando presiedette l’apposita commissione che andava a decidere per l’abbattimento delle mura medievali: il colmo per un medievalista che aveva restaurato la cattedrale liberandola dalle superstizioni e dalle schiume di stucco. Possiamo dire che la città era spaccata in due, orizzontalmente: da una parte i picconieri e i cospargitori, dall’altra i cultori della memoria e della morfologia, i quali avevano vista corta per l’immediato e vista assai lunga per l’avvenire. Il contrasto aveva la sordina, nel costume dell’epoca distinto da roboanti ipocrisie e dalla contegnosa temenza del disallineamento. Un’eco di questa situazione si può trovare (e a ben leggere non del tutto in sordina) nella Nuovissima Guida di Girgenti di Antonino Cremona edita nel 1923, laddove riporta una pagina “poetica e ispirata” di Ettore Gabrici. Siamo all’indomani della ricostruzione del tempio di Ercole ed il grande archeologo ed umanista, centrando in valle il senso della città e non allontanandone il destino civile, reclama un fattivo ed efficace consenso di tutte le volontà, sollecita “il consenso vero e proprio di ogni cittadino”.
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La conversazione e la valorizzazione dello scenario paesaggisticomonumentale greco, richiedeva un permanente e plebiscitario impegno. Andando poi per metafora e segnalando una “mancanza d’ambiente” confessa di sentirsi più libero e spigliato “sulle sabbie dello stato piuttosto che sugli altrui terreni”. Stato dunque come correttivo del localismo, come nazionalizzazione culturale del problema, come forza di guarentigia e di intervento. E con la mirabile espressione sul terreno e sulla sabbia che si ovula, spes et remedium Agrigenti, l’ideale sottoposizione di un parco della valle perché questa possa contare su di se piuttosto che sull’altrui. L’insigne studioso sembra presago dei rischi del futuro. La “Novissima Guida” del Cremona che ne ospita il monito, la preoccupazione e l’auspicio, è nel proprio genere un capolavoro di affetto, di rigore e di testimonianza. Un anno addietro, ne presentarne la ristampa, i relatori hanno lasciato cadere nel vuoto l’acuto contributo di Matteo Collura che ritrovava nella scrittura e nella pubblicazione originaria del densissimo volumetto la coscienza di un rischio cruciale per la vita agrigentina, tra il vecchio ed il nuovo valore delle proprie cosa, bellezze naturali e monumentali. Con la guida volle quasi, l’autore, sospendere quel momento e lavorarlo per una nuova coscienza comunitaria fruttata dal riapprezzamento dell’amore e della conoscenza. Quest’ultima implica sempre una riconoscenza, una responsabilizzazione nei comportamenti. Mi è sempre piaciuto di pensare che il coscienzioso autore quella guida l’ha scritta per gli agrigentini come se l’avesse scritta per o forestieri, Era il procedere formativo di un professore all’antica per avviare e abituare gli interessati che si era proposto di suscitare ai loro nuovissimi doveri. Infatti bisogna andare cauti nello slacciare l’otre di Eolo per gonfiare le vele e muovere lisciamente la barca. La quietudine della vergine ignoranza, sciolta che sia una volta, può trascendere dall’abulia raccolta alla più dilacerante frenesia. Hardecastle, in fondo, aveva svegliato il cane che dormiva. Il fulvo e segaligno inglese, simile all’Horus egizio, aveva insufflato vita alla comatosa giacenza di una città. Ma come ci si sveglia, quando ci si sveglia? Con le idee impastate, una millantatrice rabbia di accampare pretese gioiose e sproporzionate, una tarda puerilità nel movimento coordinato e la mania di volere fare tutto e da se. La città si andava svegliando dopo secoli di semicoscienza sociale, di ecclesiastica e feudataria confettura, di vita comoda e china.
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Immobili e da riportare alla luce erano, al tempo di Hardecastle, i girgentini, prima ancora dei templi e di altre preziose antichità. Quando il capitano di S.M. la Regina Vittoria costruisce e dona pubblici cessi e condotte d’acqua potabile agli abitanti, non lo fa per filantropia che sconosce, né per atteggiamento colonialistico tipico di un valoroso ufficiale che era stato in India e in Sud-Africa; né ancora perché nel suo sangue scorreva una inconfondibile componente di furbizia semitica risalente al ramo materno della sua famiglia; lo fa esclusivamente per rieducare i girgentini anche ai nuovi monumenti, alla nuova importanza della valle, ad una loro nuova e grande responsabilità. Le onde lunghe di quelle preoccupazioni e di quei problemi si sono frante fino ai nostri giorni sulla sponda della nostra vita collettiva. Coloro che hanno preteso e ancora pretendono la prima e la seconda casa in valle, e che oggi fanno persino discorsi archeologici ed elettivi per conservarne la scelta e il prodotto di un cosi spirituale interesse, in fondo hanno voluto emulare il grande inglese che non solo una casa volle ed acquistò, ma contribuendo potentemente a dare agli agrigentini una maggiorata importanza della loro valle, li crebbe ma non fino al punto di evolverli. Molti girgentini vivranno l’onda lunga dell’emulazione con i guasti tipici di ogni convalescenza e di ogni transizione, con la gelosia di chi scopre qualcosa che gli si fa scoprire e se ne adonta e nel contempo se ne avvale. L’opera di risveglio di Hardecastle, dunque, e con la sua quella di Pirro Marconi, di Valenti, di Gabrici, e con la loro quella dei nostri Caruso Lanza, Cremona e Sinatra, ha nella vibrazione dei decenni provocato una indecente freschezza di risveglio, specie quando la maggiore disponibilità di risorse pecuniarie per traccheggi e trovate varie (se non addirittura derivate da essi) ha reso possibile la materializzazione di determinati processi. E avendo trovato di aver salvato, senza saperlo, la valle, la città ha convenuto in certi suoi ambienti di poterne disporre a proprio libito, come di un turco, quando lo si ghermiva. Molti di simili attaccamenti possessori di primitivismo culturale e giuridico (il possesso che diventa diritto, il fatto che si auto consacra da sé, col trascorrere del proprio tempo), di materialistica sensualità, rimontano proprio alla “libido” del risveglio, e sono certamente una tappa transitoria della evoluzione della nostra gente, una sua indecente giovinezza che ancora vuol conoscere e dettare con i toccamenti piuttosto che col pensiero e la dignità responsabile.
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Ciò che si dà come avvenuto nella valle è in effetti avvenuto nella città, pur senza mancare di tracimazione. Nel concetto c’è una metafora che non è tuttavia la sua metafora. Voglio dire che questo concetto si presta anche oltre alla propria funzione discorsiva ad una metafora, ad una immagine. Non solo l’abusivismo ha avuto “cerebralmente” luogo in città, ma in essa ha avuto prevalente luogo. L’abusivismo in valle è un prodotto topico esportato tanto figurativamente che politicamente e paesaggisticamente. Nel dire che la valle è stata cementificata c’è un prevalente dire che è stata cementificata la Città, e c’è in questa transizione un rimedio di rimozione, una scaltrezza d’ipocrisia. D’altra parte l’entità della cementificazione che ha avuto realmente luogo nella valle (e che possiamo considerare, nell’insieme panoramico ma non paesaggistico, disparente) rappresenta una commissione redentrice della cementificazione che ha avuto luogo in Città. Se fossero stati abbattuti a suo tempo alcuni piani alti di determinati, brutti ed illegali palazzi cittadini, non sarebbero state abbattute le case in valle, e questo perché non sarebbero mai state costruite. Ma nel non essere stati, quei piani illegali, demoliti, si è posta l’esigenza di “salvarli”, cioè di riscattarli dalla loro illegalità ponendo la drammatizzazione e la passione dell’abusivismo in valle ed avviandolo al golgota di cui parlava lo sparuto giornalista pur non rendendosi conto di quel che diceva, e cioè che Pilato, Barabba e il Gran Sinedrio stavano in città e che al loro stare e allo stare di una moltitudine di persone raggirate occorreva per la chiusura della pratica quel luogo lontano e quel sacrificio. Le case demolende avrebbero potuto dire al padre Ammone-Ra “perché mi hai abbattuto e mi avvii al perimento?” ed Ammone-Ra avrebbe potuto dire alle case demolende come al proprio figlio Osiride “perché voi possiate tirare a lucido l’onore della città e con esso l’illegalità di molti palazzi agrigentini. L’abusivismo edilizio presuppone una attività edilizia fervida, oltre di sé, fino all’abuso. Esso non può essere messo a carico del costruire medesimo, l’abuso non si commette nell’abuso (fatto in se come tanti altri) ma nel disegno che lo precede e l’accompagna, nell’inosservanza e nel disallineamento, nella omissione e nel proditorio raggiro, nel senso di furbizia o di individualistica sovranità; e socialmente si commette nell’ingiustizia nei confronti degli uomini onesti e dei cittadini ligi. E’ sorprendente considerare come l’abusivismo edilizio in quanto attivismo costruttivo ha nella nostra città premesse lontane di mezzo
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secolo e ricadenti nell’ordine cronologico al primissimo dopoguerra. La città fatti salvi gli episodi del grande intervento pubblico (manicomio, stazione ferroviaria, banca d’Italia, poste, case popolari e per i mutilati) non aveva rilevabili tradizioni cantieristiche né edile intraprendenza. Dai limitatissimi bombardamenti aerei la città non aveva subito quei danni che potessero giustificare una grande intrapresa ricostruttiva, le provvidenze finanziarie messe a disposizione dalla novella democrazia per il ristoro dei danni bellici vengono riconosciute dalla cittadinanza come una possibilità di attingere ad impropria beneficienza, un mettere le mani sui sacchi di un monte frumentario i cui custodi si limitavano ammettere burocraticamente in ordine la fila degli accorrenti. La rilassata incapacità degli uffici agrigentini a gestire quella straordinarietà non costituiva probabilmente un buon esempio per l’apprezzamento della recente democrazia che tuttavia, oltre ad avere le cartilaginose caratteristiche di un organismo appena nato, non aveva alcun interesse a disamorare i cittadini. La primissima gioia per la fine della guerra specie in quei siti dove si era sofferto e combattuto meno che altrove, si tramutava in una sorta di disinibita e gioiosa profittazione. Sta di fatto che ad Agrigento, un terzo circa del patrimonio edilizio urbano viene raggiunto da più o meno consistenti elargizioni risarcimentali che incrementano notevolmente, come non era avvenuto sotto il fascismo, l’artigianato dei muri fabbri e lo mettono in condizione di trasformarsi in attività industriali. In verità, soltanto un centesimo circa degli edifici cittadini risultava danneggiato dalle aggressioni aereo-navali. Tuttavia la liberalità nell’ammettere le istanze, nell’esaminare le perizie e nel mandare i pagamenti, avrebbe potuto avere, dopo la ricaduta beneficiaria, una reale impennata di sviluppo se non fosse stata vissuta e recepita come una beneficienza ma come una misura di forte investimento sociale, quale del resto era. Ad Agrigento scatta e funziona l’antico e ancestrale meccanismo del mantenimento, della facilitazione intercomunicativa, della provvidenza sussistenziale e della solidarietà prescindente dai titoli. All’agrigentino di vecchia cultura era sufficiente di essere agrigentino per avere il filiale diritto di essere provveduto, dolce e inguaribile retaggio di un tempo durato secoli durante il quale la chiesa, proprietaria del tutto locale, aveva amministrato gli enormi averi rurali e fondiari con misericordia e con quell’indulgenza che non lascia affrontare le difficoltà. In effetti Agrigento si affaccia al dopoguerra po-
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vera e fatiscente, circostanza non relazionabile del tutto alla guerra combattuta né a quella sofferta, ma prevalentemente riferibile alla sua scarsa motivazione economica, alla mancanza di commerci ed industrie, al crollo dell’agricoltura, all’antica incapacità di gestire la produzione e il traffico degli zolfi ed ad altri fattori ancora. La guerra, per cosi dire, si era aggiunta alla città, ma sarebbe stato un alibi, sol perché se ne aveva diversa coscienza, considerarla in primo piano come causa dell’esistente e della situazione. Il secondo dopoguerra tarda a sopraggiungere e si apre comunque all’insegna di una attività edilizia indotta da quella fase di ricostruzione. Le imprese impegnate non si preciseranno mai del tutto, con la sola eccezione delle ditta Rizzo e Pantalena come soggetti economici e industriali, rimanendo prigioniere in dorate e proficue attività individuali assai manovriere, arruffone, pervenute. Su queste strutture e particolarità di impresa, l’analisi Marxista tentata da Mario Alicata (peraltro tardivamente e nel dopo-frana) appare eccessiva e campata su modelli astratti. Quelle imprese erano molto di più e molto di meno di quanto quell’indagine non abbia generalizzato: erano in effetti qualcosa di diverso. Alicata conosceva Marx ma non conosceva Agrigento. Sapeva che la storia è storia di presupposti, ma non li conosceva. E sapeva anche che la storia non realizza nulla, non possiede ricchezze e non scatena battaglie. E’ l’uomo realmente vivo a realizzare tutto, ma quest’uomo non possiamo coglierlo, né per se stesso possiamo vederlo agire, senza la propria storia. La storia è sempre storia di ciò di cui parliamo e quando lo facciamo non possiamo prescinderne. Ricordo certe sue arrabbiature, quando nelle sue rapide frequentazioni agrigentine si rendeva conto che qualche aspetto della realtà non gli si era consegnato, come a fargli dispetto a disubbidirgli. E un bel giorno, nel corso di una sincera conversazione, gli dissi che era la realtà, in quanto la costringeva secondo il suo riconoscerla, a liberarsene e a farsi storia degli uomini vivi e morti di Agrigento e di ciò che si portavano sopra e dentro: la nostra storia, insomma noi. Alicata era uno che si amava moltissimo, e in sostanza non conobbe mai molto di Agrigento, in questo diverso da Pancrazio Di Pasquale e Nicola Scialabba, capaci di calarsi senza embolia di metodo nella nostra realtà, pur essendo marxista il primo e cattolicissimo il secondo. L’impresa agrigentina di quegli anni era una organizzazione affaristica concepita, messa in piedi e fatta funzionare da un individuo dell’arte, da una famiglia di muri fabbri o da un comparatico, la quale
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vendeva i propri prodotti come se fossero già stati prodotti: prima ancora, cioè che lo fossero. Pertanto l’offerta associativa al rischio e non poteva che corrispondere ad una domanda di beni immobiliari urbani altrettanto atipica e irregolare, qual’era quella di moltissimi cittadini di Agrigento che desideravano divenire proprietari di una o più abitazioni ma non avevano l’intera disponibilità per realizzare tale obiettivo, il quale, per ciò stesso, si declassava a semplice interesse d’affare, a voglia e sentimento d’affarismo. Tra futuro costruttore e futuro acquirente, agenti entrambi nelle loro probabilità di posizione e di relazione ed operanti nella attualità (come se il bene fosse già prodotto o in via di completamento; e come se le risorse acquisitive fossero già disponibili in numerario), si stabiliva un sindacato solidaristico al risultato di un negozio cosi oscuro, la cui concretizzazione sarebbe venuta a dipendere da una serie di intese, di svolgimenti e di accidentalità. Per proprie caratteristiche ogni impresa del genere ometteva ogni tecnica di fattibilità, non si dava piani previsionali, non li avrebbe potuto garantire neppure se se li fosse dati: esisteva di volta in volta un progetto dell’opera da realizzare, ma non esisteva una progettualità di impresa. La domanda del cittadino non corrispondeva d’altra parte ad una richiesta di beni ad un certo prezzo e ad una certa epoca. Negli approcci la trattativa non era collegata con la capacità di pagare, pur non essendo diversamente una domanda elastica collegabile ad una generalizzata variabilità secondo il volume dei prezzi e degli affari. Abbiamo già detto che il bene offerto era come se esistesse, e che la domanda era come se ne facesse scattare l’immediata acquisizione. Nella prima ipotesi mancava il bene, nella seconda la risorsa. In certo senso la domanda si pone come offerta, e questa si rappresenta come una domanda. Questa e quella partecipavano ad una confabulazione. Non sempre l’impresa possedeva in proprio l’aria edificabile, di consueto ne disponeva in cambio di alloggi. Il proprietario del suolo, nell’offrire un caseggiato da abbattere e ricostruire o un’aria immediatamente edificabile in cambio di alloggi e dunque in permuta influiva con l’offerta sulla domanda dell’impresa, e con la domanda del corrispettivo sull’offerta della stessa, in un quadro mancante di ogni garanzia reale sulla tramutazione. Colui che intende acquisire uno o più alloggi, quindi, si recluta all’impresa sulla base di un rapporto fiduciario non basato sulla stima
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d’onore, di capacità e di solvibilità, ma sul movimento in comune nei confronti degli ostacoli e degli interlocutori pubblici e potestativi che debbono accordare licenze, esercitare controlli, rilasciare certificazioni, e che potranno in presenza di immancabili estremi, fulminare blocchi ed avviare contenziosi. Impresa futura acquirente hanno in sostanza fiducia del loro spirito rimediatore, azzardoso, compromettente e avventurato. La mancanza delle sufficienti risorse individuali per l’acquisto del bene dà luogo ad una riflessione e comporta una importante conseguenza. La riflessione verte sul tipo di domanda che in mancanza di mezzi completi perché si possa fondatamente rappresentare, ci fa comprendere come non fossero le esigenze reali a dettare le esigenze, e come anzi, queste, venissero indettate da processi psicologici, emulativi, lustrativi. Così non si rappresenta il bisogno possibile e copribile, ma quello manierato dalle responsabilità, cioè dal superamento del livello di realismo economico e dall’accesso al mercato secondo le proprie possibilità. Ad Agrigento si voleva e rendeva possibile l’impossibile. Questo il presupposto di abbrivo e di navigazione di una diffusa illegalità attinente ai processi economici. Unica condizione per rientrare dall’impossibile al possibile ed escludere un ridimensionamento della domanda, era di abbattere i costi di produzione del bene. Questo ricorso strumentale diventava l’obiettivo del mantenimento della domanda retorica di cui abbiamo parlato ed il suo non ridimensionamento. La rinuncia alla sicurezza, alla qualità dei materiali ed ad una parte dei costi tecnologici poteva colpire nel segno ed era dunque perseguita. La riduzione dei margini di profitto dell’impresa offriva minori margini di consenso e di abbattimento: l’impresa, per le caratteristiche che aveva, aveva rinunciato strutturalmente al profitto perseguendo invece la busca, l’avventura del tentativo di arricchimento facile, il colpo redditizio di mano, la rendita di capacità. Dunque non offriva spazi all’abbattimento dei costi e al crollo dei palazzi di vendita. Non rimaneva che porre a carico di una terza parte e al di la e sotto l’impresa e il cittadino, l’obiettivo di un decisivo abbattimento di costi che supplisse alla mancanza di risorse del cittadino e che promettesse all’impresa la busca e il colpo di fortuna. Questa terza parte viene costituita e ritrovata in un insieme di fattori in un coacervo di elementi eterogenei: la materia ambientale, la morfologia di zona, gli oneri di comportamento, le leggi, i regolamenti etc.
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L’inosservanza, la violazione, il superamento di queste economie formali morali e culturali abbattono impietosamente i costi, l’impossibile si rende possibile. Per raggiungere questi obiettivi non occorre cultura, spirito di finezza, luciferina sottigliezza, sono invece necessarie facoltà ed atteggiamenti al cui ritrovamento e al cui esercizio non concorrono crescite ma arretratezze, ed anche arretramenti. Perché il privato possa fare dei passi in avanti occorre che il pubblico faccia dei passi indietro. Il benessere individuale-familiare, si realizza cosi a carico del benessere sociale, o comunque di quel preesistente livello di tale benessere; da qui il malessere generale, il malessere estetico, la distruzione morfologica-paesaggistica della forma urbica, la perversione della identità culturale. Sono analisti superficiali o interessati quelli che addebitano lo sviluppo verticale delle costruzioni alla scarsa disponibilità di aree edificabili. La risposta non può che essere strutturale. E poiché l’analisi non può che essere un metodo ed insieme un risultato e non può che concernere l’esame dell’uomo, dei suoi presupposti storici e dei suoi comportamenti, ci soccorre l’amaro caso della spoliazione e dell’annientamento della lussureggiante villa Garibaldi, invidiabile patrimonio della città e della sua popolazione. Il suo areale, smembrato e lottizzato a libito selvatico venne venduto dal comune a prezzi simbolici: poche lire a metro quadro. Gli acquirenti, che disponevano soltanto delle risorse sufficienti a questi miseri esborsi e che pure rappresentavano la domanda di venire in proprietà di grandi, centrali, comodi alloggi, si rivolsero a questa e a quella impresa. L’onerosità dei costi e dei prezzi, dei prodotti edilizi rispetto alla nullatenenza degli ambiziosi interessati rese indispensabile il ricorso ai processi di abbattimento di cui abbiamo parlato: svettamenti in altezza, ricerca e manovrati ottenimenti di deroghe, violazioni, usurpazione da sporti. Certi palazzi raggiunsero l’altezza economicamente desiderata e cioè quella che consentiva all’impresa, dividendo a risparmio i costi per piano o disponimento di maggior numero di appartamenti da vendere ad un mercato meno svincolato e privilegiato, di offrire ai proprietari dell’aria un gran numero di appartamenti vicini al costo zero. L’ammontare di queste regalie corrisponde esattamente all’ammontare economico delle irregolarità e delle funestazioni estetiche; resta
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in più una incidenza incalcolabile sulla pubblica moralità, sull’esempio del malcostume e sulla perpetuità del danno. Il meccanismo degli abbattimenti dei costi di produzione presuppone, naturalmente, il controllo di quella terza parte su cui operare rivalse e saccheggi. La politica agrigentina ha reso possibile il saccheggio del generale da parte del particolare, l’affermazione dell’incultura sulla cultura, l’aggressione sulla stabilizzazione, la racimulazione sul lavoro. Il vescovo Peruzzo ha avuto ha avuto contezza degli immorali e privati interessi di certa classe politica, ma non ci sembra che abbia espresso la propria visione all’incessante peggioramento del complesso cittadino. I politici guidavano truppe che volevano essere guidate in quel modo. Ancora ai nostri giorni abbiamo visto uno di questi condottieri che ha amministrato secondo i dettami di un oltranzismo difensivo urtante, insolente e isolazionistico. La chiesa agrigentina in quanto ente proprietario di immobili non si è tenuta esclusa dagli avvenimenti di quegli anni. Era manifestamente ispirato o quanto meno consentito l’articolo di fondo apparso sulla pagina di cronaca locale del quotidiano catanese La Sicilia. In esso si segnalava l’eccedenza di chiese per uso liturgico, pastorale e devozionale degli abitanti del quartiere del Rabato. Le chiese di.Caterina e S. Francesco di Paola si sarebbero potute abbattere per consentire la costruzione di comodi, eleganti alloggia privati e l’ammodernamento urbanistico del quartiere. L’episodio si proponeva di tastare la reattività dell’opinione pubblica e di sondare il mercato: l’articolo era scritto con aria spavalda, insolente montaggio della modernità contro le anticaglie. Ma un secondo e più grave episodio non ebbe bisogno di cronisti né di riservatezza. La parrocchia di S. Pietro venne sposata a S. Francesco di Assisi. La piazzetta prospiciente l’ex parrocchia venne chiesta per alcuni giorni in uso liturgico e recintata. I giorni divennero settimane e mesi. Si sospettò di qualcosa. Si bucinò che la chiesa intendeva usurpare quell’aria. Frattanto la regione siciliana faceva riservatamente pervenire al comune una informativa secondo la quale vi erano trattative in corso per la costruzione da parte dell’INA di una grattacielo riproducente la volumetria e le caratteristiche architettoniche di quello che lo stesso istituto aveva realizzato in piazzale Ungheria a Palermo. L’enorme edificio avrebbe utilizzato l’area della chiesa dismessa,
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della piazzetta usurpata e della canonica frontista. A questo punto la chiesa scelse di recedere dal convincimento, e pose arditamente la pretesa di venire in possesso definitivo di quell’area a tutti gli effetti demaniale, assumendo che essa era stata, indimostrabilmente e in un generico passato, luogo di sepoltura o sacrato di rispetto: e si almanaccava di sacralità, di architettonicità, di visualità, quando tutti i cittadini vedevano con gli occhi sardonici, spregiudicati della mente il mastodonte che avrebbe spazzato i luoghi per assettarvisi, imbrumendo di ombre caliginose mezza via Atena. Furono allora in pochi a fare quanto si disse, agrigentinescamente, scandalo, e cioè a lottare contro quello scandalo, fino alla liquidazione della turbativa. Il Comune non poté che ordinare la liberazione dell’area, eseguendo “manu militari” l’operazione di sgombro. La piazza era diventata in quei mesi un immondezzaio di stracci, cartacce e foglie morte. I sindaci svolgevano normalmente un’azione pastorale, vigilavano sulla pacificità dei pascoli, assicuravano l’utilizzazione della cava pubblica da parete dei privati, studiavano la rosa dei venti, i giorni e le notti, e principalmente tenevano a bada i numeri dai pericoli delle sintesi, sapendo bene che ogni totale può diventare numero a sé, diverso da ogni singolo addendo. Occorrevano spazi ideali di governabilità e c’erano: orizzontali, a perdita di tempo. L’apparecchiatura generale era realizzata sulla sicurezza. Il massimo si ottenne all’epoca dell’epopea fanfaniana: il pascolo venne dotato di masseria e di qualche camera di macellazione. Tutto ciò ebbe fine con la frana, e chi voglia sapere cosa veramente avvenne, documentatamente, con certezza filologica si rivolga alla relazione Martuscelli che fu una sorprendente monografia sui nostri vizi che agivano come virtù, e sulle motilità, le perversioni nei comportamenti di approccio con una normalità indesiderata, le trasgressioni e le restrizioni, il sadismo violativo della città che si era crocifissa non per redimersi ma per piacersi. Relazione Martuscelli che, se fu tale, oggi resta col valore storico di un importante studio che spazia dal campo culturale a quello sociologico ed interessa la psicologia di massa, l’antropologia. Un anno dopo, nel 1967, Carola Guggino-Sciortino pubblicherà uno specifico saggio sociologico su Agrigento, sugli agrigentini che la vociavano e la correvano come idee dissennata in un bel cranio. La misura della conoscenza era colma. Non solo erano state commesse cose mostruose, ma la mostruosità si era normalizzata, non
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aveva più coscienza di sé se non nella quadratura sprezzatamente defensionale dei propri accaduti. Le antiche manifestazioni istintuali e antropologiche degli abitanti, e cioè i presupposti e le caratteristiche storiche con cui si costruisce ogni presente, si erano trasformati in una aggressiva libido a carico dell’ambiente, dei suoi toni e delle sue emergenze, in una sorta di affaristica eccitazione senza energia. L’inveterata, nobile e mansueta cultura elitaria della città era venuta trasformandosi in una forma di chimismo per paludare ed umettare l’intercultura materiale trionfante. Gruppi sempre più folti di soggetti costituivano le zone erogene di questo affarismo amorale ed incurante che si suole chiamare, almeno dal punto di vista qualitativo, con l’espressione di cultura dell’illegalità. Era un vero e proprio recesso morale, non ancora del tutto recuperato ai giorni nostri, ma certamente ormai ben noto fino alla possibilità di intraprendere, come sta avvenendo da anni, una bonifica morale, civile ed intellettuale cui ci saremmo attesi volesse corrispondere anche una bonifica religiosa. Fenomeno dunque sbarrato, capace tutt’al più di sedursi in propria memoria, di resistere come propria difesa. La mostruosità di oggi è data dalla pretesa di difendere euristicamente quel passato ricorrendo a tutte le critiche, alle speciosità ed alle quisquilie di malintese contraddizioni, confondendo fra prima e dopo, tra tempo e spazio, tra definitività e transitorietà, tra attese di arrivo e attese di partenza. Illegalità ed abusivismi legati ai fenomeni edilizi avevano interessato e si erano sviluppate in numerose contrade d’Italia. Forse “quantitativamente” il fenomeno agrigentino non ne costituisce l’episodio più importante. Tuttavia, a differenza di altri contesti, qui la manifestazione è divenuta natura, si è profondamente adattata come fenomeno naturale, non ha conservato la coscienza della proditorietà, del tentativo, del risico. A Marinella di Selinunte, sul monte Somma o sul circeo la coscienza e le parole degli abusivi non hanno mai legalizzato l’illegalità, parlandone anche e non dolendosene come di fatti senza forma, di empiti e repentagli sorteggiabili. A Marinella di Selinunte se ne parla con serena sfacciataggine, in Campania con farsesca oggettività. Qui parlarne equivale a parlare d’altro, di massimi sistemi e critica legislativa, di morale e dignità umana. L’entità viene rattrappita, alambiccata, in una sorta di intimismo
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sacrale, che si appella a cosmica giustizia. Salvo poi, in fase perorativa, a sfoggiare musi duri, a arringhe apocalittiche, interdetti vari ed un armamentario di scaltra ignoranza e di febbrile mala fede che potremmo definire come la simmetrica illegalità della difesa. Narra mihi factum, dabo tibi jus- diceva l’antico romano. Qui il fatto vien tergiversato in mille vibrazioni, viene fatto smaniare, non mai parlato se non per misterici adombramenti di necessarie latebre. E quando a chiedere ed attendere lo jus si stende il giudice a terra, si chiami prefetto o procuratore della repubblica, ministro o assessore regionale. Si sbrana l’orfeo. Si concepisce che l’aurea età di una concertante sanatoria che restituisca paradisiacamente e il passato al presente e faccia del futuro una semplice pertinenza possa ottenersi mediante un pasto sacro. Una certa parte di questa città non solo non aveva dato a Cesare quel che è di Cesare, ma allo stesso modo non voleva neanche lasciare gli occhi per piangere né la lingua per parlare. Nel 1996 l’opinione pubblica nazionale reagisce con unanime indignazione alle resultanze dell’indagine Martuscelli. Colpiva non tanto l’entità del fenomeno, quanto invece il suo tipo e ‘avere impegnato per prodursi in prassi montante e costante l’intero silenzio della città, il coma culturale e civile. Offrimmo la facilitazione del simbolo. Agrigento divenne la città dell’abusivismo e della cementificazione non perché fossero presenti o l’uno o l’altro fenomeno, ma perché vi imperavano, si era cioè dati una sovranità e non riconoscevano sopra di sé o al loro interno un limite, un rimedio, una alternativa. In effetti il fenomeno costituiva un “unicum”. Agrigento divenne il simbolo di sé stessa e di manifestazioni analoghe, e questo avvenne perché apparve chiaro alla cultura e alla coscienza nazional-popolare dell’intera nazione che non soltanto la città aveva commesso, come tante altre, quando appariva ormai indubitabile, ma anche che si era data e aveva la capacità di farlo. Ci soccorre a tal proposito un esperimento socio-antropologico promosso da due ricercatori dell’università Federico II di Napoli, allorquando la legge dello stato introdusse l’obbligo delle cinture antinfortunistiche in automobile. I due studiosi formularono l’ipotesi che una malavitosa industrietta napoletana avesse inventato prodotto e messa in commercio una maglietta bianca con sovrastampate sulla parte anteriore due bande nere ad imitazione delle fasce automobilistiche di trattenuta. Gli automobilisti, indossandola, avrebbero potuto eludere burlescamente i con-
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trolli di polizia circa l’obbligo di indossare nella circolazione l’accessorio di sicurezza. Naturalmente i ricercatori, nel diffondere mondialmente la notizia attraverso le agenzie di stampa e i canali informativi, si guardarono bene dal precisare che si trattava di mera invenzione, e ne attesero il ritorno. Nello spazio temporale di 24 - 48 ore i principali giornali della terra pubblicarono come incontrollabilmente v’era la sensazionale corrispondenza, inneggiando o deprecando allo spirito e alla creatività di Partenope. Il massimo rilievo venne dato sulla stampa angloamericana e tedesca. Pare addirittura che la ripresa di simpatia e di turismo verso Napoli decorra da quell’episodio che rilanciava quasi in maniera settecentesca il genio della grande città mediterranea. Chiediamoci scientificamente il perché dell’accaduto ed il successo di quel simbolo di comportamento che si innescava e rivendicava il mito Napoletano. Chiediamoci perché direttori, redattori e lettori di giornali diedero e ricevettero per buona la notizia. La risposta è che essa, essendo possibile era vera. Ogni simbolo si fonda sulla propria possibilità e dunque se ne invera. Ciò che colpì del caso Agrigento non fu il fatto in sé quando la circostanza che esso per sé era stato reso possibile: già dicevamo che ogni evento è reso possibile dai suoi presupposti, rispetto ad ogni evento pregresso e a determinate situazioni di uomini e cose. La storia non è tempo che si muove, ma tempo che si infiltra nel tempo. Il punto di partenza di una conoscenza e di ogni giudizio sulla nostra città, ciò che essa faceva rispetto a ciò che essa era, costituito nel deposto della cultura nazionale ed europea e nell’immaginario collettivo, dall’aspetto della città, dal suo paesaggio, dalla sua disposizione topografica ed insomma dalla sua corografia quale è stata consegnata dagli illustri visitatori del ‘700 e dell’800 non soltanto all’agrigentinità ma all’umanità intera, al pubblico dei lettori, dei cultori e dei viaggiatori, e quindi, si voglia o no, alle responsabilità di chi amministra la realtà. Si voglia o no l’Italia è quello che è perché annovera una Venezia rimasta come è stata conosciuta, una Firenze conservata e mille ambienti e monumenti “folgorati” dallo scambio di conoscenze costituendi il commercio delle stime tra le nazioni civili: quelle cioè che parlano lo stesso linguaggio. La corografia classica e romantica di Girgenti rende una città rupestre e dei vivi vista dai templi che da essa nitidamente si vedono, ma lontana o meglio lontanante sul costone settentrionale, a misura
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di paesaggio, rosata o polverosa, pastellata o rimontante secondo diverse descrizioni. Certo, il trascorrere del tempo non può non incidere sul tempo: che incide anche sui fissaggi fotografici e su ogni altro documento iconografico, ma la pretesa la convinzione o l’attesa era che Agrigento città rimanesse “parte” della bellissima città ellenica scomparsa, col suo letto di coltri sui resti sepolti e i ricami della vegetazione e i monili dei templi ed il cuscino rosato del mare: in perfetta vicinanza e lontananza, questo e la città, dalla chiostra dei templi; questa trascendente sull’orizzonte settentrionale, quello immaginante per fare da fondale. Quest’equilibrio di vicinanze- lontananze, di solitudine rallegrata dall’emergente sopravvivenza abitativa sull’acropoli, questa misura di compatibilità tra le case e i templi, era quando si sapeva, si voleva, si doveva nell’amministrazione dei luoghi. Una città o una nazione non possono tradire le loro consegne dalle quali presumono di essere quelle che finiscono col diventare e che debbono continuare a rimanere. Agrigento ha tradito se stessa e non si è fermata a questo. Sorpresa a farlo, è rimasta sorpresa di ciò che non era più in grado, per macerie di fatti e la colpa di amministratori inqualificabili, di comprendere. La cementificazione della valle dei templi è una cementificazione aerea sui templi, la trascendenza della città e diventata una incombenza. La città si è abbassata nella misura in cui ha elevato tolli e mastodonti edilizi, cortine e paraventi, i colossali merli. Il cemento, accorciando il cielo, ha abbassato la terra e l’ha otticamente avvicinata ai templi. Esso ha incompatibilmente avvicinato le distanze, che nel godimento culturale- estetico e nella fruizione di visita, anche del più semplice sprovveduto dei viaggiatori, è colto con l’intelligenza dell’occhio. Basta confondersi tra i forestieri che visitano la valle e ne percorrono la via sacra del cogliere da spunti, osservazioni e commenti, il generale giudizio di una opinione pubblica dinamica, ricambiata e rifluente come le acque di un fiume, sulla cementificazione della valle, che a tutti appare cosa certa e che quasi tutti addebitano prevalentemente ai tolli cittadini, allo stercorario delle costruzioni profondate verso la valle. La valle è sostanzialmente salva, perché la legge prima e un numero crescente di individui hanno voluto così. La valle è quasi salva; coloro che si impossessano di questo giudizio che possiamo fortunatamente pronunciare sul limite del decorso pericolo di non poterlo
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profferire, e che lo sbandieramento per difendere il loro operato di costruttori abusivi o amministratori infingardi, dovrebbero piuttosto dire che se la valle, grazie ma non a loro, è ancora salva, Pan è morto. C’è in questa fase, in bocca agli attentatori, quella cert’aria di intimidazione e di rabbiosa smentita dell’automobilista che, dopo aver investito il pedone, lo tasta, lo scuote, gli grida: sei ancora vivo, che vuoi di più? Ti ho lasciato vivo, che cosa stai a pretendere? E via di seguito fino ad escogitare che può essere stato il pedone a investirgli l’automobile. Paradossalmente si dovrebbero rimanere obbligati verso gli abusi piuttosto che verso coloro che li hanno apertamente scoraggiati e combattuti Il fatto è che gli abusivi non si riconoscono in coloro che, se non fermati, avrebbero continuato ad abusare. Abbiamo detto che la valle è pressoché salva, e che la sua cementificazione è riferibile alla visualità di Agrigento. Immaginiamo che cosa sarebbe potuto accadere se fosse stato realizzato il grattacielo INA sullo spalto di S. Pietro, o se quell’armadio di palazzo a 14 piani di via Porta di Mare fosse stato realizzato, come da progetto, fino al ventiquattresimo piano: vi si oppose il vescovo Peruzzo, mediante un intervento telefonico presso l’assessorato regionale dello sviluppo economico, perché la gigantesca costruzione non superasse l’altezza del colle e con essa il colmo della cattedrale e dell’episcopio. La nostra affermazione non vuole dire (o non vuol essere in tal modo profittata) che la valle sia rimasta esente dal cemento. Si è calcolato che le superfici degli interventi abusivi che vi anno avuto luogo assommino ad un’area vasta quando venticinque campi sportivi. Poiché un campo sportivo potrebbe comodamente ospitare due delle nostre cattedrali, la volumetria complessiva degli interventi sparsi assommerebbe alla mole di 50 di esse: scusate se è poco. Un abusivismo c’è stato ed è stato fermato, all’interno dei confini legali della plagra, ed esso annovera anche un edificio di culto che non è sorto evidentemente al servizio del deserto. Dobbiamo certamente distinguere tra l’irresponsabilità degli enti pubblici nella fornitura dei servizi essenziali di abitabilità, ed il comportamento della chiesa: la somministrazione dei sacramenti non è confondibile con l’erogazione di acqua e corrente elettrica. E dovere della chiesa avvicinarsi e raggiungere i suoi credenti, e diciamo pure che la funzione amalgamante di essa può aver reso meno laida la mancanza di spiritualità civile che presiedette allo sviluppo di quelle escre-
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scenze edilizie. Soltanto che, ex post, la chiesa li ha coonestati; ha tentato di fare e fare apparire che fosse così, gli episodi contermini; ed è poi diventata centrale di una pagana resistenza ai poteri legali, di una farsa pietosa che ha usato rievocare icone ed ideogrammi di simboli ben più capitali degli umani trascorrimenti di quella locale sofferenza psicologica e venale. Bene hanno fatto i cappuccini della congregazione di San Giovanni Rotondo a sconfessare l’uso improprio delle immagini di P. Pio, in un tentativo di processione iniziatica pencolante in una inconfessabile propensione verso la magia e la sacra jettatura. “Il Beato non può legittimare l’illegalità” ha detto senza mezzi termini il cappuccino Stefano Campanella, capo ufficio stampa della congregazione medesima. E non già perché si chiamasse Campanella, ma perché voleva semplicemente dire che lui con i suoi a questa religione non ci stava, e che a Cesare va dato ciò che è di Cesare; dove, come e quando, è affare che concerne Cesare e non certamente Dio. Sull’abusivismo della chiesa non può occuparsene l’esercizio ma la costruzione, che essendo tuttavia predisposta a quell’esercizio può risultarne assorbita. Una apollinea, inequivocabile e leale considerazione va tuttavia fatta per la tipologia della costruzione medesima. Essa si è adeguata perfettamente alla volgarità e alla irresponsabilità architettonica delle masse abusive, quasi a volersi rifare ad una forma di accondiscendenza, a volersi rendere irriconoscibili dai contorni, a volerne optare, tra le fulve, semplici e potenti linee dei templi e delle strullate dei falsi chalet e dei pretenziosi magazzini, per questi ultimi. In questo abusivismo in valle c’è infatti accanto ad una incomprensione dell’illegalità, anche disonore di forme, indecenza del linguaggio murario, un corrivo disadattamento di cose. E tra i due abusi, quello legale e quello architettonico, a me sembra che quest’ultimo sia il più offensivo e il più simbolico. Quale differenza con la più o meno povera architettura spontanea sorta parcamente in valle tra il settecento e l’ottocento in robbe campestri, qualche villa e qualche masseria. Villa Ofelia dei Miceli, è, per tutte, l’esempio di una poesia di accordo e la volta di un rispetto che si sentiva di volere e di dovere a quelle dovizie di paesaggio, a quei templi anch’essi parchi, misteriosi ed eternamente umani. Per non parlare degli esempi di anteriore e maggiore architettura: la chiesa di S. Nicola e quanto resta di quella cappuccina della Ma-
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donna di Bonamorone. Costruzioni tutte che con i loro tufi non sfidavano i templi ma se ne trasognavano. E per contrasto pensate ora, dopo averle vedute, a quando Agrigento contemporaneamente ha saputo fare in opere di geometri ingegneri e committenti, per suggellare gli abusi con la bruttezza. Questo è l’abusivismo nella valle, che non è figlio di quello della città, ma suo redentore, suo nascondimento, sua digressione. E non solo perché, nel non avere voluto né saputo ripristinare l’ordine in città e nella criminosa rinuncia ad eseguire le demolizioni esecutive di quei piani alti di palazzi fuorilegge, il potere più che il volere non poté che consentire che in valle si ripercuotesse (sebbene sparsamente e in minore scala) quello che era ormai storia della città, ma perché, consentendo o meglio ancora provocando qualcosa in valle esso sapeva che lì attenzione si sarebbe distorta dalla causa al frutto di una tale opportunità. L’abusivismo in valle, che pure c’è, riveste carattere strumentale ed è l’agnello di Dio che toglie i peccati di Agrigento: nessun rapporto causale fra i due fenomeni, in quanto la città ha consentito che il nuovo simbolo si producesse a sua debita distanza urbica, più territorialmente vicino ai templi ma più paesaggisticamente lontano di ciò che di essa si vede dai templi medesimi, per tentare di liberarsi del proprio simbolo. Sorte non avvenuta, perché un petto stracolmo di medaglie può dissimularle con l’appenderne qualcuna sul fondo dei pantaloni. Il simbolo sortito ha così ribadito il simbolo, e la città passa per essere definitivamente la citazione universale di un cattivo modello di responsabilità. E non solo l’esportazione in valle dello scandalo contro lo scandalo non ha accordato lo spurgo del simbolo: anche la difesa della città, per come è stata condotta dal potere comunale (e ci vogliamo mettere oggi anche dalla chiesa locale con la propria presa di posizione) ha rafforzato il simbolo. La scenotecnica del simbolo o del mito in questo disattenderlo o smentirlo agisce come una possibilità dello stesso simbolo o del mito, tende anzi a farsi satira, autorappresentazione opinativa. Gli studi sulle simbologie e le mitologie, indipendentemente dalle loro genesi storiche, ci dicono che la ribellione contro la determinazione impersonale dei loro significati esprime soltanto personalizzazioni illusorie, e pervengono tutt’al più a decostruire lo schermo desiderante di proiezioni desideranti. In questo senso, contro il simbolo e muovendo da esso si diventa
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simbologi cioè funzionali alla riconferma ed all’ispessimento del simbolo stesso. Questo è avvenuto da anni, e anche ai nostri giorni. Se Ulisse rivivendo e riparlando volesse perorare l’autenticità della propria natura per polirla dalla fama che ne ha raggiunto e consegnato le gesta, si troverebbe, nello smentirsi e precisarsi, a riconfermarsi senza semplicità e senza autenticità. La biografia non vale un simbolo personale, così come la cronaca minuta non vale la storia. Ulisse che perorasse la propria diversità sarebbe non ancora stigmatizzato come uomo rotto ad ogni blandizie ed a ogni furbizia. Agrigento è il simbolo di una comunità divorata dall’edilizia, di una cultura imballata dalla speculazione e di uno spaesamento provocato dal proprio sacco, così come Ulisse è il simbolo dell’incapacità sedentaria della conoscenza umana. Ed invero molte delle difese che sono state spese per Agrigento son venute a risultare non meno simboliche dell’oggetto di pretesa smentita. Ad ogni risonanza il simbolo se n’è avvantaggiato, e non solo per eccesso di difesa che implica sempre ed esterna nella propria dismisura la misura di ciò che si vuol nascondere e di come lo sì voglia obnubilare, ma proprio perché non si può essere personaggi se non facendo da spettatori. Molte di queste difese e tutti gli arzigolamenti per sgonfiare il simbolo-Agrigento si son dati spettacolo. Il mito parlante, il simbolo proiezione, ritornano sempre ad essere, come si sapeva ben sin dal medioevo, simboli-percezione, deviazioni rinviate, rami di fiumi che defluiscono per riconfluire. Esemplari sono state a tal proposito le orazioni di elzeviri televisivi ripetutamente pronunciati e mimati da Vittorio Sgarbi in difesa della Città: per difenderla ed accusarla in organi e persone che l’avrebbero infamata. Ricordo un suo reiterato e veemente atto di accusa alla Soprintendenza ai BB.CC. di Agrigento, rea di aver realizzato durante i lavori di restauro della chiesa dell’Addolorata “una orribile ed incredibile balconata sul lato destro”. Questa balconata esisteva “ab immemorabili”. Tersite sbraitava contro il simbolo e così facendo lo diffondeva e afforzava. Per uscire dal simbolo bisogna confermarlo nel suo capovolgimento. Se la chiesa agrigentina avesse disposto per la demolizione del proprio ed abusivo locale di culto in costanza delle altre demolizioni; se
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avesse offerto di ufficiare i riti nell’indigenza di una potente provvisorietà di sofferenza partecipativa in tenda o all’addiaccio, allora il simbolo sarebbe stato rimaneggiato e superato dal dramma, il simbolo di una città abusiva sarebbe potuto riapparire esaltato in dignità. Similmente avrebbe potuto operare il potere comunale, in tempo e anzi tempo provvedendo ad eseguire qualche demolizione nella chiesa urbica. La fama del disfare, del consentimento all’abuso, della conservazione auto-assolutoria, dello stringimento patriottardo autarchico può essere sfangata da una potente contraddizione creativa del gesto, del messaggio, del fare. Secondo l’umana natura la mobilitazione e lo stringimento di fila per assicurare alla città, contro la sua fama, una difesa di sollevamento da parte di cerchie assolutamente non maggioritarie (tenuto anche conto del fenomeno dell’indifferenza), da parte di gruppi di cittadini corretti ma affilati dall’accoratezza da parte ancora di persone affissate in buona fede su dettagli notiziari (“l’ho ucciso perché ne ho visto luccicare un bottone e ho avuto paura, il nemico è un bottone che luccica, un particolare. Non so chi fosse”), da parte cioè di una parte di cittadinanza eterogenea, composita, differenziata negli interessi, dagli interessi fetenti a quelli trepidi e delicati; questo sollevamento di difesa nel suo organizzarsi, procedere e resistere, ha richiesto e impiegato argomenti, spunti, tecniche suasive e dissuasive, ed anche menzogne, candide o sporche. Personalmente abbiamo pena per gli sforzi di quanti frodano ed adulterano argomenti, si infingono sui fatti, disquisiscono su materie perfettamente sconosciute, dimenticano persino i loro ricordi. Escludendo un certo numero di interessati venali, costoro credono di esercitare una onorata difesa della città, e io credo in questo loro credere non veritativo, che si arresta e si esaurisce nella sofferenza, ed a cui manca la validità della cosa creduta. Un giovane scrive a Famiglia Cristiana, vuole, per quanto possa, alleggerire o rettificare un articolo sui fatti agrigentini. Si Firma. Non lo conosco. Mi sembra un bravo giovane. Fa in poche righe la storia della frana. Quale cemento dice. A ruzzolare è stata a suo tempo una vecchia casa. Il suo è un freschissimo racconto, forse sentito senza essere vero, forse pensato da sé per raccontarlo. La buona fede ci può essere. Diversamente, ad escludere la mala fede (mi sembra ripeto un bravo giovane) può esserci un giovanile piano, la fresca idea di giocare un tiro a Famiglia Cristiana in difesa della città. Oggettivamente il giovane ha scritto una enorme bugia.
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Allo stesso settimanale cattolico scrive e vi sottoscrive un gentiluomo di mia conoscenza. Precisa che le fotografie che illustrano l’aggressione del cemento sono false, riprese cioè con teleobbiettivo, effetto schiacciante e così via. Non è un argomento nuovo, non è un argomento falso ma è un argomento inutile, una verità che si imbroglia. Credo di essere stato io, in dipendenza di pane, ad utilizzarlo la prima volta in assoluto. Eravamo nel 1964 due anni prima della frana: tempo non sospetto, ed ero funzionario del nostro Comune. In visita con la consorte nella nostra città, un importante deputato socialdemocratico rimase sdegnato dello scempio paesaggistico della valle per via della città coi suoi palazzi pencolanti, le gambacce in aria, pronti a trascendere. Rientrato nella capitale inoltrò al governo una interrogazione urgente per conoscere etc. etc. Giuseppe Bosco mi incaricò della bisogna, e mi ritrovai in carta innanzi ad uno scandalo che a me appariva uno scandalo appropriato, intimamente da anni avevo seguito la mutazione della città e la scoloritura della valle. Con Francesco Renda e Salvatore Di Benedetto s’era anzi studiato un sistema di misure confluite nella proposta di un parco, che io vedevo dovesse essere archeo-agricolo-paesaggistico. Di fronte alla precisa e grave interrogazione, ed alla documentazione fotografica con cui l’interrogante l’aveva corredata, dovetti arrampicarmi sugli specchi, sfoderare una grande immaginazione burocratica, scrivere contro la mia coscienza che quel vero era falso, che quelle foto “avevano l’effetto teleobbiettivo, una sorta cioè di morbo dell’ottica, di diabolismo fisico, e il sindaco sì congratulò della mia affermazione e firmò a svolazzo la nota. “Così imparano”. Disse. Ma una cosa è rispondere burocraticamente ad una interrogazione e nell’ambito di un ristretto svergognamento, tutt’altra è utilizzare “l’effetto obbiettivo” nel tentativo donchisciottesco di ristabilire la verità ad Agrigento. Di questa verità, alla quale sono riconducibili tutti gli episodi, esistono due versioni quella storica, schiacciante, fondata sulla relazione di Martuscelli e sulla ricostruzione di quanto di mostruoso avvenne in città nello stabilimento di una cultura del maneggio e dell’illegalità; ed esiste accanto a questa l’altra verità, quella mitico-simbolica, se volete l’esatta versione dell’altra ma universalizzata e comunicata. Non credo che il giaculatorio ricorso allo “effetto teleobbiettivo” possa revocare la verità storica e cassarne il simbolo diffusorio. Sull’effetto teleobbiettivo il comune agrigentino ha investito
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una campagna anti-denigratoria per il ristabilimento, dice, della verità, ed il gentiluomo che ha scritto a Famiglia Cristiana se ne è fatto propagandista. Vien da pensare che la verità stia di casa tra il comune e l’episcopio, ospite di lusso o secondo i casi orfana adottata. Questa campagna, col suo tutto ridurre a verità fotografica, mi ricorda una esemplare novella del Cervantes, dove la topica, vigorosa sfregagione d’allume su una vulva dilettata vuol tutto ridurre a campagna di verginità. Diciamoci apertamente che tutte le fotografie in quanto tali sono sempre false. Non crediamo ad una epifania fotografica della realtà come non crediamo alla verità smarrita nella folla dei protervi, ricercata e ritrovata dai suoi famigli e parenti, e ripresa per mano, incalorita e racconsolata. Per altro la verità non è mai figlia unica e, ben lontana dall’essere una vergine sensitiva, è sempre stata una gran matrona, madre cioè di innumerevoli verità. In certo qual senso ciascuno di noi è nipote della verità, figlio delle singole verità, figlie di essa; verità di coraggi diversi, di scuole e diversi stili di pensiero, di ideali e preoccupazioni differenti. Della verità non possiamo dubitare in quando discendiamo tutti da essa ed a essa ci riferiamo laici e cattolici, libertari e conservatori, valdesi e musulmani. D’altra parte il confronto tra le verità non può essere fatto che in onore della verità, lungi dal volercene impossessare per condurla al linguaggio. Basta che essa ci ispiri tutti e ci renda così possibile la fruizione di quella potente area di famiglia in cui consiste la libertà. Purtroppo ad Agrigento esistono cricche, personaggi e comitati (eredi di una scomparsa maggioranza che essi concupiscono ancora, in una vera e propria crisi di astinenza) che si pongono per essere acclamati come i figli della verità, i suoi uomini di camera, i maggiorenti del maggiorasco. Ogni fotografia è un falso ideologico perché è il prodotto fisico di una realtà istantanea, risultato prescelto o carpito, predisposto o fortuito deciso da una mente umana tra innumerevoli possibilità di tecnica, di staglio e di luce, di inquadramento, di profondità, di latitudine. Risultato a commesso servizio di un pensiero, di una tesi, di un argomento che non sono mai istantanei e che se ne avvolgono a fini discorsivi: documentare cioè l’argomento, la tesi e non già la realtà in quanto tale, inesistente fuori di ogni idea direzionale, di ogni intento. Soltanto la fotografia d’arte è vera nella sua creatività, in quanto supera senza declinare ciò che pure riproduce.
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I corredi fotografici di articoli concernenti Agrigento-città simbolo non fanno altro che fotografare e rendere simbolicamente una realtà. Le colonne templari che si spiaccicano sugli elevati dei “tolli” sono grottesche metafore di accaduti reali, materializzazioni ingombranti lo spirito, iconografie oniriche di dismisure e di illegalità. Con le ottiche e le meccaniche i fotografi rendono la dominazione di un giudizio che appartiene, ripetiamo, al simbolo e che può essere emendato attraverso l’uso di altri simboli di affrancamento. Come si è letto, noi ne abbiamo indicati due, ma a semplice titolo scolastico. Appunto perché false tutte le fotografie sono vere. Si è fatto un gran parlare sulla legittimazione del ricorso agli obbiettivi cosiddetti normali, in questa vana arringa politico-fotografica. Con la dimenticanza di dire che un obbiettivo normale dà effetto teleobbiettivo se coniugato con ridotti valori di diaframma compensati dall’allungamento dei tempi di ripresa. La normalità di un obbiettivo ottico è puramente convenzionale. Le camere a soffietto montavano ottiche corrispondenti ad alcuni odierni obbiettivi. Per altro verso alcune moderne apparecchiature montano ottiche ipo-normali corrispondenti agli odierni grandangolari: con effetti altrettanto falsanti perché recuperativi. Chi fa di queste critiche utilizza il teleobbiettivo per documentare lo sconcio paesaggistico del viadotto Morandi, e quindi per pretendere l’interdizione della medesima ottica nelle riprese della città dei templi; salvo a rientrare nella norma con l’eccesso opposto, e cioè con l’uso del grandangolare! Abbiamo visto fotogrammi defensionali ripresi ai limiti della larghezza di campo, privi di profondità. Come chiamarli? Falsi restauri della verità. I crociati della campagna anti-fotografica non l’intendono, dato che falsano a fin di bene. Di codesto investimento non si vede quale possa essere il costrutto, quale voglia essere l’utile: condannare gli apparecchi fotografici per stregoneria? La presa di posizione della chiesa agrigentina si distingue per dipendenze e ascendenze gravitanti in una ragione autarchica che sembra avere rinunciato ad avere il merito di una solidarietà e addirittura ad avere ragione e ad avere nazione. E‘ una presa di posizione che non ha saputo volare, cogliere in sintesi le ragioni opposte e trasportarle al rimedio. Fondamentalmente lo si deve alla qualità degli argomenti. Qui non è il caso di rassegnarli, se non che quello concernente l’umana dignità, che sarebbe stata violata dall’abbattimento delle case abusive, s’indigna a rientrare nella pietà del riserbo.
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E gli fa eco, come Euridice ad Orfeo, quell’altro relativo all’interpretazione di norme giuridiche, dove il torto si fa dritto credendo di annunciar diritto. Equivale a violazione dell’umana dignità applicare la legge che prevede, in astrattezza e generalità, la conseguenza esecutiva di giudizi ed ordini dei poteri costituzionalmente riconosciuti per rimediare a prodotti e comportamenti che hanno violato la legge? Può una legge generale ed astratta, equivalente all’ordinamento dello stato ed applicato da decenni e continuativamente nel territorio di esso, violare contemporaneamente la dignità degli agrigentini, e non violare la dignità di coloro che agrigentini non sono e che della stessa legge senza processionare S. Alfio, S. Agata, S. Gennaro ed altri patroni, hanno sofferto le conseguenze? Può una chiesa locale ritenere e proclamare che la dignità degli agrigentini sia diversa (più frale più preziosa) della dignità di altri cittadini? E può in sostanza sostenersi che l’abbattimento di una costruzione realizzata al di fuori e contro l’ordinamento, in un regime che ne prevedeva e ne notificava le conseguenze, viola una umana dignità? Non equivale questo ad aggiungere alle afflizioni venali e psicologiche di una jattura il peso di una “indegnità” o di una violazione di essa? Io credo che la dignità di coloro che hanno sofferto la gravissima misura sia oggi assai più alta ed indiscussa di quando non lo sia stato ieri: un cittadino conserva sempre la propria dignità innanzi alla legge, perché una colpa da esso commessa, sia nel versante penale che amministrativo, non attiene alla sua sfera personale dei valori universali ed etici. Una cosa è l’illegalità, cosa ben diversa è l’indegnità. C’è stato nella posizione della chiesa un gioco al rialzo, una esasperante consolazione. A tal proposito la lepidezza di alcuni agrigentini ha fatto dire non appena appreso i contenuti di quella posizione, che la faccenda ricordava l’antico aneddoto dell’elogio funebre di Gagliano, commemorato da un suo intimo di spirito indecidibile tra l’agro e il candido. Costui, per raccorciare e consolare la famiglia dell’estinto ne enumerò le conseguenze della dipartita, i debiti da pagare, la giovane figliolanza da nutricare, la pigione da corrispondere e i pesi da estinguere, e per consolare il defunto, lo garantì che la vedova non si sarebbe potuta risposare, visto i sette figli che avevano, e che vedova sua sarebbe rimasta a consolarlo. E concluse: Và, Gaglià, tira a campà. Esempio insomma assoluto di consolazione, per far morire nei vivi, la
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morte ed oltre ad essa la speranza della vita, e far rifiorire nel morto le tribolazioni di una vita che non aveva più. Secondo il filologo la dignità è quel rispetto che l’uomo, conscio del proprio valore sul piano morale, deve sottolineare nei propri confronti ed imporre agli altri mediante un comportamento ed un contegno adeguati. L’elaborazione filosofica e morale ha ampliato la definizione linguistica, arricchendola, variegandola ed in certi casi trasformandola profondamente. Secondo la dottrina cattolica la dignità umana si basa sul posto che compete all’uomo nella scala del creato ed è la base dei suoi diritti universali. Nell’evidenziare la presocialità di tali diritti, si evidenzia però che essi sono il fondamento basilare della società dello stato e della legalità. Il diritto alla casa è uno di tali diritti, in quanto si pongono basilarmente alla società, allo stato ed alla legalità perché li riconosca, li tuteli, in una parola li disciplini. Diversamente essi restano semplici diritti presociali o post sociali. I primi appartengono idealmente ad un mondo che non c’è più, pre-statuale o forse pre-tribale (in questo caso, dovrebbero immaginarsi affievoliti come diritti alla caverna, alla cova), i secondi ad un mondo che non c’è ancora, che ha superato e disciolto lo stato. Il diritto alla casa relativo alla dignità umana, di cui alla presa di posizione della chiesa agrigentina, appartiene teoricamente a quest’ultimo tipo di diritto. Non è infatti sostenibile che sia un diritto pre-sociale (né la nostra città né la sua chiesa sono, d’altra parte, entità presociali), mentre per essere un diritto sociale dev’essere disciplinato dalla legalità: il diritto di cui parlava la chiesa lo si voleva sottratto alla sua disciplina Non c’è quindi dubbio che nella presa di posizione della chiesa si parlava di un diritto post-sociale, post cristiano ed anarchico. Minore attenzione merita invece la tesi pseudo giuridica circa la non-demolibilità delle costruzioni per effetto della L.R.3 novembre 2000 nr. 20 (art 17 comma I). la legge non prevedeva ne avrebbe potuto farlo la sospensione dei provvedimenti di demolizione già esecutivi. Una legge speciale in tal senso, di competenza dello stato in quanto attinente a materia statuale, sarebbe certamente incorsa in un sindacato di costituzionalità, salvo ad non essere estesa a tutti i cittadini d’Italia che si fossero trovati nelle medesimi condizioni di quelli
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agrigentini. Insomma una sospensione della legge da parte della legge. Stupisce come questo delicato passaggio della posizione ecclesiastica non sia stato saggiamente insufflato di prudenza pareristica e tecnica, non sia stato cioè preventivamente sottoposto al consiglio degli esperti, e perché sia stata prediletta la via dell’estemporaneità, della solitudine e quindi dell’isolamento rispetto ad una opinione pubblica che vi ha visto una scelta di basso profilo. Il rumore sollevato dai mezzi di informazione su questo argomento è stato simile al rombo di uno aeromobile che stesse per prendere il volo, e che subito si convenne fosse atterrato prima di partire, dato che si era limitato a rullare e a farsi sentire. Rumore e non volo né fumo di diritto. Che la posizione della chiesa sia stata dettata da premura e da sofferto nervosismo orario si evince anche da segni minori e per così dire ufficiosi. Manca il dispiegamento della forma, manca l’abbraccio umanitario degli argomenti, manca la precisione. Un esperto sacerdote, chiamato o inviato alla trasmissione di Santoro, non si esime da rivelatrici inesattezze che ne colpiscono l’indubbia preparazione storico-artistica, allorquando va a dire che la chiesa di S. Nicola venne costruita nella seconda metà del 400 dai cappuccini, e non nel XII sec. Dai cistercensi. Per spiegare che la costruzione del bellissimo museo regionale è frutto di abusivismo, mostra alcune vecchie foto di fabbriche fatiscenti e illeggibili dell’ex convento. L’indomani negli uffici, nelle strade e nei pubblici locali, la protesta è risolutamente schematica ed essenziale. Mettono in discussione l’unica cosa bella che abbiamo, dicono in molti. Tra i più facinorosi, un ex sacrista che in una macelleria appronta una specie di conferenza stampa e dice: almeno sfogo. Ho annotato decine e decine di reazioni, e la loro risolutezza mi è parsa per la prima volta avere avuto la meglio sull’amarezza. Vediamo chi è che non la pensa come me, dice un tizio in una parrucchieria. Nessuno, risponde un astante. E tutti, in un silenzio incassato annuiscono. La frase più interessante tra quelle raccolte è stata questa: la chiesa ci vorrebbe portare non sappiamo dove. Il che, in una città dove per dir del passato si allude al tempo dei canonici di legno, vuol dire molto. Ma perché per riprendere il candore di una urgenza, la chiesa ci vuole portare non sappiamo dove, mostrando di non sapere essa stessa dove andare? Perché in sostanza la chiesa si è mossa?
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Perché, senza lanciar messaggi, si è lanciata in una diatriba mondana farcita di numerose e poco assimilate tecniche? Perché la chiesa insiste a far parte di una città che non c’è più e lascia senza chiesa la città che sorge. La città che nella reviviscenza culturale e nei giovani non c’è più è in verità quella che ancora c’è: nei poteri autarchici autocefali, retrivi, antistatali e antiregionali. Che ha paura delle bocche che si aprono e che vorrebbero intorno a se solo tette di allattamento, non normative traforate, leggi di carta velina e poteri decentrati succubi e ossequienti. La storia dirà un giorno, quando si potranno leggere e studiare tutti i documenti riservati, se la presa di posizione della chiesa sia derivata da una stizza, cioè reazione al mancato funzionamento di un consultorio che vedesse e procuratore della repubblica e prefetto a colloquio con sindaco e vescovo per stabilire il da fare. Una reazione, cioè, alla mancanza del passato: alla fine del passato. Con questo intervento la chiesa ha raggiunto il comune e si è riaffacciata a quel ruolo anacronistico di potere che ha mantenuto, senza meriti ne colpa, fino alla soppressione della feudalità, e che ha voluto protrarre, questa volta per reclutamento di volontà e rifiuto di cambiamento, e grazie ad un annoso e raffinatissimo contenzioso pre-unitario fino al 1860. Dobbiamo essere chiari fino alla comprensione dell’idea storica di questa città. Agrigento deve tutto, dal medioevo e fino al 1860 alla propria chiesa. Un feudalismo ecclesiastico totale ha fatto sì che la popolazione dipendesse esclusivamente e interamente dalla chiesa, potenza economica e culturale agrigentina. In un secolo facilmente studiabile quale l’ottocento (ed i dati valgono a maggior ragione per i precedenti secoli) risulta che il grosso delle prestazioni mediche e aramatarie venivano spesate dalle confraternite, che assolvevano - forse più e meglio di quanto non avvenga oggi con i nostri sistemi, ma in un regime illiberatorio e confessionale – alla funzione assistenziale. Quasi tutti i contadini dipendevano direttamente o indirettamente dalla chiesa e dai suoi grandi gabellotti. Anche coloro che si sarebbero arricchiti e nobilitati acquistando i beni confiscati alla chiesa, vivevano, lucravano e accumulavano grazie alle concessioni ecclesiastiche. L’albo della maramma costituiva una affiliazione ecclesiastica. Confratrie e sodalizi tenevano in funzione un apparato previdenziale potente ed organizzato che arrivava a corrispondere per lunghi mesi sussidi di disoccupazione ai propri componenti.
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Dalla chiesa dipendevano le principali certificazioni, anche quelle relative ai pochi obblighi sociali dello stato, baliatico e povertà. La cultura era monopolio ecclesiastico assoluto. Gli avvocati del foro erano alle dipendenze esterne e contrattuali delle organizzazioni laicali, di badie e conventi, di chiese e parrocchie. La vita agrigentina era totalmente ecclesiastica: questo non vuol dire che fosse santa. Il cittadino sapeva che la chiesa costituiva l’unico potere certo perché economico e morale. La chiesa soccorreva la città nei suoi lavori pubblici. Il potere civile non apparteneva alla chiesa ma era un potere senza economia, senza finanza e senza lustro. D’altra parte i cittadini agrigentini venivano ad essere diletti alla chiesa, che possedendo la gran parte delle proprietà immobiliari urbane, li ospitava con canoni ragionevolissimi. Si sorvola sui ritardi o mancati pagamenti. In caso di insolvenza, il concessionario e l’enfiteuta venivano rimossi, estromessi dal bene ma subito collocati in una sistemazione di minor comodità ma di pari funzione abitativa. Disoccupati infermi e poveri potevano sempre contare su un rifugio, un piatto di fave, un soccorso. Le spese mortuarie erano a cerico di questa o di quell’altra associazione. Dalla nascita alla morte la popolazione di Girgenti costitutiva una comunità coperta ed assistita. Sconosciute erano le sofferenze del duro lavoro. Storicamente gli agrigentini sono stati disegnati come cittadini inadatti alle contrarietà e viventi fuori dalla forza della legge, fosse quella capricciosa del barone che quella lontana dello stato. Si edificava ovunque, e si rubavano le pietre di costruzione. Il comune concedeva immediatamente il suolo usurpato, in ogni famiglia allargata vi era un sacerdote. Le migliori famiglie avevano un canonico, o diventavano tali perché lo avevano. Tutto questo è cessato ma non finito; voglio dire, nella memoria ancestrale delle vie d’intese nell’atavismo dei comportamenti. E non è finito neanche nella chiesa e nel comune attinente. Potere civile e religioso non si sono mai reciprocamente purificati. Dove la trovi una città storicamente così? E d’altra parte, dove la trovi, facendo un salto di molti decenni, una città così abusiva fino a farsene simbolo? E non perché quella storia abbia condotto al moderno abusivismo, ma certamente, col crollo della cultura ecclesiastica, classicista e lontana dalla crescita civile, la città è rimasta ricca di cultura corporale e povera di cultura mentale. Dopo meno di mezzo secolo felice, durante il quale la cultura laica poté subentrare a quella ecclesiastica e svilupparla ad un alto e laico
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livello (ma conservando la caratteristica elitaria e riservata alla matrice), venne a subentrare la materialità capricciosa, fuori di ogni principio di bene e male, di legalità e persino di illegalità, conservandosi sempre la coscienza di un permissivismo attivo e vedendo nello stato null’altro che una brutta copia di chiesa eternamente e istituzionalmente assolutoria. E’ il comune la prova di Agrigento, o non piuttosto la sua chiesa? Nel proprio funzionamento questa apparente dialettica di dubbio si risolve di tempo in tempo per via della diversificazione di coloro che rivestono la rappresentanza delle due strutture. E’ giusto, mi dice amaramente un amico cattolico, che accanto alla promozione del vescovo si tenti ora quella del sindaco. La città è una geminata animazione. Due anime in un corpo solo. Una per ciascuna delle due gambe che procedono per movimenti accordati e falcianti. Dove lo trovi chi possa operare “in corpore vili” la separazione? La storia no sa essere precoce rispetto alla storia passata, ma la storia non è finita, e quando da prova di passato vuol dire che qualcosa incomincia a finire sul serio. La città non ha più le orecchie incollate alla propria bocca, i numeri che la compongono acquistano giorno dopo giorno nuovi decimali. Le vecchie operazioni di conto no tornano più se non se ne tiene il conto. L’interesse nazionale per la città è ormai un paradiso.
LA SINISTRA INURBATA
Crisi della Politica e nuova Opposizione: su questo tema-problema il 21 marzo di quest’anno hanno parlato nell’aula della ex chiesa di s.n.t. Giovanni Fiandaca, Vittorio Villa e Giandomenico Vivacqua. L’incontro, organizzato da Fuorivista, è stato presentato da Tano Siracusa. Qualcuno ha scagliato un sasso nello stagno, il gallo ha cantato e la campana ha squillato. Dopo la notte della frustrazione elettorale e la lunga rendita del sonno si è visto all’orizzonte uno spiracolo di luce: lama di giorno che riviene o quantomeno Luna maiuscola che sorge. Il Popolo della sinistra riformista o cattolica, libertaria o moderata, rifondatrice o socialista si è dunque ritrovato, perché era questo lo scopo del richiamo. Infatti conserviamo ancora l’istinto dell’ape, insopprimibile senso del percepire e dell’accorrere. Fa parte della nostra cultura naturata e della antropologia di sinistra organizzarci nella salita del volo. Non scrivo per riproporre o compendiare gli interventi. Chiarissimo e rigorosamente travolgente quello di Vittorio Villa che insegna Filosofia del diritto all’Università di Palermo; sereno, compiacente e luminoso quello di Giovanni Fiandaca che insegna diritto penale; dovizioso di appigli e svolgimenti quello di Giandomenico Vivacqua. Neanche scrivo per il profitto di un dibattito sulla sinistra, che pure è occorrevole alla Città e di cui, una volta organizzato, si vedrebbe il soccorso. E tuttavia proprio su questo punto non so obbligarmi ad un voto di afonia. Anche il silenzio ha le proprie ragioni e deve lasciarle trapelare prima di consegnarsi. Prima o poi ci sarà da riflettere, accanto o al di sopra dei fattori organizzativi, sulla dicotomia destra-sinistra, sulla polarità dei loro statuti, sui parametri sociali, economici e culturali che li concretizzano. Di fronte al fatto della globalizzazione la loro trattazione assiologica perde di efficacia, incappa nel tranello del nuovo, nell’inganno cioè porto dalle strutture del futuro, e si avvia al declino operativo e dialettico. Bisogna rifarci alla genesi storica della dicotomia, che non precede la rivoluzione francese e che anzi dovrà attendere il 1848 per farsi strada. La dicotomia, di origine storica particolare ed europea, si è uni-
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versalizzata nell’affermazione di economie, di politiche e di scuole di pensiero contrapposte, ma la globalizzazione sempre più affermata, praticata e teorizzata costituisce l’odierna universalizzazione del suo superamento. Da qui l’esigenza di rifondare i portati e i valori della sinistra al di fuori della dicotomia, sulla base di grandi patti sociali politico-antropologici e non più politico-dialettici o scientifico-culturali. Il Vero problema non è quello di confrontarci con la destra ma con noi stessi. Sconfiggere la destra mentre viene sconfitta la dicotomia ci vedrebbe a nostra volta sconfitti mentre il confrontarci con noi stessi va portato all’esterno, nella società, e meglio nelle condizioni delle sue classi, nei gruppi e negli stati dei cittadini ancora meglio che nelle categorie in cui possano apparirci pre-organizzati. Da qui un lavoro organizzativo di vita, una ricerca di cultura, prima ancora del proposito di comminarla o della presunzione di possederla. Poiché mi propongo di stendere alcune riflessioni sulla sinistra agrigentina, ciò che precede può essere considerato un preambolo sguinzagliato ed il convenevole per passare dal silenzio all’argomento. Non credo infatti che esistano contributi di tal genere a sottacere quelli panegiricamente versati in qualche festosa occasione del passato. Che esistano tanti modi di aderire alla sinistra quanti sono gli uomini che vi convengono è un dato di fatto. Questo accade di ogni adesione ad idee, scuole o religioni. Qualcosa nell’uomo preesiste alle sue scelte: calcoli, storia familiare, livello di cultura, maggiore o minore dirittura morale, influenze ambientali, propensione psicologica, maggiore o minore capacità di dubbio o di ricerca, ed in primo luogo quel delicatissimo meccanismo che in ciascuno di noi giudica interiormente di tutte le esperienze che facciamo, e che presiede a processi di autoconvincimento. Essere “di sinistra”, quindi (come del resto essere di destra, o essere o divenire buddista, o essere juventino) è la somma di una serie di fattori; ci si può arrivare come per la soluzione di una serie di sciarade costruite da impulsi, letture, giudizi, frequentazioni ed accensioni varie, come per altri fattori meno nobili e riferibili, allogatori o vischiosi. La libertà di aderire è infatti una formula vuota di contenuto: non si può essere liberi rispetto ai fattori che ci inducono a scegliere, anzi la libertà non è altro che la forma più lata di una scelta. Questo vale per tutti. D’altra parte nella libertà c’è anche la facoltà di non attingerla pur esercitandola, come prova che essa non è altro che un contenitore di fattori di scelta. Poiché molti di questi fattori variano di luogo in luogo, è possi-
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bile parlare di un fascismo dei romani diverso da quello dei trevigiani, di un cattolicesimo palermitano e di una sinistra agrigentina. La geografia (con quanto essa implica di barriere, di cove, di deflussi e circostanze liberatorie) fa parte della storia, ma da padrona di casa. Ed il passato, non le sue microstorie, gli avvenimenti etnici ed immigratori, la particolarità delle strutture pubbliche etc. etc., si fa anch’esso geografia. Un esemplificabile cretino potrebbe controbattere l’idea disciplinare che l’adesione ad idee, simboli o progetti unici non può che essere unitaria, come cioè se non fosse individuale; ma è proprio l’avvenimento della scelta che esclude l’unità perché arricchendola la trasforma. L’appartenenza non è mai data una volta per tutte ma costituisce un momenti di sintesi, un percorso ed un arrivo che modifica, per quanto in maniera infinitesimale, la meta, secondo ciò che chiamiamo apporto. E’ dunque possibile riflettere sulle particolarità locali dei grandi ed ideali punti di riferimento generali: nel nostro caso sulla sinistra agrigentina. La quale mi sembra che ambientalmente risenta di due importanti circostanze, storia la prima e demografica la seconda. Storicamente la sinistra nasce in città sulla dissoluzione dei fasci siciliani. Il fatto che la reazione del governo di allora, dell’opinione pubblica moderata della nazione e dei potentati agrario-minerari siciliani rappresentanti ancora una volta un intramontabile baronaggio abbia comportato lo smagliamento dell’organizzazione anarchico-socialista-religiosa dei fasci, e che i suoi aderenti siano stati sfasciati e perseguitati ha colpito la Città nelle idee di pochi singoli, idealisti ed intellettuali, ma non in quelli di larghi strati di popolazione. Alla base di questa disappartenenza stanno alcuni altri fattori, primo tra essi quello socio-economico. Girgenti infatti non era riuscita a diventare una città solfifera, dedita cioè alla organizzazione dei ricavi, alla commercializzazione del prodotto ed allo sfruttamento degli addetti. Eppure era stato un “regresso” passare dalla condizione contadina di fame a quella di minatore sfruttato ma quanto meno salariato. A differenza del minatore sfruttato il contadino era un uomo abbandonato. Le condizioni di vita del minatore apparivano o si speravano migliorabili, quelle dell’uomo di campagna abbandonato a se stesso apparivano immutabili. Girgenti infatti non disponeva di un settore di popolazione contadina che, avendo nel 1812 sortito qualche frutto dallo scioglimento dei diritti promiscui e dalla soppressione della feudalità, potesse
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guardare in avanti e costituire, per quanto poveramente, movente di invidia, di attesa o di emulazione da parte della restante parte dei contadini. Spera chi ha già ottenuto qualcosa o chi sa di poterlo ottenere. Dal punto di vista sociale la speranza non può essere un esercizio di fede. Non si era in particolare formato un ceto di assegnatari e piccoli coltivatori diretti che servisse da guida per emulazione di prospettiva, per lotte e ulteriori conquiste. Qui, in sostanza, la storia non aveva avuto storia, e sia detto per inciso ed in estrema sintesi, la responsabilità di ciò è da addebitare in parti uguali alla chiesa locale che difese con i denti alcune assurde, inumane ed anacronistiche pretese proprio per rendere defatigatoria e impossibile la ripartizione delle terre; ed è da addebitare al comune, che nel costituirsi contro la chiesa smarrì in parte i titoli originali necessari per la sua soccombenza. A smarrire il resto degli originali ci pensarono infine gli avvocati del comune, ed è manifesto che questo laido giallo ha avuto una orchestra e una regia. Girgenti ristette sostanzialmente fuori del fenomeno sociale dei fasci, salvo pochi casi di adesioni volenterose, adamantine, e intellettuali come quella di Francesco De Luca. Dopo lo scioglimento dei fasci le nuove idee socialiste si affermeranno a livello elitario, e questo perché la chiesa agrigentina, con un straordinario ed antesignano rivolgimento della propria sensibilità e grazie all’avvento di un vescovo straordinario (Blandini) aveva decisamente imboccato la strada del controllo organizzativo dei ceti proletari e contadini, prefigurando prodromici atteggiamenti di aperta socialità, di popolarismo e di socialismo cristiano. Questo capovolgimento, oltre ad una serie di moventi sui quali è speditivo sorvolare, si dovette essenzialmente alla volontà della chiesa di non cadere ostaggio dei nuovi ceti liberali già clericali che, essendosi arricchiti con le grandi concessioni dei feudi ecclesiastici, s’erano trovati nelle condizioni finanziarie di insignirsi della loro proprietà, mostrandosi incuranti e derisori di ogni sanzione religiosa comminata dalla chiesa stessa per chi avesse profittato della vendita pubblica dei beni già incamerati dallo stato. La partita era forte, perché al 1860 i beni ecclesiastici erano ancora enormi, poco avendo potuto su di essi, come si è detto, per via di raggiri contenziosi, lo scioglimento dei diritti promiscui e l’abolizione del sistema feudale. L’arretratezza della situazione aveva reso possibile un recupero aggressivo e cannibalico della modernità e del
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destro storico che essa offriva: i ceti abbienti cattolici divorano i beni ecclesiastici e diventano mangiapreti. La reazione della chiesa blandiniana vuol chiudere questa pagina di storia, sospende ogni regolamento di conti con quei ceti e dall’alto si sposta verso il basso per l’organizzazione della maggioranza dei cittadini. Naturalmente si imbatte nei bisogni dei non abbienti, dei poveri, dei disperati, per i quali è allestita una risposta sociale e non più caritativa o soccorrevole. La sinistra agrigentina dell’epoca si limitò a correre con la chiesa una strada parallela ma incurante, asociale ed isolata, perdendo o non cercando l’organizzazione delle masse: errore imperdonabile e ancora decisivo. Era come se la maggioranza della popolazione non abbiente e socialmente disponibile dovesse farsi, per divenire socialista, anticlericale, e cioè alleata del nuovo ceto padronale. L’errore comportava dunque la contraddizione. La battaglia, culturalmente vivace ma storicamente arretrata, era imbevuta di un anticlericalismo di antiche ragioni. Questo stato di cose si protrasse dalla fine dell’ottocento all’avvento del fascismo. Nei conversari di villa o nei gabinetti dei grandi avvocati si giocava al socialismo elitario, campato in sogno, corrivo e di qualità. E si giocava, quasi per pertinenza ludica e raddoppio di posta, alla massoneria. Si giocava alla escatologia rivoluzionaria e catacombale, alla scienza ed all’umanitarismo astratto. Per gemino anacronismo l’illuminismo diventava romantico, mentre la chiesa trascorreva dal blandinismo allo sclafanismo totalitario, integralistico, e faceva delle masse i suoi nuovi feudi. Già da sotto il fascismo ne avrebbe affidato il controllo ai suoi avversari di ieri, alla borghesia precipitosamente inchinatasi in vista dei vantaggi di un potere che era qualcosa di più dei beni, del resto già consolidati. Villeggiando nelle recondite amenità del Racabo un pugno scelto di giovanottini socialisti sognava alla fine dell’ottocento avventi ed attese e si scambiava libri ed esperienze di lettura. Accorrevano i Cigna, i Giambertoni, i Mendolia, i Biondi, gli Sciabica, gli Stella e tanti altri che però erano pochi rispetto alla popolazione curata docilmente dalla chiesa ma rimasta intontita, senza anima di lotta, senza pensiero di diritti né animo di lotta. Era come se i socialisti girgentini avessero ricevuto delega a pensare per la popolazione, astenendosi però da ogni attivismo per raggiungerla e comunicare con essa, mentre i bisognosi continuavano a vedere nelle iniziative della chiesa, nelle corporative, nei circoli di mutuo soccorso, nelle banche santimoniali, una sorta di enorme confraternita dedita alla carità ed alle opere di bene. Ben vi
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vedeva Sclafani, invece, leve di potere, di controllo economico, ed aghi di sutura sociale ed interclassista. Vero è che con l’avvento del fascismo il gruppo socialista si sciolse, si infugò, si disperse. Alcuni rientrarono nelle magioni delle logiche familiari, si ammansirono e rimasero imbrigliati, per opportunismo criptico o per impossibilità di recesso, nelle maglie della massoneria, da cui avrebbero reso segnalati servizi ai loro compagni meno calcolatori. Tuttavia è altrettanto vero che altri del gruppo furono oppressi. Settimio Biondi, mio nonno, venne licenziato dall’impiego bancario, ripetutamente fermato e due volte pestato; il tetragono, moralissimo Giuseppe Sciabica, padrino di mio padre e aderente nel 1921 alla svolta comunista di Livorno, venne maltrattato e angariato unitamente alla sua famiglia; l’avvocato Guglielmo Biondi venne sospeso dall’ordine forense con l’impossibilità ad esercitare la professione; ed è pur vero che il primo dei Biondi e lo Sciabica vennero condannati a morte durante il tragico crepuscolo del fascismo, riuscendo a scamparla. E però, pur con tanti successivi patimenti, in precedenza avevano fatto bene poco per incidere sulle masse: salvo forse, unitamente all’avvocato Cigna, la formazione di un nucleo proletario di controrganizzazione alla politica sclafaniana di Variotempo nel sobborgo di Rabatello. Era un collettivo politico che si proponeva di agire come una banca delle analisi e delle comprensioni e come una corporativa dell’intelligenza. La sinistra di oggi è parzialmente un prodotto di quella sinistra, ed è anche, principalmente, il prodotto di un fenomeno di inurbamento demografico che ha comportato un inurbamento di idee, di tradizioni, di presunzioni e dei più disparati schemi politici ed organizzativi. E siamo quindi alla seconda, preannunciata circostanza di riflessione. Quell’inurbamento, avviatosi negli anni del dopoguerra e ripreso e accentuato negli anni sessanta dello scorso secolo, non si è mai del tutto coagulato in unità, essendo stato rifornito e reintegrato (proprio come processo di disordine ideale, organizzativo e culturale e non già come processo di unificazione) da stillicidi, riallacciamenti, logiche di ‘colonie’ comunali trapiantate etc. Il ‘popolo’ della sinistra, in sostanza, è venuto arricchendosi e formandosi di elementi venuti dalla provincia, spesso validi, impegnati, convinti sulla base di tradizioni, logiche ed appartenenze di origine, ma eterogenei ad affrontarsi e ad intendersi utilmente, omogeneamente ed unitariamente: incapaci di ‘fare’ una sinistra compresa da sé
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e quindi operante ed attivistica: comprensiva della nostra città, comprensibile da parte di essa. Troppi dislivelli formativi, troppe differenze di esperienza storica, troppe eterogenee ambizioni; e nel troppo del dinamismo inurbativo, troppe ambizioni, troppa iattanza. Troppo di tutto ciò, insomma, che non rende mai troppi né appena sufficienti coloro che in città diversamente saprebbero, vorrebbero, o potrebbero aderire alla sinistra. Il troppo dà poco, in sostanza. Se la storia della Sicilia è storia di paesi, la storia della nostra provincia è storia di diversi casati feudali che regnarono, quasi sempre da lontano, sui nostri paesi: i quali furono agglomerati privati, sottoposti all’imperio di un signore e dei suoi rappresentanti. Contati erano i centri demaniali, cioè liberi, appartenenti alla Corona e retti dai loro antichi privilegi riconosciuti dallo stato. Girgenti era nel piccolo numero: qui la vita si era spiegata secondo le forze locali, sotto il patronato dominicalmente imperante, ma blando e comprensivo, di una chiesa elargitrice di cultura. Nel reciproco isolamento la differenziazione degli altri paesi, quale ancora nel buio del sommerso riemerge nei temperamenti delle singole comunità, è dipesa da una serie di fattori feudali e locali. E poiché il feudalesimo come istituzione giuridica pubblica ed organizzazione di sfruttamento umano e fondiario ha avuto una vita ben più lunga della propria cultura, venuta già meno nel ‘500, le sue potenti influenze sulle popolazioni assoggettate sono da ritrovare nell’azione svolta luogo per luogo dalle singole case nobiliari, a seconda delle loro diverse concezioni e modalità di maggiore o minore sfruttamento, rapacità esattoriali, prepotenze consumate ed angherie praticate; a seconda della maggiore o minore umanità e comprensione dei sudditi, del tipo di giustizia amministrata (quasi sempre consistente nelle apparecchiature urbanistico-architettoniche, nella elevazione e nel decoro di chiese, nella destinazione di luoghi di incontro come le piazze, etc.). Questa è la base, a partire da essa ogni “stato” o comune è divenuto quello che ritroviamo, con maggiori o minori capacità di spinta, di lotta o di rassegnazione, specie a partire dal 1860 e dalle sue delusioni. Come fare intendere, ad Agrigento, un uomo di sinistra di Grotte, comune dalle grandi tradizioni di lotta e tradizioni libertarie ed anarchico-socialiste dei fasci siciliani, con un uomo di sinistra proveniente dal mite, domestico Joppolo Giancaxio, rimasto feudale fino all’altro ieri grazie agli spadroneggiamenti di un sindaco democristiano da ro-
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manzo? Come mettere insieme un sambucese ad un ravanusano o campobellese di sinistra? La cultura del primo si è formata su un tradizionale rapporto di lotta con il patriziato agrario palermitano che in estate curava i propri interessi andando in villa nel paese e portandovi idee e aggiornamenti. La cultura del secondo si è formata su una orizzontale e basamentale contrapposizione di lotta ravvicinata e dettata da condizioni esistenziali di vita. Possiamo parlare di una cultura di sinistra della nostra provincia come di una espressione organizzativamente storiografica ma non organica tanto sul terreno storico che su quello prettamente politico. Anche i grandi dirigenti di sinistra della comunità provinciale, pur nell’importanza sovracomunale delle loro figure e dei loro carismi, son rimasti e rimangono diversificati. L’unificazione avviene a livello didascalico e psico-pedagogico: la storia prende in consegna la geografia ma non la conquista. Raffadali per esempio ha contato su un Sessa, su un Gueli o su un Di Benedetto, ma costoro hanno potuto contare su una popolazione contadina tutto sommato amalgamata dalla tradizione borghese dei La Rizza, delle loro antiche sub-concessioni terriere, su punti di riferimento di determinati agognamenti appropriatori, su una sorta di laico monachesimo di campagna e su una sostanziale coesione sociale che poteva permettersi il pluralismo unificatore della sorte e delle aspirazioni. E, ad andare più indietro, queste circostanze erano state prodotte ed amalgamate dall’ininterrotta prosecuzione di regnanza, dai normanni al venir meno della feudalità, di una sola famiglia baronale: quella dei Montaperto. E’ un caso più unico che raro, capace di fare storia della propria storia. E tuttavia il grande privato che si è fatto pubblico di Raffadali, come può coniugarsi al piccolo privato di Agrigento dominato dal pubblico e divenuto una forma di resistenza e quasi di concorrenza? A Raffadali la dimensione pubblica non ha mai avuto bisogno di tradire quella privata: in fondo esse coincidevano. Ad Agrigento no. E metteteci, se volete tingere più nei dettagli il quadro, che la compattezza paziente e sorniona di quel centro ha saputo disporre come di un ulteriore potere di una pluralità di chiese o sette religiose che hanno reso possibile nella ripercussione socio-politica l’amalgama a partire dall’unico punto possibile, e cioè dal pluralismo. Sotto molteplici punti di vista la compattezza di Agrigento dovrebbe proporsi come punto di arrivo di ciò che altrove funge da fomite di determinati processi di avanzamento. Qui una impaziente rassegnazione
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sbocca sovente in coscienza d’oltraggio, in smanie ed inquietudini che vanno interpretate come fenomenologia formalmente democratica di ricompattamento e di riproposizione. Nei centri contadini feudali i faticatori della terra che costituivano il nerbo ed il numero della popolazione hanno potuto detestare i latifondisti, ma a Girgenti latifondista era la chiesa. La quale, al di là dell’esserlo, era anche altro: valore, cultura, riferimento di fede, eternità. Tutto diventava impersonale, genuflesso e postergato ad un tempo senza fine, sostanzialmente rispettato e conservabile. Era come se la grandezza dei problemi li soddisfacesse e per ciò stesso li risolvesse in maniera aurea. L’antropologia agrigentina è fondata infatti sull’accettazione, ma non può dirsi che quest’ultima sia risultata priva di vantaggi rinnovati fino ai nostri giorni, e non sia stata, fino a diventar matura, una forma di opportunismo ed una lucrosa autogestione dell’inattività. E però si creava una mistica dell’invariabilità, camuffata e rimediata nella formula della “lunghissima storia della città” invocata ancor oggi per intendere che se il presente sembra rinunciatario di storia è perché ne è ricco e stomacato d’avanzo, sol che si compiaccia di guardare a tergo. Tutt’al più poteva darvisi, come contingentemente si dà ancora una adorazione della rabbia, una protesta tra porta e finestra, un far scendere la voce in strada rimanendo dentro la casa e con la testa riparata. Altrove, nei piccoli comuni, poteva invece darsi luogo all’erosione del tempo, minacciandolo o minandolo; e dal tempo si apprendevano i tempi nuovi, i momenti buoni, le occasioni profittevoli: l’occupazione delle terre, le provvidenze parassitarie, l’emigrazione, la speculazione dei suoli, l’inurbamento dei ricavi e dei risparmi, l’impiego ed il carrierismo, le doppie e le triple attività e così via su una campionatura ho calcolato che l’80% della produzione del “boom” edilizio agrigentino che ha sconquassato il territorio e ha posto le premesse dell’abusivismo è stato assorbito dal movimento inurbativo e quindi dai tempismi e dai fenomeni socio-economici che avvenivano in provincia. Agrigento diventava un paradiso degno di riserve. Naturalmente questo avveniva diversamente da centro a centro, ma nell’insieme avveniva diversamente che ad Agrigento dove ciò che era altrove fenomeno di vivacità e di crescita si faceva invece risulta. Se andiamo alla storia di Burgio neghiamo quella di Aragona, e ciò che è avvenuto in Favara non ha riscontro in Camastra; ma rispetto alla storia di Agrigento Burgio ed Aragona, Favara e Camastra negano
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la storia di Agrigento e ne sono negati, riconoscendosi in una situazione diversa di quella del capoluogo. Agrigento è stata invero il capoluogo di un’idea e il punto di riferimento del proprio concetto, ma dobbiamo ammettere che non ha saputo svolgere un’egemonia culturale e socio-economica in grado di fondare una riconoscibilità dei comuni della provincia. Per queste varianti e per la giostra dei punti sociali e antropologici di riferimento è così potuto accadere che Sessa, Gueli e Di Benedetto son divenuti importanti protagonisti della sinistra perché oltre ad esserlo disponevano di una candidatura demo-storico-politica che li proiettava centripetamente. Mentre su Sciabbica, mortificato negli affetti e nella famiglia fino alla morte di una figlia, cavalcano ancor oggi i giorni di una mancata memoria. Dobbiamo tuttavia all’attivismo dei comuni, alle lotte sociali che vi si sono svolte, alle accensioni delle coscienze del cambiamento gran parte dell’affermazione di una sinistra provinciale, sociale ed elettorale che ha avuto i suoi momenti importanti. E però è ancora da dire che Agrigento, se ha dato alla sinistra meno di quanto non abbiano dato i suoi comuni, ha tuttavia saputo sviluppare una forma e una cultura della politica di cui non tutta la materialità degli apporti ha saputo avvalersi. Se ne sono avvalse ancora una volta le forze moderate, centripetamente e sostanzialmente; se ne avvalgono ancor oggi, per limitarci alla sinistra, i cattolici di riferimento. Queste forze, in quanto residenti in città o in quanto vi narrano o vi si riportano, hanno avuto l’agio di riabilitare in un ambiente già operato: si sono avvalsi della cultura sociale della chiesa, quale si era avuta tra la fine dell’ottocento e i primi del novecento; ne hanno utilizzato la cultura e la maestria. Lo stanno ancora facendo alla grande: nel tratto, nella capacità coagulativa e disciplinare, nella capacità di gestione dei rapporti interpersonali, nella destrezza di accomodamento e nella facoltà di attrazione. Militare in una di queste forze riesce a dare ancora alla borghesia e alla piccola borghesia agrigentina alcune soddisfazioni, false ma umanamente buone. In una tal politica il gioco non è abolito del tutto; vi predomina un senso di sicurezza e di solidarietà anche nelle tipologie clientelari più stomachevoli. Ed anche nei contrasti interni e nei tiri tradimentosi trovi espedienti di spiegazione: il giubilamento dell’on. Marino è stato un classico scherzo da prete, ma anche la riproposizione perpetua e infine il successo del sen. Sodano ha ubbidito a una logica - come dire? - pastorale. L’affermazione di Sodano sta tutta
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qui: nell’avere voluto ritagliare la propria avventura sulla storia di Agrigento, con buon naso e buona recita. Da Sabino ha voluto avere un Crescentino, da Montaperto un Covarruvias, da Fronda un Gallo: e se li è dati. Del resto i pregressi successi di un La Loggia, di un Sinesio, di un Marino - come oggi quelli di un Alfano o di uno Scalia - non vanno al di là dell’interpretazione della centralità storico-politica di Agrigento che la sinistra, ancorché ipocritamente non si dica, espunge dal proprio corso di pensieri, rimanendo legata ad una concezione colonicomobilitativa, innamorata delle frammentazioni particolaristiche, risolta in svariati apporti contributivi ma reciprocamente depennanti. Le formazioni moderate e della sinistra cattolica, invece, si muovono su una cultura di riferimento. Un fiume quando c’è è sempre buono, anche quando è deperito e non navigabile; se non altro il suo alveo può diventare una soffice strada. La sinistra respinge questa cultura, e cioè la storia di Agrigento, la sua particolarità (al limite la sua sociologia), ma lo fa senza una cultura del rifiuto: cioè senza una nuova cultura corrispondente. Cosicché la grande indubitabile cultura degli uomini di sinistra della città resta nelle teste e nei conflitti dei rifiuti e delle distinzioni, ma non permea nel movimento, contrassegnato da durissime ambizioni interne, da diseconomiche rifiniture culturali, da inutili e mai fusi né confluiti lasciti esterni. Domina quindi un eccesso ipercritico e conoscitivo il cui dinamismo finisce col diventare sfericamente isolato e stagnante. Predomina anzi una trabocchevole capacità di analisi e di ragguagli ipercritici ed estroversi di cui finiscono con l’avvalersi, come è ben noto, gli avversari. A tutto pensa e provvede, questa sinistra agrigentina, fuorché a se stessa, cosicché la pletora dei suoi mezzi prevale sulla realtà fino a porre il problema, in difficili circostanze come la presente, di una ricerca dei fini, delle motivazioni e delle giustificazioni. Bisogna andare ad una semplificazione e ad una nuova, originale modestia di questa ricca e fuorviante eterogeneità culturale ambientandola stabilmente nel tipo e nella storia del capoluogo, attraverso un’opera di concentrazione della conoscenza e una potatura energica della ramaglia memorialistica e narcisistica; attraverso il rifiuto delle tradizioni localistiche e la recisione degli apporti secchi o antologici; attraverso il ristabilimento di condizioni minime di rispetto, di solidarietà e di autoaccoglienza dell’esistente. Obiettivo che richiede comunque numerosi prepensionamenti di icone stancanti.
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E’ proprio nel non avere voluto né compreso che una politica di sinistra andava fatta e non semplicemente riunita o registrata nel capoluogo, e quindi è proprio nel rifiuto dello statuto epistemologico dell’essere sinistra ad Agrigento, che va ritrovata una crisi di reazione dispersiva agli annosi dettati periferici. Tanti lumi non hanno fatto luce, e tanti elettori non hanno creato il permanente riscontro di una forza. Una politica di sinistra va dunque centralizzata nella innovazione della cultura sociale agrigentina, lo vogliano o no gli esponenti itineranti e decentrati: arroccamenti e peculiarità non pagano più e non offrono scambio. La prima, vera e grande esigenza è dunque quella di una disciplina politica cittadina che abbia una capacità provinciale intesa come somma di capacità periferiche. Proprio la non-agrigentinità delle grandi scelte di fondo ha condizionato la sinistra dell’intera provincia, la quale non può più essere soddisfatta dei risultati particolari e zonali sempre più diluiti e decrescenti. La discriminante più significativa fra la vita e la storia dei nostri comuni e la vita e la storia del capoluogo è che nella divisione dell’affettività antropologico-politica quelle si sono essenzialmente fondate sulle ambientali freschezze dei desideri, e queste sulla raffinatezza ed astrattezza dei sentimenti. Ad Agrigento i sentimenti sono divenuti la tomba dei desideri: nei comuni questi son divenuti la tomba di quelli. Certo, i desideri sono importanti: consentono la libertà, ricercano il nuovo, pongono gli obiettivi. Ma non meno importanti sono i sentimenti: essi stabiliscono le misure e rappresentano la storia delle possibilità dei desideri. Occorre quindi superare nel quadro sociale e culturale tanto i desideri quanto i sentimenti, farli divenire in un sentimento di quel desiderio che è il presente. Questa sintesi o si opera qui o non si opera, cosicché Agrigento deve riuscire a sciogliere in un unico ambiente i propri comparti di sinistra, assumendo una funzione procreativa e non, com’è nei potenti ambienti e conservatori, gerontologica.
IL TEMPIO E LE TORRI
Da chi ho sentito dire che la televisione è monotona perché non trasmette altro che la televisione? In questa tautologia sta in fondo il suo obbligante successo, la sua vorticosa travolgenza. Di solito consumo poca televisione, preferisco leggere ed ascoltare musica. E’ sempre più ritagliato il tempo che dedichiamo alla parola, si assottiglia sempre più il numero di coloro che parlano e di coloro che ascoltano nell’avvicendamento. Come elettrodomestico la televisione piglia il posto della madre. Ascolta tua madre, ci dice, guarda tua madre. Rileva sin dal parto i nuovi nati, ma già li aveva condizionati in embrioni e feti. Il liquido amniotico è corso e mareggiato di specchiamenti televisivi, il cordone ombelicale è di una fibra ottica. La televisione è presente sin dal concepimento, ha ormai scalzato notti di pioggia, meriggi estivi e mattinate di primavera. La carne si riduce sempre più ad un vincolo putativo. Io uso della televisione come un antico tempo si usava del pitale o della seggetta, a mio comodo e bisogno e sempre con dispregio. Conservo le distanze e la coscienza che i miei accessi son sempre temporanei. Certe sere mi limito ad ascoltare, facendo mestieri di orecchie e senza scomodare gli occhi, i sommari dei telegiornali. E’ un avvenire e un umano padroneggiamento usare dell’apparecchio televisivo a guisa di radio: legarsi all’albero, udire il canto delle sirene e poterne riferire senza tema di non ritorno. In quanto si danno o non si danno, in questo o in quell’altro ordine di entrata e di presentazione, è ben risaputa la manipolazione delle notizie per esaltarne o sminuirne l’attenzione, la portata ed il significato. Accade anche nelle trasmissioni radiofoniche e nella stesura dei giornali; ma in televisione le immagini ti danno la sensazione di aver visto e toccato la verità, monogamica e senza scampo. Nel passato si diceva “l’ho visto con gli occhi miei” per sacramentare di una cosa, ed il vedere si eguagliava al toccare, come suo agente e sostituto di fiducia. Oggi questo tipo di certezza è demandato all’approccio televisivo. La sua invadenza è tale che è la televisione a scovarci, a fissarci, ad operare su di noi le sue certezze con i dati dell’au-
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ditel, a persuadersi di averci persuaso. Io mi defilo per aggirarmi il più che sia possibile nell’altopiano. Il rapporto di una individuale coscienza di libertà col più invasivo ed esaustivo mezzo di informazione propagandistica e di persuasione occulta non può che atteggiarsi ad una prudenza guerrigliera. Carpire l’informazione e fuggire, profittarne ma non risiedervi. Far marciare la mente un attimo di più della propaganda, evitare che ci accerchi. Con l’ascolto dei sommari non si corre rischio alcuno, la loro stringatezza è ancora sprovveduta nelle sofisticherie propagandistiche che si ripromettono. Dunque utilizzo la televisione quando la sorprendo disabbigliata e non ancora preparata ad imbonirmi ed avvolgermi. Ascolto e la spengo godo di Salomè senza darle il tempo di impormi il proprio mezzo: come chi accetta celermente un omaggio predisposto al raggiro, dileguandosi prima che egli abbia modo di spiegarsi. “Posso offrirle questa rosa?”. Afferra speditamente il fiore di plastica e va via ringraziando, non lasciare alla ragazza dai glutei scoperti il tempo di spiegarti che tu devi qualcosa, il più che ti sia possibile, all’associazione per la lotta ai pediculosi. La televisione guardala solo il tempo di desiderarla. E’ un potere di facoltà spegnere l’apparecchio, zittire e addormentare la figura parlante, smorzare la luce del suo boccascena. Provo sempre a rappresentarmi come possano svilupparsi, estendersi e ridondare le notizie che ho appena ascoltato in succinto, e con quali conce, plessi e frange possano venir confezionati nei distesi sviluppi dei servizi, negli approfondimenti adagiati e corredati. Le tiro a destra e a manca come lenzuola da sfibrare, le svario ed ipotizzo in serie secondo i contrapposti interessi di parte. Spoglio, rivesto, travesto le notizie. Non ignoro in questo gioco quanto sia elevata la mortalità infantile delle notizie, comprese quelle tronitruanti che sembrano nascere adulte e viziose e che invece non riescono a sopravvivere di un solo giorno. Mi dà sempre piacere sospendere l’erogazione del flusso di parole, di sorrisi e di proponimenti del giornalista o della giornalista che dopo avermi notiziato si accinge a convincermi, specie quando penso che mimiche e parole continuano ad arrivare per me sul tubo catodico, ma fredde ed inerti come temperature di morti. Chi continua a pronunciarle ed atteggiarle presume che io veda e ascolti ancora, che l’apparecchio sia ancora acceso: e non ha mezzo per verificarlo, e se l’avesse, non avrebbe mezzo per riaccendere l’apparecchio, per stimolare la mia curiosità di soggetto passivo.
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tento così di stabilire un rapporto accortamente diretto ma non paritario ne aderibile con la televisione, è un mio elettrodomestico e non voglio divenire un suo governato. Milioni di persone hanno cambiato religione passando dal libro dal giornale dalla radio alla televisione: credono di esservi, di stare in mezzo alla verità, di esser raggiunti. Io sono più prudente, accendo e spengo, occhieggio e sbircio, cerno voce da immagine: se la televisione avesse un’anima io la inquieterei. Poiché ha al suo posto una protesi suasiva, io gliela eviro. Spengo l’apparecchio e nel ricordo di Popper e Pasolini abolisco il suo potere. Bruno Vespa? Negli ultimi due mesi mi ha parlato poche volte, qualche minuto appena. Ad Agrigento conosco persone ben più interessanti con cui amo intrattenermi. Eppure quell’undici settembre è stato per me un lungo indimenticabile spettacolo televisivo: spettacolo come ciò che ci assiste nel momento in cui assistiamo ad esso. Io normalmente rivaluto il pubblico, anche quando il pubblico, di fronte al recit dello o degli autori, si limita a segnare il silenzio. Uno spettacolo non è mai separabile dal nostro fare spettacolo, magari solo in silenzio e con la mente. Non per nulla gli attori, vedendo un gran pubblico, dicono “che spettacolo”. Mi risulta che quell’undici settembre molti hanno seguito lo spettacolo per tutta la notte. Io no, avevo già fatto abbastanza fino a tarda sera. Non fossero cadute le due torri di Manhattan e fosse rimasto come mera fìction il loro spettacolo, io li ricorderei allo stesso modo, insoffribilmente. Quel lungo giorno potei rimpiangere per quanto ne sapessi la televisione del giorno prima e nel contempo raccoglierne come cosa di nessuno la sicumera e la responsabilità. Su Manhattan era piovuta la morte e io raccoglievo lumache televisive, florilegio di grascie limacciose. La carne è debole, il motto mi raggiungeva e aveva ragione di me. Ero entrato nello spettacolo e stavo come chi assiste ad un funerale in una casa di tolleranza, un lavoro infrenabile che imbullettava e schiodava mille volte il tabuto catodico col frastuono di una carpenteria audiovisiva. Mi sentivo come chi confonde psicologicamente i sentimenti di una partenza colma di attese con quelli di un arrivo privo di esperienze. Da decenni la televisione aveva marcato soluzioni di immagini e di ciò che i poteri avevano commesso alle icone: sicurezza, edonismo, economico desistenza intellettuale. Ora reiterava poche imma-
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gini prive di soluzioni e mancanti di senso televisivo. Fingeva di esercitare un servizio di star caudataria del tempo reale e delle sue esigenze produttive, ma in verità non riusciva a riprendersi né a trasmettersi. Riprendeva e trasmetteva come una antica lanterna cinese, non già da se stessa cioè da televisione. Riprendeva come una rudimentale camera oscura, trasmetteva per telefono. Al di là della condolenza, per chi sapeva percepire il messaggio di quella conflagrazione tecnologica, si sentiva colpita e invalidata. Forse per riprendersi e contestualizzarsi, per ritrovare un peso reale ne tempo reale avrebbe dovuto (ma ancora questo la televisione non può) uccidere i suoi spettatori, raggiungerli come gli aerei avevano fatto con le torri: abbattere quindi lo spettacolo. Intanto le due indossatrici di New York, le due torri anoressiche, perlacee e lunari, pulsanti la notte di porosi brividosi, non esistevano più. Erano state a prova di tutto: di guerre, di tornado e di terremoti, ma non erano a prova d’uomo. Come i cibi transgenici, i melloni cubiformi, le mucche ingozzate con le semole di cimiteri animali, le pecore clonate e la ventura pecorile clonazione dell’uomo, gli embrioni manipolati, la vita decodificata e ricodificata erano frutto di laboratori ingegneristici, di inumane dismisure, di proiettive arroganze. Intanto le immagini si succedevano alle stesse immagini delle torri raggiunte e accese da due falli volanti. La moviola centellinava con molle lentezza il commercio tra i due colossali immobili e i due giganteschi mobili. Ecco la mira, l’incontro e lo scontro. Una torre smuoveva l’anca, non riusciva a prevalersi, crollava a terra abbracciando l’aereo. In aria volavano epiteli di lamiere, fiottavano emorragie di fuoco; tinte rogge, brune e peciosi di carni e filati, di metalli e metalloidi, di legni e di plastiche fumavano tra candidi soffioni di vapore. Il chimico avrebbe detto che niente si stava creando e niente si stava distruggendo. Le immagini si riavvolgevano, si risvolgevano ridando daccapo la scena delle torri intonse, ancora una volta rivenivano i due falli a rifare la violenta faccenda. E così dieci, trenta, cinquanta volte. Incredibile, commentava qualche giornalista arrochito con un avverbiato aggettivo che usa di solito per censurare l’immaginazione o rimborsare alla realtà una sua credibilità. Cadute una volta le torri continuavano a cadere virtualmente, come se crollo reale avesse avuto come indispensabile premessa ogni altra ricaduta. Le due mortifere colombe continuavano a volare verso i loro nidi esplosivi. Un manto di georgette tenebrose si stendeva decine di volte sul teatro, come un
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calarvi di la tela. Rincalzavano le repliche, e così per ore. Seguivo la trasmissione non senza tentativi di reagire al coma dello spettacolo. Pertanto mi appigliavo ai particolari, ai pretesti di ogni fuori campo, al mio allontanamento fisico dall’oblò televisivo per recarmi ad accendere la radio e rifarmi quanto meno di qualche voce non dedita al compimento ma all’informazione verbale, al tentativo di misurazione e comprensione dell’accaduto, al prodromo di un qualsiasi discorso. Sebbene non sia possibile pensare, parlare e scrivere senza immaginare, non può dirsi possibile identificare l’immaginazione con l’immagine e, quindi, sostituirla. Immaginavo anzi di poter cogliere qualcosa che potesse tradire le immagini, e captai in una conversazione di servizi fra giornalisti o tecnici addetti come medici di pronto soccorso al traghettamento ed alla cura dell’interminabile sequenza. Okay- diceva qualcuno da un capo. Okay - gli rispondeva qualche altro da inimmaginabile distanza. La conversazione era triturata, echeggiante e fioca, pressoché incomprensibile, ma gli okay risultavano nitidi all’ascolto, libranti ed esclamativi, un okay ogni cinque o sei parole di quella conversazione elettrizzata e ronzante. Sta bene, siamo d’accordo, intesi. C’era nella locuzione l’ottimismo della sfrontatezza o il nervosismo della paura, non so se paura tecnica o di merito. Forse per quei giornalisti si temeva la caduta del collegamento più di quanto non avessero temuto del crollo. Mi venne ripetere mentalmente okay, era una chiave di decifrazione della congerie. Alla maniera toscana avrei potuto dire che i giornalisti “cosassero” con la locuzione e che anche io cosassi di intesa -okay per l’okay- come in un discorso di occhi, quando ci si può nascondere dietro gli anfibi significati ed equivocarli serenamente. In un certo senso mi infiltravo. “Che” - esclamai. Avevo trovato di mettere assieme il più diffuso, intercalare yankee col non meno diffuso intercalare ispanico. “Che”, si dice in Spagna ed in America latina, e l’esclamazione è entrata a far parte, per abuso verbale e ruminazione dialogica, del cognome di Ernesto Guevara detto per l’appunto il “Che”. In Sicilia l’intercalare risuona ancora oggi, detto con molte “c” alla forte maniera nostra, e con una voce squillante, di volta in volta stupita e rancorosa. Okay, Che, Guevara. Ora il crollo delle torri mi appariva sotto una luce diversa, andavo collegando il quadro alla storia ed alle storie, ai morti di guerre e di assassini in Africa e America latina, ai cento e cento, diretti e indiretti, interventi okay nel mondo, ai bambini dell’Iraq che muoiono per mancanza di farmaci. Okay, avevano detto i
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giornalisti. Cccce - era il caso di dire. Questa è la tragedia dell’okay, mi son detto. Ad un punto non ressi più alla monotonia della teletragedia e risolvetti di uscire di casa per respirare l’aria di quella sera speciale. In un pubblico esercizio di giochi, giovani e giovanissimi seguivano la diretta televisiva con esperta e saputa baldanza. In pochi erano concentrati nei videogiochi, quella sera predominava il gioco comunitario e da pubblico ciascuno poteva sentirsi protagonista, specie ad avere la parola facile, il pensiero efficace anche se irresponsabile. Mi sembrò di cogliere un generale sentimento di efficienza rispetto all’efficienza degli avvenimenti e delle cose coinvolte. L’efficienza degli aerei, ad esempio. L’efficienza dell’attacco. L’efficienza di mira dei piloti suicidi. E’ c’era un posto per ogni efficienza, assolutamente non classificatoria né algebrica, né positiva né negativa. L’efficienza dei fatti, in sostanza. L’efficienza del numero dei morti (un record si diceva). L’efficienza nella velocità del crollo. L’efficienza delle torri che avevano disintegrato gli aerei ed erano crollate su di essi, quasi per non lasciarli sfuggire, come può incespicare e cadere la guardia che acciuffa il ladro, ma a terra è la guardia ad avere la meglio. L’efficienza della vendetta degli americani, centomila aerei e centomila bombe. L’efficienza a venire. Nel bar vicino c’era un’aria di adulti, ora cupamente silenziosa ed ora rotta da reazioni, da discorsi che sembravano rissosi ed erano invece di concorde insensatezza. Sembrava come se un automobilista avesse travolto di proposito un giovane scooterista, un attimo prima poco discosto dal bar, sotto gli occhi di tutti, e del padre e della madre. Mancavano gli accenni razzistici, anzi sentii dire che questi arabi sono figli di puttana, sembrano marocchini addetti a vendere occhiali e poi si dimostrano grandi ingegneri, capaci di pilotare un aereo, che neanche noi, qualmente siamo noi, riusciremmo a tanto. Peggio dei mafiosi, diceva uno. No, meglio - lo rintuzzavano. Consensi e dissensi gravitavano nello stesso ordine di idee, onde quella conversazione di pubblico col costituire un discorso unitario, dedito ad abbottonarsi e sbottonarsi senza sosta come le pennellate di Antonello da Messina su un ritratto. Non riuscivo a comprendere in che stima o disistima tenessero gli arabi e i mafiosi. Una cosa è certa, ne parlavano come di persone inconsciamente conosciute, sforzandosi di ricavarne tipi generali. D’altronde che cosa non è un Siciliano, per cui non sappia istruire un rimedio dell’accettazione né voglia di esistere dell’assise comprensiva?
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La televisione del bar versava immagini parlate e la macchina del caffè espresso emetteva sibili di vapore e onde di profumo, le tazzine andavano e venivano ed erano succhiate come cozze terragnole: c’era aria di stazione ferroviaria. Le diatribe dei commenti avevano qualcosa di rituale, di artato ed allenato come nelle dispute tra juventini ed interisti, la platea si assicurava coralità e soddisfazione di permanenza, mentre alla moviola sfilavano le immagini di una drammatica e lontana partita. Era aperto il processo del lunedì di un campionato del mondo di cui qualche ora prima nessuno aveva avuto conoscenza. Il fumo, che mi disturba quando non sono io a produrlo, ristagnava nelle sale e da azzurro si era fatto cenerognolo e si andava facendo paglierino e grommoso. Uscii per rincasare e per le strade colsi una augurale, riempitiva e palpabile attesa, sembrava che molte vigilie si fossero date convegno per far festa assieme. Nell’incrociarsi e nello scorgersi i passanti sostituivano ai saluti e ai convenevoli ambasciate e allocuzioni: ha visto? Ha sentito? Centomila morti. Né Dio né regno. E non è finita. Gli americani non staranno fermi. Staremo a vedere. Alla prossima occasione useranno l’atomica. Quella dell’atomica per colpire in corpore vili l’aggressore non mi tornava sana né mi persuadeva, ed anzi con un ricordo di parabola riandavo all’antico narrato di un errore di mezzo che sarebbe stato commesso da tale donna Peppina Scatallizza, di cui ora l’America prendeva il posto. Si raccontava che, pronta a sgabbiare e sbollentare per mettergli giudizio un sorcio appena catturato, la donna assalita e arrampicata dall’animale sbaragliato, per difendersene abbia versato su di esso e quindi su di sé l’apposita acqua bollente preparata nella caldara, ed urlato di dolore e di gioia assieme nel sentirsi libera ed ustionata. Perché se, nel fondo della natura animale, dolore e gioia hanno lo stesso suffisso e lo stesso radicale, le abitudini dei comportamenti li gestiscono e se li propongono separatamente, fino a quando la natura non si rispecchia in se stessa. Nell’apologo il sorcio aveva traveduto in donna Peppina ciò che essa aveva traveduto nel sorcio: un altro se stesso mirante al soppianto ed alla aggressiva inglobatrice identificazione. Contro quale mondo del loro mondo gli americani avrebbero puntato l’atomica? Dove finisce in America il mondo e dove comincia nel mondo ciò che non è America? La Scatallizzata, com’è nell’apologo, non ha saputo nel suo piccolo decidere su simili questioni di confini, e non ha dato al sorcio altro scampo che non andasse in direzione del proprio corpo.
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La logica decisionale di Sansone ricade nel novero degli atti che rendono inumanamente possibili le impossibilità umane. La strada era infervorata e giocosa percorsa dall’antesignana apparenza di qualcosa da no perdere, cui anzi partecipare con quella particolare forma di pietà detta curiosità. Mentre in America lontana c’erano in quel momento morti che non riuscivano a risuscitare i vivi che non riuscivano a scampare (ed il dramma era di ciascuno, nella conta dei dolori corporali, nell’autocoscienza delle ferite, nel lume spento e vacillante della vita sotterranea delle macerie) nella strada c’erano vivi indaffarati, informatissimi, dediti con freschezza ed entusiasmo alla disgrazia, con commenti e giudizi da cui con rammarico traspariva un sottile, ipocrita, irresistibile piacere di vita, un sottile, chiosatore piacere di sopravvivenza e furbizia animale. E questo se in quel momento, con maggiore o minore ipocrisia, accadeva ovunque, in Sicilia accadeva ancor meglio, dacché nessuno è come i siciliani incline ai fatti, purché non ne venga fatto. Sembiante di vigilia e festa di attesa e di loquacità. Mi venivano in mente, e con la mente nei sussulti corporali e ritrovati delle emozioni, altre emozioni passate che credevo smarrite o irricordevoli. Come quando molti anni addietro e nelle novenali adiacenze del Natale adulti e ragazzi preparavano le fascine da accendere sotto le figurelle: ci sarebbero stati la ciaramella con l’uomo grosso che vi insufflava aria come per travaso d’otre ad otre, il cerchietto con la sonagliera sbatacchiato dall’anziano balordo col sorriso dolce di pecora, le donne e le vecchie chiuse e raccolte e quelle con figli piccoli con le braccia sguinzaglianti a strapponi, e la fila delle ragazzine cantanti e infreddolite; ed attorno al falò gli uomini con i forconi e i ragazzini più timidi e macilenti, mentre gli altri zompavano correndo dall’ombra sul fuoco. Era tanto bella quella vigilia di qualcosa che sarebbe potuto accadere e che la speranza viveva come se stesse per accadere sul serio, che non solo lo spettacolo si ripeteva ogni anno, ma in ciascuno si rinnovava nove volte: prova questa di qualcosa che si consumava nell’attesa, amara e fedifraga, e anche di un corrivo di felicità. Ogni vigilia era fatta di fiducia e possibile sembrava il guado della condizione per ritrovarsi in un regno retto felicemente. Forse i ragazzi più irrequieti zompavano sui falò per trovarsi sospeso un attimo oltre l’attesa e prima della smentita. Di altre attese ricordavo quelle fonde, notturne e trepidanti dedicate al passaggio dei giri automobilistici dì Sicilia, negli anni delle ma-
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croscopiche edizioni della Targa Florio, la più antica corsa del mondo soppressa in cambio di niente dagli imbecilli che hanno governato la Sicilia. In quelle occasioni la notte si faceva giorno e migliaia di cittadini, tagliando per sentieri e incespicando per scarpate, con ronzanti faretti a dinamo e lanterne a candela, salvo un’occasione lunare, sceglievano i ridotti migliori e vi si piazzavano: in vista di curve, di saliscendi panoramici, di tornantini. Ed erano in tutti fregola e parlantina, anche per scaldarsi dal freddo e dalla commossa debolezza dell’aspettativa. Sentivi parlare di Mercedes e Alfa Romeo, di Frazer Nash e Cisitalia, di Nuvolari Tuccio Biondetti Marzotto, e tutti sapevano tutto e attendevano miracoli di sterzate e di comparse, e segretamente miracoli di cappottamenti e uscite di strada: per potere capire ancora meglio la corsa e le sue difficoltà, ed accorrere e soccorrere e toccare le macchine. Così quella sera dell’11 per la strada era un fiorire di riverenze informative, di comunicazioni volanti; di supponenze e previsioni. Per la strada veniva meno l’effetto isolante della televisione domestica, così come nel bar mi era sembrato capovolto, come se fosse la televisione stessa a guardare il pubblico e a patirsi medesimamente isolata: pubblico del pubblico o televisione di se stessa. Considerai che tra le ipnotiche cove domestiche e l’accolta calcistica del bar con interiezioni e atteggiamenti da gradinata, la comunità si rifaceva per la strada. Mi ero spostato da un punto all’altro con un raggiro liberatorio. Lo svago mi aveva smaliziato. Appena rientrato fui in condizione di controllare l’imperterrita trasmissione come, dopo l’incanto dell’acquisto e della sperimentazione, si tiene a bada il funzionamento e la resa di, che so io, un frigorifero, una lavastoviglie, un impianto hi-fi: il progresso ridotto a tappeto, a tendaggio, a ciabatta. Lo spettacolo infatti continuava, ma per me non continuava emotivamente allo stesso modo. Le torri si contraffacevano all’urto, si gonfiavano ancora di fiumi e di pletora e infine soggiacevano a brani e longheroni alla forza di gravità. Da lì, ancora daccapo. La monotonia sfumava e sospendeva la tragedia, come un rivedere cento volte Elena Zareschi provare una battuta euripidea, Laurence Olivier sbalzare a bizzeffe un passo shakespeariano, Albert Schweitzer eseguir fino alla nausea un attacco tematico di Bach. La tragedia si faceva scolastica ed astratta, si aggirava nell’intento di provare ripetutamente l’accaduto, di esercitare le torri a cadere me-
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glio, a travolgere ed uccidere secondo gli esatti dettagli della perfezione; e gli aerei ad infrontare le destinatarie con più calcolata sintonia, ed i fiumi a prorompere e inanellarsi con abbozzi più avvoltolanti, e le luci a provar meglio impatti e scandagli. Era una tragedia barocca che motivava l’eccesso, cioè la propria causa televisiva. Priva di sobrietà intellettuale e di cifra morale, la telecronaca rimandava al fatto di sangue, alla macelleria, alla conta. I giorni seguenti erano già predestinati all’ira, e cioè al commercio della possanza, all’impeto della paura e della vendetta. Quella notte non dormii ne bene ne male, ma almeno dormii contrariamente a tanti agrigentini che non toccarono letto ma organizzarono estemporanee visioni televisive e veglie di avvento innanzi a bottiglie di brandy scolate come candele. Non so giocare a carte, e questo spiega la mia incapacità di attendere a veglie. Molti aggiornano indeboliti dal sonno ma con la coscienza di aver assolto ad un dovere pubblico, ad una involontaria forma di volontariato cui diedero subito una nobile parvenza di solidarismo e responsabilità. Io non mi vergogno di avere dormito, dato che mi vergognerei di scambiare la notte della tragedia con quella del giro di Sicilia. Non c’era infatti nulla da attendere, nulla da vedere, nulla da sapere. Tutto era invece da pensare e ripensare. Non esiste, fino a contraria prova, un marchingegno che, si chiami pure televisione, ci metta in condizione di tacitare ogni nostro tentativo di comprendere, e per comprendere di demistificare gli avvenimenti, non secondo il fatto del loro accadere ma secondo la storia delle loro premesse. I giorni che seguirono furono assai confusi. La lettura della stampa era orientativa tanto dei molti dubbi quanto delle poche certezze. Inoltre ciascuno di noi veniva a trovarsi di fronte alle ardue difficoltà del proprio auto-orientamento: come accordare cioè le nostre esperienze di lettura, i nostri più intimi orientamenti morali, intellettuali e politici con l’emergente risalto del tragico fatto. E anche come e perché commuoverci al di là del primo impatto emozionale. Difficoltà del genere ci trovano individualmente isolati, nel momento in cui si vorrebbe partecipare (e non mancano in tal senso tentativi persuasivi dei grandi usufruttuari della pubblica opinione) ai grandi stati d’animo. Decisi di trascorrere una mattinata ai templi, col doppio sentimento di una fuga e di una convocazione. Andare ai templi è sempre un ritorno. Si va e anche si scampa. in uno degli ultimi giorni della seconda guerra mondiale gli agrigentini raggiunsero in massa i templi per liberarsi dal timore di non so quale incursione. Era di estate e le case
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di campagna si trasformarono per magia in taverne, trattorie e luoghi di ristorazione. Gli alberi offrivano lettiere di riposo stravaccato e deliziosi ambulacri d’ombra. Me ne ricordavo sull’onda del richiamo, ma puntavo sull’impassibilità dei monumenti greci. I templi noi agrigentini li scorriamo per incroci e sorprendenti, distanziati, imbattimenti visivi. Li cogliamo di scorcio, in tralice o per un piatto scontro oculare; a volte, secondo la strada che percorriamo e l’ora della luce, ci vengono incontro o ci cadono addosso, o svaniscono improvvisamente: effetto dell’attenzione di guida e della speditezza automobilistica; una, due volte ogni dì, centinaia di volte ogni anno. Morendo ogni agrigentino ha visto più templi che benessere, onde potrebbe dirsi che di quel lungo vedere non si è giovato affatto e che li ha colpiti più come frutta selvatica, more, orsoline e lamponi d’occhi e semi di finocchio da piluccare, che grani di frumento coltivati per la vita. E’ raro ricercarli intenzionalmente rovistando con gli occhi nel paesaggio, crivellandolo e trascorrendolo fino a sceverarli dai contorni, dallo sfuminio degli alberi e dei tufi: quando raramente avviene li poniamo nel palmo della mano e ce ne riempiamo gli occhi. Dei veri agrigentini c’è chi trattiene il respiro, chi fa un concavo sospiro e avverte un convesso piacere: di albagia, rinata, felice, prenatale navigazione nel sacco dell’acqua materna; o di scandito piacere, di rinveduta coscienza, secondo gli animi e i momenti di ciascuno. Così li scorgiamo-scordiamo nel raggiungere le smancerose quinte di Villaggio Mosè, nella bassura che in estate fumiga salmastra e in inverno è fredda di ristagni. Nel luogo la valle non è più valle e per piattezza preannuncia con un volo di chilometri l’originaria Gela. Li ravvisiamo nello scendere a mare o in visita agli infermi nella clinica Sant’Anna che ben farebbe per la bellezza circostante a rivestirsi di albergo. Anche dal cimitero, strano e sospeso com’è, ce li sentiamo sopra come sguardi, con un inno alla mortalità della morte e dell’immortalità della vita: quando il senso visivo si strania e si emoziona in senso percettivo e la bellezza ha la meglio sulla chimica dell’umanità. Tutt’altro affare è avvistarli da una delle terrazze della Rupe Atenea, dall’incantevole fuoriposto dell’ex ospedale psichiatrico per esempio, dismesso per venire riassunto a funzioni non meno deprimenti. Dall’alto i templi sembrano arenati nell’alluvione vallivo tra il piedritto rupestre e la banda del mare, così come ci apprende l’ansia vertiginosa che siano per innalzarsi come elicotteri d’oro.
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Ci siamo abituati ad essi fin quasi a non vederli, tuttavia sappiamo che ci sono. L’abitudine crea noncuranza, disdetta, rinvio, ma al bisogno non occlude una risalita del ritrovamento: sapere dove andare a chi rivolgerci quando la città sembra troppo affollata o spopolata, o in preda a sordi che parlano e non si comprendono, o in occasione di altri smarrimenti. Viene il momento di dire oggi scendo ai templi. Riesco quindi a comprendere da me, non essendo stato il caso di apprenderlo col chiederglielo direttamente, perché un mio amico abbia sentito il bisogno di recarvisi qualche giorno prima di sposarsi, per dondolarsi in una solitaria rilassatezza. O perché un altro, devoto di Sancalò e testimone immancabile di ogni sua uscita processionale, abbia un bell’anno disertato la festa per estraniarsi dal calendario e dall’aria di calca tra il tempio-vecchio e quello nuovo. Decine di agrigentini vanno ogni giorno ai templi per andarci, alla chetichella. Io non credo di essere un municipalistico ed idolatrico estimatore delle nostre cose. A mio giudizio di gusto opino anzi che la Concordia e gli altri agrigentini siano inferiori per bellezza al Partenone, alla Basilica di Hera o al tempio di Nettuno in Poseidonia, ai Propilei di Mnesicle, all’Eretteo e a tanti altri monumenti ellenici, quali drammaticamente indimenticabili per inaudite irregolarità. Non sono in sostanza un agrigentino fanatico ed amo scovare l’attaccamento dalle emergenze. Tuttavia il macchinario romano della chiesa di S. Pietro mi ha sempre lasciato indifferente, mentre innanzi al tempio di Ercole o di Giunone mi sento serenamente esaudito e spiegato. Questi monumenti contengono le misure di un antico mestiere di civiltà che noi, per timidezza o codardia, definiamo classica. E queste misure sono tali da non poterne prescindere per le operazioni con cui ancor oggi ci riconosciamo, interferendone il filo di Arianna di un cammino umano che rende sopportabile la modernità ed anzi, per quando può, la ricerca e l’incrementa. Ai templi sentivo di capacitarmi di una storia, di ricordarmi del punto di partenza: molti secoli addietro mi ero mosso da essi, e i millenni trascorsi avevano incluso Gesù Cristo e Maometto, Eufemio ed Asad, Ruggero e Federico. Erano insomma il porto di un cominciamento verso il quale confluiva ogni allontanamento che, senza perdere il sogno o la sua trasformazione in utopia, lo riguardasse ancora. In fondo ogni civiltà è fatta di compattamento chimerico e reminiscenziale, di collezionismo tutelare. Dopo l’attentato di Manhattan erano stati giorni defatigatori, una gara col tempo con l’aggiornamento e con la profluvie di eccitazioni
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e digressioni con cui, sentendomi sempre di più schiavo di una verità folleggiante, ne avevo avvertito la falsità e l’illiberale avvolgenza. Ora ai templi mi sentivo libero dai condizionamenti conformativi e dall’usura dei creditori informativi. Ero nelle condizioni di conoscere me stesso, di dipendermi liberamente. In questo approccio e per prima cosa scoprivo di stupirmi dello sgomento accampato da Umberto Galimberti che, con altri opinionisti e pensatori della contingenza, si era fatto addosso lo scrupolo per bacchettare alcuni artisti, per moraleggiare l’indifferentismo degli entusiasmi estetici ed emozionali, e per denunciare gravemente l’uso ritornato del simbolo e della ricaduta del suo pericolo. Innanzi alla produzione registico-televisiva dell’attentato, infatti, Stockhausen aveva espresso di getto il proprio compiacimento artistico. Ed Alessandro Baricco aveva detto: anche se mi sembra atroce dirlo, provo a dirlo: è tutto troppo bello. Non diverse sono state le prime esternazioni di altri numerosi artisti. Mac Ewan aveva ammesso di aver provato il desiderio della visione. Questi giudizi per quanto non siano generalizzabili oltre le conventicole dei creatori d’arte, hanno una carica catartica (o se vogliamo, al livello più basso, una elegante spregiudicatezza) che può rimediare in parte all’ordinativo tragediologico dell’indaffaramento televisivo delle prime ore. Delle due una: o l’ebbrezza teleinformatica costituiva un comando politico dell’imposizione emotiva, o rappresentava una proposta rappresentativa della cronaca reale, esagerata per persuadere circa la bontà del prodotto. Nel primo caso le esternazioni degli artisti vanno intese come resistenze di libertà e quindi come rivendicazioni individuali di autonomia emotiva. Nel secondo caso e laddove la tragedia si stata proposta come spettacolo, essa non potrebbe che misurarsi dalle spore commediologiche che la dilimitano in senso umano. La formula di una tragedia universale in quanto tale è semplicemente insussistibile, a meno di non riportarla al significato di una universalità umana storicamente intesa e quindi relativa e per niente, salvo la risonanza retorica, universale. I facitori e ripetitori della formula di tragedia universale muovevano manifestamente dall’idea di fine-della-storia, quale si è tentato di imporre a motto e divisa dall’odierna fase di globalizzazione capitalistica post-moderna, e a monito di divergenza, resistenze e desistenza di chi (uomini che siano, o popoli, razze e civiltà) non la assevera e non se ne lascia conquistare.
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Ma proprio quest’idea è crollata col le torri di Manhattan, e non possiamo più avvalercene per spiegare l’evento tragico ma non universale: non cioè geo-cosmico, non terraqueo, non in ultima analisi bio-antropologico. Possiamo dunque ringraziare quegli artisti e intellettuali che, innanzi al rogo, hanno avviato un momento di comprensione umana ancor che non umanitaria. Ai templi mi son chiesto di una mia emozione. Fin lì non mi era chiara la mia partecipazione psicologica al dramma, e temevo che riserve di comprensione avessero indurito la permeazione di un dolore concreto e convincente, anche come reazione silenziosa al rimbombo dei cordogli istituzionali. Tra il dolore e la propaganda non può esservi commercio. A Manhattan sono morte mire egemonicamente totalizzanti, metafisiche della storia e dell’economia, tesi impositive di proditorie globalizzazioni, pseudo pensieri forti, onniscienti e onnipotenti; e sono altresì morti uomini e donne in carne e ossa. Il fuoco ha disciolto questi corpi in un magma di colaticci di plastiche e di metalli fusi fino all’evaporazione, molte ceneri umane sono state insufflate dai venti degli scoppi e degli sventramenti, molti corpi hanno ricevuto percosse mortali dagli schianti. Uomini come noi sono andati incontro alla morte per sfuggirla, in lanci terrorizzati per prolungare di qualche attimo la vita, forse pensando di essere infrenati e imbragati dai loro angeli custodi. il dolore è stato oggettivo, come somma dei doloro di chi ha sofferto e di chi ha saputo. Ho avuto presente alcuni libri dell’Iliade, le scene dei duelli e delle carneficine con gli elenchi necroscopici dei morti, i riferimenti anagrafici, i tocchi biografici, le note delle circostanze di morte. L’omerica pietà era nella precisione non attratta né deviata da partecipazione culturale, civile, etica, politica. Non sono tragiche per il cieco rivisitatore le morti dei suoi, ne tragiche le ragioni della spedizione, dei singoli fatti d’armi e delle tenzoni. E’ tragico per Omero ciò che in Omero non c’è: la discriminazione della morte, il silenzio; come sarebbe tragica ogni ragione della morte contro altre ragioni. Non sono i piani, le idee, gli errori che premono al grande greco, ma le aste di bronzo, i carri di guerra, i particolari, gli infilzamenti, i crolli corporali, la destrezza delle daghe. Tutti eroi sono per Omero gli uomini che non vogliono perire e che vogliono incutere per la loro vita la morte: senza distinzione di interessi nativi o programmatici. Questa è stata ai templi, compreso da una bimillenaria civiltà e in uno dei luoghi di origine della dignità umana, la mia commemorazione di morti di Manhattan, ivi compresi i piloti suicidi che ci ricor-
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dano le gesta di Sansone o di Pietro Micca. La morte, che un tempo era uguale per tutti, oggi complicatamente non lo è più. L’esigenza contemporanea di utilizzarla nel processo culturale e produttivo che ispira l’attuale società ha notevolmente inciso sul concetto della sua giustizia e sull’approccio metafisico o sentimentale dell’uomo con la vita. La morte è venuta ad avere un valore eminentemente politico, si avvale delle tecniche statistiche, della comunicazione propagandistica e della capacità dibattimentale del diritto del più forte, e cioè di colui che ha statuito il tasso di scambio tra la morte e la vita. Il nostro benessere val più della morte altrui. Tuttavia nei recessi antropologici e negli sfondi diluiti della cultura mediterranea ed occidentale, la morte continua ad essere avvertita e vissuta come una entità escatologica, profetica e rivoluzionaria, con un suo potere fabulosamente livellatore e trionfante che naturalizza e omologa i singoli ma non può esserne padroneggiata. Ciò nonostante la credenza che essa sia ancora perequatrice e giusta, garante di un ordine superiore ai significati delle esperienze personali, si è andata affievolendo. La credenza stessa è riattinta per vindici, immaginose rivalse, per trafile consolatorie o semplicemente convenevoli, ed infine per ripromissioni psico-terapeutiche. esiste quindi il pericolo che la morte non rappresenti più la giustizia, che la morte indiretta, mediata o procurata per fatti ciascuno dei quali non sia di per sè letale, non sia morte, rimanendo invece morte quella inferta. Assistiamo ad una penalizzazione della morte con la distinzione delle cause che la procurano. Infliggere una pugnalata rappresenta un arrecamento di morte, affamare fino alla morte non lo rappresenta. Abolita l’uguaglianza della morte si è giustificata l’ineguaglianza della vita: infatti era la morte a parametrare quasi tutti gli atteggiamenti collettivi, il modo di rapportarsi delle diverse civiltà sulla base dei loro valori di vita. Nella concessione classica la morte era la misura della vita e regolamentava le equazioni delle scale dei valori comunitaria: la libertà, l’attaccamento territoriale e culturale, le inclinazioni vitali, l’ordine della riconoscibilità. Ai templi il rapporto tra arabi e occidentali, tra aggressori e aggrediti, mi è apparso indegno di essere pericolosamente irreggimentato. Era uno splendore di giornata, il tepore dell’aria era talmente creativo che avrebbe potuto covare le uova e far schiudere i pulcini, e nel vedere vi era una capacità plastica quale certamente non si può né avere né concepire in ambienti otticamente taglienti e cotonati. Scorgevo il fondale del mare e lo ricostruivo percorso dai fenici, semiti come gli
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arabi, che toccarono le nostre rive e vi attraccarono qua e là, a fiume Naro e monte Russello e a Porto Empedocle, lasciandoci perfino qualche loro nome. Monte Toro è il nome di Monserrato, e Toro nella lingua dei semiti significa null’altro che monte o altura, e in senso figurato uomo preminente, uomo monte. Dalla radice Tur i greci trassero il nome di tiranno (Turannos). Tiranni sono stati soprannominati i contadini che hanno abitato il Monserrato o Toro, e “tranni”, in siciliano, quelle alte balze. Dal mare arrivarono gli elleni e conquistarono queste terre e gli abitanti indigeni non meno di quanto non ne siano stati conquistati. L’archeologia testimonia di arcaici luoghi sacri costruiti dai greci prima della fondazione di Akragas, in una manifesta condizione inizialmente partecipativa e di convincente inserimento. Lo stesso mare venne arato dalle chiglie puniche e assistette alla potenza mercantile dei cartaginesi. Gli arabi lo guadarono dall’Africa incastonando l’Isola tra le loro terre come ombelico di delizie. E fu la volta che venissero i normanni, ad esaltare ed organizzare la civiltà che avevano trovato. A Manhattan è stata colpita a morte quella bimillenaria civiltà occidentale la cui denominazione recupera con l’aggettivo di mediterranea gli imprescindibili influssi bizantini ed orientali? Storia e civiltà non sono supponenti ed obbliganti coazioni ereditarie. Il passato non si eredita, quando non ci si ritrova nel presente e nel progetto del futuro. Mi sono chiesto se l’occidente è ancora occidentale o se non si sia invece involato in una diversa scorporata geografia del proprio, figurato luogo storico. L’America degli Stati Uniti, in altri termini, può essere considerata occidentale nel momento in cui con l’esserlo mette in crisi l’identità culturale occidentale di matrice mediterranea? E mi son chiesto se quanto è accaduto a Manhattan non sia piuttosto accaduto in un luogo lontanissimo, ancorché politicamente ed economicamente condizionante: in un luogo, cioè di una diversa civiltà, ancorché imitata sottomittente ed ambita. Già il capitalismo sorgeva nella vecchia Europa settentrionale all’insegna del cristianesimo riformato e della mutria calvinistica. Il capitalismo globalizzatore e post-moderno sorge dalla matrice di un settarismo invasivo sviluppatosi sulla base del fondamentalismo statunitense. Gli americani credono di aver ricevuto da Dio, mediante l’intervento dell’angelo Moroni al profeta Joseph Smith un - ottocentesco Bossi yankee - la rivelazione scritturale del popolo di Nefi e dei Lamaniti. In America si sarebbe rinnovato l’antico patto stretto con il po-
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polo di Israele. Il libro di Mormon no sarebbe altro che il completamento della Bibbia e la documentazione dei rapporti stabiliti da Dio con gli antichi abitanti di quell’ecumene. Gli USA sarebbero dunque la nuova terra promessa, il paese prediletto da Dio. Da parte loro i numerosissimi ebrei emigrati in America hanno messo a disposizione della nuova patria il credo della loro antica e durissima speranza, insignendo la nazione di una visionarietà universale e pur nondimeno esclusivistica che ha profondamente influenzato i circoli dirigenziali più elevati, producendo una concordia, spesso schernitrice ma potentemente rinsaldatrice, col messaggio di Mormon. L’appoggio dato dagli USA allo stato di Israele, avverso l’opinione pubblica internazionale, ogni regola di diritto comunitario e le reiterate risoluzioni giuridiche dell’ ONU, riposa più che su una alleanza su una concordanza di visione. Il fondamentalismo arabo, nato un secolo addietro sotto forma di confraternita musulmana per lenire in Egitto la frustrazione di una popolazione di antichissima e rinnovata cultura al cospetto della mortificante rapacità britannica, si è rifatto e riorganizzato in tempi moderni grazie ad errori ed appoggi statunitensi. Gli USA se ne sono continuativamente avvalsi per dividere ed intradominare taluni scacchieri orientali, per debilitarne coloro che osavano minacciare dissensi o resistenze alla politica del dollaro ed all’incetta petrolifera, e principalmente per sbarrare e battere in Afganistan l’Unione Sovietica. Parodiando gli itinerari dei piloti suicidi che hanno colpito l’America, si potrebbe dire che gli aerei, partiti anni addietro per colpire Mosca hanno finito per colpire le torri ed il pentagono. La globalizzazione portata avanti dagli USA non è solo un indirizzo sistemico per portare avanti una politica di progressiva redditività tendente ad assicurare indefinitivamente crescenti profitti delle risorse finanziarie attraverso una politica deregolamentativa, mobilissima e rapace, attraverso la crescente monetizzazione, attraverso l’usura internazionale ai danni dei paesi più deboli, attraverso la liquidazione degli stati sociali e il depotenziamento degli interventi statuali, attraverso le privatizzazioni selvagge e gli automatismi limitatori dell’esposizione debitoria dei paesi captati: la globalizzazione vuole essere prima di tutto omologazione nelle disparità, conquista non territoriale ma culturale dei diversi e degli altri, assoggettamento spirituale. Si impone il principio dei vasi comunicanti, ma i paesi più ricchi si salvaguardano con valvole di depressione, manovrano le chiuse e dirigono i flussi.
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A questo punto la diversità che resiste ad essere diversificata da se stessa e non accetta il pilotaggio dell’omologazione, scopre la potenza e la ricchezza della propria diversità. Non si tratta di non accettare il progresso, ma di diversificarlo e spuntarlo della sua funzione omologativa. Ragioni etniche, culturali e religiose hanno candidato o promosso gli arabi ad assolvere ad una reitera della loro funzione storica. Ignoranza e miseria diventano forze positive, così come l’innato nomadismo, la capacità di padroneggiare ambulatoriamente lingue e tecnologie, di improvvisare la vita senza avvertirne il fondo gramo, la potente semplicità di una religione non secolarizzata e ancora dotata di valori più che di meri significati, tutto ciò li porta a concepire una fase eroica che supera nei comportamenti individuali e collettivi le protettive classificazioni elaborate dagli occidentali, cosicché follia, risolutezza, abnegazione e crudeltà possono convivere nell’indistinzione di un primato della ribellione che travede tra vita e morte, e morire diventa uccidere, e perdere diventa trionfare, se si è sicuri del rincalzo. Per l’occidente il pericolo essenziale è costituito dalla mancata secolarizzazione dell’Islam. Pericolo di dismisura, ribattuto nell’occidente da una irreversibile politicizzazione del cristianesimo e dall’errore, tutto cristiano di non aver visto ne presagito che un processo di secolarizzazione dell’Islam invero aveva già avuto inizio all’insegna del marxismo. Non per nulla i paesi arabi più moderati sono oggi quelli che hanno registrato al loro interno alcune importanti esperienze politiche e culturali di matrice marxista. Per tutti valga l’Egitto, considerato per decenni filo-sovietico ed ostile all’occidente. La lotta convulsa al marxismo ha comportato e potrà ancora comportare conseguenze imprevedibili. Ai templi ciò che è accaduto e che sta accadendo mi è apparso da inaspettato addirittura poco sorprendente. In fondo mi riconquistavo, sempre più lucidamente ricordavo le mie letture di Jacques Adda, di Harald Schumann, di Peter Martin, di Michell Chossudovsky, di Wolf Biermann, di Gunther Anders, di Viviane Forrester, di Raymond Aron, di Jean Cardonnel, di Cioran, del nostro Severino: e principalmente di Noam Chomsky. I libri si leggono d’un fiato o lentamente e poi, di fronte alla gravità di alcuni fatti, si dimenticano. Le tragedie li spiazzano. Eppure lentamente il significato di quelle letture filtrava in me attraverso l’aria dei templi, con i loro presagi, i segnali caduti nel vuoto.
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Ed erano ora i fatti a dare ragione ai libri, alle analisi e al pensiero dei loro autori, così come ogni verità stenta ad imporsi, se no quando diviene inutile e dolente. Alcuni giorni dopo la mia riconciliativa passeggiata il tempio della Concordia venne mirato da una mascalzonata. Si gridò all’arabo, nel tentativo di metterci sulle punte dei piedi e solidarizzare con New York. Gli inquirenti e l’opinione pubblica furono molto più cauti. Mi venne in mente che meno di un anno addietro uno studioso americano, asservito al potere governativo e baldanzoso promotore della globalizzazione, aveva proposto di mettere in soffitta Platone e Aristotile, che per l’occidente -diceva- erano divenuti due impedimenti. Lo propose nel corso di una volgare conferenza intervallata di conati di spirito ed applausi. L’attentatore della concordia ha agito sulla stessa lunghezza d’onda. Quelli furono giorni confusi, il coraggio di chi esprimeva opinioni si faceva cauto e la tracotanza di chi sputava sentenze si faceva violenta. Oriana Fallaci secerneva e pubblicava un prodotto vulvare, le autorità visitavano le moschee. Mi riempiva di un nostalgico piacere della speranza la ricorrente menzione, nella stampa nazionale e straniera, della Sicilia normanna, come terra di inarrivabile tolleranza e convivenza di arabi, ebrei, greci, latini e scandinavi. La tolleranza di Ruggiero era stata la tolleranza degli arabi. Il tempio della Concordia non era stato vano, esso continuava ad essere indispensabile.
RABATÈ
Mi sentivo guardato e lo guardavo a strappi e di straforo, non avendo solo questo da fare. Stavo trascinando il mio bagaglio dal capolinea d’arrivo ad un binario lontano, ero alla stazione di Milano e appena arrivato mi accingevo a compiere a ritroso un altro breve viaggio fino a destinazione. Il treno da cui ero sceso non era più mio, lo avevo lasciato con sufficienza, smettendolo come un balocco a gioco cessato; dopo vent’ore di viaggio aveva oltretutto il fiato pesante: puzzo di crini, di radiatori, di tolette. Dell’altro treno vedevo il muro di ferro e vetro e ai capi delle vetture gli invitanti sporti delle predelle. Le coincidenze ferroviarie rammentano in qualche modo i volubili casi d’amore. Nel modo di guardare chi ci guarda c’é un immancabile atteggiamento ancestrale di preparazione e di armamento, si finge intelligenza e si mostra risolutezza. Quando si può ci si gonfia, ma io avevo da guardare al treno e all’uomo. Nel dubbio del suo sguardo covava il proposito di sciogliere il nodo, di farla finita e voltarsi, o di rivolgermi la parola. Senza esserlo mi sentivo strabico dalla divaricazione del treno e dell’uomo, quand’ecco costui ghermire una mia valigia, issarla in alto come per forbirla e rendermela raggiungibile, e tuttavia portandomela assecondare il mio spostamento. Mi aiutava per parlare. - Lei ‘un si chiama Biondi d’’u Rabatè? Dassi ca l’aiutu. - Io si, ma lei chi è? - Caminassi, unn’avi ‘mportanza. Chi si dici ‘o Rabatè? Farfugliai qualcosa, si stava bene, lo stradone era stato basolato ma ancora al solito, all’avemaria di ogni sera, quando gli ortolani sturavano le gebbie per nutrire gli orti, un ardente fetore si sollevava in aria e incrociava il rintocco delle campane. Durava cinque minuti, al solito anche questo, e poi l’aria sembrava più fine, più dolce e più bella. Senza confronto non c’é piacere. Raggiunsi il treno e mi ci issai col bagaglio, aiutato dall’uomo che si era tolto la cordella dalla bocca e schiudeva parole come un tempo si estraeva la ricotta dalle cavagnette, con amore delicato, preso di attenzione, assorto come se io non ci fossi dopo il reciproco pretesto di parlarci. Parlava del Raba-
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tello, me lo deve salutare tanto. Stanco com’ero di viaggio quel Rabatello prendeva, nella mia fantasia e nel desiderio di sospendere la spossatezza, un valore più grande di Milano. Era come il valore di una condizione rimordente; mi sentii tutto paese. Non ho mai saputo chi fosse l’uomo che come candela che si scioglie era colato da cupore in gentilezza, facendo più luce per sé che per me, quando la reminiscenza del Rabatello d’Agrigento gli aveva acceso nel buio di uno stato triste se non tristo lo stoppino e l’uso dei ricordi. Riandando all’uomo ho tentato di dargli ripetutamente un nome: prenderlo per le ali come un uccello restio, scappucciarlo dall’anonimato, fargli una violenza che al postutto avrebbe potuto fargli piacere. Pervenivo invano al punto di partenza, che l’uomo cioè fosse un rabatellese; a volte dubitavo che non me lo avesse detto e che fossi stato io a scoprirlo, e che pertanto potessi ancora andare oltre, disvelarlo del tutto; ma rinsavendo dubitavo di averlo mai incontrato. Mi rendevo surrettizio e mi sgombravo con noncuranza, rivedendo nel tizio un uomo tanto bisognoso di ricordare che di non essere per difesa o prudenza ricordato. In fondo che m’importava? Erano in molti al Rabatello a svanire nel nulla, e si diceva che si fossero perduti, perifrasi assolutamente non rispondente ad un concetto di perdizione morale né a quello confusionale di fisico smarrimento. Per averne l’esatto senso non occorreva una “damnatio memoriae”, soccorrendo invece una “peroratio”‘ della memoria stessa, una sorta di difesa unanime ma non concordata tra coloro che ne parlavano e coloro di cui si parlava. Non si dubitava della testa dei perduti, essendo usciti dal Rabatello con i piedi e non con la testa: né con la loro né con quelli di chi con ricordo li convocava e ripassava. Perdersi per scampare, insomma, senza lo scampare per perdersi. Ogni foglia caduta andava alle radici, le cadute integravano la spazio del tempo e la sua chimica, nutricavano il ceppo comune, chi stava ancora appeso sui rami e chi no. Le perdenze, in mezzo ad altri pretesti di parole, d’immagini e di passioni, davano luogo a racconti, che erano travasi, conce e aggiustature della memoria di quartiere, come vino da otre a tino e da tino a botte per farne vino buono e conservarlo. Se ne diceva nelle sere delle taverne, specie nell’inverno conciliatore. Ne parlavano anche i ragazzi negli angoli delle porte, nei parlatori dei gradini, per i ritagli e gli esigui resoconti trapelatigli. Fumosi e ribollenti erano i racconti dei ragazzi, mosti e non ancora vini. C’erano ragazzi tenuti all’oscuro della corrente del fiume, giocavano alla sua riva e non avevano le cerchie giuste. Io invece la cer-
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chia ce l’avevo, non mancavano al Rabatello adulti che sfaccendavano nell’eresia, abiuravano la loro età e stavano dalla parte dei giovani: li comunicavano di fatti e trascorsi, li educavano della vita del quartiere. Dagli altri adulti venivano considerati uomini inutili. Non andavano mai in taverna, dove le parole, anche quando si sprecavano e salivano di tono degli angoli, e sembrava non volessero appollaiarsi mai più sui tresposi dei tavolini ma rimanere offensive e litigiose in aria, passavano per essere sempre calibrate. Invece gli sfaccendati accudivano ai ragazzi e l’informavano. Erano ragguagli acerbi, sia per chi lo soffiava che per i ragazzi parati come vele al vento. I chiacchieroni si facevano candidi, i giovani maliziosi. L’ascolto stringeva il petto, gli interrogativi battevano come onde. Tra adulti e ragazzi c’era, per metterla in metafora terragna, un fichidintieto, invalicabile ma depredabile da una parte e l’altra: tra le pale si vedeva la divisione. Ai giovani era lasciato il confine esterno, la libertà di un vano e giocoso assedio. Non mettere a parte della vita era un attempato apotropaico trasporto; infatti si diceva che i ragazzi tirassero via le scarpe, modo per dire di una loro irresponsabile collaborazione alla morte che miete il grano maturo. I giovani andavano conservati acerbi, pieni d’acqua: vuoti, verdi e rasi a loro insaputa, perché anche gli adulti potessero conservarsi ingranati ma non ancora passati. La tutela del candore era dettata dalla paura della morte; quasi sempre di uno che era venuto meno si diceva: ha finito di parlare ed è morto. Questo non rimanere dopo aver detto tutto era all’origine dei comportamenti seri. Gli adulti fingevano sempre di non aver smesso, si riservavano di far sapere. Meglio lasciare i ragazzi con la testa sgombra di storie. Riempire la loro testa era dunque la frase con cui si deprecavano quegli adulti che gliela riempivano. Si usava invece il verbo scandalizzare a carico di quelle donne che riempivano la testa alle ragazze. Qui i contenuti non vertevano su storie di campagna, su antiche passate, su gesta d’uomini e teatri di preti, ma su faccende più delicatamente sessuali. Avremmo voluto essere donne rimanendo maschi per il piacere di essere scandalizzati. In materia il bisogno di apprendere era sconfinato. Al Rabatello da una certa età son cresciuto nel novero di una cerchia privilegiata che si appoggiava al fiero e sboccatissimo Grassìa: un traditore della terza età, un sicofante del passato e dei suoi nascondigli, uno spregiatore di ogni arte e mestiere, un cavalcante di vita e di morte ed altro ancora, che pari non ce n’erano. Era lui che ci in-
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formava e sviluppava nel genio del luogo, mettendoci in condizioni di incignare nelle nostre menti e nella vita di quartiere nuove scoperte di mondo. Di coloro che si erano perduti sapevamo come dei santi vita storia e miracoli. Certezze e fantasie si rivoltavano e frammischiavano come terra sotto l’aratro. Nell’immaginarceli li restituivamo a volte vividi e a volte smorti secondo i tenori dei racconti, i colori delle giornate e gli umori di gruppo. Ora quando leggo di clandestini morti come alghe sulle nostre spiagge, e d’altri che riescono a scampare filtrando tra dumi, ronchi e brughi della costa in una gara corsa tra le loro ciabatte e le scarpe nere della polizia, penso ancora agli uomini perduti del Rabatello. L’anonimo di Milano è diventato il loro milite ignoto. Più che partenze quelle degli uomini perduti erano scomparse. I protagonisti avevano debiti e conterelli con la giustizia, o se avevano crediti non lo sapevano. Del resto a convincere che l’avessero non sarebbe stato facile. Nei racconti la giustizia finiva con l’apparire senza avvenenza. Quando si sta sotto si ha sempre torto ad aver ragione. La ragione è di difficilissima gestione, la sa gestire ad arte chi ci sta sopra con tutto il torto. Uno degli uomini perduti aveva schiaffeggiato un proprietario terriero troppo angarioso che ogni giorno lo derubava sul tempo del travaglio e sulla mercede. Il lavoro era travaglio per quest’essere derubati. Dopo lo schiaffo l’uomo era svanito nel nulla, essendo perduto già prima di scomparire. Cosa di un attimo, il tempo di finire lo schiaffo, ma per essere stato solo uno schiaffo, quello era stato specialissimo, come solo poteva darlo un uomo buono di cui si era voluta vedere la fine della pazienza. Una ceffata meglio del bastone di Sancalò quando diede la famosa mazzata a Trainiti. Lo schianto in acqua di una coda di balena, cento volte la forza ed il tonfo dei manrovesci che lo stazzonaio Castagnolo sferzava sui pani d’argilla pronte a formare signore lancelle, per benedizione di materia e suono augurioso di pasta. Un rumore di nudità e svergognamento che si era sentito tutt’intorno. A volere essere omertosi col fingere di non aver visto gli uditori avrebbero dovuto inventarsi di avere sentito lo scoppio di una buffa. Tuttavia non vi fu omertà, tutti asserirono di aver visto e sentito; anche coloro che non erano stati presenti si diedero un alibi; era una festa potersi vendicare con epica testimonianza del proprietario. C’erano voluti giorni perché la tuma del suo volto si prosciugasse in
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favore del primo sembiante. Per poco la mano del plasticatore non era rimasta sul viso dell’offeso, come sugli antichi muri di gesso capita di vedere i calchi di chi vi ha lavorato. Secondo il Grassia l’uomo dello schiaffo si era perduto per non aver saputo ammazzare il maiale, e dunque per rossore di sbaglio. Senz’essere plausibile la spiegazione divenne imperitura. Un tizio si era invece perduto perché aveva la faccia che faceva ridere e si grattava continuamente il cuoio capelluto. Sul travaglio avrebbe perduto tempo e ne avrebbe fatto perdere, i proprietari si guardavano dall’allogarlo. Predominavano tuttavia i casi eroici o inspiegabili di scomparse, con i rimasugli di cronaca e fantasia. Si buccinava che molti perduti finissero nella legione straniera, si sospettava di missive giunte dai luoghi dell’oblivione e dello scirocco, da caserme del deserto. Le famiglie interessate si stringevano, declinavano i sospetti visitanti, sospiravano. Qualcuna invece respirava, dunque sapeva e aveva ricevuto moneta. A finire in deserto fu certamente il bellissimo Garretta, la famiglia ne mostrava i biglietti di buona salute, sicuri e definitivi come cartigli di cimitero, se sulle lapidi potesse scriversi il luogo dell’eterna destinazione con la stessa sicumera con cui vengono registrati i decessi. Ma solo dei vivi può esservi certezza, anche quando altri vivi li presumono morti. La storia del deserto era un allegro sapere, come dire dei monaci che muoiono al mondo e invece ne infilano un altro. Immaginavamo di Garretta fare quello che sempre aveva fatto da giovane, aitante e pretenzioso capraio: combattere la vita, marciare infaticabile, prendere l’ombra con le palpebre biave calate sugli occhi come soffici ceneri sui carboni ardenti; imporre la propria simpatia ed essere portato in palma di mano nei fortini, nelle candide casbe e nelle tende del deserto. A chi ci chiedeva dove si trovasse il deserto noi studenti dicevamo per farci capire che stava al di là del nostro mare, dall’altra parte del Rabatello, dove un po’ tutti si sentivano, senza essersi mossi da esso, legionari stranieri di Agrigento. Naturalmente Garretta era nome sopramesso a quello di famiglia, una ingiuria gaudiosa che denotava forza e baldanza, e forse anche sesso. Garretta è il muscolo, e Garra era una sicula e matricina divinità preistorica che portava gli uomini alle donne e viceversa, una Venere degli stazzi e delle radure. Per il giovane capraio smaniavano ad Agrigento non poche donne maritate della migliore borghesia. La mattina presto, con l’aria ancora verdognola della notte e non ancora pro-
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fusa dell’aurea lentigginosa polvere del sole, dal Rabatello saliva un copioso esercito di capre e di vacche per la somministrazione del latte. Le vacche si accostavano agli usci con calme e precise manovre di spigonare; le capre, nervose e traballanti come barchette a riva, venivano trascinate dai caprai che l’ancoravano per le poppe e le zampe. Il latte si acquistava con la garanzia della misura e della qualità. Dopo lo smercio l’esercito si ritirava, le vacche ballonzolavano di corsa verso le stalle senza che i pastori se ne dessero cura, da animali possenti anche in giudizio. I vaccari ritornavano con comodo e la testa tranquilla. Le capre, spiritate com’erano, bisognava seguirle, infrenarle, trattenerle da tentazioni e giravolte. La città si svegliava come un campo di battaglia, con al posto dei cadaveri cumuli e squagli di sterchi, al posto dei bozzoli la semina degli ovini. Ogni mattina sembrava giorno di passione, quando di venerdì, scomparsa la processione, restano il silenzio e sulle strade le gromme e le scolature dei ceri. Al Rabatello i due inconvenienti venivano assorbiti, una volta l’anno e ogni mattina, dalla strada di polvere, priva di asfalto e di basole. Nella città propriamente detta i colaticci delle torce e gli escrementi degli animali sulla basole non sapevano ingessarsi. I rabatellesi erano paghi della diuturna invasiva imbrattatura di Agrigento; del resto anche la passionaria processione del venerdì muoveva ogni anno dal Rabatè. - Volete il latte a casa?, dicevano, prendetevi il fumeri. La città che incominciava da Porta Mazzara, si difendeva con gli spazzini che correvano dietro la ritirata degli animali e facevano la barba alla piazza. Quasi per vendetta la strada maestra del Rabatello veniva pulita ogni tre o quattro giorni. In muto ma fattivo contraddittorio sembrava che gli agrigentini dicessero/ buon pro vi faccia, ad essere rabatellesi. All’acquisto del latte erano ogni mattina adibite le donne; all’albeggiante trepestio degli animali o al picchio sulle porte sorgevano dai letti calde come il latte e svampite come la schiuma, nelle goffe camice da notte. - Vengo, vengo- trepidavano incannucciandosi con scialli o vestaglie, scendendo sugli usci con i capienti in mano. Non era vergognoso farsi vedere così disabbigliate dagli animali e dai pastori, come un tempo dagli eunuchi. L’usanza consentiva che a questa incombenza si dedicassero anche le donne civili, mogli di mariti importanti o con fisime d’importanza. Il giovane Garretta aveva il volto di rame e di bronzo, l’incarnato
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su un fondo ulivigno; un formicolio nella guardatura come se una torma di pensieri prigionieri celandosi dietro i suoi occhi spingesse per scrollare ed uscirne. Dava l’impressione di scrutare con due o tre paia di pupille. Aveva la prestanza della giovinezza e l’accenno indeciso e chiaroscurale di un baffetto, come se a richiesta dovesse deciderne la crescita o la rasatura. Portava panni di fustagno sempre in ordine, nelle mute color miele e color acquitrino. Emanava sentori di timo, di fieno e di stabbio che evocavano fresche ascensioni e tepori di cove. Aveva mani forti con dita svelte e delicate, come si scorgeva nel mungere le capre: neanche il pastore Costanza, acclamatissimo ciaramellaio del quartiere che per le novene di natale frullava i polpastrelli sulle canne formate dello strumento con rapido ardore senza peso apparente, poteva stargli a pari. Le matrone, a vedere quel virtuosissimo mungere s’intrigavano immedesimate; sta di fatto che il Garretta ne prese a pascolo parecchie. A volte le capre venivano tratte entro gli aditi per sviare ogni sospetto e concorrere all’alibi del latte. E se le donne nel raggiungere il capraio avevano soffiato dall’alto in basso -vengo, vengo- ora, ai mariti che le sollecitavano dai piani alti, ridicevano con voce di diversa premura e sfociando in mare aperto -vengo, vengo. Di questi fatti, naturalmente amplificati e aggiornati senza posa, il Rabatello si gloriava. L’imbrattatura stercoraria quotidiana rappresentava la storiatura di un enorme murales orizzontale, di cui la maculazione delle matrone diventava la firma, il momento verticale e trascendentale. Con Peppi l’Effemminato la città introduceva nella riservatezza di alcune famiglie un elemento irriso, accondiscendente e camuffato; uno che la natura aveva travestito da donna, dalle movenze alla voce ed alle destrezze domestiche, e che, una volta rivelatosi virile, veniva per cautela di scandalo o per precauzione di agio casalingo ammaestrato a procedere da donna. Peppi non era altro che un Calcante, addentrato nella gerarchia tipologica agrigentina e coinvolto nelle sue aspirate iatture. Il Garretta era invece un giovane dalla poliedrica virilità, assolto dal pericolo che comportava per motivi squisitamente sociali e di cinta. Era infatti capraio e rabatellese, e quello escludeva che potesse arrecare un qualsiasi turbamento alle cose della città entro le mura. Della propria esistenza il giovane Garretta finì col diventare il deus ex machina. Si perdette per un fatto di sangue e venne assunto, quasi per un passaggio agiografico, nel deserto. Si era stancato, diceva il
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Grassìa, ed era andato a riposarsi. Per documentarne la stanchezza rassegnava un certo numero di nomi femminili, con smorfie e conati interpretativi dei diversi soggetti. Un giorno per insolentirla andammo a trovare una di quelle ormai vecchie signore che abitava poco fuori in Rabatello, poco sopra Porta Mazzara, nel tratto di via detto passaturello, e nella nostra lingua passaturiddu. “Ci hanno detto che lei ha conosciuto il giovane Garretta”. Ci agguantò, il nero del suo abito di seta diveniva caudatario del pallore del suo volto; ci prese con malizia, ci chiese di sapere chi fosse il giovane Garretta, ci chiese di sapere che fine si diceva avesse fatto, se fosse vivo o morto. E noi demotivati a raccontare, con la coda in mezzo alle gambe, mangiando i suoi biscotti, incapaci di cogliere la contraddizione tra la sua foga di sapere e il diniego d’interesse, cocchi fortuiti di una vecchia donna che eravamo andati a stanare, e che dal pallore risaliva in rossore e forse benessere di memoria e pace di ricordi. Sapendo della bravata ci insolentì il Grassìa: i fatti, quando si hanno da dire, si dicono alla luce del sole e non alla luce della luna. -Voi, nicarè, siete andati a chiedere alla Madonna Addolorata se ha conosciuto un certo Gesù Cristo. Il Grassìa era sboccato, eclatante, preferiva il tetro ai conciliaboli, agiva sempre da pubblico e si rivolgeva al pubblico, detestava segreti e riservatezze, si addolorava dei grandi e palesi dolori e gioiva delle grandi e pubbliche gioie/ Perciò tentava di rendere tutto pubblico, spesso procurando scompigli e disastri. Che però, stranamente, si curavano e guarivano da sé, spontaneamente, nella sconfinata vita di mammifero del Rabatello. per noi il Grassìa era più importante del vescovo di allora, che si diceva fosse molto importante, se non altro perché potevamo contrastarlo e così facendo crescere. * * * Dopo la vendita del latte le vacche venivano lasciate libere di riscendere trotterellando al Rabatello. Rientrate per Porta Mazzara dopo la strettoia di via Garibaldi che non era ancora Rabatè ma la canna dell’imbuto che insaccava il saliscendi, le mandrie sparse davano luogo ogni mattina ad una incruenta corrida. Mattatori erano i ragazzini; i quali, chi zompando e serpeggiando, chi offrendo agli animali baccelli disossati di fave, bucce di malloni e fichidindia, torsoli di broccoli ed altri rifiuti; chi tentando di aizzarli e innervosirli con strilli e canti a squarciagola, si divertivano un mondo anzi un Rabatello. Un ritornello di queste devozioni canore diceva:
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vò, vò, vò/pedi di vò/pedi di vò./Arrivati a la currìa/ trovati a via/d’a casa tò. La “o” ripetuta squillava con note di tromba. Gli uomini seri e le donne passanti se ne stavano ai bordi della strada, come a veder rientrare un esercito stanco e vittorioso. Le vacche erano amate per quel saio francescano, le zampe a pedale e le froge bavose: sembravano monaconi raffreddati. In queste corride non si contarono mai incidenti, incornature e ammaccature. Per questa sagra quotidiana il Rabatello veniva spregiativamente rinominato currivò, e cioè pista o corsa dei buoi, come se di incaricato disprezzo il nome Rabatello non ne avesse abbastanza o stentasse ad evocarne. I rabatellesi ci stavano, era la loro caratteristica stare alle parole e ai giudizi e rincretinire la facoltà comunicativa degli avversari, tant’è che nel ritornello riportato la via è chiamata currìa, che qui non significa corregia ma, dal verbo curriari, scorrazzare, luogo di corse. C’era anche nella faretra degli agrigentini un terzo mobile toponimo che al momento opportuno di colpire il rione scoccava dalle lingue; per non contare le perifrasi e le complesse proposizioni che inanellavano mali giudizi con ripiegative motivazioni. Il mobile toponimo era quello di Montaperto, nell’equazione che il Rabatello uguagliasse l’antica e discosta frazione, con l’aggravante di una incomoda contiguità ad Agrigento. L’uguagliasse per arretratezza, inciviltà e villanesimo. Certo tra la frazione e il Rabatello c’erano stati e permanevano importanti rapporti, ma la maglia che li concerneva non era la stessa. Nei secoli c’era stata d’ambe le parti l’assimilazione di un rado ma continuo viavai popolativo: molti cognomi tipici di Montaperto si ritrovavano in Rabato, e viceversa; accomunanti erano le soprannominazioni e comuni le leggende, le tradizioni e le credenze. Le affinità si spiegano con la conformità delle strutture sociali e produttive e con l’ineludibile obbligo viario. Il Rabatello era sulla strada e innanzi la porta che dalla frazione accedeva in città. Quello degli agrigentini era uno spidocchiamento: tentavano di scacciare col desiderio i rabatellesi, di svergognarli per il loro sentirsi agrigentini, di confondere il loro attaccamento di zecche. Pur senza volerlo in questo ci si mettevano anche i montapertesi, viaggiatori pedoni e raramente someggiati, che appena raggiunto il Rabatello si locupletavano di città ma non si esimevano dallo strombazzare, come prudenza avrebbe voluto, che il rione era il più accogliente quarto di Agrigento, il più luminoso ed affabile. Questo loro benessere confermava la mutria dei cittadini.
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Il giovedì santo il Rabatello era corso d’assalto da quei terrazzani venuti ad assistere in massa alle funzioni in cattedrale. Avevano la gioia negli occhi e la polvere sugli abiti appassiti, stanchi come si conviene alla letizia dell’arrivo. La lunga e ripromessa funzione liturgica cui avrebbero assistito li irretiva come un presepe mortuario. Era uno spettacolo guardare fissi per due o tre ore, come per scoprire un trucco sperando che non ci fosse, vescovo e canonici lenti come statue animate e come dati a doppiar voci di morti, con i seminaristi impostati, appunto, come pecorelle di un triste presepe. Esultavano i montapertesi al lavaggio dei piedi degli apostoli per l’ostensione di quelle circoscritte ed abbaglianti nudità. Ma al Rabato, prima dell’incesso contegnoso in città, i montapertesi avevano da attendere al loro teatro: sciacquarsi dalla polvere del cammino i piedi tostati dal sole, indossare le scarpe buone e le cose d’oro le donne; e uomini e donne, spolverarsi e assestarsi i panni. Nessuno in città avrebbe dovuto capire di ogni montapertese che fosse, in quella occasione di mesto tripudio, un montapertese. Nelle operazioni di maquillage entravano collaborative, prodighe e curiose le donne del Rabatè. Offrivano giudizi d’occhi, mani acconciatrici, acqua da bere e da tergere, albergo per le operazioni più impellenti e delicate, contribuendo decisamente ad impupare le ospiti. Le quali ringraziavano col lievito nel cuore, pensando delle rabatellesi che fossero le migliori agrigentine. Quelle dicevano di sé che sapevano parare i muli di Sancalò ed al bisogno le montapertesi. Questo escludeva ogni busillis o verso di somiglianza. Le montapertesi volevano in città dissomigliarsi il più che fosse possibile da sé stesse, le agrigentine da sopra Porta Mazzara volevano parere le più agrigentine possibili, mentre gli abitanti del Rabatello facevano di tutto per non passare inosservate rispetto al proprio essere: per non correre il rischio, oltre a non apparire montapertesi, di essere scambiati per naturali di Pecoratonda, della Boccerie, di S. Michele, della Conca o di S. Sofia. Perché per il rabatellese era sostanziale, fino all’esito estremo della smanceria, di sembrare più calcato e appariscente del proprio essere, di comparire cioè il meno agrigentino possibile per attingere possibilmente ad una forse più antica e ribellata agrigentinità. Questo era il paradosso centrale del Rabatè. Di Rabati i paesi e le città di Sicilia che hanno avuto a che vedere con gli arabi sia per esserne stati fondati che ripopolati, son pieni. In Licodia la voce si dà come da noi in forma ipocoristica ma delicata-
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mente al femminile: rabatedda. A Militello si dà tal quale: rabateddu, come del resto a Sutera, ad Alia e Troina. Hanno un rabato Bivona, Mineo, Sutera, Caccamo, Salemi... A Sciacca il rabato si lega al toponimo di S. Nicolò. Non mancava di un rabato la città di Palermo, ed era il più grande e popoloso dell’isola. peregrina e stiracchiata appare l’ipotesi dell’Avolio, che deriva il nome dal greco ràbdos (ferula, sic.ferla) e che quindi contrassegnerebbe un luogo infestato dalla vegetazione spontanea di tale utile e pomposa pianta. Pur senza escludere che il cognome Rabito assai diffuso in Sicilia e non assente in Campania derivi dall’etimo greco indicato dall’Avolio, non ci sembra discutibile la provenienza del toponimo dall’arabo rabadh, sobborgo. In certi casi può aver concorso o insitito a formare il diffusissimo toponimo siciliano una seconda parola araba: ribat, locanda o locale accessorio e d’ospitalità. Sull’ipotesi primaria c’è concordia tra gli studiosi. Diamo quindi per scontato che il nome del nostro Rabatè che metteva la puzza sotto il naso degli agrigentini murati deriva da rabadh col significato di sobborgo, quale del resto è stato e rimane anche ai nostri giorni. E’ uno di quei nomi arabi accomunanti e persistenti, nel senso di una contemporanea e contestuale risonanza tanto nelle regioni europee storicamente toccate dall’arabizzazione (dalla Spagna alla Sicilia ed all’Europa orientale), sia in quelle definitivamente arabizzate come l’Africa settentrionale. Tra tutti i più comuni toponimi ci sembra essere il più urbanistico ed il meno naturalistico. Non si attaglia infatti a condizioni geo-morfologiche, rifiuta le distese rurali e lo esperiamo nelle formazioni topodemografiche di una qualche entità. E’ nome partitivo di paesi o città, che da urbanisticamente comune é divenuto proprio, ad indicare un quartiere o un sestiere. In considerazione dell’eccessivo dispendio che sarebbe occorso, in età medievale e rinascimentale le città non venivano murate del tutto: parti delle loro articolazioni urbanistiche rimanevano al di fuori della recinzione difensiva e delle porte. Così come il mastio era il simbolo del castello e n’era difeso, la città murata diveniva il simbolo della città reale. Da uno studio di Luigi Damì sulla Firenze all’epoca di Dante sappiamo che all’interno delle mura fiorentine non rientrava neanche l’area ove sarebbe stato innalzato il Duomo. Rimanevano tagliati fuori i borghi cresciuti lungo le vie di maggiore comunicazione.
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Di Girgenti si può dire che in un primo tempo nacquero così i quartieri di San Francesco D’Assisi, di Ravanusella e di S. Spirito, sorti fuori del più antico circuito murario e bastionati successivamente all’interno della Terra Nuova grazie al prolungamento delle difese meridionali ed allo spostamento verso oriente della cerchia, dalla linea verticale delle porte di Biberia e dei Saccaioli alla nuova cerniera di Porta di Ponte. I resti rinvenuti di uno stazzone ubicato nel declivio esterno della via Bac-Bac, ch’era strada di ascesa e nel contempo di cinta, stanno a dimostrare che appena fuori di quella linea la città veniva meno e vi si poteva impiantare una industria. Il Rabatello di Agrigento, il Currivò, non era propriamente altro che la parte della città rimasta fuori delle mura e destinata a maturare nella vicinanza di una diversità. Era inteso che in caso di pericolo gli abitanti del sobborgo venissero accolti intra moenia, anche per concorrere alla difesa comune, a condizione che il pericolo non provenisse proprio dalla diversità: di lingua, di razza o di religione. Per gli abitanti del sobborgo, infatti, il pericolo era raddoppiato: a quello di passaggi guerreschi e tentativi di assedio che li avrebbe coagulati alla comune agitazione cittadina, andava aggiunto permanentemente quello proveniente dalla città murata per l’aggressività della parte latina e del cattolicesimo romano nei confronti della cospicua parte di popolazione costituita dagli ebrei e dagli arabi sottomessi. Dopo il tempo della tolleranza araba nei confronti dei cristiani e dopo quello dell’aurea tolleranza svevo-normanna nei confronti di arabi ed ebrei, l’età si prestava a continue, fanatiche e rapinose aggressioni. Gli arabi scampavano nelle campagne, retrocedevano dai centri abitati e murati dove più occhiuto era il controllo e più sanguigna la gelosia, verso le inospitali, inappetibili alture dell’entroterra, si davano alla macchia e ricostituivano sparute comunità asserragliate tra trubi e gessi, formando piccole sacche di resistenza e di sopravvivenza. Chi poteva raggiungeva l’Africa, portandosi in cuore la Sicilia. Le spedizioni contro di loro e la ripulitura del territorio muovevano sempre da provocazioni religiose e spogli venali, e cioè da atti di violenza missionaria. Sappiamo ad esempio che gli abitanti di Cinisi araba vennero crudelmente puniti e dispersi perché si erano ribellati ad una persecuzione. In Sicilia più che in Spagna il cristianesimo occidentale condusse senza saperlo la prova generale di quella che sarebbe stata, con la
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scoperta dell’America, l’impetuosa colonizzazione religiosa e l’incetta di oro e di anime. Quanto agli ebrei, erano indistricabili dalla vita dei centri abitati e meno disposti degli arabi a diradarsi e camuffarsi nella rupestre mareggiata dell’interno; e godendo di più raffinata cultura e di reiterate protezioni regali remunerate con ingentissimi donativi vennero sottoposti, fino all’espulsione finale, ad aggressioni continue, indicibili umiliazioni e depauperamenti. Nulla ci autorizza ad escludere che quanto avveniva in diocesi di Palermo o in quella limitrofa di Mazzara non avvenisse anche nella nostra città. Per quanto infatti non soccorrano documenti, indubbiamente ripuliti dalla peculiarità del potere girgentino a decorrere dall’affermazione storica del suo feudalesimo vescovile, e per quanto aggiuntivamente possano essere durati a lungo gli scaltri, suadenti e missionari effetti del diplomatismo gerlandino, non possiamo dubitare che la popolazione latina sia tata anche qui sgunzagliata contro l’utile ed industre popolazione semita. Faceva certamente comodo che i diversi abitassero fuori le mura: la murata città dei latini si distingueva da quella degli altri. Il Rabato, che fino al periodo angioino-catalano era stato la sede delle industrie agricolo-commerciali decantate da Idrisi, è avviato a decadere. I Chiaramonte datano gli ultimi interventi che fanno ancora di esso una parte ripromessa della città: vi si innalza il primo convento di S. Domenico, vi si amplia ed adorna quello degli eremiti del Carmelo, vi si fabbricano altre opere. Il superstite portale chiaramontano della distrutta chiesetta dei Canonici documenta ancor oggi la prodigalità architettonica della grande famiglia nella visione unitaria che essa aveva della città. Per sviluppo di logica il Rabatello era destinato a venire coinurbato e protetto di mura, ma diverso è stato lo sviluppo della storia. Sul sobborgo si affacciava lo Steri, nel sobborgo i Chiaramonte individuavano quasi la seconda Terra Nuova della città. Ma i tempi erano già appassiti per far questo. Abbiamo detto che al sobborgo facevano capo le attività produttive girgentine. Il Rabato storico, che si estendeva al di là dell’odierna via Garibaldi lungo l’odierno asse meridionale di via Dante, accudiva ai più antichi giardini ed agrumeti della città: il giardinaccio, il giardino della Giudecca, il giardinello, il giardino con orto della Mirati destinato ad essere ribattezzato dal 1500 in poi giardino di Rizzuto dal nome di una famiglia borgese del sobborgo stesso; ed infine, il giar-
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dino posto al di là dell’Ipsas, detto con toponimo cinquecentesco della Zunica, dal nome di una seconda famiglia di borgesi rabatellesi. Erano questi i veri grandi giardini di Girgenti arabo-normanna, unitamente a quelli assai più lontani del Racabo e del Mmardo (Lombardo), ove un toponimo arabo ed uno latino stanno bene assieme. Il sobborgo controllava produttivamente tanto il territorio ad ovest della città che quello a sud: dal Rabato alla marna era denominata via dei trappeti, e sul Drago intercettava il casale del Fondacaccio e rasentava il giardino della Mirati, toponimo che ancor tradisce l’antico dominio da parte di un notabile arabo. Fondacaccio, (dove ho rinvenuto, tra gli altri, cocci invetriati di ceramica arava e dove avevano sede insediamenti produttivi e di smistamento: stazzoni, carretteria, officina di riparazione per veicoli, bottega di fabbro etc.) non era altro che un frammento del Rabato fuori del Rabato, così come del resto la Marina, centro del viavai rabatellese; ed invero dal sobborgo provenivano le più antiche famiglie di pescatori e marinai, mentre lo stivaggio e lo scarico delle merci dai bastimenti era affidato a rabatellesi itineranti. Per avere contezza dell’importanza produttiva del Rabatello, e per averne anche (come dire?) ammirata, sensitiva e gaudente nozione, l’incredulo potrà rivolgersi al Museo Regionale delle Ceramiche di Caltagirone, la cui sala espositiva centrale è costipata di reperti ceramici, per lo più interi e splendidamente dipinti e invetriati, provenienti dal Currivò: caraffe, poculi, brocchette, conche e bacili. Sono il frutto di un importantissimo rinvenimento che ebbe luogo nella seconda metà del secolo scorso, allorché si procedeva agli scavi di fondazione di un moderno palazzo sito in via Dante, sul pendio dell’Annunziata. Studiando gli intatti forni di cottura del materiale ceramico, ancora ingombri degli oggetti da sottoporre a ricottura come se la lavorazione fosse stata piantata in asso per una calamità o una fuga generale, si venne nell’esaltante scoperta: le camere di combustione erano duplicate, accorgimento che consentiva un forzoso effetto di insufflamento dell’aria e quindi la vetrificazione dei colori spalmati sui biscotti ricotti. Questa operazione, sospesa nelle fornaci del Rabatello per ragioni d’emergenza misteriosa, venne ripresa dopo secoli nei forni di Caltagirone, riportando alla luce splendidi, antichi e freschissimi oggetti d’arte ceramica medievale. Girgenti da allora è passata per essere stata, con Valenza o prima
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della città iberica, la prima terra araba del bacino mediterraneo ove venne operata una tecnica di cottura ad altissime temperature: o per averla scoperta in loco. Veniva così sopravanzata la tecnica di produzione al forno della ceramica greca, e gli arabi si iscrivevano storiograficamente quali continuatori artistici e tecnici della più antica civiltà, pur nel diverso ambito d’altra visione e di esiti diversi. Si appalesava e nel contempo si consumava dopo il momento classico akragantino la punta più alta della civiltà tecnica ed artistica girgentina. Ma non fu Caltagirone a spoliare Agrigento di quei meravigliosi reperti, fu Agrigento a non darsene per intesa, a disfarsene svogliatamente, a non averne coscienza e a non ambire ad essi: questa Agrigento che attende ad occhi chiusi. Ma forse allora, in quel rinunciatario disfattismo, ci fu ancora una volta il postumo di una arrogante ed ombrosa facezia: che trattandosi di cose del Rabatello, quelle non potevano essere che cose rabatellesi, e quindi da nulla. La città murata continuava ad essere murata, e delle cose del Rabato se ne fotteva. Forse qui la mancanza di acqua ci ha preso fino alla testa, e l’arsura si è rifatta in aridità, e per miel che ci si dia o vino, per quanto si possegga o si scopra, tutto diventa sabbia. * * * Fino a qualche decennio addietro, ad Agrigento, era importante nascere in un luogo piuttosto che in un altro. Tra i quartieri vi erano mormorazioni e remore; correvano maldicenze e lazzi. Erano atteggiamenti mentali che venivano da lontano: ho trovato che fino ai primi dell’800 non era ambìto nascere o abitare in piazza, che peraltro non era in quel tempo la piazza che conosciamo noi, essendo ancora più torsoluta e coi suoi numerosi saliscendi più dunosa di quanto non troviamo oggi. Assai più ambìto era invece nascer nel piano di S. Sofia, abitare a S. Girolamo o nel Piano del Barone; e via delle Orfane conservava ancora la fama di Ruga Reale. Del Rabatello, neanche a parlarne: non era Agrigento. E’ quasi da dire che l’agrigentino spaziasse nel rimpicciolimento. Non voleva guai, dismisure; non tollerava sconfinamenti che andassero oltre porta Mazzara o porta di Ponte. Quella era la città e sopra c’era il vescovo. E’ ovvio che il rilascio di questa tensione ha comportato l’odierno sdilinquimento. Come il cocombero asinino la città si è disseminata in dodici o tredici frazioni, per cui, a giusto titolo, l’antica frazione di
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Montaperto è stata rifatta in quartiere per autorità di voci scritte o parlate ma senza alcun ausilio di cuore o di cervello. A noi del Rabatè i ragazzi di Sanmichele, di Pecoratonda o della Conca lanciavano invettive; e quando si compitava in classe, alla scuola Pascoli, gli avversi amici della città murata rinfrescavano le offese, compulsando sui vocabolari italiani termini più peregrini, insolenti e spregiativi. Da parte loro i ragazzi di Rabatè erano lesti di mano, escogitavano scherzi arcaici, essenziali e mortificantissimi, come denudare l’avversario e cospargergli le pudende con una mano di sale. Era la cosiddetta saliata, perchè i nemici del Rabatè venivano chiamati “sardi salati”, e quindi andavano rigovernati. Ed ora io penso che quest’ingiuria -sardi salati- avesse atavicamente a che fare con l’urbanistica di Girgenti, e con i suoi abitanti costipati dalle mura, come le sarde nella salamoia d’un barattolo. Al Rabatè invece tutto era spazio, la campagna entrava ed usciva dai vicoli e dalle porte; non c’era da andare da qui a lì come i pazzi; certe passeggiate ci portavano fin nella contrada Luna o alle Due Ganee o allo Scaldamosche, come se fossimo rimasti in Rabatè. E’ manifesto come gli amici di Pecoratonda o della Conca vantassero implicitamente una caratura piccolo-borghese o comunque cittadina. La vantavano nel silenzio del vanto ed esplicitamente nelle offese recate ai rabatellesi: tutti villani, anzi porci-villani. Alla base di questi atteggiamenti giovanili c’era quanto di imbevuto potesse venire dagli adulti, un timore dello spazio topografico ed in simbolo ed intelletto un timore dei problemi e delle innovabilità, un moto di continuo, rispettoso prosciugamento verso il recondito, l’esistente centralizzato, il certo del sempre. Noi del Rabatè eravamo eretici, rotti cioè ad indovinare e a dubitare. Per noi i tipi vivi -gli ubriachi che rincasavano cantando la notte, i rivenduglioli di olio, fichi secchi, pasta sfusa, i tabacchinai, i pecorai-ciarammelai, i caprai arditissimi come il Garretta, il prete adunco che contava le sedie o quello carnacciuto che si sventolava col fazzoletto e ci contava storie di miele; il barbiere che stava innanzi alla porta e attendeva che le barbe crescessero e pungessero, e la negoziante che ci leggeva nella testa attraverso le falle degli occhi; la dolce centenaria venditrice di ciocchi e di vino a misura; il canonico pavonazzo o quello con gli occhi bassi come per peso sotto la scorza della modestia, ma intelligente come non altri, conoscendo l’arabo, il francese, il latino e l’ebraico e parlando le lingue morte come le vive (Vaianella
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si chiamava, e ha fatto bene Domenico De Gregorio a ricordarlo in una sua opera con commozione e rispetto, perché era un grand’uomo che sembrava sparire sulla terra e portava invece il fuoco per accendere i ragazzi)- per noi questi tipi vivi che sopra porta Mazzara, salvo i cosiddetti personaggi, scarsamente si incontravano, ci apparivano tutti come uomini di cultura, e cioè di una vita aperta. * * * Io non son nato nel Rabatello bensì in una casa con giardino e con vista di mare sotto lo scoglio della distanza, nel quartiere di S. Gerlando, e dopo aver toccato in fasce Trapani ed in condizione d’intendere Caltanissetta, son finito ed anzi ricominciato al Rabatè, ove il commissariato per gli alloggi assegnò alla mia famiglia un grande alloggio. Era, quella dimora, una sorta di castelletto rabatellese, costruito dalla più abbiente famiglia del sobborgo per propria dimora prima di realizzarne un secondo e trasferirvisi. Antico caseggiato con mattoni di Valenza o Marsiglia, a secondo del gusto di dire, sviluppata su quattro piani, con stanze a iosa, tant’è che in molte rimasero disammobiliate e destinate ai giochi miei e dei miei amici. Rabatellese era del resto la mia famiglia paterna per parte della madre di mio padre. Essa aveva dato al sobborgo una serie di insegnanti elementari in fila di successione operativa. Dunque del Rabato posso parlare come del mio Rabato. Ed è opportuno che dica quello che di diverso vi ho trovato rispetto ad altre mie esperienze, anteriori o successive, oggi che il sobborgo, per malattia sociale ed economica prima e per frana poi, non esiste più. Vi ho trovato un agglomerato, ridotto al dominante lavoro delle campagne e subordinatamente a quello dell’allevamento, quale certamente Agrigento degli impieghi e prebende non era, e quale invece avrebbe potuto ANCHE essere e non è stato. Vi ho trovato, insomma, l’occasione storicamente perduta di Agrigento: una città fatta ANCHE di lavoro libero ma faticoso, di poesia, di responsabilità, di solidarietà. Il Rabatello, infatti, pur avendo dato all’arte di Pirandello l’imprestito di decine di personaggi umani, di pretesi viventi, d’intrecci e racconti, non era sobborgo pirandelliano; anche Pirandello, in fondo, era liberato dall’esserlo dall’esito creativo del proprio genio. Al Rabatè, insomma, per citare Leonardo Sciascia, una vita che spesso si trascinava al livello di una capra o di un asino, una esistenza schiacciata dall’offesa e dal bisogno, nei pensieri e nei sentimenti si svolgeva al livello
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della civiltà più alta. E così come il siciliano uomo solo è molto più civile del siciliano cittadino, l’uomo del rabatello era molto più civile dell’uomo cittadino ritrovabile da porta Mazzara in su. I siciliani, diceva Lawrence, è quando sono insieme come cittadini che diventano uomini gretti. Al Rabatè gli uomini, ancorché fossero assieme, si accompagnavano alla solitudine e vivevano nella solidarietà del sentire o quand’era il caso del provvedere. Il pirandelliano vedersi vivere, diceva Sciascia, è la maledizione dei siciliani. Vedersi vivere nello specchio che sono gli altri, come vedo a volte vivere i consiglieri comunali tra di sé, e la città e il suo sindaco, e gli uomini dei crocchi di porta di Ponte, o i ragazzi posteggiati a S. Leone o al viale della Vittoria e dei Caduti. Drammatica dilacerazione, ma anche bloccante controllo, vegetazione di rissose speranze, di pensieri ed attese fermate. Il vedere di essere visti, il vedere attraverso gli altri, e dunque la trottola senza cammino, il pensiero senza spazio di appigli e di realizzazione, il reciproco vivisezionamento in un ambiente di corti scambiate e roteazioni specchiate. Ma non soggettivo diniego di tutto questo vi era al Rabatello, sebbene oggettiva, insaputa negazione di una vita del genere. Fiatava ancora sul sobborgo una antica memoria di utilità, di mestieri, di ingegno manuale e pratico e, in qualche soggetto, di cultura veramente superiore: come nel citato Vaianella che sembrava, per ricordare il De Gregorio, un akragantino sopravvissuto; come ancor prima nel poeta Castagnolo autore dei drammi pastorali; come secoli addietro in Matteo Cimarra rabatellese, uno dei pochi grandi girgentini, mettendo tra parentesi l’età di Acragante, di tutti i tempi; fino a Zicari poeta analfabeta e non pubblicato. Al Rabato, in sostanza, si viveva: di queste cose come luci e ombre, e di una quotidianità che suggeva l’olio della memoria e dava pertanto blandamente, continuamente luce. E non è un caso che le due maggiori feste popolari agrigentine S. Calogero ed il Venerdì Santo - risultino modellate da impronte tipicamente rabatellesi. Quando allestii per il Museo Civico la mostra fotografica sulla festa di S. Calogero e scrissi il saggio di presentazione, procedetti in fase di studio alla identificazione dei popolani presenti nelle più antiche documentazioni fotografiche tra organizzatori, offerenti e devoti. Ebbene, il 90% dei soggetti individuati era da ricondurre al Rabatello. La stroncatura della festa da parte di un intellettuale quale il Politi che aveva indossato Girgenti e ne era stato indossato, non è altro che
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un’imprecazione contro la vita del sobborgo. Il consiglio è quello di evadere da Girgenti, nei giorni in cui l’assalgono i villani. Rabatellesi erano i custodi della chiesa di S. Calogero, anch’essa extra moenia come il sobborgo, che in situazione di eremitaggio si succedevano nella cura del locale e nel far compagni al santo. Con la fine del Rabato la festa si è falsata ed appare ai giorni nostri in balia di ceti raccogliticci e di stravaganze che ne perpetuano folkloristicamente certi significati senza riconoscerne i valori. Senza dire che la manifestazione, da potentemente, rivoluzionariamente religiosa che era, vien sempre di più sottoposta a diverse obbedienze tra cui spicca quella politica che guarda ad essa come ad una seminagione di consensi clientelari. Quanto all’agrigentino Venerdì Santo, esso é impiantato sull’idea fluente e popolare di sconvolgenti, partecipative esequie, e si incentra massimamente sul culto rabatellese dell’Addolorata, sul dolore del vivo e sulla testimonianza della presenza. Le processioni funerarie che muovevano dal Rabatè, quando il quartiere era vivo e colmo di abitanti, erano quotidianamente la prova o il simbolo di quella festa. Il sobborgo si svuotava: un chilometro di fila tra donne ordinate e uomini ammassati, tutti dietro il morto, per riconoscerlo ancora una volta e accompagnarlo, nella fantasia che ne avesse bisogno. Il morto certamente no, i vivi si. Ed infatti si diceva che l’unico rimedio contro il dolore della morte fosse la gente, e cioè la folla. Indizio di solidarietà e di analgesica coralità. Quando il Grassìa diceva che noi del Rabatello eravamo agrigentini, per quanto ne dicessero diversamente gli altri agrigentini, mentre a non esserlo erano proprio loro (e li chiamava, chissà perché, milanesi, maltesi, carrapipani), forse voleva dire che noi avevamo la coscienza della sofferenza di esserlo: mentre quelli della città vi erano solo chiusi dentro.
MONS. VAJANELLA
Nello scritto “Rabaté” (Fuorivista, novembre 2002) ho dedicato al rabatellese Salvatore Vajanella settantuno parole che, a volerle portare dal lordo al netto, scenderebbero a trentasei, poco più della metà. In questo malinconico calcolo la tara dovrebbe farla il diffalco della citazione di Domenico De Gregorio che, nell’avvio della sua bella, doviziosa introduzione della “Vita di S. Gregorio Agrigentino” dell’egumeno Leonzio, aveva superlativamente elogiato il Vajanella. Nel ricordare quest’ultimo ho ricordato chi già lo aveva avuto presente, e dunque il De Gregorio. La discriminante tra questi due gradi di richiamo è spiccata. Nel Vajanella ricordavo un uomo morto, pubblicisticamente ignorato e privo di importanza; col De Gregorio menzionavo un importante studioso vivo e destinato, quanto alla fama ed in senso foscoliano, a non morir mai. Forse senza rendermene conto mi ero trovato a trarre il De Gregorio, proprio per il suo eccesso di notorietà, come un autoritativo rimedio nei confronti del difetto di notorietà del Vajanella: opera inconscia di giustizia con cui una grandezza provvedeva all’altra per recuperarla dall’umiltà e dall’inosservanza. In verità il De Gregorio si era già occupato del Vajanella ma come chi semina nel deserto, in scritti diciamo così obbligati, a trattenimento ed eventuale edificazione dei lettori del settimanale cattolico di cui è stato direttore per lunghi anni. Tuttavia nel luogo della traduzione di Leonzio la citazione del rabatellese ha voluto avere da parte dello storico di Cammarata una ben altra valenza, perché inserita in un testo ragguardevole e in un libro fondamentale per la storia di Agrigento. Il giudizio sul grande ed umilissimo Vajanella é destinato ad andare ben oltre la freschezza dell’inchiostro ed il candore delle carte dell’agiografia di Leonzio. Quanto a me gli avevo ancor prima dedicato trentacinque righe in “Agrigento Minore”. A rileggerle oggi, senza poter dire per il tempo trascorso di avere la sensazione di rileggermi, capisco di aver compiuto una forzatura, di avere cioè voluto costruire l’occasione per scri-
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vere di un uomo che, quando lo conobbi, era all’insaputa di tutti, ed a propria insaputa, il cittadino più grande e meno importante di Agrigento. Non dubito che le cose andassero diversamente in seminario, ove il Vajanella insegnava lingua e letteratura greca e latina; io qui mi riferisco alla città. Lo stesso mi pare sia avvenuto al De Gregorio, anche lui ha voluto costruire una occasione per parlarne, in un testo notevolissimo che non appartiene al genere delle cronache interne né al panegirico. La volta per farlo scaturisce dal ricordo. Quanto a me, mi sarebbe stato impossibile scrivendo del Rabatello dimenticare il Vajanella, appannarlo tra i mille volti conosciuti ed appartenenti al luogo, non pormelo né ricordarlo come uno che di quel sobborgo non aveva saputo fare a meno sia col nascervi che col risiedervi, e nell’esservisi mantenuto indistinguibile, per vita e per indole, dalla popolazione dei naturali. Al punto tale da passare inosservato, da vivo, anche al Rabatello, ma da passarvi, e qui sta la differenza rispetto alla città, famosamente inosservato, com’è degli uomini accomunati e risaputissimi, grandi ma non diversi. Del Vajanella ho ancora detto nel dicembre 2002, allorquando il circolo Porta dei Venti mi diede l’opportunità di divagare sul mio “Rabatè” di Fuorivista, conversando con un pubblico che era la negazione della città negata; c’è infatti in essa un centro di fecondazione intellettuale, morale e civile che funziona all’insaputa della risaputissima banca elettorale delle clonazioni! Per questa reitera Salvatore Vajanella non era più il “chi era costui” d’imposta manzoniana, ma un uomo rabatellese-agrigentino di cui ormai si amava qualche conoscenza, che per taluni dei presenti si prospettava attentamente utile e rivelatrice, e per altri di dilettevole approccio memoriale. E’ stato Tano Siracusa, com’è nemico giurato delle mezze misure tra detto e non detto, tra parola e silenzio, a dirmi di scriverne ancora su Fuorivista; ed èccomi a disfare gli ormeggi e a ripartire. Il cittadino che per altra e più sicura via, disdegnando un viaggio per paranzella quale non so promettergli di diverso, volesse attingere a fonti ben definite di memoria, rimarrebbe deluso dall’altero silenzio biografico e storiografico. Nei due volumi “Agrigentini Illustri 18901940”, editi fuori commercio dall’Amministrazione Provinciale due anni or sono, non c’è posto per Vajanella. E sembra giusto, a leggere i titolari delle biografie, che non ci sia, anfora di terraglia tra tante brocche di bronzo e decalitri di latta: tra tanti cognomi di ricchezza, di potere,
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di notorietà e di meriti, riconosciuti da chi poté prenderne partito. Anche se tra cotanti cognomi qualcuno sembra messo lì solo per colorire l’affresco e svolgere nell’al di là storico compiti famulatori. E’ possibile che l’inoperato ingresso del Vajanella nella schiera sia stato dovuto a svenimento di memoria. In questo caso bisognerebbe ammettere (anzi, bisognerà ammetterlo del tutto) che quell’impresa storiografica sia stata condotta sulla memoria, e sulla memoria all’ingrosso; e che quindi, oltre a mancare di ricerca e di un direttivo metodo storico, ha subito quanto la memoria, nella sua forma negativa, e cioè nella smemoratezza e nell’oblio, ha imposto. Certe memorie vengono meno non per difetto di ritenzione ma per una più approssimata memoria del disturbo che, se non venissero meno, arrecherebbero al paludamento della nostra storia. Accanto o nel meccanismo vi può essere una disfunzione selettivo-valutativa, sempre perché è questa, la caratteristica funzionale del nostro strumento matricino cultural-popolare addetto al crivo ed alla cubatura della memoria. In altri termini, la nostra mi appare come una memoria di servizio. Il mio giudizio è che gran parte di essa attenti ad una vera conoscenza storica. Nelle mie conversazioni e nei miei scritti ho evidenziato all’occorrenza i vizi di surrezione di alcuni dei nostri imperterriti monumenti di memoria: la grande e pregressa fama del teatro Regina Margherita, che va invece riferita al teatro Principe di Napoli; la fama, iconoclasta di Gioeni distruttore di templi etc. Per chiarire il profitto del meccanismo vi invito a riflettere sul divario memorialistico- storiografico tra due personaggi-archeologi quali il pòpolarissimo Raffaello Politi e lo sconosciuto Giuseppe Lo Presti. Politi è l’archeologo che gli agrigentini di oggi avrebbero voluto, per fare un nome, al posto della Fiorentini. In passaggi ed attraversamenti cruciali della nostra vita pubblica non avrebbe guardato molto per il sottile. Lo Presti era uomo di ben altra scrupolosa esattezza di umanità, tanto nello studio che nell’espletamento dell’incarico affidatogli. Ancora al presente ci tocca leggere che certe rilassatezze del Politi si dovettero ai tempi ed all’assenza di limiti legali: ma non si può fare storia nell’impegolamento delle fame promozionali né col rituffo della trasmissione memorialistica che ha alle origini un crasso, popolaresco ributtamento di valori. L’epoca di Politi era, a Siracusa e Catania, la stessa epoca del principe di Biscari e del Landolina: non era quest’ultimo a parlare di vin-
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coli patriottici, morali e scientifici propri del mestiere dello scavatore? Era un modo per dire che in mancanza di limiti legali ve n’erano di altri, ben più importanti e sottili: ai quali, prima o poi, si sarebbero conformati quelli giuridici. Sta di fatto che il Landolina ed il Biscari hanno conservato alle loro città i tesori archeologici dissotterrati. Vajanella, in certo qual modo, è stato “depuis le littre” un Lo Presti, anche se non si è mai imbattuto, o per mero caso o per scanso, in un Politi. Qui c’è molto da rompere il silenzio, o almeno da irriderlo, da punzecchiarlo. Parliamo manifestamente di un silenzio che non è ciò che può avere raggiunto ed involto, sospeso ed isolato la città (un silenzio- distanza; un silenzio fisico, un silenzio percepito come mancanza o come assenza; un puro, sprovveduto silenzio...) ma proprio di ciò che di essa è la mancanza di fondazione della voce, la conoscenza critica della memoria. Il nostro è infatti il silenzio del fracasso. In questo senso gli indigeni parlàri, gli scandali temporali, le alambiccate proteste, le polemiche ed empirie quotidiane, gli strepiti degli stanatori, le proteste dei nemici dei tribunali e quelle degli amici dei tribunali, contrapposti circoli di caccia; il chiasso degli imbalsamatori ed il bombo degli umiliatori, altro non sono che le finzioni di quel silenzio: la trovata per essere, in qualche modo, coperto. Al postutto, malgrado il fracasso, la nostra è “Città silenziosa su rupi grifagne / che sembrano necropoli vaste / emerse dal sogno dei templi...” come raffinatamente la cantava in elegiaco epicedio il poeta Giuseppe Longo. Perché il nostro non è un silenzio di bocca, ma di mente. Or che volete che valga il tentativo di De Gregorio, o quello mio, o i due assieme, di rompere il silenzio su Vajanella, se non come, nel frastuono di questo silenzio, una rottura d’altro? Salvatore Vajanella era nato nel 1881 da Nicolò e da Alfonsa Cachia, nella strada tra il piano di S. Croce e la piazzetta Cobaitari. Era il terzo di quattro figli nati a quattr’anni di tempo l’uno dall’altro, ad incominciare dal 1873. Tutti contadini: i fratelli e naturalmente il padre, il nonno e l’avo. Se avessimo i mezzi, in atti o in una memoria della terra, per ascendere nella ricerca, ci imbatteremo in altri contadini, a discendere da contadini greci o berberi. Il cognome è diminutivo di Vajana, baccello di fava e propriamente guaina: deriva dal latino e nulla ha a che fare col greco BAKELOS o con l’arabo BAQELATI che indicano l’eunuco e la bacca di fava e che derivano da un suffisso probabilmente comune col significato del ve-
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getale e dell’organo sessuale, rimasto mediterraneamente vivo. I greci ritenevano che, in certe circostanze, i grandi baccelli delle fave, penduli alla luce del sole, insolentissero Apollo, così come gli uomini che osassero esporsi all’astro per i loro liquidi e fisiologici bisogni. Spesso il dio comminava agli uomini oltraggiosi il male del favismo. Gli antichi aneddoti sul prurito della polvere di fave hanno questa scaturigine. Ma vajana, dicevamo, è termine altro, e impiegato in cognome sta a significare coesione, cotonata cuccia vegetale, covata umana. Una vajana propriamente era la famiglia di cui parliamo, per struttura solidaristica e cura di affetti. Ogni quattr’anni da Alfonsa era nato un nuovo contadino, e Salvatore non lo fu da meno fino all’età di 17anni, quando decise di studiare. Mi raccontava, schermendosi dietro un sorriso, lieve sul suo volto come il peso di una ninfea sull’acqua, forse per vergogna di quell’antico ardire, ma a gloria della verità dell’episodio, di aver detto al padre posando lo zappone, alle terre delle Due Canee: Pà, vorrei studiare; mi piace zappare per aiutarti, mi piacerebbe studiare per aiutarmi. Me lo diceva in siciliano quasi per non commettere falsità, quasi per incapacità di tradurlo, lui che sapeva tradurre di tutto... L’internarono in seminario. Da bambino aveva appreso a leggere e scrivere e l’arcigno Nicolò Restivo, mio bisnonno e maestro unico del Rabatello, uso a nascondere bonarietà e rammarichi sotto i grandi baffi, tanto ne aveva appreso l’ingegno da lasciarsi andare ad un giudizio estremistico e avventurato rimasto, come la posta di una scommessa, in famiglia: se non è angelo è diavolo. Il minuto allievuccio, sperso in una classe ribollente e numerosa, involto nei suoi fustagni, stava calmo e impostato come un angioletto ma nell’apprendere aveva la rapidità del diavolicchio. Papà Cocò, l’insegnante, si rimescolava, si sentiva scolato dal vizio d’imparare dell’allievo come da una gran sete, poculo in bocca al sitibondo mediante il cavo gambo di sedano della scuola. Quando chiede mi sento ispezionato, diceva. Le emozioni del maestro venivano memorate per vedere se, a lungo andare, divinassero. Il fatto che il piccolo Salvatore, dopo qualche anno di scuola, venisse ritirato e messo a zappare non deponeva bene per lo scioglimento di quei riconoscimenti, tant’è che papà Cocò, forse per amor proprio, insisteva con i genitori perché lo affrancassero dal lavoro. Internato in seminario, la diceria circa il brillante di quella testa si avverava a metà, per l’altra metà avverandosi quando lo studente fece di ogni mese un anno, saltando da una classe all’altra. Non v’era mo-
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tivo di ritardare negli studi un seminarista attempato che apprendeva i programmi spaccando il tempo. Venne ordinato sacerdote e incaricato di insegnare lingua e letteratura greca e latina. Conosceva anche l’ebraico, in seguito avrebbe appreso la lingua araba, si doleva di non aver potuto apprendere il sanscrito. Era rimasto contadino, coabitando col fratello maggiore, Giuseppe, contadino, la minuscola e delicata cognata Caterina Tedesco e una nipotina orfana. I fratelli Calogero, sposato con Alfonsa Zarbo, e Carmelo, marito di Francesca Troisi, abitavano nei pressi. Orizzontalmente la famiglia si era espansa di qualche metro, verticalmente di molto, per la continua nascita di nipoti; socialmente la famiglia era rimasta contadina e ferma. La casa del canonico aveva cisterna a più di scala, un terrazzino, un ambiente tramezzato in legno per dividere lo studio dal letto, un angusto corridoio trasformato in chiesuola privata, al di là della quale vi era la stalla. Sentivi le zampate dei muli sulle coti, l’ansima delle froge, e lo stallatico sapeva d’incenso. Più piccola era la casa del fratello con un lettone in alcova e un lettuccio ai piedi, uno stanzino e un soggiorno con desco, piattaia e sei sedie. Sorvolo sulle circostanze che mi condussero a conoscere e a frequentare mons. Vajanella. Oltre a lui, negli anni tra la scuola media ed il ginnasio, conobbi e frequentai un altro sacerdote pressoché ridotto a stato laicale: lo storico e paleografo Salvatore La Rocca. Non so come riuscissi a unificare il fascino subito da mio nonno massone, socialista e libertario, con la frequentazione e la stima dei due sacerdoti, né ancora sono venuto meno a quegli influssi di sfere separate e di armoniose traiettorie. Di mio nonno ammiravo coerenza e coraggio, il suo impegno antifascista che gli era valso il licenziamento da una prestigiosa funzione, il volontario arresto domiciliare tra casa e giardino, e la condanna a morte negli ultimi giorni del fascismo, scampata per essersi rifugiato in una cisterna. Mi portava alla frequentazione del La Rocca il mio interesse per la storia; quel prete facondo, montagnoso e bachiano aveva conoscenze vaste come feudi, era di raffinatissima cultura e m’irretiva col rigoglio dei suoi dubbi e con le rapide dei suoi interessi antropologici. Di Salvatore Vajanella amavo il modello d’uomo, la sua eternità; avrei scoperto che si trattava di classicità, di una intesa tutta sua tra lirismo della condizione personale, della semplicità di vita, e pensiero antico e tuttavia padroneggiante e decifratore, talché il presente con i suoi pesi e dubbi appariva a me come ragionavo che dovesse apparire a lui, facile cosa e d’infinita inquietudine, se paragonato alla gran-
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dezza del passato di cui, se non altro, poteva cogliersi l’agio, la sicurezza, il piacere di una dedicazione conoscitiva. Crebbi ancora, apprezzai e affettuosamente mi legai al professore Pancamo e ad altri, mi legai a letture ed autori, e tuttavia il vecchio canonico contadino occupava in me il posto più alto, ch’era quello soluto dalle esperienze stagionali, dalla discontinuità, dalle misure ed adesioni ideologiche, dalle inclinazioni intellettuali e dagli impegni politici. Tutto in Vajanella era passato, tutto di questo passato era un nastro che scorreva ed avveniva, in fiume oceanico. Chi era, che cosa era Vajanella? Grecista e latinista impareggiabile, profondo conoscitore di lingue semitiche. Un uomo che non ha scritto nulla, che ha insegnato sempre. Uno che è stato ambito da grandi università ed istituti di cultura e ha saputo dire di no per non staccarsi da sé, dalla sua vita al Rabatello, dal suo risveglio alle cinque, dalla sua messa all’alba nella fredda chiesetta del Boccone del Povero, dalle lezioni al seminario, dalle sue lunghissime passeggiate pomeridiane per trazzere e stradoni (arrivava a Montaperto o ad Aragona senza avvedersene). E tuttavia nel definirlo resto insoddisfatto. Meglio riandare alla sua icona, quand’era per invecchiare: un Sancalogero con le spalle crucciate, le labbra a punta come chi insuffla aria nell’oboe o come chi segue con gli occhi un segno. Sembrava leggesse sempre, anche quando non leggeva, ed era eternamente aggrondato di dolcezza, ma di una dolcezza seria e senza teatro, quella che va bene per piccoli e grandi, e che va forse bene anche per le cose guardate, un racemo o una nube, un ruscello o una pietra. Ma chi era? Da liceale conobbi il prof. Augello, titolare della cattedra di latino e greco del liceo classico di Agrigento. Godeva di fama nazionale, aveva pubblicato e tradotto, ed era destinato ad intraprendere (come puntualmente avvenne) la carriera accademica. Un giorno ne parlai per vanteria col Vajanella, glielo descrissi come meglio non avrei saputo, anzi con esagerazione di tinte e di sostanza. Vajanella non solo lo conosceva, Augello, ma lo aveva avviato ed avuto come alunno in seminario. Gli lucevano al ricordo gli occhi: bravo alunno, non buscava mai meno del cinque nelle versioni, qualche volta meritava un bel sei... Rimasi di sasso, cambiai bandiera e feci la spola con Augello, parlandogli di Vajanella. Io faccio del mio meglio, mi rispose, Vajanella è un Omero, Omero è morto e Vajanella è solo. Tornai a parlargliene in una seconda occasione, questa volta mi rispose spazientito: Nicarè, Vajanella è grandissimo, lascia stare di riconoscerlo per comparazioni, sta bene dove sta, in compagnia di sé,
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assoluto... Fu un lungo rimprovero, l’elogio più irsuto e arrabbiato che abbia sentito di un uomo. Domenico De Gregorio, nel citato saggio introduttivo dell’opera di Leonzio (alla cui lettura, dunque, si rimanda) scrive che in lui “sembrava che la lingua e la cultura greca zampillassero, come per un fenomeno carsico, dai suoi lontani antenati akragantini”. Sin dal primo leggerlo sono rimasto intellettualmente e felicemente sconvolto dall’intuizione e dalla precisione del giudizio. Era quanto andavo cercando di pensare, nel continuo aggirarrni attorno alla verità umana e culturale del personaggio, lo sapevo ma non sapevo dirmelo, fino al leggerlo nel brano di uno storiografo che, per inciso, per ricordo, per voluta occasione, onora il proprio maestro. Vajanella era proprio, con i templi, con l’altre emergenze elleniche, con il paesaggio della nostra plaga scelto ed urbanisticamente eletto dai greci, con l’eterno significato di quella fondamentale cultura, un akragantino sopravvissuto orinato nella congerie degli incontri razziali e culturali. Lo era sin dall’aspetto fisico, nella furberia della lucidità degli occhi, nel sorriso imperturbabile ed equivoco, abbracciante cioè ogni cosa, di animata e inanimata, di piccola e grande; nel naso robusto, nei sopraccigli cespugliosi, nel pensiero cauto ma acutissimo; e lo era prima di tutto e dopo tutto nel padroneggiamento della lingua greca. La traduceva direttamente in latino, la traduceva dal latino; in italiano e dall’italiano; in siciliano e dal siciliano. Non traduceva, no: pensava in greco e comprendeva in greco anche ciò che leggeva in altre lingue. Aveva una dolce, domestica scioltezza nell’uso della lingua siciliana e nella sua ricchezza d’inflessioni e di antico vocabolario del Rabatello; a volte incespicava nell’uso dell’italiano, appuntiva le labbra e cercava tra tanti il vocabolo o la locuzione più esatti e consentanei al proprio pensiero, e non dubito che in quei momenti il suo pensiero pulsasse in greco. Ricordo una sua diretta traduzione greca di una egloga del Meli, autore amatissimo che gli ispirava ristoro: leggeva con gli occhi il testo siciliano, diceva con la bocca l’equivalente greco, e tra i due momenti non vi era sforzo di traduzione ma semmai dominio di bilinguismo. Spesso nel volgere un testo si sospendeva, lo comparava sintatticamente e filologicamente da una lingua all’altra, dava luogo ad una mirabolante sequenza di etimi che si inanellavano e si spiegavano reciprocamente, in una ridda di collaterali e vibranti accezioni; e le lingue classiche diventavano una sola lingua, e tuttavia il greco rimaneva la sua lingua materna. Del latino apprezzava la dominante precisione,
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dell’arabo la ricchezza di vocabolario, del greco la ricchezza d’ogni vocabolo. Muovendo da un vocabolo perveniva ad ogni altro vocabolo, e in questo cammino ci trovava i pratici fini della vita, i bisogni comunicativi, la geografia delle scoperte e delle invenzioni, e grande e trascendente il bisogno d’espressione artistica, l’afflato. Ricordo una sua giocosa memorabile lettura -dizione del Canto XI dell’Iliade: detta perché seguita ad occhi socchiusi, come sogliono i grandi direttori d’orchestra nell’interpretare le composizioni più complesse; letta perché, come i grandi direttori d’orchestra non rinunciano alla vicinanza dello spartito, lui non aveva rinunciato alla materialità del testo, a sentirlo tra le mani. L’undicesimo canto è astruso, descrive una giornata campale, una carneficina, con nomi, genealogie e cataloghi d’armi. D’ambe le parti l’eroismo, ormai traboccato, risultava irrecuperabile, trionfava l’estroversione, l’arrecamento del danno, e su di essi si costruiva la scalata della vita, la vittoria attraverso la morte. Nulla vi è di romanzesco nella scansione, quel canto ha la forza di un bollettino. Vajanella diceva col testo greco in mano, diceva metricamente nello jonico di Omero e diceva in italiano, gli occhi socchiusi come petali di boccioli, e dicendo recitava, anzi rappresentava gli accadimenti, le tenzoni, gli scontri ravvicinati fino all’intrusione ed all’interzamento delle armi da un corpo all’altro. E rappresentava senza partito, con l’emozione di uno spettatore di tremila anni prima o di tremila anni dopo, a seconda del collocare il fatto negli antichi tempi o nei nostri; tempi che mi apparvero tanto ravvicinati, da vedere nell’undicesimo canto una siciliana opera dei pupi, ed in Omero il primo tiratore di fila narrative. Munnu ‘a statu e munnu è - mi disse alla fine, motto che nel Rabatello era un “amen”. L’ultima volta che andai a trovarlo farfugliava vicino alla morte, e avendo captato la parola “Cefalù” pronunciata da un astante, ne diede l’etimo ed ebbe una sommessa, dolcissima crisi di loquacità in purissimo greco. Da lì a qualche giorno lo avrebbero portato in ospedale, assistito dalla vecchissima cognata dal volto di pasta. Era il 1967. Come un Socrate Vajanella non ha lasciato scritto nulla, alieno da ogni indifendibile vanità. Ha voluto morire del tutto com’era del tutto nato e vissuto, e in questo suo morire del tutto mi piace trovare, a ben vedere, per serena e capovolta polemica del significato, un suo eterno rivivere. Chi non sa nulla di lui, sa tuttavia che può esserci stato ad Agrigento un uomo come lui. Che ci sia stato torna a legittimazione della ipotesi o del sogno di un retaggio.
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Ammiro i templi di tufo e ancor più amo nel ricordo Vajanella di carne e di voce. Se di Hardcastle si disse ch’era un inglese perduto nella valle, di Vajanella si sarebbe potuto dire che è stato un antico valligiano akragantino ritrovato in Rabatello. Ma nel bene o nel male in favore dell’inglese ha funzionato pietosamente una memoria parte lustrativa e parte semplicemente libitinaria. Nulla di tutto ciò in favore di Vajanella, all’insegna dell’oblio e del disamore, più facile a funzionare contro gli uomini che contro le pietre. Ed è, manifestamente, un grave, lapalissiano abusivismo della memoria.
LA CITTÀ ONANISTA
Chi volesse, con animo non alieno degli interessi sociologici, intraprendere il tentativo di scrivere una storia urbanistica di GirgentiAgrigento dalla (ri)fondazione araba della città alla frana nel 1966, si scontrerebbe con l’imbattibile difficoltà della mancanza di fonti documentali e con un secolare vissuto di noncuranza liquidatoria e di silenziosa ricalcitrazione. Per l’ultimo lasso di tempo cronistorico ci soccorre in verità l’abbacinante dovizia della relazione Martuscelli, troppo vicina da poterne trarre un sereno profitto. La storia di Agrigento si basa sulle fonti storiografiche generali e su alcuni documenti ecclesiastici e del potere Regio, specie per l’età aragonese. La loro caratteristica è la specificità mentre le fonti storiografiche generali sono state lungamente rilette e vanno ancora vagliate con insistenza alla ricerca di informazioni, di notizie o di indirette illuminazioni che si riferiscano agli uomini ed agli avvenimenti locali. E’ tuttavia improbabile che resti ancora qualcosa da rinvenire, tra quei racconti e memorie della cronaca illustre generale, scritti sotto il nome di “storie” e di acconce particolarità di titoli da protagonisti e testimoni partecipi agli eventi, come fu dei vari Nicolò Speciale e Bartolomeo di Neocastro. O che rimangano altri documenti diplomatici ed ecclesiastici da specillare nel tentativo di suggerne qualche altro senso, di trarne una ulteriore favilla sopita o non scorta o qualche piccola specchiatura di valore mediato con cui reperire altri frammenti di conoscenza storica locale. Per quanto riguarda l’età più antica e cioè quella araba, Michele Amari ha rintracciato, tradotto e ponderato tutte le fonti a suo tempo disponibili presenti nelle principali biblioteche d’Europa. Nel corpus da lui raccolto e discettato si trova anche la storia di Girgenti tra l’evanescenza del potere bizantino, la conquista araba e le vicende che ne affermarono non senza intestino travaglio il dominio. La Sicilia gli deve moltissimo, così come Agrigento deve quasi tutta la propria memoria a Giuseppe Picone che nella sua opera storiografica si è avvalso dei frutti di quella stagione conoscitiva e dei risultati dell’Amari, introducendo nella nostra città un importante avviso di cri-
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tica storica che dopo di lui, in verità, è stato generalmente sottovalutato. L’idea fondativa del Picone era che per fare storiografia bisognava avere in mente un disegno storico, in certo qual modo ideale ed attuale, che era qualcosa di ben diverso da una idea direzionale della storia. Di per sé quest’idea può essere indifferente, in quanto possiamo metterla a disposizione dei tempi o farla dipendere dalle propensioni culturali degli studiosi, ma non si può rimanere indifferenti innanzi alla storia, la cui conoscenza è la nostra verità possibile. Per il Picone la tesi storiografica agrigentina era costituita dal periodo classico e dunque dalla storia grecoromana di Akragas; l’antitesi del periodo medievale e in particolare arabo, e la sintesi dalle età patriottica, risorgimentale e unitaria che ne rappresentavano l’attuazione e quindi anche l’attualità e la possibilità di cronaca. Scrisse dunque della storia di Agrigento come Francesco De Sanctis aveva scritto della storia della letteratura, con la pompa di una grande idea. Oggi, naturalmente, siamo tutti più increduli e smaliziati. * * * Chi volesse scrivere una storia urbanistica di Girgenti-Agrigento incorrerebbe dunque, dopo aver acquisito o data per scontata la conoscenza della fondamentale e solitaria opera del Picone, in un limbo. Ponendo l’esigenza lapalissiana di superare quant’è stato appreso finora e mirando ad un più scaltrito, ristretto e specialistico campo di risultati, si troverebbe a rotare intorno a se stesso ed oggettivamente intorno alla storia della città. La conoscenza storica di ciò che è stato ad Agrigento ha avuto la meglio su ciò che essa è stata nella sua biologia urbanistica, e non solo. La storia dell’andirivieni vicissitudinale ha prevaricato la storia fattuale, e l’ominazione ha avuto la meglio sull’ambientazione. Paradossalmente si potrebbe giungere a dire che la storia che ha avuto luogo nella Città, sia topicamente che per averla avuta ad oggetto, si è svolta contro di essa: sia dal punto di vista urbanistico che sociologico e fors’anche culturale. In effetti le fonti e la letteratura storiografica agrigentina concernono quasi esclusivamente (e per i tempi più vicini maniacalmente) gli interessi degli uomini, le traversie dei gruppi e delle masse (che il Picone, quando non ne approva il movimento e l’operato, definisce plebe, nell’eterno presente della famosa invettiva libertiniana), l’analisi dei poteri e la narrazione delle loro prosopopee; i contrasti tra le parti, la difesa di vecchi privilegi e la ricerca di nuovi. La Città è teatro di tutto ciò, ma quasi inesistente o ininfluente, luogo cioè dove lo svolgimento dei fatti
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non la rappresentava, non solo avendo la meglio sul ricettacolo comune ma mostrandosi come se ne potessero fare a meno. E’ possibile scrivere una storia di Palermo lungo il parallelo urbanistico, come storia di borghi, campagne intercluse, fiumi sotterrati, quartieri liberi e quartieri murati; mura, porte e corporazioni; chiese, piazze, sestieri e monumenti. Ad ogni svolgimento corrisponde un momento topo-urbanistico, edilizio, viario e monumentale perfettamente simmetrico. Anche le distruzioni, le dilapidazioni e gli ammanchi finiscono col diventare simmetrici ed esplicativi. Nell’un caso e nell’altro, la storia non è passata invano né l’ambiente si è dato solo al passaggio del suo sguardo, ma l’ha intercettato e fissato. Non è possibile fare altrettanto di Girgenti-Agrigento. Eppure la storia della Città è stata importante, ed enormi gli introiti dei suoi poteri, ad incominciare da quello ecclesiastico. Solo la famiglia chiaramontana ha lasciato un bilancio e un resoconto in opere formidabili e ammirevoli, e nel mondo delle cose prima ancora che nell’empireo dei significati politici della sua azione. Sembra che la grande storia e le risorse della Città si siano di epoca in epoca sviluppate su un misterioso inghiottitoio. Uscendo dai tempi più alti il mutismo delle fonti viene rotto qua e là sempre meno sporadicamente: prevalgono sui documenti pubblici quelli privati e civili del vecchio sterminato fondo notarile. Dai rogiti, tra testamenti e costituzioni, alienazioni ed acquisti, ricognitori e commissioni, contratti di opere e dotazioni è possibile prendere quelle notizie che tornino utili alla storia urbanistica. La raccolta di una serie di informazioni minori e particolaristiche può tramare una rete di conoscenze interdipendenti e rendere possibile l’approccio con un crescente sistema di inferenze. Così può anche accrescersi in chi vi abbia trasporto la capacità del lavoro intuitivo. Nel mare di questi documenti si può incorrere nella fortuna di trovare incartamenti prodighi di informazioni suscettibili di collegamenti e di nuove aperture conoscitive. Quando gli accade il ricercatore si trova nella felice condizione del navigatore solitario che sfrutta la virtuosa corrente in cui si è imbattuto. A differenza degli scopi la fortuna non può essere prefissa, anche se non manca chi assume di aver ricercato ciò che ha avuto l’avventura di trovare. Ma anche le scoperte fortuite riescono sommamente utili perché nel buio ogni luce illumina tutti i passi, a prescindere dalle loro direzioni. Anzi dobbiamo proprio a rinvenimenti inopinati l’apertura di nuovi interessi e campi d’indagine, cosicché i diverticoli possono rintracciare il sistema della via prin-
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cipale, e questa li alimenta e se ne avvale prima ancora di essere del tutto scoperta. Mi sembra una buona metafora. La pretesa può rimanere lontana dalle opportunità, ma con una serie di dati disponibili, diretti o indiretti, variamente racimolati e pervenuti, e fluttuanti nel vasto quadro cronologico, può cominciarsene la fondazione, parallelamente alla prosecuzione della ricerca. Può schiarirsi così la biologia storico-urbanistica della Città: dalle minori effluorescenze edilizie agli episodi di maggior momento monumentale ed artistico. Dai riempitivi volumetrici agli slargamenti desertivi per crolli e fatiscenze. Dalle caratteristiche e dominanze tipologiche dei quartieri parrocchiali alla singolarità delle isole rionali: il tutto nel marasmatico sviluppo reticolare del sortilegio viario, che a mio giudizio costituisce quanto di più originario e conducente conservi il centro storico. In una ricerca di questo genere la fantasia non dovrebbe venire bandita, purché fosse l’immaginativa della ricerca stessa, la sua inquieta perlustratrice, e non già una cattiva sirena. Attraverso l’accelerazione dei dati disponibili, infatti, con la prova d’assalto di ogni interconnessione possibile, una buona fantasia potrebbe muovere ed animare le varie ipotesi di lavoro e nel contempo riposizionarle mediante un continuo lavoro di scarto e la costante provvisione dell’indagine generale: proprio come nella formazione di un puzzle. Di sistemico ed imprescindibile dovrebbe comunque procedersi jure ingenii, per divinare le notizie e le informazioni bene al di là della loro lettera documentale, e quindi secondo la loro mobilità significativa. L’ingegno va infatti utilizzato come un’energia di lancio e di arrivo della ragione e non già come una sua forza gravitazionale né secondo le sue statiche facoltà di lettura, di comprensione e di interpretazione. In altri termini, la ragione non deve stare immobile al centro dei problemi ma, come si dice oggi con un brutto neologismo, farsene carico ed incalzarli senza posa. Abbiamo accennato al metodo, tuttavia questo tipo di ricerca, per quanto l’assecondasse, si scontrerebbe, se non di più, in due ostacoli. Il primo inerirebbe certamente all’interrogativo urbanistico “latu sensu” inteso del periodo arabo. Qui la problematica è oscura e le rispondenze sono bloccate o forse compiegate nell’ansimo e nell’ulteriore sviluppo della città, sia che ne abbia ripreso costrutti, colori, corposità e aggroppamenti (per non parlare minimalisticamente di determinate tipologie edilizie) sia che le abbia aggirate. Il come porre l’interrogativo non si discosta modalmente dall’opportuno dubbio di non porlo. Ad ogni modo ci sembra certo per evidenza che l’urbanistica
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del periodo ha lasciato indelebile disegno viario e delle planimetrie al suolo, come se l’avesse tracciato con un inchiostro tanto grasso da non lasciar rimedio ad altre bozze. Il secondo ostacolo concerne i secoli dal XV al XVIII, quando in ogni città degna di tal nome si afferma la moderna volontà di progetto. L’esigenza è pervasiva, ed è stato osservato che via via che si va avanti a forza di progettare modifica il rapporto con il fare architettura, sia in relazione ad ogni singolo episodio che nell’insieme. Il progetto infatti si sostituisce a quelle che in precedenza erano state le tipiche manifestazioni degli stili. Quanto al secondo termine del rapporto rileviamo che Girgenti, per quel che ne resta, ha avuto una notevole architettura dominata dagli stili se non addirittura, come nel lasso chiaramontano, marchiata politicamente da essi. È evidente che con la parola progetto non alludiamo al supporto cartaceo che lo presenta e lo documenta, né ad alcun passaggio amministrativo. Ci riferiamo esclusivamente alla volontà ed all’intelligenza progettuale, ed all’esistenza di queste manifestazioni. Per limitarci alla Sicilia il subingresso progettuale appare lampante a Palermo, Trapani, Siracusa etc., per non dire delle decine di città e cittadine della Sicilia orientale ricostruite a tappeto dopo il sisma di fine ‘600. Gli esempi si affollano: mi piace trasceglierne uno dei meno allegati: la costruzione delle chiese di Scicli ed in particolare la realizzazione di quel capolavoro di benessere che è la via Mormino-Penna. Il prevalere del progetto sugli stili potrebbe essere considerato per la nostra Città alla guisa di un disimpegno, o di un infingimento successorio, se non come un vero e proprio nascondimento o depistaggio urbanistico ed architettonico. Ce lo dicono le poche tracce di un costruire classico rinascimentale che qui acquista toni di illusorietà e di caducità: come un dire che l’andazzo sarebbe passato e che tuttavia era nel passaggio utile ad occultare un altro passato di cui più non si aveva memoria, quasi che al suo posto allignasse la coscienza della definitività e della fine. Ce lo dicono i meno rari elementi tardi e post-barocchi. Per alcuni edifici, che vi ubbidiscono come in uno standard di nuovi e calati ritrovati, i progetti sono esistiti: in materia la ricerca (Alessi, Capodici ed altri) ha compiuto notevoli progressi, la cui prosecuzione consentirà certamente altri recuperi e connessioni. Il problema non è quello di vedere se dietro la costruzione vi sia o non vi sia stato un progettista, circostanza indubitabile che falsifica la formulazione del quesito; il problema è quello di vedere come progettisti e costruttori abbiano visto, nel progettare qualcosa di nuovo, la Città,
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per poi rivederla secondo e con le loro opere, aggiuntive o sostitutive che siano state. Ho sempre avuto il sospetto che la settecentesca rinascente agrigentina, con costruzioni e rifacimenti di chiese, abbia ubbidito ad un lavoro di messinscena mediante il cambiamento di alcune scene, ed attraverso, diciamo così, la riduzione o la volgarizzazione del preesistente, sia che fosse immaginario sia che, nel momento demolitorioricostruttivo, se ne avesse ultima e forse sfuggente contezza. Non è dimostrato, ne può essere in ogni caso dimostrato, che ciò che avveniva altrove sul piano generale della cultura urbanistica e storico-artistica, avvenisse anche qui. Sarebbe una dismisura leggere e tentare comprendere Girgenti come se non fosse Girgenti, facendo cioè ricorso a modalità storiografiche non eccezionali proprio dinanzi al dubbio di una eccezione socio-economica e culturale. Dalla cacciata degli ebrei la Città non s’era più ripigliata; essa, non raggiunta dal disastroso sisma secentesco, era stata interessata da uno smottamento lento, continuo di capacità, d’arti, di commerci, di cultura. Naturalmente c’è ancora chi si ostina a perorare l’immiserimento urbanistico ed edilizio di Girgenti come conseguenza di peste e moria, ancorché rifacendosi a fonti e documenti che lo consentono, ma senza sviscerarne la falsità ideologica né l’originario ufficio dell’auto-abbindolamento (pietoso o, a seconda dei casi, patriottico). Ci fu addirittura un tempo in cui l’intelligenza agrigentina era rappresentata da elementi venuti da fuori. La “famosa triade letteraria cinquecentesca” della Città era formata da uno spagnolo, da un netino e da un alcamese. E così via. Peste e moria nascondono una crisi profonda che ebbe altre origini di intolleranza e di snaturamento della composizione demografica locale. Forse matura in quell’epoca la sordida rabbia dei naturali indigenti, ignoranti e pitocchi nei confronti di Gerlando di Besançon, responsabile come santo patrono di Girgenti di proteggere i forestieri. La popolazione indigena, immiserita, stupita e brancolante, non aveva saputo trovare altra spiegazione per spiegarsi il regresso. * * * Riandiamo alla conquista araba, quando Girgenti succede con nome guasto e derivato ad Akragas greco-bizantina in un suo lembo d’altura rupestre e defilato: l’ombra dell’antica metropoli deserta definitivamente la plaga pianigiana, lasciandola alla riconquista della campagna. Gli arabi hanno un notevole spirito di adattamento ed accre-
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ditano il settore dell’acropoli di un tardo insediamento bizantino, quello del Balatizzo. È tutta qui la prima Girgenti, già col suo Rabato, ed è quello che intendiamo per rifondazione della città, al di là di ogni sottilizzante discussione filologica. Mancano dati e reperti, e non troviamo parimenti motivi per non credere che la città berbera sia stato un vero e proprio attendamento di murature, agglomerate e rese urgenti dal successo agricolo e commerciale del nuovo centro. Fa un torto alla storia urbanistica di Girgenti semitica chi, per obbligo e meccanica trasposizione di letture sull’arabismo in generale e in dipendenza dei suoi valori acronicamente considerati, la raffigura e l’impone all’altrui comprensione alla stregua e con le caratteristiche delle grandi metropoli arabe fiorite in tempi diversi nel Medio Oriente, in Spagna e - perché no - in Sicilia con la panormita reviviscenza della fenicia Al-Aziz. Ma Palermo fa caso a sé, essendo divenuta la più bella città dei mortali del proprio tempo, tanto da far classe con le più grandi e sontuose città dell’ecumene semitico, anche se ne rimane inferiore per cultura (che però ebbe, per una spiegabilissima ragione, forte ripresa in periodo normanno, talché se ne è fatto un periodo arabo-normanno). Ma l’esempio del modello palermitano non può essere pedissequamente rilevato ed imposto alle vicende culturali e costruttive di ogni altra città fondata o ristorata dagli arabi nell’isola. Si è nel ridicolo storico quando, per supponenza derivata da “lecturae” infiammatorie, o da fretta irriflessiva e copistica, o da una erudizione priva di saggezza, di senso della critica storica e di ogni misura dubitativa, si relaziona per allegato circa l’esistenza in Girgenti di grandi cupole e monumenti maiolicati, di bagni pubblici fantastici, di lustri ceramici rispecchiati da un edificio all’altro, e via dicendo. Le Città ebbe certamente la sua buona, decorosa moschea, di cui fino alla metà dell’800 si era conservato il toponimo. Ebbe una edilizia sopraelevata ed assiepata, con fondaci e catodi terreni, come si osserva ancora nelle città berbere collinari per un intenso sfruttamento delle aree e per un bisogno intensamente mediterraneo di impelagamento umano e di promiscua materiale socialità. Non mancò di locali pubblici per i bagni, grazie alle prescrizioni sanitarie del culto coranico, ma non certamente del tipo immaginato avventatamente da qualcuno, e cioè ricchi e fulgenti. Con la moschea ebbe chiaramente chiese e luoghi di culto per le tre altre ubbidienze religiose che, accanto alla parte musulmana, formavano la popolazione. Non poté mancarvi una rabbica o pubblico
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magazzino collettore per l’ammasso obbligatorio di un certo quantitativo di cereali. Essa costituiva l’istituzione regolamentativa del mercato del grano, fiorentissimo nella Girgenti semitica come lo era stato nelle Città greca e come lo sarebbe stato per molti secoli. La rabbica custodiva le riserve o scorte alimentari tesaurizzate dalla città per far sì che commerci ed esportazioni, movimentate dal lucro dei privati, non giungessero a debilitare i consumi interni ne ad affamare la popolazione in caso di carestia. L’impianto viario di cui la Città fruisce ancora è di tratto arabo, pur inglobando le piste e i diverticoli greci che avevano collegato Akragas al borgo dell’acrocoro. Non vedi regola, non trovi geometria, ma una grafica che si fa percorrere come lungo una incisa descrizione deambulatoria; con i suoi tratti mistilinei, virgolati di corti e cortili semipubblici e semiprivati; con i suoi collegamenti ad ansa o a triangolo; con i suoi scarti a nicchio, i suoi diradamenti, le chiazze. A percorrere questa rete non vi è nulla di ossessivo, se non l’orografica fatica del saliscendi: nulla di convulso, di assillante o di ottenebrato, com’ha voluto vedervi chi ne ha fatto l’esatto contrario di una pianta solare ed ippodamea. Se c’è marasma, è della fantasia: o meglio, di una diversa razionalità dell’uomo in contesa con la fantasia del colle, con le sue repentine perdite di livello o le avverse montate. Strada diventava ciò che non era edificato, e in strade si trasformavano i letti di ruscelli di ronda. Fotografata dall’aereo questa maglia appare simile al viluppo di un convolvolo o ai capillari di una foglia vista attraverso il sole. Rappresenta indubbiamente il più antico lascito medievale ed il fomite della ineffabile caratterizzazione della Città, tale da incidere profondamente sulla sua urbanistica. Pur essendo medievale, tuttavia, questo tessuto, uscito di sfilatura tra siepi e siepi edilizie per lo più miti, inosservabili, povere e pur tuttavia attente, non ha né marchio né attributo della viabilità del medioevo continentale, contrassegnata da viuzze schive, censurate e fuggitive sulle quali, per quanto siano a schiera, le case sembrano appiombarsi in decubito laterale o rigare processionalmente. Nell’organismo viario di Girgenti manca invece ogni devozione alla città, che non viene mai intesa come data e scontata, ma come formata in itinere, col procedere delle strade e l’assieparsi delle case, mutualmente incuriosita e in lento, reciproco trattenimento. Certo un’analisi più approfondita ma da evitare in questa sede potrebbe individuare senza acribia alcune tra le più salienti tipologie viarie arabe: le strade principali o shari, i vicoli senza sbocco o aziqqa,
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le corti o ribah, le strade a passo obbligato, sbarrabili e controllabili, o darb: che agrigentinamente venivano denominate “passaturiddi”. Schemi e nomenclatura vanno tuttavia individuati con grande giudizio, perché Girgenti fu città berbera e non puramente araba, ed i caratteri mediterranei, anche pregressi, hanno la meglio su quelli interni nel medio oriente; ed i berberi arabizzati avevano conservato molto del loro carattere inventivo e asistematico, com’erano portati a provvedere estemporaneamente secondo necessità e forti richiami atavici, piuttosto che a preventivarsi come operatori e progettisti. Per questo non possiamo trovare a Girgenti quello che non ha avuto: una urbanistica classicamente araba, con moschee, piazze, bagni, luoghi pubblici, borghi residenziali, edifici o quartieri fortificati preposti alla custodia dei poteri, orientali e disposti secondo i canoni prestabiliti, com’è stato di Palermo. La citazione vale naturalmente ad escludere che sia stato così. Se nell’immaginario il richiamo della città della Conca d’oro può richiamare “pro tempore” certe atmosfere urbanistiche e descrittive da “mille e una notte”, Girgenti non può postulare qualcosa del genere né una ideazione che vada oltre l’entusiastica ma contenuta relazione di Ibn Idrisi che non va molto al di là di un’esaltazione di geografia economica. La definizione già data di attendamento di case costruite in seguito ad un accorrere di genti capaci e in grado di lavorare e di risollevare la Città dall’emarginazione geografica e dalla depressione demografica ed economica, seppure col condimento dell’antico glorioso passato, ci sembra quindi perfettamente sostenibile. Onde se noi pensiamo all’edilizia urbana di quella Girgenti, non possiamo considerarla fiorente per getto e sviluppo interno, ma di deboli strutture, senza la sfida del bello e dell’eterno, senza grandi agonismi d’arte e di eloquio architettonico; ed in sostanza di non più che pratica destinazione, senza la pretesa di sfidare i tempi né di glorificare le idee; e parca, forse apastellata e polverosa l’aspetto; ma con tutto ciò, vivace ed operosa. Discorso a parte merita la questione delle mura urbiche, non essendosi ancora stabilito, né in forza di prove che mancano né sulla base di un ragionamento insuperabile, se la Città semitica ne abbia o non ne abbia avute: se cioè fu o non fu una città murata, forte e conchiusa. Ancora una volta la sede rifiuta l’approfondimento, ma ci rifiutiamo di credere che i nuovi conquistatori rifondatori di Girgenti non abbiano utilizzato o non abbiano tenuto presenti nel presciegliere il sito e nello scorrere, con la vista i passi, il territorio, le mura naturali
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che fasciavano il colle, al punto di non utilizzarle in quanto tali, pur con qualche opera di adattamento, prolungamento e sutura. Il luogo dove venne rifondata e popolata la Città sembra chiaramente tenerne conto, e può essere una prova “a posteriori”. Non è peraltro d’escludere che il borgo greco, munito di un tempio di cui si conservano i resti e di un secondo ipoteticamente dissoluto con la fabbrica della cattedrale, si sia lasciato configurare e difendere dalle stesse mura naturali, né che non possano essere state collegate e rinforzate con opere dell’uomo. Siamo anzi dell’avviso che proprio sul colle dove sarebbe sorta Girgenti ha avuto luogo il rafforzamento di Falaride in preparazione del suo fortunato colpo di stato. Non per caso tre porte delle mura medievali di Girgenti conservano nomi arabi; non per caso si trovano tutte e tre nella Terra Vecchia, e cioè nell’areale urbico primariamente arabo; non per caso le altre porte, aperte nella zona del posteriore sviluppo urbanistico ed edilizio, non ci consegnano alcun altro toponimo di lingua o di riferimento semitico. Peraltro i tratti superstiti delle mura non presentano un uguale carattere di tecnica edificatoria, ed il tratterello a salire da porta di Mare verso porta Mazara, oggi confuso da altre fabbriche, da altri muri e racconci, al punto di non essere degnato di distinzione (così come i dubbi ma possibili brandelli rinvenibili nel luogo di tra l’ex porta Biberria e la demolita chiesa di Sant’Onofrio), hanno caratteri assai più antichi degli altri. Anche la malta utilizzata ha un aspetto diverso dal legante utilizzato altrove. D’altronde non ci sarebbe stato il borgo o rabato se la Città non fosse stata ben circoscritta. Ed è invero l’esistenza del borgo a fornire l’argomento decisivo, perché questo nome non può in alcun modo indicare il nome proprio di un quartiere ma quello comune di un agglomerato espanso fuori porta, a minor o maggiore distanza delle mura e lungo una importante via esterna: che nel nostro caso, era quella del mare. In via di massima gli arabi non ebbero a tutta prima l’esigenza di fortificare le loro città siciliane, dato che il Mediterraneo era un loro mare e il canale di Sicilia o mar d’Africa un loro fiume, sia per il possesso di oltre la metà delle coste che vi si affacciavano nonché per la loro assoluta superiorità navale e piratesca. Agli emiri e ai maggiorenti bastava disporre di imprendibili fortilizi urbani, atti tanto alla difesa dall’esterno che al controllo dell’ordine interno. Pure, sin dalle prime razzie degli Altavilla, la necessità di proteg-
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gere i principali centri abitati dev’essere stata presa con improvvisa urgenza. La tettonica aveva munito di giacenti importanti argini naturali: era sufficiente perfezionarli. Ciò può essere avvenuto dopo la prima scorreria che mette a soqquadro la terra di Girgenti, emungendone notevoli ricchezze. E’ una prova delle future operazioni e dell’ancora lontana conquista, ma già i normanni si pongono come i nuovi arabi nel Nord. Con i normanni l’esigenza di murare le città si porrà sin dalle loro prime stabili conquiste territoriali. Era infatti realisticamente supponibile che gli arabi potessero dall’esterno ricondursi in Sicilia e liberarla, col riappropriarsene, dalla liberazione normanna. E dunque ipotizzabile che le prime mura arabe siano state rinforzate dai normanni. Non sembra che in questo periodo, e cioè subito dopo la sconfitta dei musulmani e per più di un secolo, ci sia stato in Città un gran fervore di opere edilizie, monumentali e stradali, se si prescinde dalla erezione della cattedrale fortificata. Essa tuttavia, nonostante la persistente difficoltà di lettura delle sue vicende costruttive, non sembra sia stata particolarmente vasta e commensurabile con quanto vediamo oggi. Non sorse, in particolare, un castello, perché l’episcopio con la concatenata cattedrale ospitava il nuovo potere ed era, come si è detto, fortificato. Il castello arabo e d’ipotetica costruzione bizantina rimane senza un rifacimento d’epoca, forse come sede di guarnigione e di funzionari, assoggettato ad un regresso di fabbrica e di autorità, specie dopo l’erezione dello Steri e l’affermazione del potentato chiaramomtano. L’assenza di murature normanne ci induce a ritenere che il cambio di guardia del potere non richiese altro che una redistribuzione dell’esistente e un riaccomodamento o un riequilibrio tra le parti, fondato tanto sulla politica missionaria del vescovo Gerlando che su un relativo imboscamento rurale di una parte della popolazione semitica che, perdendo la città, passava probabilmente a controllarne le campagne; e questo poté essere un modus vivendi. In periodo svevo si nota un certo risveglio, com’è dimostrato dalla costruzione della magione prefogliana, sorta fortificata e in stile eccelso, secondo i notevoli resti che sopravanzano il monastero chiaramontano di Santo Spirito in cui venne inglobato. Ma è in periodo chiaramontano che la Città diventa, per così dire, tutta una fabbrica, sia per l’erezione di edifici nuovi - chiese, colossali monasteri, un ospitale - che dello Steri, e di palazzi ospizi dei diversi
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membri della potente famiglia agrigentina. Ospizi erano le grandi magioni munite di locali di rappresentanza e di grandi foresterie, atti ad ingaggiar clienti, a trattenere ospiti, ad assolvere compiti di intrattenimento e di adescamento politico. A scorrere i tramandati testamenti di alcuni dei Chiaramonte non ci si può non chiedere dove e come mai tali costruzioni siano finite e scomparse. Domanda in certo senso retorica, come tutte quelle poste dagli uomini o dai popoli quando si stupiscono di se stessi. Essa viene posta anche a Palermo in relazione ai tanti e grandi edifici arabi che dotavano quella città. Ma da una conquista all’altra la produzione edilizia ed architettonica dei vinti viene quasi del tutto e improvvisamente fagocitata dai vincitori, specie quando tra questi quelli corrono solco religioso e la nuova autocrazia camuffa l’interesse in missione, quasi in permuta dei rischi delle pregresse paure, atteggiandosi a teocrazia del proprio universo geopolitico. Per inciso, quando e dove gli è occorso gli arabi non sono stati di meno dei loro vincitori normanni. La distruzione costituisce in questi casi un pasto sacro, un atto apotropaico della storia, prima ancora che un fatto ricognitorio di azzeramento politico, e questo perché le architetture connesse all’edilizia dominano ogni altra rappresentatività artistica e culturale e vanno cassate il più che sia possibile. Sembra che i semiti abbiano da sempre avuto, rispetto ad ogni altro popolo, una più universale, fatalistica e dolente convinzione dell’ineludibilità di questo fatto, vissuto come una gloria della sconfitta e quindi come presupposto di ogni nuovo tentativo di apoteosi successiva. Cosicché Naghib Mhafuz ha potuto superare nel senso della dimora i significati dell’edificio, della costruzione e dell’opera architettonica, considerandola alla maniera di una “torre stabile nel tempo, nella quale trovano rifugio le colombe dei ricordi”, in una dimensione immersa nell’eterno passato. E quando queste colombe son finite, nella metafora siciliana, ghermite dal falcone normanno, il grande Ibn Hamdiss le canta libere nella nostalgia del ricordo, sapendole tuttavia non redimibili dall’accaduto e dall’eterno passato: cioè, forse, dall’eterno futuro. Tutto ciò che non si trova dell’architettura araba di Palermo è certamente opera distruttiva dei normanni, nei primi anni e forse nei primi mesi della conquista. E tuttavia i normanni si rifecero arabi essi stessi, quando ne rivalutarono ben tosto e istituzioni di governo e forme di vita e modelli d’arte, formando un affascinante civiltà e ponendo le basi di un regno
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antesignano. La civiltà araba di Sicilia era così servita a riconquistare i normanni e ad introdursi, anche per questa via, in Europa. Il prezzo pasteggiato e pagato ha compreso la distruzione di quei monumenti, e il risarcimento è costituito da altre opere d’arte di fortissimo richiamo, dette, ad onore di vinti e vincitori, arabo-normanne. Ciò che degli arabi è direttamente rimasto nei siciliani non ha richiesto né pontili né passaggi, ma un assorbimento reciprocamente tollerante durato due secoli, ed al quale è arriso il successo derivante dai frutti quotidiani di una utilità multietnica e multireligiosa. Per il loro pacifico benessere i siciliani di allora, ivi compresi gli arabi e gli ebrei di Sicilia, furono superiori alle loro lingue d’origine e alle loro religioni materne; ed in questo realizzarono la loro sicilianità. Quando si parla di tolleranza si fà fatica a non frapporre tranelli ieratici e giuridici, ed altrettanto a non sentircene irretiti. Si dimentica che la tolleranza di allora fu un calcolo pacifico, maturato e normalizzato per via dei vantaggi che offriva e per l’assenza di controindicazioni. Per questo diventa un fatto di civiltà e quindi un fattore di vita, mentre n’era stato una condizione originaria ed implicita. Diciamo dunque che quella fu una tolleranza implicita e assolutamente non teologica. Dagli arabi sono rimasti ai siciliani notevoli trasporti e parziali atteggiamenti; determinate capacità manuali ed artistiche; una certa febbrile economia dello spirito che ricorre alla flemma o al ribellismo per equilibrare la propria resistenza; una pazienza che inganna la rassegnazione e fomenta le attese; e sono naturalmente rimasti molti modi del sentire e dell’intendere, un antico patrimonio di tecniche materiali e di concezioni formali: ed un formidabile opportunismo verso la storia, spesso predatorio o d’incetta, altre volte attendente e trasognato. Il lascito principale concerne il campo linguistico ed in particolare toponomastico, forse perché il linguaggio non consta di relazioni logiche ma di forme di vita che si depositano nella storia. Innanzi a tutto ciò abbiamo ereditato pochissimi, contati edifici prettamente arabi, e ad Agrigento nessuno. Ma la Sicilia araba, che per esser rimasta il giardino e colombaia di sogni, per gli isolani è rimasta realtà che non può fare a meno di ricorrere a se stessa anche quando vuole non ammettersi se non propriamente smentirsi. Tuttavia l’interrogativo più interessante sulla carenza residuale di opere architettoniche ed edilizie medievali, del medioevo post arabo agrigentino, afferisce agli edifici che c’erano, che non ci sono più e
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che hanno dato lustro ed ospitalità ad una serie di casate e famiglie: oltre ai suddetti Chiaramonte, razza dinastica che ha un posto a sé, i Latronico, i Calia, i Doria, i Bonaparte ecc. ecc. Dei Montaperto conosciamo il sito del loro splendido ospizio, trovato solo alla fine dell’800, senza che la città denotasse alcuna capacità di rimpianto, così come non ne aveva avuto di rimedio. Similmente conosciamo i siti dei palazzi De Marinis e Pujades, di cui rimangono le strutture. Ma i conti non tornano lo stesso: mancano almeno, tra sedi nobiliari ed ospizi chiramontani, una ventina di grandi costruzioni di cui s’ignora tutto. Sembra incredibile che la piccola Girgenti abbia potuto ospitare tanto potere e tanti interessi, e questa imprevedibilità rende credibile quello che non c’è, come se non ci fosse stato mai. Sotto questo punto di vista abbiamo una situazione perfettamente rovesciata rispetto a Palermo, dove la ricerca ha tenuto viva la memoria e questa ha atteso i frutti di quella e l’ha incoraggiata: ma resti copiosi, in parte perfettamente integri e godibili, in parte soltanto leggibili o individuabili, hanno fornito ad entrambe una notevole propulsione. D’altra parte, la ricerca e le cure agrigentine sono centralizzate sulle emergenze di età classica; quelle palermitane, sulle emergenze medievali e moderne. Chi insistesse dunque nel tentativo di delineare una storia urbanistica della nostra Città, dovrebbe non soltanto attenersi ai criteri metodologici e alle poche vie d’uscita indicate, ma all’ingegnosità ed alla libertà di una ricerca aperta a 360 gradi. Potrà così ipotizzarsi che uno dei grandi ospizi chiaramontani sia sorto non lungi della chiesa con convento di San Francesco d’Assisi, tra l’attuale chiesa, da una parte, e la dirittura della strada principale, odierna via Atenea, dall’altra; ed esattamente nell’attuale slargo del cortile Noto-Biondi accessibile da via Pirandello. Un pilastro con un bel capitello medievale ci parla ancora di una preesistenza architettonica ed edilizia di grande momento insediata nel luogo. La prima parte del toponimo viario (Biondi) ricorda la famiglia che acquistò dalla famiglia Sala il palazzo omonimo, in seguito parzialmente richiamato col nome degli ultimi proprietari: Costa. La seconda parte del toponimo (Noto) ricorda il subentrare more uxorio dell’ultima proprietà, già appartenuta all’avvocato Michele Biondi, figlio dell’acquirente Antonio. Costui può essere ancora indicato alla pubblica disapprovazione in quanto non ricostruì il bel portale catalano del grande palazzo, per il resto qua e là ricostruito, rimodellato e barocchizzato con l’aggetto di balconata d’epoca, dopo
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lo smontaggio che ne era stato fatto a seguito dei lavori di livellamento della piazza. Inadempienza tanto più grave se si pensa che il comune gli aveva corrisposto una somma relativa alla spesa che avrebbe dovuto sostenere, e lo aveva per di più agevolato immettendolo nella proprietà di alcuni bassi ottenuti grazie alla rifondazione della costruzione e all’abbassamento della sede stradale. Il livellamento ed il raddrizzamento della strada principale della Città favorì apertamente i proprietari degli edifici che vi si affacciavano oltre agli appaltatori delle opere, controllati dal potente Ignazio Genuardi. Fu l’affare del secolo, antesignano dei fenomeni affaristici dell’abusivismo che, un secolo dopo, avrebbe rifavorito certi strati molto abbienti della borghesia elettorale e certe frange molto conducenti e ramificate della piccola borghesia e del sottoproletariato elettoralistico della Città. Almeno in questo c’è stata democrazia: nell’allargamento delle basi di godimento dell’illegalità e nel recupero di più diffusi e numerosi ritorni di piccoli e grandi vantaggi e ristori. Nell’800 il beneplacito era invece andato al ristretto numero dei borghesi abbienti ed elettori, quando il gran numero dei cittadini senza diritto al voto non veniva né richiesto né fraternizzato da politici ed amministratori, ed era tagliato fuori da ogni trattativa di favoritismi, restando nella propria disappartenenza giocoforza candida, ingenua e socialmente sottomessa. Oggi, nell’andare indietro, si sono fatti notevoli passi in avanti. E’ dunque perfettamente ipotizzabile che un ospizio chiaramontano, a metà strada tra Santo Spirito e San Francesco, sia sorto nel luogo, e che il complesso sia stato successivamente “catalanizzato” con l’apposizione di figurazioni di quel gotico arabizzante, rampante e fiorito, e l’elevazione di un dovizioso portale che ha fatto la fine, cent’anni prima, dei paramenti architettonici della chiesa di Santa Rosalia (i chierici del ‘900 hanno ben valso gli anticlericali dell’800). La fantasia potrebbe portarci a dire che nel luogo sorse il nuovo ospizio di Isabella Chiaramonte, congiunto all’altro, il vecchio e certamente avito (forse sede di Giovanni il Vecchio) con una torre. Ma bisogna frenare la fantasia, anche se resta da vedere, con altra fantasia o altri mezzi, dove sia sorto il terzo palazzo di Isabella, che stava ubicato presso l’ospizio della sorella Beatrice: per ogni ipotesi prospettata si moltiplicano gli interrogativi. Per limitarci ad Isabella sarebbe da vedere come potè sorgere l’ospedale di Santa Croce, sua altra grande impresa. Naturalmente incorriamo nell’ipotesi che venne costruito in uno con la Chiesa chiaramontana dello stesso titolo, che
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quindi passerebbe per essere stata la cappella della struttura, prima di avviarsi all’altro destino sanitario. Infine sul luogo, o proprio per la ricostruzione della vecchia struttura, sarebbe sorto il nuovo ospedale della città: quello dismesso di Porta di Ponte. Come mute di cani, sensi e fantasia possono battere la città. Di fronte alla discesa Bianchini un vecchio alto muro scrostato mostra numerosissime bozze di pietre di tenero e bianco calcare, delle cave d’Ispica o di Modica, di quel calcare che nel medioevo si introduceva per creare archi, ghiere, colonnine, capitelli e portali chiaramontani. Queste bozze potrebbero essere il segno della preesistenza in loco di un edificio di quell’epoca, crollato o demolito con riutilizzazione alla rinfusa o come da cava aperta del materiale smontato o precipitato. Qualcosa del genere, ma in campo maggiore, si osserva nel muro destro del vicolo teatro: ma qui si tratta delle bozze e dei prezzi delle sculture architettoniche provenienti dal crollato ed ivi stante palazzo dei Montaperto, ed utilizzate nell’erigere il nuovo insignificante edificio ottocentesco. Snidano l’occhio alcune filiere della stessa tenera e candida pietra, utilizzate nella costruzione d’appoggio posteriore del campanile di San Domenico, e che sembrano addirittura al loro posto d’origine e facenti parte di una più antica costruzione: l’antico palazzo dei Tomasi o un più antico ospizio? Si sa che la costruzione del Teatro Regina Margherita, infelicemente ubicato, richiese la demolizione di una viuzza medievale che si era conservata perfettamente integra; e certamente l’edificazione del nuovo convento di San Domenico, oggi palazzo di città, richiese ben più seri sacrifici urbanistici e tagli dell’antico. E che dire della casa del Trentatré che si ergeva, lugubre e fatiscente, nel bel mezzo dell’odierna piazza Pirandello? Era un ricovero per donne miserabili: un ospizio libero, quasi un antico centro sociale, ove le indigenti sole, le donne vecchie ed ammalate, si ritiravano a vivere, a dormire, a morire, uscendo ed entrando a loro libito, senza che vi fosse alcuna cura di custodia e di amministrazione. Negli antri formati dagli archivolti e dalle crociere la misera e raccoglitizza turba trascinava la vita, preparandosi i pasti nelle rudimentali fornacelle approntate presso i giacigli, simili a quelle realizzate dalla mano pubblica nel piano di Lena (detta anche, per questo, piano delle Fornacelle) per dar modo agli ospiti di Girgenti, venuti per affari e mercature, di cucinarsi risparmiando sulle spese di bettola; il luogo era tutto
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un albergo, sia nei vicini fondaci che all’addiaccio, dominato dai suffumigi, dai miasmi e dagli odori. La casa del trentatré era l’equivalente in chiave riposta e femminile. Dopo il 1860 essa appartenne alla Provincia, che se ne disfece cedendo l’area al Comune, perché, demolendo le strutture fatiscenti e annerite, vi realizzasse una pubblica piazza. In cambio la Provincia otteneva l’area dell’ex convento degli agostiniani, ove ai primi del ‘900 venne realizzato l’edificio del museo civico. È indubbio che il Trentatré era stata una grande struttura medievale di cui non conosciamo, se non per l’esistenza di archivolti e crociere, né le caratteristiche ne la dignità architettonica. Troviamo ovunque in Città, e particolarmente a sud della cattedrale, in via Raccomandata ed adiacenze, ad ovest e a mezzogiorno di piazza Pirandello, ed a valle di gran parte della via Atenea, magazzini perlopiù abbandonati ed impressionantemente ampi, dotati perlopiù di archi a sesto intero o acuto, che ci parlano di un passato sepolto, soverchiato ed assoggettato dagli inerpicamenti di un continuo e riadattante nuovo. Anche la costruzione contigua al palazzo De Marines-Torricelli in piano Barone, già appartenuta alla famiglia Mirotta e divisa dal palazzo da un giardino scomparso ed edificato, sembra provvista nelle parti basse e parzialmente ipogeiche di possenti ed antiche strutture non giustificate dalla sopraelevazione settecentesca, che certamente non richiedeva quell’ampio e profondo basamento. Il relitto del giardino, a valle di via Saponara, presenta ancor oggi un sistema di grotte artificiali che si prolungano fin dentro la costruzione. Piano Barone e zone adiacenti, comprese la via Orfane e Santa Sofia, costituiscono il centro del centro storico. Per quello che ho potuto ricostruire attraverso concordi testimonianze, anche il palazzo Contarini che vi si trovava, lasciava trasparire al di sotto del nuovo (che però, rispettabilmente, rimontava al secolo XVIII) un più vecchio possente corpo di fabbrica, specie all’interno dell’atrio con giardino di corte, ed al livello dei grandi magazzini. Questo palazzo è stato demolito ed occupato dalla costruzione novecentesca delle figlie di Sant’Anna. Del palazzo Gamez, in piano Barone, rimangono le possenti strutture, l’antica rosta e qualche altro particolare: il paramento catalano del portale è stato distrutto nella seconda metà del 900; rimangono le fotografie. Dell’altro palazzo Gamez, nel piano omonimo, denominato De Luca dal più recente proprietario, e rivestito di un serioso prospetto
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scolasticamente neogotico, si può dir questo: che a seguito dal crollo di parte degli intonaci sono venuti alla luce le strutture di alcune bifore nelle cui luci erano stati aperti gli ottocenteschi balconi a galleria. Queste grandi e significative testimonianze architettoniche sono venute meno, a seguito del riempimento delle scrostature con malta di cemento che ha viepiù ferito il prospetto. Nell’ala occidentale del palazzo è stata scoperta all’interno di un appartamento isolato una grande crocifissione parietale, affrescata con i modi di Cecco di Naro. Nell’ala era certamente ubicata la cappella di un grande ospizio medievale. L’opera è stata demolita unitamente alla parete, per dar posto ad un moderno salone, ma l’impresa ha visto la contrapposizione, all’interno della coppia dei proprietari, tra il marito che aveva deciso di tagliar corto e la moglie che intendeva ristrutturare diversamente l’appartamento allo scopo di conservare l’opera. Ebbe la meglio l’uomo, ma la donna non fu da meno: e se ne separò. Nella ristretta cerchia familiare a conoscenza degli avvenimenti, sebbene fosse costituita da soggetti perfettamente alfabetizzati, diplomati e laureati, il giudizio prevalente ha arieggiato una tabuizzante superstizione: la separazione della coppia in conseguenza del peccato iconoclastico. Cristo si sarebbe difeso da sé, senza tuttavia tutelare la propria antica ed artistica riproduzione, perché giudizio e pena hanno sempre luogo dopo i fatti che li cagionano. Non c’è, neanche divinamente, giustizia preventiva. Non ho mai sentito venire dal gruppo dei discettanti una sola parola di riprovazione o di dolore intellettuale per la perdita oggettiva di quell’importante emergenza storico-artistica; non ho sentito puntare il dito contro la brutalità, l’insensibilità e l’ignoranza del distruttore. Il fatto è stato perfettamente compreso e sigillato in una sfera teologico-superstiziosa. Ma Dio solo sa quanta paura di libertà, quanta convenzione sociale e meschino contentamento vi sia nel veder così le vicende e farsene una ragione. Se dietro il suicidio ottocentesco di Lucchesi-Palli si vide l’ombra vindice di Sant’Anna, e se ai giorni nostri si è tentato di arrecare la figura di Padre Pio per distogliere o ammagare alcune esecuzioni legali, nel fatto della coppia di giovani sposi scongiunta per la distruzione di un documento d’arte medievale si è voluto vedere un diretto intervento cristologico. Or si dice che per abbonire la sposa furente a far pace la suocera abbia fatto ed eseguito il voto di una notabile of-
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ferta in denaro al crocifisso per antonomasia, quello della cattedrale, in occasione della festa del venerdì santo. * * * L’elenco dei resti e delle tracce dirette o indirette, più o meno visibili, della grande storia medievale di Girgenti, sarebbe assai lungo a farsi, e non privo qua e là di qualche entusiasmante e monumentale dubbio, come nel chiederci che cosa sia stato in verità lo slargo dietro il cosiddetto Arco di Calafato; o che cosa nascondono le strutture sulle quali s’addossa in via Garibaldi il portale del Gaggini, che sembra addossato a preesistenze ed a sua volta stretto da successivi interventi edilizi fatti senza pensiero. Una tale ricognizione affonderebbe certamente nell’urbanistica medievale di Agrigento, in quella Pompei-Girgenti sulla quale si è elevata la Città moderna, dall’apparente morfologia e canzonatura non meno falsamente antica di quella, non senza dire che a trasformare in Pompei la Girgenti di prima è stata proprio la Girgenti di poi, in una continua eruzione destruente e ricostruttrice, fatta di velature e strappi, di schiacciamenti e sempre meno massimalistiche erezioni, bambagia su bambagia, pietra su pietra. L’antico è stato molito senza sosta, infaticabilmente, senza fermarsi innanzi alle opere d’arte, che anzi poterono costituire un ostacolo corroborante sfrenatore, da discacciare prima degli altri meno inclini ai pericoli della riflessione. Più la città saliva nel tempo, più scendeva con il peso di macerie ricostruite nel proprio passato: a condizione di renderlo, arrampicandovisi, irriconoscibile. Dietro ed a causa di questo vi sono state naturalmente cause di crisi sociali ed economiche, decrementi demografici, pesti e morie, ma innanzitutto vi sono state due o tre cause fondamentali e di caduta verticale: il crollo chiaramontano e diciamo così la fine di un tentativo di politica dalle caratteristiche gravitazionali, centromeridionali e interzative che voleva mediare gli opposti a proprio vantaggio (e in un quadro più ampio, a vantaggio autonomistico dell’isola); la cacciata degli ebrei, ai quali non venne data la possibilità numerosamente praticata altrove (ad esempio Trapani e Marsala) di preste ed opportunistiche conversioni, sottoponendoli ad alcuni patronati cristiani ed inserendoli in forti clientele dei potentati economici, di scampare dallo spoglio e dalla reiezione. Questo espediente, che chiameremo giovanneo, in quanto ampiamente praticato e con ben più alto spirito da Angelo Roncalli nella Bulgaria della seconda guerra mondiale, ha consentito altrove di conservare in parte le ca-
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pacità produttive e intellettuali della popolazione semitica già sicilianizzata da un millennio. A Girgenti la schiacciatura è stata totale, e fatta con uno spirito irresponsabilmente gaudioso: tant’è che l’indiscutibile sicurezza della prova linguistica dimostra l’assenza in Città delle tipiche ricognominazioni assunte nell’Isola da marrani. La terza grande causa (diciamo così, omogeneizzante) è costituita dal tipo di egemonismo feudale invalso nella terra di Girgenti con l’inanellamento fondiario-ecclesiastico. Dal punto di vista storico il fenomeno diventa un “unicum”, e la città defluisce in se stessa, si fa comoda ed ermetica, acquista temporalismo atemporale, e si darà agli studi cauti, con un popolo dedito alle dicerie scrutatrici e appaganti. E questo non è qualcosa di meno né di diverso di ciò che va accadendo alla sua urbanistica. Gli episodi di maggiore ricostruzione sono, come abbiamo visto, settecenteschi, e per quanto oggi l’aspetto della Città non possa fare a meno di essi, su di alcuni non si può non avanzare riserva, ed in particolare sulla ricostruzione delle chiese di San Pietro e di San Francesco di Assisi. Quest’ultima viene riproposta in un ambiente architettonico chiaramontano che grondava certamente, stante i resti che se ne conservano, arte e vocabolario di bellezza. Il nuovo prodotto consta ora di un’aula smisuratamente lunga: né meditativa né numinosa. Quanto alla chiesa di San Pietro, l’intento e l’onere di descriverne la bellezza può somigliare, com’è avvenuto anche di recente, allo sviluppo di un tema scolastico o ad un lavoro burocratico; atti cioè, in taluni ambienti, dovuti. Come colombe al laccio centinaia di pietre in bianco tenero calcare stanno a guardare dal lato meridionale della nuova Chiesa. Esse appartenevano all’antica, frammenti del suo paramento, delle sue figurazioni, di ghiere o rosoni di un’opera che tutto suppone sia stata bella e tradita dal suo nuovo domicilio: risolto, tutto sommato, in un portale inconcavito come bocca suggente su un frontone crinato di campanile, e che non ha né l’ascensione del prospetto della Chiesa di Santa Croce, né la villereccia e pubescente grazia di quello dell’Addolorata. A me sembra che se vogliamo parlare d’opere d’arte architettonica del periodo dobbiamo andare alle chiese di San Domenico, di San Lorenzo e dell’Assunta: e per quanto riguarda l’età più vicina a noi, fermarci a quella bentivegnana di Sant’Alfonso. Altre chiese certamente vi sono, ma come vi sono case, e non solo qui ma in ogni centro; ma questo non ha nulla a che vedere con l’arte, che beninteso ha a che
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vedere con il gusto e la soggettività di ciascuno di noi, e che tuttavia non può diventare un compito d’ufficio né di obbligatoria esaustione inventariale. * * * Gli accenni all’urbanistica agrigentina e all’eventuale intento di farne una storia aperta e in questo senso sociologica sfuggono di senso se prescindiamo dal loro teatro. Ancor oggi è possibile percorrere pedonalmente e recingere con la comprensione questo teatro urbico, impiegando non più di 30-40 minuti, saltando beninteso i luoghi del borgo esterno o Rabato. L’itinerario è quello che muovendo da via Empedocle, per il primo tratto di via Garibaldi, la salita di San Giacomo e la via Oblati, conduce alla cattedrale e da lì alla Biberria, Via delle Mura, la Madonna degli Angeli, la discesa della sua gradinata già detta di San Giovanni, fino ad incrociare la Porta di Ponte e a ritrovarsi nella via Empedocle. O viceversa. In automobile, se non vi è traffico e con qualche variante, è possibile compiere altrettanto in pochi minuti. Se abbiamo cura di non lasciarci irretire dal senso di dilatazione spaziale indotto dalla stanchezza, possiamo ben convenire che la Città si stendeva in un fazzoletto. La storia potè trovarvi spazio, ma non altrettanto può dirsi dell’urbanistica, se non con sua greve costipazione, con conati e rivolgimenti. Da un certo tempo in poi ciò che risorse, vi sorse sempre a carico di qualcosa che vi decadde: la ricerca di nuove superfici equivaleva allo spianamento di cubature precedenti. La generalità del fenomeno a Girgenti si fa assoluta e caratteristica, fino a diventare il “genius loci” della città e l’ideologia destruens-costruens forense dei suoi abitanti. Se riflettiamo sull’escursus si può convenire che, con l’analisi di questa ideologia, storicamente ci troviamo di fronte ad un processo edilizio urbanistico eristico, perché la ricerca del nuovo non tanto richiedeva il superamento o la falsificazione del vecchio, ma la distruzione dei suoi presupposti superficiari. Quindi: dobbiamo ampliare l’ospedale civile? Demoliamo la contigua Chiesa del Crocifisso. Si dava il caso che fosse esternamente la più bella chiesa di Girgenti. Venne demolita. Si creò quindi una cultura del cremare e sterilizzare le testimonianze, dello spianare e del nascondere al di sopra di un discorso di valori, di ogni dubbio e di ogni sospensione; e quindi, col tempo e sul piano antropologico, essa divenne una cultura del nascondersi e camuffarsi: com’è avvenuto ad esempio del teatro, che si volle infinto
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dietro una chiesa, un ex monastero ed un palazzo del potere. Il nascondersi divenne un condizionamento psicologico. La fagocitazione diventava a autofagocitazione, le pietre infisse servivano per innalzarle, i muri venivano divelti per innalzare altri muri, in un continuo scombussolamento che rendeva acronici e il nuovo e il vecchio. Nel moto pendolare tra giacimento e rifacimento, con tutte le possibili supposizioni e falsificazioni tra avvenuto e non avvenuto, tra dato e non dato, tra preesistito e inesistito, trovi la sorgente del vitalismo abusivistico, da intendere in questa sede e quanto alla sua formazione sul piano squisitamente antropologico e non giuridico. Noi riteniamo che alla base ed all’interno del processo per cui la cultura di Girgenti richiedeva un’alimentazione inculturale, stia proprio la strettoia urbanistica. Nel suo crescere la città non si sviluppava ma si inviluppava; si faceva distruttivamente largo entro di sé e si ghermiva alle spalle. Forse i suoi pensieri andavano bene al di là dei propri comportamenti, ma erano questi a prevalere e forse a trasformarli in ubbie, in opinioni, in inutili esercitazioni di intelligenza. Calata la tela sul periodo chiaramontano, dopo la creazione dei borghi esterni di San Pietro e di San Michele, dopo il loro raggiungimento ed inglobamento, dopo l’urbanizzazione “intra moenia” dell’intera Terra Nuova, interamente circuita dal prolungamento murale, la Città raggiunge la propria immagine, rinuncerà al secolo per confidare in un proprio millenarismo, e si consegnerà tale e quale all’800 maturo e unitario. Monacazione urbanistica? No, castrazione. Gli abiti si pietrificano, il corpo non può crescere, elementi volano in gabbia. Altrove, le città erano da secoli uscite fuori porta, mentre Girgenti non usciva, né riusciva oltre se stessa, si rinnovava con le sue stesse pietre, si assediava intestinalmente. Sorse e si affermò un mestiere ridicolo e criminoso: quello del ladro di pietre, di colui cioè che deruba e divelle il povero materiale di costruzione. Non c’era cumulo di pietre smontate in attesa di essere rimontate che non venisse attaccato da questi poveri ladruncoli metropolitani, che spesso - in mancanza di pietre atterrate provvedevano a dilapidare quelle agibili. Ma attraverso demolitori, ricostruttori e ladri di pietre la Città si digeriva e si procreava, ma l’edilizia diventava sempre di più onanistica. Fu una novità quando per la costruzione del teatro, si introdussero pietre nuove, perfettamente intagliate, svezzate da una cava appositamente aperta. Ben presto i nuovi ricchi poterono permettersi altrettanto, scemava l’incesto litico.
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Entro un fazzoletto d’areale viveva dunque la Città col suo tempo a cerchio e la massima osservazione che può farsi in sintesi è anche, analiticamente, la minima possibile: la sua urbanistica era stata per secoli vegetativa. All’unicum del regime feudale a partire di tra il basso medioevo e l’età moderna, corrispondeva un unicum urbanistico di autarchia spaziale, materica e superficiaria. Tolto il Rabato, dunque, borgo perfettamente tabuizzato e socialmente espunto, Girgenti è rimasta perfettamente internata fino all’altro ieri storico e cioè agli anni del fascismo, quando venne dato l’ordine di demolizione murale e dello straripamento: quando era invece tempo, dopo tanti secoli, di non sgattaiolare dall’anacronismo ma di affrancarlo nei termini di una visione culturale nuova ed aperta alla scoperta turistica. Girgenti divenuta Agrigento era Città tanto unica, murata, turrita e di così drammatica ed introiettata urbanistica, da dover essere conservata tale e quale: col rimedio, beninteso di una moderna espansione edilizia da realizzare altrove a mo’ di neapolis. Accadeva l’esatto contrario, rinnovandosi l’anacronismo non più nella sua storicità, cioè nelle perdute possibilità del passato, ma in quel nuovissimo uscirne fuori con il travolgimento della cinta, con lo sghiacciare la secolare anchilosata postura, con lo sciamare e sciamannare dei cittadini. Il nuovo ed attuale anacronismo era questo: che il futuro della Città appariva come una villeggiatura, con gite edilizie fuori porta, puntate a destra e a manca, diradamenti ed escursioni. Gli anni del post-fascismo furono ancora peggiori, perché l’area urbica non venne considerata di meno delle zone esterne consegnate al sacco e al disordine. Anzi era l’esterno a pretendere di rientrare, dopo la propria affermazione, all’interno: sorsero i tolli, le brutture si inurbavano per una reciprocità di giustificazione solidali. E dai tolli come sedi di comando abbiente e borghese, si sguinzagliarono, dal monte al piano, dal cielo al mare, le costruzioni vallive e pianeggiane da diporto. A ben vedere, metaforicamente, si ebbe la stessa consecuzione della legge Merlin, tra il prima delle case chiuse e il dopo dei marciapiedi aperti; perché non è dubbio che lo sviluppo agrigentino di questi anni è stato da marciapiede. Innanzi alla nuova Agrigento rispetto Girgenti ci si trova dunque come in un futuro senza passato rispetto ad un passato che non ha avuto né senno né futuro. In verità stiamo scontando la cultura urbanistica bigotta di una città murata che non ha saputo affrontare il mondo e ha esternato dopo una secolare conventualizzazione materialmente inibitiva una serie di vizi, di squilibri e di sfrenatezze.
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Più che mai possiamo andare con interesse meramente storico e urbanistico al progetto che, correndo l’anno 1850, ebbe gran divisamento, un iniziale finanziamento, ma nessuno seguito pratico, per la costruzione della nuova Girgenti tra il mare e il colle, nella piana di Villa Seta. Era la condizione per ammodernare la città e contemporaneamente per preservarla: il progetto confidava sul fatto che la nuova Girgenti potesse dare una mano alla vecchia e l’altra alla Marina del molo dove forti erano le potenzialità mercantili e non meno forti i mugugnamenti verso un capoluogo inerte e imbalsamato. Da qualche decennio, infatti, Girgenti era declassata per causa della propria inettitudine a semplice comune della provincia di Caltanissetta. La punizione era durata qualche mese, ma chi voleva la nuova Girgenti paventava un nuovo ripensamento governativo e la reitera del declassamento, e certamente pensava ad una forte cura della Città stessa, pur ponendosi con cautela il problema della sua integrità monumentale, del suo stanchissimo e vetusto aspetto, della sua invalicabile cinta murale. Ci troviamo di fronte ad un progetto urbanistico che, se realizzato, avrebbe potuto evitare alla città di abusare di se stessa, assicurandone uno sviluppo bipolare e compensato tra tradizione e dinamismo, cultura e sviluppo commerciale. Peraltro sarebbe stata evitata la secessione empedoclina, di cui si avevano alcuni avvisi. Il progetto scendeva dall’alto, era infatti voluto dall’Intendenza borbonica e stava alla città consentirlo ed animarlo. La reazione fu ancora una volta murata e disinteressante, sin da essere attraversata dalla noiosa eleganza del silenzio. In verità gli abitanti volevano il teatro, destinato a sorgere qualche decennio appresso, e per il teatro erano disposti a rinunciare a qualsiasi altra prospettiva. In altri termini, volevano divertirsi ed assistere; il progetto della città nuova prometteva invece impegno, fatica e lavoro: cose sulle quali si può concordare, se vengono rappresentati a teatro e se chi dovrebbe approntarle e sostenerle si limita a fare da pubblico. Del progetto dunque non rimane che la sua storia, che è la facoltà di non fare rimanere sicuro quel trascorso cui appartiene, rendendolo anzi accessibile a quegli interrogativi che il presente, per interposto passato, volge a se stesso. Onde in fondo il tentativo di delineare una storia urbanistica di Girgenti-Agrigento non sarebbe altro che, in metafora, un tentativo di spiegazione.
LA CITTÀ SCORONATA: IL VESCOVO LAGUMINA E LO SPIANAMENTO DELLE MURA E DELLE TORRI URBICHE Nel 1927, per rendere possibile la costruzione di alcuni fabbricati di servizio della nuova stazione ferroviaria (centrale), si diede inizio alla demolizione del lungo tratto di mura medievali che avvolgevano il fianco sud-est della città. Vennero altresì demolite cinque poderose torri dotate di notevole individualità architettonica ed integrate nel sistema difensivo. Era l’inizio della fine. Sprovvista di limiti regolamentari ed incapace di esprimere ed elaborare autolimitazioni culturali, la città sarebbe traboccata verso la valle. Nella protologica della distruzione delle mura chiaramontane c’era paradossalmente anche la logica dell’attentato ai templi, dell’aggressione ruscellante alla valle, dell’andirivieni urbanistico coi suoi voltafaccia, le empirìe, le disseminazioni in cui sarebbero state sprecate la capacità di costruire lo sviluppo della città ed il gusto di sapervi vivere. Ad un certo punto gli ostacoli edilizi soverchieranno la possibilità autocritica di porvi rimedio e determineranno una serie di blocchi naturali e legali diffusivi, a loro volta, dei mali e dei guasti. Sarà la metastasi urbanistica, la contraddittoria distruzione-evasione dello spazio e del territorio. Unico rimedio possibile è stato fin’ora quello linguistico: chiamiamo il coacervo “sviluppo poliforme” o stellare. Coloro che, nel 1927, per edulcorare e indorare il loro assenso al misfatto, proclamarono l’intangibilità assoluta della valle (che quella sola contava, ad incominciare non si sapeva bene da che cosa) non si rendevano conto che la valle poteva essere tutelata da una città che fosse riuscita a difendere sé stessa. Il rapporto era stato intuito felicemente dagli ingegneri e dagli intendenti del passato regime borbonico, allorquando avevano convenuto sulla conservazione delle mura (o meglio, di ciò che rappresentavano) e sul congiungimento urbanistico, la “fuga in villa”, lo scioglimento centrifugo all’insegna di una contraddizione tra il benessere privato ed il malessere sociale e generale, sarebbero esplosi successivamente all’interno di una crisidi continuità e di identità tra il prima e il dopo.
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Favorevoli alla spoliziazione urbanistica ed architettonica delle mura furono quasi tuttele autorità, diciamo tutte colla sola eccezione del soprintendente ai monumenti arch. Valenti. La sollecitavano piagnucolosamente le autorità locali, rinfrancati dall’assenso del partito fascista ed invocando raccomandazioni e voti favorevoli a destra e a manca. Era aperta una sottoscrizione di ciechi. Lo stesso rappresentante delle antichità agrigentine non ospitava ancora la relativa soprintendenza solidarizzava colla maggioranza e produceva una copiosa letteratura pareristica d’appoggio, discernendo razzisticamente e col metro dell’autoritarismo classicista pietra da pietra, civiltà da civiltà, e formando il “pedigree” delle vestigia. Vilipeso ed isolato, lungimirante ed irriducibile rimase l’arch. Filippo Mendolia. All’opposto versante del nervosismo e della faciloneria troviamo l’on. Eugenio Fronda col suo “facciamola finita” e gli argomenti futilissimi. Si atteggiava a futurista e propendeva per posporre la discussione alla demolizione. Con lui erano coloro che oggi sogliono ricordarsi come i cuori amorosi e le menti tutrici dei monumenti agrigentini di quell’epoca. Figura sfuggente (e perciò equivoca) resta quella del vescovo Bartolomeo Lagumina, presidente della commissione per la conservazione dei monumenti. L’illustre erudito era avanzato negli anni, aveva fatto restaurare la cattedrale con una memorabile impresa di archeologia medievale, ma in occasione della vicenda delle mura se ne stiede a sentire gli altri. Quale differenza dall’uomo che nel 1917 aveva congedato alcuni sacerdoti che gli stavano illustrando una questione litigiosa, dicendogli che andassero piuttosto a pregare il cielo perché i tedeschi desistessero dal danneggiare in terra di Francia i monumenti medievali di quella nazione, e che i valori storici sono ben più importanti delle montature quotidiane. La decisione finale di demolire le mura e le torri venne adottata nel palazzo vescovile, ove era stata convocata l’adunanza della commissione. In quella occasione il podestà ebbe a dichiarare, inebriandosi del proprio tono lievemente minaccioso, che “il Duce ha posto la prima pietra (della stazione) ed ha promesso al popolo che alla prima sarebbe seguita la seconda e poi la terza. Il popolo ha creduto al Duce ed attende fiducioso... Il massimo rispetto per il passato, l’entusiasmo più nobile e sacro per l’arte, ma anzitutto il dovere di redimere una città che sempre tutto ha dato e mai nulla ha chiesto... Per-
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tanto si fa assegnamento sul senso di responsabilità dei signori componenti...”. È perfino commovente constatare come il podestà, assistito dell’ufficio tecnico, corredasse la richiesta citando “in letteratura” due testi ad uso dei viaggiatori: il Baedecker e la Guida del T.C.I.! Il supporto bibliografico viene completato con l’eccetera di prammatica. La Guida del T.C.I., in particolare, aveva presentato così Girgenti: piccola città di scarso interesse. Aveva dedicato tredici parole alla chiesa S. Spirito e sette al monastero, ma era diventata il testo-principe sulla cui base il Comune elaborava la politica per la conservazione dei monumenti. Poiché il TCI non aveva menzionato le mura, le mura non avevano ragione di esistere: questo era l’argomento podestarile. Colla soprintendenza ai monumenti (rectius: all’arte medievale e moderna) si raggiunse il compromesso di ricostruire in altro luogo e a cura dell’amministrazione ferroviaria, almeno una delle torri. L’accordo, gestito dal Comune, diede luogo ad una seconda e riduttiva transazione con cui l’amministrazione ferroviaria metteva a disposizione dell’ente una ingente somma per opere di restauro dei monumenti cittadini. Era un arretramento di propositi, ma ricevette almeno una finalità rinascimentale in forma perfettamente giuridica. La pattuizione non venne onorata; lo stato, garante dell’accordo e finanziatore delle risorse “già accantonate”, rimase insolvente. Così veniva redenda “una città che sempre tutto ha dato e mai nulla ha chiesto”, come aveva prorotto - tacciandola senza volerlo di inconcludenza e di inabile minorità e carenza di voce - il podestà. Il comune rinunciò al legittimo contenzioso, limitandosi a chiedere almeno il rifacimento dell’intonaco della chiesa di S. Calogero, presentata - senza tener conto della Guida del T.C.I., questa volta come un importantissimo monumento chiaramontano. Era podestà il rag. Ignazio Altieri. Il regime e le autorità locali individuavano nella costruzione della stazione lo strumento di riscatto della città. Era l’epoca della motorizzazione e dell’urbanistica e nessuno riusciva a prevedere, colla sola eccezione del Mendolia, l’estensione della città fino alla stazione bassa o un suo collegamento automobilistico sia pubblico che privato. Tuttavia non possiamo imputare al regime ed agli uomini del periodo la responsabilità storica dell’accaduto. La demolizione era stata perseguita in sordina sin dal 1860. In occasione degli acconci ad una delle torri pericolanti l’ufficio tecnico aveva proposto misure di raffor-
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zamento tali da non compromettere una demolizione futura: in altri termini, un restauro demolitorio. Il citato arch. Mendolia, nella sua qualità di tutore dei monumenti, aveva sollecitato la demolizione di un tratto delle mura all’altezza del piano di Ravanusella, per eliminare il pericolo incombente sul passaggio pubblico e quindi per evitare che in nome del pericolo venisse distrutta l’interna chiostra. Le torri erano state destinate in passato agli usi più disparati e degradanti: luogo di scarico e costipazione delle immondezze, deposito degli attrezzi di lavoro della netturbe, orbitorio comunale, punto di trasmissione del telegrafo ottico etc.” Il brano sin qui riportato appartiene al libro “Agrigento Minore” (pagg. 208 - 210), da me pubblicato nel 1985. Quindici anni dopo, nel suo quinto volume de “La chiesa Agrigentina” (pagg. 66 - 68) Domenico De Gregorio dedicava all’argomento un apposito capitale dal titolo “Mura e torri chiaramontane”. Eccolo riportato. Parlando della distruzione delle mura e torri chiaramontane durante la costruzione della stazione centrale di Agrigento, S. Biondi (50), a proposito dell’atteggiamento favorevole dell’on. Eugenio Fronda, scrive così: “Con lui erano coloro che oggi sogliono ricordarsi come i cuori amorosi e le menti tutrici dei monumenti agrigentini di quell’epoca”. E osa, poi aggiungere: “Figura sfuggente e perciò equivoca resta quella del vescovo Bartolomeo Lagumina, presidente della commissione per la conservazione dei monumenti. L’illustre erudito era avanzato negli anni... ma in occasione della vicenda delle mura se ne stiede a sentire gli altri... La decisione finale di demolire le mura e le torri venne adottata nel palazzo vescovile ove era stata convocata la adunanza della commissione...(51). Non so se l’autore di queste parole, mentre scriveva, si sia fatto trasportare da spirito di parte: certamente non è stato giusto, nel giustificare, per un atto (posto che mons. Lagumina abbia dato il suo voto o assenso alla demolizione) la sua persona, di dotto, di un uomo coraggioso e di vescovo, da tutti amato e stimato “come figura sfuggente e perciò equivoca”. Nel testo citato manca ogni riferimento alle fonti da dove l’autore attinge le notizie: sono andato a cercarle nell’Archivio Comunale di Agrigento, nel Municipio e in via Porta di Mare e, nonostante l’aiuto del personale, nulla ho trovato sulla commissione che avrebbe deciso. Mi pare strano che presidente di essa - forse solo onorario per la fama che circondava il nome del Lagumina? - sia stato il vescovo e in un pe-
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riodo anteriore alla Conciliazione; e comunque, di fronte alle unanimi pressioni e all’urgenza dei favorevoli alla demolizione, che penso poteva avere una eventuale opposizione di mons. Lagumina che, nonostante l’età, era perfettamente lucido, in quegli anni, e comprendeva assai bene, che di fronte all’unanimità dei commissari, sarebbe stato utile il suo voto contrario? È inspiegabile il motivo per cui nell’Archivio Comunale di Agrigento manchino i verbali delle sedute consiliari e delle delibere podestarili dal 1926 al 1946: qualcuno li ha sottratti, ai tempi dell’epurazione per difesa personale per ricattare gli altri? Si sono dispersi in tempo di guerra? Ma ci sono tutti i precedenti e i seguenti. Riporto qui quello che nei documenti rimasti e consultati ho potuto raccogliere sull’argomento. Non vi appare mai il nome del vescovo Lagumina: certa e sicura è la determinazione di tutti coloro che, allora, avevano voce, o contavano, nel volere distrutte mura e torri. Nel consiglio comunale del 30 novembre 1926, presieduto dal sindaco Ignazio Altieri, parla l’Avv. E. Fronda: “Io mi intendo poco di scienza archeologica e quindi non posso giudicare del valore artistico delle torri... però si ha da tutti la sensazione che valgano nulla e se dovessero valere qualche cosa di fronte al vitale interesse cittadino della costruenda stazione ferroviaria, non possono essere tenute in alcun conto...”. Si affermò che si aspettava un ispettore ministeriale per esaminare la cosa. L’Avv. Francesco Lo Dico: “Se dovessero continuare le difficoltà non resta che procedere in qualsiasi modo... l’enimazione (sic, per eliminazione?) delle torri è nella coscienza di tutti e si impone... L’amministrazione si è interessata della cosa, come doveva. Fa la storia delle diverse fasi della questione, comunica i voti emessi da diversi enti: Provincia, Camera di Commercio, Comune; informa del parere favorevole dato dalla commissione locale delle antichità e del voto emesso in data del 24 ottobre u.s. da tutte le autorità fasciste all’uopo riunitesi sotto la presidenza del sindaco, voto che è stato pubblicato dal giornale “Il lavoro di Italia”. Legge il telegramma inviato al Capo del Governo e al ministro della P.I. ai Deputati on. Starace ed Abisso residenti in Roma ed al prefetto, in seguito alla notizia della sospensione dei lavori della stazione... Il consigliere Avv. Salvago parla del malumore della cittadinanza per la notizia che i lavori della stazione sono stati sospesi, non essendo stato consentito l’abbattimento delle torri... Il consigliere Francesco Sinatra rileva che la Commissione locale delle antichità si è mostrata all’altezza della situazione: tutti i
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membri cittadini hanno votato per l’abbattimento, meno uno, i membri governativi si sono astenuti... Non comprende perché il Consiglio Superiore del Ministero della P.I. si sia opposto al provvedimento invocato da tempo da tutta la cittadinanza senza tener conto dello stato e dell’uso attuale delle torri”. Il Sindaco Altieri telegrafa al ministro della P. I. Fedele: “non presentando ruderi valore artistico storico degno rilievo e invece necessitano esecuzione integrale progetto stazione...”. Telegrafa anche a Mussolini: “Nome questa cittadinanza disperatamente invoco intervento E. V. presso ministero P.I. demolizioni torri semicadenti... inutili ruderi che mai ebbero l’onore di essere citati in alcuna guida”... Apparve manifesto che l’illustre storiografo della Chiesa Agrigentina non aveva voluto intitolare quel passo della sua opera alle torri ed alle mura chiaramontane, ma a confutare e stroncare o un mio errore o una mia invenzione; e per essere più sottili e precisi, a tutelare la figura del vescovo Lagumina dall’ombra che il mio scritto avrebbe potuto proiettare su di lui. Senza il mio scritto non ci sarebbe stato il capitoletto: il che esempla puntualmente quanto sia utile scrivere e più in generale comunicare, dire e parlare, se si vuole che gli altri siano indotti a fare altrettanto. E così che il logos diventa dià-logos: che spesso occorre di rimonte o si olea di polemica. Ogni dialogo, infatti, se non vuole essere, e nonsolo per il fatto di dirlo (o d’imperio missionario o di protesa acculturazione) richiede necessariamente un oltrepassamento e, deve lasciare reciprocamente segni. Salvo a non ridursi a mera e ricettiva recensione, o ad un atto retorico di cortesia. Al di là dei protagonismi, degli uffici cui assolviamo, delle mire e degli stati contingenti, siamo tutti organici e funzionali alla presecuzione della vita e del pensiero; e la storia non è altro che un sorpassante interrogarci e non un lavoro di marmorarii e facitori di epigrafi. Era nello stile di mons. De Gregorio, e cioè nell’uomo che era, accudire ai personaggi storici trattati riparandoli da ogni crimine, da ogni abbottinamento. Lo faceva per passione di status sacerdotale, per convinta missione in cui morale ed intelletto si apparigliavano e bilanciavano, rinunciando per ciò stesso, ad ogni scarto, ad ogni guizzo, ad ogni sguencio cui tuttavia, e non in pochi casi, l’umanità deve scoperte coraggiose, intuizioni insospettate, fomiti e spechi di libertà e di altra grandezza. Uomo adamantino, più adamantino di gran parte della materia e di non pochi personaggi sui quali affondava i denti di diamante della propria ricerca, molte volte risolta in cautela storica.
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Così tirava sempre a lustro i suoi personaggi ecclesiastici per trovarne l’argento, e quando l’argento non c’era li inargentava. Cosicché, a mò di esempio, quando scrisse di Peruzzo si guardò bene dal citare, impiegare o soltanto dall’affacciarsi alle missive che il vescovo di Oppido Mameortino prima e di Agrigento poi aveva indirizzato al Duce Mussolini; voglio dire al contenuto di queste lettere, allo stile farneticante e consegnato. Nè diede peso e posto alle lettere indirizzate al cardinale Ruffini nel dopoguerra, da personaggio riveduto e corretto, circa la qualità e la moralità degli uomini della Democrazia Cristiana: tanto da lui propugnati e catafratti in pubblico, e disprezzati nelle private e confidenziali verità epistolari. La mia stima personale e il mio giudizio sul prof. De Gregorio sono andati accrescendosi mano a mano che egli trasfondeva la propria intelligenza e la propria moralità nei personaggi trattati. In questo lo vedevo come sacerdote che fà storia della Chiesa e finisce col diventare grande storiografo codificabile attraverso l’interesse della propria metodologia, oltrecchè per la bellezza della propria scrittura, che è una sintesi di esigenze puramente storiche e di istanze puramente ideologiche. Fino ad approdare ad esiti riedificativi: in cui, cioè, non è più il presente a volgere al presente quesiti e interrogativi sul passato, ma è il passato a sfilare, a processionare; potente, provvido, dettante. Era straordinariamente arricchente confrontarsi con un uomo simile, specie nelle conversazioni private. Il suo dire mi suscitava idee, inferenze, ipotesi che lui, lungi dal volermi dire, si sarebbe ben guardato dal rischio di rendermele possibili. Ma non lo poteva, perché nelle conversazioni il rischio si corre sempre a due. Ricordo benissimo un dibattito duale nella sua stanza seminarile ricolma di libri, le mensole ricurve sotto il pondo, il vento invernale che fischiava fuori dalla finestra nel tentativo di interzarsi, di svariarci: finendo invece col concentrarci. Si parlava di latrìa e di iperdulìa nell’organizzazione storica delle antiche confraternite girgentine in relazione all’organizzazione sociale della comunità ed alle condizioni politiche dei tempi. Una gara in salita con sorpassi reciproci, lui a controllarmi da verso o da retro, preoccupato del mio impiego di epistemi, di codici, di metodologie, di criteri che gli risuonavano inaccettabili e che pur conosceva perfettamente. Nel 2001, quando lessi il capitolo dedicato alle mura e torri chiaramontane e a ciò che in precedenza ne avevo scritto io, mi sono limitato a rilevare internamente come mons. De Gregorio avesse fondato la difesa del Lagumina ricercando i documenti che avrebbero po-
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tuto discolparlo dove non avrebbe potuto trovarli, e fissando il presupposto cronografico che, prima del Concordato intercorso tra Stato e Chiesa nel 1929, il vescovo stesso non potese aver ricoperto nel 1927 la carica di Presidente della Commissione per la tutela dei beni artistici della Città. Quest’ultima considerazione mi sembra particolarmente importante. Il De Gregorio credeva dogmaticamente nelle date e nel valore letterale dei documenti. Il Concordato tra Stato e Chiesa venne firmato, è vero, l’undici febbraio 1929, due anni prima che si ponesse il problema di abbattere torri e mura per far posto alla costruzione della Stazione Ferroviaria Centrale; ma già nel 1927, e da anni, era in corso l’amore tra il regime fascista e la Chiesa. Le due parti erano già conquise dal relativo estro. Le due diplomazie erano in calore. Chiesa e regime erano attrati da quel reciproco e comune interesse. Già, come scrissi Rocco Patellaro, “col regime fascista i preti avevano l’interesse di fare propaganda e di avere il sopravvento loro, come lo avevano, e comandavano insieme al segretario politico e tutte le autorità “. Le due parti, le due politiche erano già in foga. Il gabinetto riservato del Duce in palazzo Venezia riceveva quotidianamente decine di lettere di vescovi, di preti; il superiore generale dei francescani d’Italia aveva sancito che Mussolini, dopo Francesco d’Assisi, non era ancora “l’uomo della Provvidenza”, ma veniva già definito come “l’uomo provvido”. E poi: è un fatto che nel 1927 Lagumina ricopriva quell’incarico, o da un uomo di grande e specifica cultura o da vescovo. Non saremo noi a dare un senso alla distinzione, o soltanto a porla. Una data è sempre un fatto il cui avvento richiede una serie di fatti che la precorrono e la rendono possibile. Nel 2005 ricevetti una lettera da mons. De Gregorio, data in Cammarata il 24 maggio di quell’anno. “Ho letto - mi scrive l’illustre storiografico - con molto interesse, consentendo e condividendo, il suo magnifico articolo su mons. Vajanella, e sento il bisogno di ringraziarla perché ha fatto rivivere una figura così prestigiosa quanto modesta e umile. Circa le lodi eccessive nei miei riguardi, che dirle? Frutto esclusivo della sua generosità”. Non credo di essere stato generoso, non credo di essere stato null’altro che onesto. Per cultura e dirittura mons. De Gregorio è stato certamente tra i più grandi italiani della sua e di questa peggiorata epoca; così come ero stato onesto nel riesumare ed indicare nel prof. Vajanella un uomo che ha giganteggiato nella generale cecità agrigentina. La chiusa della lettera di mons. De Gregorio, con cui accompa-
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gnava l’omaggio di alcuni libri, concludeva con timido e frettoloso commiato giocato fin quasi sull’essere o non essere profferite, e di botto deciso: le chiedo scusa per non averlo fatto prima: non sono d’accordo con Lei sulle responsabilità di Mons. Lagumina sulla responsabilità delle torri di Agrigento. Seguono i ringraziamenti, i più cordiali auguri, i più affettuosi saluti. Quasi una liberazione. Qualche tempo dopo scrivevo ed inviavo all’amico maggiore ed affermato storiografico una lunga lettera, che ora convengo di pubblicare integralmente. Illustre Monsignore, la ringrazio per i suoi tre doni: la lettera, i volumi ed il pensiero con cui, nell’inviarmi l’una e gli altri, mi ha avuto presente. Il ritardo di questo ringraziamento, al quale aggiungo un forte sentimento di stima e di rispetto, è dovuto ad un fatto materiale, essendo stato a lungo lontano dalla Città. Ho appreso con piacere che Lei ha apprezzato lo scritto su Mons. Vajanella ed il piacere - come la luce di una candela - è tutto per illuminare un personaggio tanto importante per chi le ha conosciuto, e tanto poco conosciuto ha il dovere di parlarne. Questo è stato lo spunto dell’articoletto e più ancora delle conversazioni tenute nel circolo Porta dei Venti. Conversazioni che sono state insieme dibattito, racconto, dialogo e conferenza. Nella prima di queste conversazioni ho esordito dicendo qualcosa del genere: vi porto a setacciare il greto d’un quartiere della Città, alla ricerca di pagliuzze d’oro. Nessun intendimento, da parte mia, di condurre una operazione Vajanella. Tutto è stato spontaneo e in gran parte fortuito. Ho visto che il pubblico si è attaccato ed affezionato al personaggio come per reazione ad un presente troppo noto e che ci fatica nel non voler passare, e ad un recente passato noto pochissimo. A seguito delle conversazioni e dell’articolo ho ricevuto moltissime telefonate, dettate dal bisogno di continuare l’argomento. Da parte mia c’è stato il calore sentimentale di far rivivere Mons. Vajanella, quasi come atto di giustizia avverso il non - avvenimento della memoria. Nel descriverlo fisicamente chiedevo al pubblico che non lo aveva conosciuto se lo vedesse. Ed il pubblico finiva col vederlo, lo descriveva ricorrendo a questo o a quel soggetto, ed io lo rivedevo due volte: nella mia memoria e nell’incipiente conoscenza del pubblico. Ad un certo punto, all’acne di questo, teatro di conoscenza e di buonissima volontà intellettuale, esclamai: mezz’ora fà, mezionando
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Mons. Vajanella parlavamo di nessuno, ora citando nessuno sappiamo che ci sta dietro Ulisse, anzi un Nestorè. Le conversazioni sono state un gioco così, alimentato dai come mai e dai perché mai. Posseggo di Mons. Vajanella due ritratti. Il primo, piccolissimo, in una cornicetta d’argento di pochi centimetri, proprio qui a lato del tavolo, su un soppalco di libreria. L’altro, notevolmente ingrandito è montato in un supporto picoglas e si trova nell’appartamentino fuori casa dove tengo i libri che straripavano dall’abitazione familiare. Due ritratti per un lungo ricordo. Accanto al tavolo Mons. Vajanella sta in compagnia dei ritratti di mio padre - un piccolo mezze buste e una istantanea che lo riprendo in compagnia di Mons. Noto -, di un mio sonno, di uno zio di mio padre e d’un mio nipote morto giovanissimo in una corsa motociclistica. I miei ricordi personali si sono semplificati, son divenuti essenziali e trigonometrici. Attraverso di essi posso fare il punto della mia vita. E se un tempo aggiungevo cosa a cosa, da un certo momento ho iniziato a detrarre: ma credo di non potere fare a meno di alcuni ricordi essenziali, di alcune sembianze. Qualche ventennio addietro ritenevo che partire fosse arrivare, oggi so soltanto che c’è da non smarrirsi. Ogni tappa non è altro che un buon ricordo della partenza. Non sempre tempo e vita vanno nella stessa direzione. Spesso la vita imbriglia il tempo e lo educa distraendolo dal suo corso. Mons. Vajanella mi appare come un faro che tien dietro alla navigazione, piantato su una barca più che su uno scoglio. Andavo a trovarlo con una certa frequenza, nell’arco di tempo di alcuni decenni: quando vissi al Rabatello, e anche dopo. Era un piacere, una cura, un obbligo, più verso di me che di lui, che in fondo aveva meno bisogno di me di quanto io non ne avessi di lui. Anche se apparentemente le cose sembravano messe all’incontrario. Ogni volta al rivedermi si faceva dolce - dolce, come se staccasse una pera invernale dalla resta e la pregustasse. Probabilmente vedeva in me un segno, un arbusto che cresceva e si riproduceva di cammino in cammino. Probabilmente anche io ero, per lui e a suo modo, un punto fermo. Si faceva, nel darmi immediato affetto ed ascolto, “bisognoso “. Credo che ogni vera generosità e grandezza d’animo siano, nella sostanza, bisognose. Io me ne inorgoglivo come il passero che crede di avvalorare l’albero su cui si posa.
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Mano a mano che crescevo era lui a crescere ai miei occhi e io a diminuire, e questo mi andava inorgogliendo diversamente. Nell’antica vita di quartiere non mancavano di questi obblighi e piaceri. Nel privato di questa lettera confermo quanto ho sempre avuto modo di opinare, di dire e di scrivere: il Rabatello era una fabbrica e un serbatoio di pubblica moralità e di poesia. Abolito, specie per la frana, il suo stanziamento, la Città s’è fatta diversa, più sfacciata e vincida, meno valorosa e umile. Andavo da Mons. Vajanella per passare il tempo e ne tornavo con altro tempo e il cuore colmo ma scarico di peso. Cuore per dire trasparenza di una cavità colmata: come andare ad un abbeveratoio, immergervi mani e occhi, calcolare tutta l’acqua fluita e quella che fluirà, sorridere del calcolo e bere, bere a sazietà. Mons. Vajanella mi appariva come un masso in testa ad un sorgente. Forse questa immagine mi è condizionata dalla metafora, che era meravigliosa ingiuria, con cui alcuni contadini, nel parlare di lui ed alludendo alla sua cultura, “un capu d’acqua” lo chiamavano. Trovo la stessa idea d’un percorso ctonio e di un miracoloso affioramento nelle sue parole, allorquando lo collega ai progenitori greci. Non poche volte sorpresi Mons. Vajanella intento a concedere piccoli prestiti a contadini bisognosi; per seminare, d’inverno, o per mangiare. La prima volta contavo sugli undici anni, frequentavo la prima media e mio padre mi ci mandò perché mi impartisse alcune lezioni di introduzione al latino: per farmi le basi, diceva. Oggi credo che lo facesse per il rito sottomesso di un riconoscimento: quel primissimo avere a che fare col latino voleva che fosse la mia conoscenza di padre Vajanella. Dunque in una di quelle poche lezioni introduttive scorsi confusamente, e secondo il comprendonio di un undicenne, che stava mutuando una sommetta, e mi parve che la faccenda fosse simile ai piccoli imprestiti che, per gioco e commercio di passatempo, ci facevamo tra noi ragazzi. Allora era in auge scambiarsi i “pupi - stampa”. Ma una volta lo sorpresi, dopo alcuni anni, intendo a confabulare con un contadino venuto a restituirgli una certa sommetta. Non ero ingenuo come negli undici anni - per ben comprendere le cose dovevo dare una malizia ad ogni cosa; quanto meno, vedevo fare così, da parte degli adulti e conoscitori. Mons. Vajanella chiedeva il diffalco degli interessi dalla somma che gli stavano restituendo. Dunque prestava ad agio, mi dissi. Ricordo ancora quel sentimento di disagio e di trionfo che ebbi nell’inferirlo.
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Poi appresi, perché me lo spiegò con amabile bonomia, che dal capitaluccio aveva abbonato gli interessi che non aveva chiesto. Non so se può interessarle sapere che chiamava “croce” quel taglio, quell’assumersi cioè il pagamento degli interessi che non aveva preteso; e non era un dare, ma un rinunciare. Probabilmente non lo faceva con tutti, ma quel contadino - mi spiegò - era proprio bisognoso, e poi, soggiunse, era un suo lontanissimo parente. Non mancando di chiosare, a mò di rimedio e ad uso mio, che gli era tanto lontano da renderglielo vicino non meno di tutti coloro che abitavano nel contado di S. Croce. Tutti suoi lontanissimi parenti, senz’esserlo. Perché dove non c’era il sangue suppliva la conoscenza. Mi parlava delle persone del Rabatello una ad una, ma da tagli e dimensioni diversi dalle mie conoscenze. La sua umanità era tanto vasta da non appigliarsi nè competere, ma sollevava ed esaminava gli argomenti uno ad uno, come si fà nel prendere i pulcini con le mani, delicatamente, sapendo quel che faceva, come portato da un venticello interiore che per me non doveva essere altro che il moto della sua parola. Quale indifferenza con i moti d’animo e le parole dell’Avv. Mario Bonfiglio, nel periodo in cui lo frequentavo pomeridianamente dandogli pretesto postremo, perché era accidentato e anziano e non usciva più di casa, di ripassare le sue innumerevoli conoscenze agrigentine e rivelarmi morti e miracoli dei soggetti. Usava gli argomenti a strappo, come nello svellere patelle dagli scogli, senza pietà, per gongolare di memoria. Quale differenza dell’uomo del Rabato da quello dell’antica Ruga Reale. Illustre Monsignore, Il ricordo di mons. Vajanella non può esaurire questa lettera; m’avvedo di doverle scrivere di altro, ed esattamente del ruolo del vescovo Lagumina nella demolizione delle torri chiaramontane, alla luce di questo lontanamente ne avevo già scritto e di quanto ho letto nella sua opera, e non solo per quanto mi concerne. Ho appreso della qualità civile del vescovo (presidente della comm. per i monumenti) e della circostanza che la riunione dell’organismo pareristico dedicata alla demolizione delle torri si svolse in episcopio (così come, ritengo, ogni altra riunione della predetta commissione, se non altro per motivi di deferenza) da alcune carte sparse dell’archivio del Comune.
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Perché sparse e non fascicolate nè intitolate organicamente al relativo affare, è da connettere con la genesi dell’archivio stesso. Il Comune aveva “donato” alla Croce Rossa Italiana l’intero fondo per sgomberare alcuni seminterrati locali del teatro. La CRI l’avrebbe smaltito ed avviato al macero. Il fondo venne depositato per circa un mese all’aria aperta, al vento e alla pioggia, nello spiazzo del vicolo teatro sottostante la salita S. Sofia. Le operazioni procedevano molto lentamente: era adibito al trasporto una vecchia autoambulanza riconverita in furgone. Mi avvidi casualmente del fatto - tra me e l’autista della CRI corse una colluttazione - l’incidente raggelò tanto il Comune quanto la CRI - i due enti temettero lo scandalo, ed anche una iniziativa giudiziaria etc. etc. Lanciai un appello ai netturbini perché, fuori servizio, mi aiutassero a “trafugare” il fondo, o meglio ciò che avanzava - obiettivo perfettamente raggiunto col trasporto manuale della catasta in alcuni locali comunali dell’ex collegio dei Filippini, in centinaia di sacchi di plastica normalmente utilizzati per la raccolta delle immondizie. Tutto si svolse nella più assoluta riservatezza; se il Comune seppe, non lo diede a vedere. Dopo circa un decennio, essendo stato incaricato della direzione del museo civico, provvidi a ritirare il fondo per la costituzione di un archivio storico del Comune. In cinque anni di attività, lavorando fuori servizio e, spesso, fino a notte alta, sono riuscito a ricostruire in pratiche organiche l’abnorme e sfogliata massa dei materiali, per circa una sua buona metà. Altrettanto materiale resta tuttavia da riordinare e da schedare. Nel corso del mio lavoro ho letto migliaia di documenti ed ho preso innumerevoli appunti, che rimangono tuttavia sciolti da ogni riferimento di titolo, di casella, di citazione archivistica. In ogni caso tutto ciò che ho visto ed ho letto può essere genericamente riferito all’ASC Salvatore La Rocca: con l’auspicio che altri funzionari come me vogliano completare il lavoro, o che gli amministratori incarichino chi lo faccia. Questa nota serve a chiarire in che senso la fonte della mia informazione è l’Archivio Storico del Comune. La prova documentale della specifica qualità del vescovo si trova tra quelle carte. Quando io, dicendo di aver visto e letto, scrivo e confermo in questa corrispondenza la veridicità della qualità del vescovo, non metto sullo stesso piano la verità fondata su una mia affermazione con
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la verità che altri, giustamente, intendono raggiungere assumendola direttamente da fonti insospettabili e ritrovabili. Ma intanto non posso, per deferenza verso una giusta pretesa scientifica, fingere che io non abbia visto, non abbia veduto e non sappia. Nell’avere io visto e letto e saputo, c’è - per quanto mi riguarda il senso - anche scientifico - della mia affermazione. Se debbo rispetto, lo debbo senza escludermi, e per così dire ad incominciare, tra le persone, da me. Ed io non mi dubito, dato che la circostanza non concerne una mia opinione ma un fatto. Ma c’è dell’altro, c’è un oltre. La commissione non faceva parte delle strutture comunali e non ha lasciato, per quanto io conosca della carte archivistiche del Comune, che alcuni documenti indiretti: transunti riportati da altri, citazioni etc.: solo pochi fogli in tutto, e nessun verbale. Ma, a meno che non siano falsi i documenti che si riferiscono ad essa, non posso dubitare di quanto a suo tempo venne riportato, e di cui le autorità comunale si avvalsero, non senza un certo sbandieramento. Tra le carte manca che, stranamente, una pratica relativa alla demolizione: o finì al macero o non è mai esistita, potendosì tale ultima circostanza spiegarsi col fatto che, sebbene il Comune fosse proprietario di mura e torri (a titolo, diciamo così, demaniale), ad operare tecnicamente per la demolizione furono le ferrovie, alle cui opere e finanze l’ente s’era sottomesso, sollecitandone anzi gli interventi. In ogni caso suona male (ma è un argomento di approfondimento) che il Comune non abbia quanto meno sdemanializzato i manufatti, salvocchè non abbia inteso di trasmetterli come demanio al demanio ferroviario, perché li demolisse. Ma quel che quì importa sottolineare è che la commissione non faceva parte del Comune, non può quindi, sia nella dinamica corrente della propria attività, sia nella fase dello scioglimento e della devoluzione burocratica degli atti, avere inviato o lasciato al Comune ciò che il Comune non era competente ad avere. Proprio su questo punto riposa la mia serenità: se io avessi voluto approfondire la questione, mi sarei rivolto all’organo sovraordinato e dal quale, sebbene per gerarchia impropria (datocchè le commissioni e in genere i corpi collegiali rifiutano il principio della stretta subordinazione burocratica, accettando invece una speciale subordinazione funzionale) la commissione “dipendeva”, e cioè la soprintendenza ai monumenti per la Sicilia Occidentale con sede in Palermo. Dove le carte di tale soprintendenza siano finite (se presso l’Archivio della nuova soprintendenza unica di Palermo; se presso l’Ar-
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chivio di Stato del capoluogo) non so dire; ma l’avrei appurato se avessi voluto approfondire quella ricerca. Ricordo peraltro di aver letto in una tesi di laurea che all’insediamento o all’istituzione della predetta commissione, essa annoverava tra i suoi membri, oltre al vescovo Lagumina, anche Gaetano Nocito. Il ricercatore non può aver lavorato di fantasia. La via maestra, ripeto, è costituita dalla ex soprintendenza di Palermo: ove non solo il nome del vescovo ha da risultare (se io non ho letto carte false riprodotte da chi voleva avvalersene, e cioè da chi voleva tirarlo dalla propria parte) ma anche quello del Nocito e degli altri componenti. Probabilmente è stata questa la fonte del giovane ricercatore, ed è fonte obbligata. Ciò che io avrei “osato” non può riferirsi alla utilizzazione, in una occasione di scrittura peraltro ristretta ed occasionale, del nome del vescovo nello svolgimento dagli avvenimenti. Se non lo avessi fatto sarei incorso, rispetto a me stesso, in una inonestà intellettuale. Ciò che ho osato è quindi riferibile all’implicazione del vescovo come insigne studioso in un processo di responsabilità storica relativo alla demolizione, esclusivamente sotto il profilo culturale. Col grande inglese potrei dire che questa è la mia opinione e che io la condivido. Le premesse del mio ragionamento sono due: il vescovo era presidente della commissione, ed era un insigne medievalista - arabista. La città deve stargli perennemente grata per la restituzione architettonica della cattedrale etc. Le due premesse tuttavia non stanno sullo stesso piano. Si può essere presidente di una commissione senza essere insigne studioso. Per un presidente di commissione che non sia insigne studioso le demolizioni di quelle mura e di quelle torri, laddove ne abbia ravvisato l’importanza o l’interesse, può comportare disagio più o meno malcelato nell’acquiescenza. Per un presidente che sia insigne studioso la demolizione, semprecchè ravvisi come sopra l’importanza dei manufatti, non può che comportare una reazione: pubblica (per es., con l’atto delle dimissioni dall’incarico) nel caso che sia un insigne studioso svincolato; privata, nel caso in cui rivesta altre qualità che lo costringano a non prendere polemico partito. Una tal reazione privata può arrivare anch’essa alle dimissioni (dimissioni in questo caso forbite e affinatamente pretestuose), dopo di aver percorso tutti gli spazi possibili di manovra, facendo cioè pesare tutt’intera la sua qualità, ed agendo privatamente sul potere. Non è dubbio infatti che la realizzazione dello studioso può andare dal pubblico al privato, o meglio dal-
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l’ufficiale all’ufficioso, in tutto un dispiegamento di ragioni e di uffici. Diversamente c’è, sul piano storico, una responsabilità dello studioso; atta a metterne in discussione non già la sua competenza diciamo così “politica” o “istituzionale” di presidente, ma quella assai più delicata di studioso. E però non credo che si possa pensare ad una reazione privata tanto privata da risultare nel solo malinconioso dominio delle buone intenzioni o dell’egoistica sofferenza. Quando dunque parlo, in questa rassegna di ipotetiche possibilità, di reazione privata, alludo ad una reazione che lasci traccia, che informi, che risulti più o meno utile: non solo nello scongiurare l’evento ma, laddove non sia possibile, nel segnalare l’errore. Io stimo che, innanzi alla demolizione delle mura e delle torri, un medievalista che ne avesse riconosciuto l’importanza non avrebbe nè potuto nè dovuto rimanere inerte. Se il vescovo non fosse stato presidente della commissione avremmo potuto immaginarcelo intimamente incollerito o addolorato; siccome è stato presidente della commissione e votante per la demolizione (l’unanimità del voto venne infrante dal solo voto contrario del soprintendente di Palermo) l’immaginazione deve cedere ai fatti e consentire alla conoscenza storica. Queste possibilità vanno riformulate nell’ipotesi in cui, al supposto apprezzamento storico - artistico del complesso monumentale da demolire, si dovesse supporre un avverso giudizio d’indifferenza, attribuendo al complesso medesimo uno scarso o addirittura irrilevante valore (e quindi, un valore). Tesi, in fondo, di Altieri e Fronda. Il valore di un momento non è dato oggettivo in sè, comandato e immutabile, quanto invece dato culturale, storicamente dato e impiegabile, mutevole col progresso degli studi e con l’andirivieni delle sensibilità epocali. Esso è costituito da un flusso di giudizi, da una affermazione di visione o dal declino di significati, di scoperte culturali e spirituali. Il riconoscimento è pur sempre una attribuzione: il colto volgarizzatore ed il semplice cittadino possono farsi portatori di significati, ed anche, alle volte, di significati imperanti ma il più delle volte non presaghi, non aggiornati. L’esperto, lo studioso no. L’esperto è sempre un produttore di significati; probabilmente, oltrecchè, trovarsi ad evolverli o svilupparsi, può trovarsi ad arretrarli, ad umiliarli, a regredirli rispetto ad altri anteriori significati di valore. Da qui il flusso ed incessante riflusso della meditazione: penso all’infrenabile modellamento di giudizio sul barocco. Il volgarizzatore e il semplice cittadino possono
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ben essere arrestati rispetto allo studioso, anche quando lo studioso sembra arretrare rispetto alle loro opinioni, perché anche così li sopravanza. Per sciogliere tutti questi nodi, si pone il problema di esaminare se Lagumina sia stato aggiornato sul problema dell’arte chiaramontana, cui quanto meno appartenevano le torri da demolire; o se abbia aderito ad un processo storiografico di aggiornamento e di riapprezzamento che in quegli anni si stava già affermando e si faceva strada, non solo in Italia, ma nelle più attente culture europee: specie in Francia e in Germania. Certo la manifestazione artistica chiaramontana è curiosa; pomposa qua e là, affascinante e sincretistica, era stata codificata come arte di colore locale e provinciale. All’acme - ma era già un superamento - di questo affermato giudizio sta la conclusione che in essa spirasse una forte aria di famiglia: non si diceva dinastica, come storicamente sarebbe stato più corretto dire, per non guastare l’impalcatura dei valori reconditi o marginali immaginati intorno ad essa. Arte, in buona sostanza di un secolo di crisi, e che si nasconde nei particolari e nelle figurazioni a vista; arte di finestre e portali; più di scalpellini che d’architetti etc. etc. Ed essendo ricca degli esempi di quest’arte (tracimata anche altrove, con un che di partigiano, di araldico - anagrafico e di vessillifero) la terra di Girgenti, e di esempi ben più prodighi d’apparenze e meno urbanisticamente disturbanti, ben si potè concepire di demolire nel solito “interesse pubblico” le torri della Città. Ma questa era la situazione della critica, della letteratura e della storiografica artistica ed architettonica ai primi del ‘900. Negli anni immediatamente precedenti il partito di demolire torri e mura, una scuola di pensiero capeggiata dal grande Stefano Bottari aveva letteralmente rovesciato tale giudizio, che attecchisce ancora in provincia ed impera dignitosamente in menti meritevoli d’altro: di migliori dubbi, di forti trascinamenti e scollature. Fino al Bottari il castello di Favara aveva ricevuto ben scarse segnalazioni. Lo stesso Viollet - Le Duc, che lo visitò e vi soggiorno per una notte, se lo lascio sfuggire: apparentemente, perché le riflessioni che “in generale” il grande studioso francese maturò sull’arte siciliana col fascino dell’intuito e del procuratore, vi si ispirano profondamente. E sulle torri e mura chiaramontane non esistevano studi di locali nè di altri studiosi; spesso questi mancano quando mancano quelli. Prima della rivoluzione del Bottari mura e torri potevano ben conce-
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pirsi come anticaglie da demolire. Dopo, non più, quanto meno per gli studiosi. Ora, la rivoluzione del Bottari è stata quella di leggere l’arte chiaramontana non già come arte residua e d’estinguimento, arte di ricordi tenuta in vita dalla destrezza, dalla manualità e del folklore, arte di rifugio e provincia: ma come reazione architettonica e storica all’arte svevo - federiciana, in crisi con la scomparsa dell’idea imperiale. Nell’isola si ritorna al passato, che per essere un grande e ancor recente passato siciliano, rappresentava norma e comportamento del presente. È come se lo ieri fosse stato il vero passato, e l’avant’ieri il vero futuro. L’arte chiaramontana, insomma, riprende la maniera e le visioni dell’arte arabo - normanna. Son magistrali, a tal proposito, le analisi del Bottari sulle costruzioni chiaramontane, in particolare sul castello di Favara: dove scopre nell’uso degli archi struttivi l’essenza arabo normanna di questa architettura. Non più quindi arte di famiglia nè di finestre e portali, di sistemi d’ornati e di colori, nè il rifugio di capacità artigianali delle vecchie maestranze in balia di visioni architettoniche rassegnate all’arte dello scalpello: ma un organico e potente riandare all’arte dei nonni. Tutto questo mi sembra di doversi condividere specie per una delle torri di cui sono riuscito a trovare una documentazione di rilievi grafici e ingegneristici: ove un doppio ed incassato ordine di archi è struttivamente trattato alla maniera normanna. Proprio le torri erano la parte essenziale del sistema, almeno dal punto di vista storico - artistico; che quanto al loro “colore “, alla loro funzione mai debitamente indagata, al loro concentrarsi in un tratto murale, non voglio occuparmi, anche se ho le mie idee e rigiro tra di me alcune ipotesi. Che l’Altieri ed il Fronda sconoscessero la rivoluzione della critica storico - artistica sul chiaramontano, non mi sorprende anche se mi spiace. Il problema è nel ritardo del vescovo, insigne studioso, o meglio nel suo ipotizzabile rifiuto del nuovo indirizzo di conoscenza. Non è dubbio che il vescovo si è lasciato sfuggire una visione divenuta, nel campo degli studi, di ragione europea, stante l’importanzaa e la personalità dell’insigne iniziatore. A meno che il vescovo non se la sia lasciata sfuggire per sobbarcarsi ad una decisione politicamente ed amministrativamente già presa: quella di demolire torri e mura e realizzare la stazione ferroviaria. Errori che, a distanza di cinquant’anni, sono stati condannati da tutti, e in particolare dagli urbanisti
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che, di volta in volta, per inviti o incarichi, si sono occupati della programmazione territoriale di Agrigento. Oggi si suole dire che si trattò di imperdonabile miopia (al punto tale che il Comune, per parare le critiche internazionali, escogitò di... coprire la stazione ferroviaria e ricostruire sopra di essa l’antica scarpata; idea pacchiana immediatamente scartata e con rabbia e ira dalle autorità, stante i suoi costi astronomici). Ma erano tutti miopi, anche coloro che, per essere studiosi e medievalisti, possedevano microscopio e telescopio? Proprio da quì incomincia il problema, ed è evidente che non troveremo mai un incartamento ove poter leggere la risposta, se non ci mettiamo del nostro. Quanto a Fronda ed Altieri, è da distinguere tra l’uno e l’altro. Non credo, illustre Monsignore, che si possa disquisire favorevolmente sulla posizione di Fronda, alla luce del micidiale brano da lei riportato. Io ne avevo letto altri, ma di meno micidiali. Conosco il Fronda nell’essenziale; mi ero occupato dei suoi interventi camerali ed ho avuto la fortuna di poterlo conoscere psicologicamente mediante una serie di acquisizioni di storia minore e familiare. Mi permetta dunque di sorvolare, salvocchè un morto, per il fatto di aver lasciato in qualche posto un suo pensiero o una sua dichiarazione, non debba entrare nella storia. C’entra, è vero, ma per uscirne. Io lo scarterei con gli occhi. Vogliamo veramente riflettere su ciò che dice? Dice, ad un dipresso, questo: io non so ma c’è chi sa, io so chi sa, dunque io so. Quanto alla tutt’altra statura di Altieri, esso cita e ripete l’argomento della guida del TCI (tra le carte dell’Archivio Storico del Comune si trovano decine e decine di impieghi di questo nobilissimo e universale argomento). Se non fosse stato Altieri, avremmo potuto farcene l’idea di un cretino. Ma sul punto era un uomo molto abile, come del resto lo era sempre e sempre lo sarebbe stato. Non si rifugiava nel ridicolo ma nell’ovvio, come l’unico rischio della procedura comica. Si lasciava guidare dalla guida. Era la primissima guida del TCI, quella che suggeriva ai pochissimi automobilisti in visita alla terra di Girgenti di badare acchè i naturali, atterriti dal rumore dei motori, non distruggessero gli automezzi. Fà quindi da girgentino una visita a Girgenti con la guida in mano. Paradossale ma di correttissima conseguenzialità è dunque la mia osservazione che così facendo si sarebbe potuto demolire S. Spirito, perché non adeguatamente citato nella guida. Ad Altieri era venuta l’idea della guida (che peraltro era stata ag-
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giornata da Le Vie d’Italia proprio sull’argomento dell’arte chiaramontana!!!!) e la utilizzava come sogliono fare politici e amministratori, che si avvalgono frettolosamente delle ultime o delle occasioni letture, spesso fortuite. D’altra parte Altieri (e con lui tanti e tanti cittadini con cariche, incarichi ed interessi rettorici o robustamente venali; e con i tanti della cittadinanza plaudente ed appositamente convocata per l’obiettivo) era per la costruzione della nuova stazione. Non potrà sfuggire al ricercatore storico di domani, se ve ne saranno, che Altieri era potentemente interessato ai grandi lavori pubblici, in quanto commercializzava in regime monopolistico il cemento Portland, ed inoltre produceva, in regime altrettanto monopolistico, i blocchi Rosacometta con cui sono stati realizzati ad Agrigento i grandi lavori. Con i risparmi di qualche anno di profitti Altieri potè realizzare l’attuale palazzo dell’Intendenza di Finanza. Uomo del resto abilissimo ed anche coraggioso e segretamente leale: non interruppe mai i suoi rapporti massonico - socialisti, proteste quell’adamantino eroe dell’antifascismo che fu Giuseppe Sciabica dandogli di seguito tre possibilità di sopravvivenza economica e sociale e si fece proteggere, a fine guerra, dall’autorità morale di Sciabica. Conservò in particolare i suoi rapporti criptici con l’alta finanza isolana e col Banco di Sicilia, centro dello zoccolo duro massonico. Oltrecchè Podestà fu anche Sindaco, malgrado una norma imperativa che vietava agli ex Podestà di ricoprire la carica di Sindaco: la sentenza con cui il Tribunale lo dichiarò decaduto da Sindaco, pervenne un giorno dopo la fine della sindacatura per cause naturali. Storicamente può quindi dirsi che fosse ben collegato ai tribunali, visto che... era stata respinta una sospensiva, giudicando il tribunale che non vi fossero gli estremi dell’urgenza: proprio perché non era urgente applicare la legge. Ed oltrecchè Sindaco, fu amministratore post - bellico del Banco di Sicilia (grazie a Tristano, Caruana e altri). Personalità quindi complessa e storicamente affascinante. Condivido dunque le mie opinioni. Mi sono imbattuto per caso e di sbieco nella figura del vescovo, e sulle sue indecisioni; sul suo silenzio (prima ancora di pensare a suo non - aggiornamento) avanzo le mie ipotesi. Stanchezza, o forse incapacità a sovvertire una decisione già presa da altri, e - forse - nel fondo un certo temporeggiamento e l’incapacità o l’impossibilità, poi, di recedere da esso o di prolungarlo ancora; e quindi il voto, l’assenso, o forse l’indifferenza
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(che psicologicamente potè coprire l’assenso come un vuoto di fatto, come un disimpegno). Di temporeggiamente, del resto, il vescovo era stato accusato in occasione dei fatti di pederastia in seminario, inquisiti dalla procura. Tra i suoi critici vi furono dei sacerdoti (Sanfilippo) che ne attaccarono il laisser faire. Ed un motto popolare diceva: i parrini cantano/e u viscuvu runfulia (i sacerdoti cantano la messa solenne ed il vescovo dorme): ritratto popolaresco di una stanchezza, di una età o di un modo di portarla, di un atteggiamento di rimandamento o d’astrazione. E proprio giorni addietro ho riascoltato questo motto (che unitamente ad altri dello stesso genere avevo già raccolto) dalla bocca di una annosissima e semidemente donna del piano Biberria (e che io chiamo donna dal fiore in mano, perché sta tutto il giorno ad andare e riandare da suoi parenti ad altri portando in mano o un fiorellino o qualche filo d’erba). La donna alludeva ad indifferenza (nel caso della citazione, del governo che non si occupa dei poveri etc.). Ma credo che lo scritto diffuso dal Sanfilippo sia a tal proposito da prendere in considerazione: non come oro colato, ma neanche come infondabile calunnia. Non mi risulta infatti che il Sanfilippo sia incorso in quelle misure che sarebbero certamente scattate in caso di suo diabolismo. In sè per sè la demolizione delle torri e delle mura non mi muove a culturale disperazione, se non per la perdita di manufatti architettonicamente significativi e urbanisticamente distintivi. La demolizione fà parte, nei miei interessi storici, di un processo di cui fisso alcune tappe: 1) 1850: i poteri convengono che la città non sarebbe dovuta tracimare dalle mura; Girgenti era destinata urbanisticamente a rimanere città murata; il suo spazio esterno dalla parte di Porta di Ponte si sarebbe dovuto utilizzare come verde pubblico e luogo di insediamenti religiosi preesistenti; si destina in bilancio una notevole somma per realizzare la nuova città, o meglio un quartiere di ampliamento, presso Villaseta, per rinsaldare il molo al capoluogo etc. etc.; 2) 1860: Ha inizio un processo feroce di demolizionismo; vengono demoliti insigni monumenti si ha una certa furia demolitoria anticlericale; scampa per poco, e per motivi formali, il campanile di S. Lorenzo; la città divora i propri intestini; il raddrizzamento e livellamento di via Atenea divora decenni di bilanci; non si curano nè scuole nè commerci nè sanità; la riurbanizzazione del corso consente ai proprietari degli immobili ristrutturazioni gratuite di magioni nonchè notevoli
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ampliamenti (in basso, con la rifondazione delle case e la creazione di magazzini a piano terra); 3) in periodo fascista la Città esce da sè: la demolizione delle torri e mura ha lo scopo di indicare le linee di sviluppo, potenzialmente per l’annientamento orografico e morfologico della Rupe Atenea (case INCIS) e lo sprofondamento verso la valle dei templi; 4) 1945: si porta avanti il disordinatissimo disegno. Non mi occupo di illegalità ma di inanità, di esapienze, di anormalità, di mancanza di gusto. Agrigento diventa una città con tredici frazioni o quartieri decentrati: quindi, a fronte di meno di 60 mila abitanti, una città pro - capite costosissima stante le diseconomie di scala, gli sprechi, le diluizioni dei servizi etc. Queste diseconomia non vengono pagate dal cittadino ma dal “pubblico”. Nasce una irresponsabilità comunitaria. Tutto questo trova nella demolizione delle mura in mancanza di idee territoriali, programmatorie ed urbanistiche (ben previste in epoca fascista ma non perseguito in loco) un suo momento storicamente importante. Questo è stato il mio interesse nel menzionare, quasi occasionalmente l’episodio della demolizione delle mura. Ma avvedo che, per l’asfittica occasione stessa, per la mancanza di libertà impostami dalla pubblicazione che stava compilando (e che scrissi nello spazio di un mese) posso essere incorso in inesattezze di sviluppo, ma non già in inesattezze di chiamate in causa. A Dio piacendo vorrò ritornare sull’argomento, ma esperite le opportune ricerche di approfondimento, ed in forma organica ed esauriente, con tutti gli apparati e le citazioni del caso. No, egregio Monsignore: non sono d’accordo con lei. E non perché lei non è stato d’accordo con me: sarebbe mera civetteria, in un individuo come me, come son privo di quella buona dose di amor proprio che in varie occasioni di vita mi sarebbe ritornata utile. Più semplicemente, non sono d’accordo con lei perché non è d’accordo con la verità storica. Il mio dissenso dal suo, a ben guardare, non è contrapposizione ma giustapposizione. A pag 91 di “Pirandello e l’Archeologia”, recentemente pubblicato dalla Regione Siciliana, leggo che il vescovo Lagumina “fece parte della Commissione istituita dal Regio Ministero, che doveva occuparsi della conservazione e del restauro dei monumenti di Agrigento”. La qualità ecclesiastica, non impedì ai pubblici poteri di conferirgli l’incarico, nè al vescovo di accettarlo. Non posso che concludere di essere d’accordo con me (e con molti altri) e con i documenti che ho
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letto e che non richiedono alcuna interpretazione in quanto si esauriscono interamente nel fatto. Ancora ringrazio, illustre Monsignore, per i suoi tre doni librari, che son già divenuti quattro, aggiungendovi la pazienza che ha voluto dedicarmi con la sua lettera. Spero di poterla rivedere presto, per ritrovare quella gioia facoltosa che padre Vajanella sapeva dare e che anche lei sa dare”. * * * Dopo questa mia lettera ebbi modo di incontrare il grande storiografo della Chiesa Agrigentina una sola volta, e per telefono. Nel corso della conversazione ed a proposito della mia lettera e del suo cruciale oggetto mi disse che, si, forse avevo ragione. “In una eventuale ristampa del 5° volume de La Chiesa Agrigentina non mancherei di rimediare”. Mi parve di capire che avrebbe cassato la stroncatura pur rimanendo, nel silenzio di un testo emandato, in disaccordo con me. Un disaccordo in quella eventualità implicito e per così dire muto e receduto in privata cortesia. Mons. De Gregorio è morto, enorme perdita per la cultura agrigentina; ma da quella conversazione ho tentato reiteratamente di fare il punto intellettuale e psicologico del suo recesso con riserva. Scrivendo di uomini di Chiesa l’insigne storiografo si faceva apologeta, anzi si costringeva tale perché, com’egli era uomo di Chiesa più santo, umile e potente di tanti altri che aveva lustrato, in questo stava la libertà del proprio incondizionabile impegno. Era insomma irriducibilmente sacerdote, a costo, in certe tessere della propria opera, riducibilmente obiettivo. La sua oggettività era rispetto a certi fatti soggettiva: ma dalla parte della Chiesa, e quindi, per così dire, oggettivamente soggettivamente e universalmente tale. Rispetto al parvolo episodio che investiva il Lagumina (e che parvolo non era nè sarebbe stato per la vita della Città) gli riusciva inconcepibile che l’azione di un ordinario diocesano potesse non apparire nè risultare benefica: onde l’aveva retrocessa a mera inazione, a fatto non commesso e privo del presupposto stesso del fatto. Questo metodo si attaglia perfettamente all’idea direttiva che, nell’affrontare la ricerca storica, ha ciascuno degli addetti, e meno bene quando dalla ricerca condotta da ciascuno di noi si passa a quella altrui ed ai risultati che ha di volta in volta. Essendo vescovo, il Lagu-
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mina non potè essere stato Presidente di quella Commissione distruttiva in compagnia di tanti altri personaggi distruttori. Siamo, come si vede, alla creazione di un antemurale ideologico ed istituzionalistico quale presupposto dell’impossibilità del fatto: un procedere per eccezioni. E però il fatto è stato tutt’altro, e ben documentato. Gioeni non ha avuto alcuna parte nella distruzione del tempio di Giove. Lo stesso non possiamo dire del medievalista Lagumina nello spianamento degli imponenti resti architettonici e topografici delle mura girgentine. Nell’organismo cui era preposto egli fu il presidente del silenzio e dell’assenso.
POLITI: RITRATTO DI PIO IX DEL MUSEO CIVICO
Nel deposito del Museo Civico di Agrigento, in cattiva compagnia degli oggetti più disparati e trapassati (legname fatto simile a rilievi aerei di necropoli, com’era crivellato dai tarli; scatolame rinsecchito dal disuso; cornici dalle vernici grommose, dagli stucchi lebbrosi d’umido; pile di scartoffie coltivate dagli scarafaggi e imbrattate dalle loro discariche: et cetera) si giaceva il ritratto non inventariato d’un Papa. Da qualche anno è stato inventariato, traslato in una sala del Museo, esposto al pubblico, a scorno del passato e delle circostanze che avrebbero potuto avvantaggiarsene. Certo, è un fatto curioso (pur senza spingerci a perorarne l’eccezionalità) che un antico, molto dignitoso olio su tela venisse tenuto in nessuna evidenza tra sfasciumi da smaltire o già smaltiti in deposito, ininventariato (come suole dirsi bruttamente) in un pubblico istituto culturale, glorioso per di più quale il nostro Museo. Un numero d’inventario è quello che è, né più né meno che un dato in cifra, punto di riferimento a sua volta riferibile: prova e inconfondibile pretesa nello stesso tempo. Senza tale cifra un’opera risulta smagliata dalla stringente e raccolta catena di un’universalità di beni e valori, sia che si considerino dal punto di vista immateriale, artistico e culturale, che da quello giustapposto, patrimoniale. E’ una catena che le opere o i “pezzi” affidatile tiene a bada e impastoia (in uno con responsabili e curatori), nello spazio – che diversamente non sarebbe quello propriamente museale – e nel tempo. Se non altro – tanto per ribadire il concetto – a cagione e in dipendenza delle responsabilità che ne scaturiscono. Per chiudere questa pertinente digressione è infine da considerare che un dato inventariale è qualcosa di più di un elemento di agnizione. Senza di esso l’opera può non essere più, come il Fu Mattia Pascal, non tanto per un venir meno della memoria, quanto per non contraddirla. Nel caso del nostro antico ritratto di Papa, tuttavia, la mancanza di un attestato di esistenza non ha fortunatamente comportato alcuna conseguenza oggettuale. E il ritratto, esistente ed in buone condizioni,
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ha potuto rimediare come abbiamo visto a quella che sarebbe potuta essere la propria iattura. Si potrebbe celiare e dire che un Museo che impiega un secolo per inventariare e riproporre una delle proprie opere è al postutto un buon Museo. Forse all’origine del caso, e quindi a sottilissima disamina dell’eventuale celia, stanno due circostanze. La prima è costituita da quella gran forza della natura che è l’incultura, coi suoi dinamismi ed esiti a volte conservativi ed a volte distruttivi. Essa non ha memoria, non vuole memoria e non è disposta ad avere memoria. Ricusa coerentemente la ricerca, la penetrazione, il dubbio e persino la curiosità, coi loro assilli ed incomodi. La seconda circostanza è costituita, a nostro giudizio, proprio dal soggetto ritratto: un Papa. Soggetto non appetibile, non ostensibile a fine di sfoggio domestico ed armamentario domiciliare: soggetto senza domanda e senza offerta, dunque: salvo un uso specialistico o peregrino. Vada per i quadri di Sante e Santi, che costituiscono la gran copia dei soggetti degli oli antichi commerciati. Ma che è il ritratto d’un Papa, ove non risulti eseguito da un pittore dal nome risuonante? Veniamo al nostro. Esso raffigura Papa Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti (Senigallia, 1792; Roma, 1878). Papa famoso e per un trentennio e passa, quanto durò il suo lungo pontificato, in bocca ai patrioti italiani che ebbero modo di passare dai giudizi entusiastici della prima ora alle più solenni (e persino carducciane) stroncature e canzonature. Papa che la fece insomma, mettendoci di proprio il passaggio da un apolitico liberalismo ad un impolitico autoritarismo, da ciotola e tavolozza ove si fluidificarono e si rappresero bollori e grume di patrioti e patriottardi; e che ancora la fece – dopo il 1870 – da capro espiatorio a consolazione dei delusi che varcando Porta Pia avevano creduto di entrare in Paradiso, o di essere rientrati nella Roma dei Cesari. Papa dunque acclamato anche nella Sicilia rivoluzionaria del 1848, e nella Girgenti di quel redivivo Manfredi Chiaramonte che era divenuto Gerlando Bianchini, e del pittore, incisore, archeologo e poligrafo Raffaele Politi. Fu proprio costui a dipingere il ritratto in questione. Di ritratti, anzi, ne dipinse quattro. Quello del Museo Civico è l’unico che ci sia giunto, e oggi siamo in grado di attribuirlo a pieno e documentale titolo (nel che, in fondo, si compendiano l’intento e la virtù di questa comunicazione).
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I ritratti vennero destinati il primo al Tribunale Civile, il secondo al Tribunale Criminale, il terzo al Comitato Centrale (dell’Amministrazione Civile) ed il quarto alla Cancelleria (ovvero: Segreteria) del Comune. Il 13 aprile 1848 il Comitato di Amministrazione Civile, Commercio e Pubblica Istruzione presieduto in seduta giornaliera dal De Luca, deliberava di liquidare al Politi il compenso di sei onze per ciascun dei quattro quadri già dipinti, consegnati e appesi. Quattro giorni dopo lo stesso De Luca ordinava al Sindaco il pagamento dell’intera somma. Nel cremoso ed impercettibile disbrigo di affari ben più cogenti e importanti, la pratichetta non volle soffrir ritardi e venne guidata da mani speditive ed amiche. Non vi è cenno di preventivo incarico, di autorizzazione preventiva, di commissione. O se c’erano verbalmente stati, non si era guardato al prezzo. Sei onze erano sei onze, e per quattro facevano ventiquattro onze. Di sei onze era per l’appunto il compenso “tutto compreso” anticipato alle reclute “volontarie” ingaggiate con lusinghe ed avviate in Palermo. Il “premio”, che era un contratto di vita e di patria, era considerato ingiustamente eccessivo, ma soltanto colla sua profferta i reclutatori volontari poterono trovare degli animosi involontari disposti a rappresentare la Città per procura dei rivoluzionari. Fossero stati reclutati i reclutatori, l’economia sarebbe stata notevole. Sei onze infine erano il compenso annuo corrisposto al medico del Molo. Anche in tempi di scarsezza, dunque, Politi venne remunerato con manica larga. Particolare sufficiente: il pagamento avvenne immantinente. Denari non si avevano per versare le tasse di guerra, pagare le tangenti, comprare polveri e fucili. Invano una turba di piccoli disperati creditori premeva sul Comune la cui cassa era stata prosciugata dagli appalti bellici e dalla spesa corrente di una pletorica organizzazione rivoluzionaria. Sulla commissione dei ritratti abbiamo il sospetto fornito dalle carte che l’idea di dipingerli sia venuta al Politi prima che ad altri, e che avendoli dipinti nel numero giudicato opportuno abbia provveduto a piazzarli, mettendosi tra coloro che venivano considerati “creditori privilegiati della Nazione“. Dietro l’eufemismo c’era quasi sempre un debito, vero o presunto, del Comune. Questa congettura non falsa il personaggio, portato ai più imprevedibili atti di prontezza e ad avanzare da sé domande ed offerte delle proprie prestazioni. Col guerresco, tribunizio e sensuale Bianchini il
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Nostro era il personaggio locale più famoso, e tale sarebbe rimasto, solo, a lungo e in crescendo, dopo la chiusura di quella parentesi. L’ostensione dei quattro ritratti parve un’impresa felicemente azzeccata. Ci vuole sempre un monumento o almeno un ritratto, specie se altri sono stati distrutti o nascosti. Non conosciamo i sentimenti del Vescovo Lo Jacono nel sapere che i ritratti del Re erano stati sostituiti con quelli del Papa. Il teatino Lo Jacono era un uomo in tutto lento fuorché nel dar corda. Un anno prima aveva chiesto al Re in visita a Girgenti di dotare la Città di acqua potabile e corrente, quella di Racalmari; per farla finita s’era anzi impegnato a concorrere alla spesa. Un anno dopo sarebbe andato a far visita a Pio IX fuggiasco a Gaeta dopo la proclamazione della Repubblica Romana. “Nella rivoluzione del ’48 – dice il Lauricella – mostrò gran coraggio, prudenza e fermezza”. Prudenza nei confronti degli avversari, dei loro salamelecchi e tiri birboni; fermezza coi suoi e coraggio naturalmente nell’aver fermezza e prudenza e nella ripartizione ed uso che ne faceva. I ritratti del Politi vennero benedetti dal vescovo, che appariva sempre di più indaffarato dalle questioni rivoluzionarie. Da lì a qualche mese avrebbe disposto l’esposizione del Sacramento nelle chiese monasteriali e sacramentali della diocesi, con tridui di preghiere e rosari speciali. Di fronte al fallimento delle collette civili ed al nessun esito del mutuo patriottico aperto dai notabili e non sottoscritto che da qualcheduno di essi, non esiterà ad autorizzare le collette nelle chiese, ad inizio delle celebrazioni delle messe. Tutto questo promuoveva o soffriva “per le buone sorti della Patria”. Era la sua formula preferita e non si sbottonava diversamente, lasciando insospettire che si riferisse alla vecchia Patria, o ad una Patria nuova, oppure a quella celeste. Intanto i proventi delle collette andavano al potere civile ed ai comitati competenti. Sembrava che la Chiesa si stesse sciogliendo in favore della borghesia che gestiva e contabilizzava la rivoluzione. Ad ogni arrendevolezza del vescovo, dunque, i notabili più versati rispondevano con un altro giro di vite, e il tiro alla fune durava. Scrivendo e predicando l’astuto e dolce teatino soleva invocare il Dio degli Eserciti, in una Città ove mancavano i fucili, e s’era compilato un elenco dei coltelli disponibili e dei coltellai forniti, e s’era costruito sotto il Carmine una costosissima fortificazione simile ad un agrario canale di sgrondo… Lo Jacono procedeva come la lama d’un bisturi e l’effetto di una anestesia. Dolorava di utilità ed esternava preziose destrezze nel dire e nel non dire, nel fare e nel non fare.
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La prontezza del Politi trovava in lui un imbattibile maestro. Quando si posa il precipitoso problema di radunare ed utilizzare gli ori e gli argenti ecclesiastici, si trovò che il vescovo aveva già impartito ai canonici della Maramma della Cattedrale – Euclide Lo Presti e Giuseppe De Castro – le più opportune disposizioni in tal senso. Il potere civile, che aveva previsto lungaggini e rimostranze, si trovò impreparato a ricevere quel che domandava, e dovette affrettarsi alla ricerca di un estimatore, scelto infine in persona nell’orefice Casà. Curatore delle cose d’arte, il Politi stava nel gruppo. In quei giorni sparì nella storta del crogiolo, per farne palle e cannoni, un grande fregio bronzeo proveniente probabilmente dal timpano di uno dei templi. Lo avesse venduto, il Politi, ad uno dei tanti Re nordici, come tante altre opere d’arte: oggi avremmo potuto ammirarlo – che so io – nel Museo di Monaco di Baviera: che è il più importante museo archeologico agrigentino. Anni da esplorare, quelli; da studiare come non s’è mai fatto. Il Sileci, che scrive e consegna al poligrafo e canonico Giuseppe Russo, in punto di morte e sotto segreto confessorio, un’anti – storia delle “Memorie” del Picone, narra che il Bianchini mandò dal vescovo uno dei sacerdoti liberali, tale Scaravilli “che aspirava al vescovado di Girgenti”, per indurlo a rinunciare alla dignità, opinando di doverlo sostituire con lui. Il vescovo oppose motivi d’ordine sacramentale, con un garbo, senza scomporsi. “Perdoni, Monsignore, mi sono presentato a lei d’ordine del Cavalier Bianchini cui dovevo ubbidire essendo egli a capo del governo di questa città”. Lo Scaravilli ci appare come un ribaldo in quel frangente rispettoso, forse sommosso della montata affrontata per entrare nel palazzo che riteneva già suo, dall’anticamera, dalla “tête – a – tête”. Uomo impastato male, a me risulta nativo di Palma di Montechiaro. Che la notizia del Sileci, per quanto sofisticata, possa non essere infondata, ci appare dal fatto che lo Scaravilli s’era in precedenza dedicato a pungere e insolentire il vescovo. D’altronde aveva visto i propri amici spartirsi il potere e temeva di rimanerne escluso, lui che in fondo era rimasto prete e guardava alla carriera di prete, quindi al vescovado. Proprio dal quarantotto locale si svilupperà quel processo storico che in un decennio avrebbe portato all’affermazione di un tetragono anticlericalismo (di momento in momento cospiratore, patriottico, liberale) da intendere come un “clericalismo profano”, come una con-
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traddizione in lotta socio – economica del clericalismo: mentre la Chiesa agrigentina piantava tali vicende e si avviava all’età di Blandini. Di ciò abbiamo ampiamente parlato in un altro lavoro. La fama del Politi, uomo ligio e religioso (ed in vecchiaia bigotto) si sarebbe ancora accresciuta, ma al di fuori degli avvenimenti strettamente locali. Il grande pittore, il caustico scrittore era nel profondo un ingenuo, e si troverà ad avere avuto più voce sotto il despotismo piuttosto che sotto il liberalismo. Ad onta della stima del garibaldino Dumas e di altri viaggiatori illustri, il Politi supererà il 1860 senza poter tenere testa alle “novità” locali e senza aver potuto, da par suo, comprendere e spadroneggiare gli avvenimenti continui. Affronterà i nuovi tempi quasi senza partito; avrà ancora bisogno della voce dei suoi estimatori, ma per obiettivi pressoché pietosi. Nelle ultime transazioni col nuovo Comune si rivelerà come un uomo superato, collocato al di fuori della nuova realtà cittadina dalla quale c’era da attingere onori e ricchezze a condizione di saperla gestire con surrettizia generosità, con stomachevole abnegazione politica, contro o a favore di gruppi personali: lui che invece aveva usato descriverla e palleggiarla con accidiosa finezza e rigorosissimo amore. Veniamo ora al ritratto di Pio IX. Scomparso quello esposto nel vecchio Tribunale Civile di via Ficani, spariti quelli collocati nel Tribunale Criminale e nei locali dell’effimero Comitato Centrale, ci rimane soltanto quello che venne originariamente destinato alla Cancelleria del Comune. Esso s’è potuto verosimilmente salvare grazie all’istituzione del Museo Civico, nel quale, infatti, poterono ben essere avviati al disarmo, alla metamorfosi o alla rigenerazione, oggetti che diversamente sarebbero parsi ambigui, o pericolosi, o rimordenti. E però sull’ipotesi che l’opera sia passata in custodia clandestina nel Museo appena fondato, e cioè entro il 1870, non ci sacramenterei. Il fondo di “storia patria” dell’Istituto è stato raccolto non prima degli inizi del nostro secolo. Congetturo che il ritratto politiano sia verosimilmente rimasto tra i materiali “indecisi” del Comune, traslocato da un ripostiglio all’altro, dal vecchio al nuovo Palazzo di Città, rimanendoci per mezzo secolo. Qualcosa del genere è recentemente avvenuto pei ritratti dei Sindaci, collocati fino a due decenni e passa addietro nel c.d. “corridoio dei passi perduti” del Palazzo di Città. Sono stati recentemente acquisiti dal Museo, restaurati, esposti come che sia: in attesa di tempi mi-
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gliori dipendenti da locali migliori. Ma l’acquisizione – ecco il punto paradigmatico – si è resa “culturalmente possibile” al limite in cui stava per essere “materialmente impossibile”. I ritratti avevano infatti imboccato la loro strada, preda di processi irreversibili: si stavano restituendo alla materia amorfa. La pressoché totale decomposizione li ha fatti rivalutare come reperti restituiti da un ciclo di spappolante e madido magazzinaggio. Non è sempre facile figurare passaggi e provenienze come episodi razionali, diretti, immediati, sul piano di un progresso di soluzioni e provvedimenti ininterrotti. All’opposto certi casi, certi ritrovati, maturano e si ergono da destinazioni contrarie, da chiusure ed interruzioni. Propendiamo quindi a credere che ai primi del nostro secolo il ritratto, ormai smemorato, sia stato consegnato al Museo in occasione di una delle “pulizie” del Palazzo di Città, per cura di uno smaltitore solerte con l’acquiescenza di un ricevitore comprensivo. A questo punto è folgorante la seguente considerazione: proprio il Comune e con esso il Museo Civico è riuscito a conservare ciò che altre istituzioni hanno smarrito per la strada; tela e carte che hanno reso possibile l’attribuzione dell’opera. La prima non inventariata e le seconde per poco non consegnate alla Croce Rossa Italiana per il macero. L’efficienza comunale va probabilmente spiegata richiamando le due circostanze su cui abbiamo già attirato l’attenzione: il soggetto papale dell’opera, e l’anonimità del pittore. Ogni motivazione, d’altra parte, se vuole essere plausibile deve rinunciare ad essere gloriosa ad ogni costo. Sta di fatto che il Comune ed il Museo Civico, nella conversazione di opere e testimonianze, hanno resistito ai tempi. Si ponga mente alle raccolte archeologiche comunali cedute allo Stato ed oggi esposte nel Museo Nazionale. Altre raccolte cittadine, pubbliche e private, sono state smantellate, scomposte, involate. Si deve alla continuità di una tradizione culturale comunale – per quanto essa sia stata e sia negletta – se abbiamo potuto comunicare che il ritratto di Pio IX, nr. 60 PIN.C. d’inventario è stato dipinto da Raffaello Politi. La tela misura cm. 65 x 83. Il fondo preparatorio della pittura, su tela grezza e robusta, appare accuratamente mesticato e spesso. In tali operazioni il Politi seguiva probabilmente dettami antichi, lavorazioni complesse ed impeccabili che fanno parte della coscienza che aveva di sé, della validità creativa di “prodotti” destinati a consolidarsi e durare nel tempo per pregio d’arte, cui era quindi opportuno non venisse meno il supporto materiale. Per la manipolazione preparatoria
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delle tele il pittore riecheggia l’accuratezza dei neoclassici francesi. Indi i colori non vengono descritti sulla mestica, ma spalmati a mò di rivestimenti che tendono la tela, la accordano al soggetto ed come una corda di viola al suono. La levigatezza cartacea della pittura politiana promana dalla ricchezza del sostrato. Il Papa è seduto su di una poltrona ottocentesca, comoda e borghese dei robusti braccioli. Appare discostato dalla spalliera ovale di cuoio rosso che raccoglie e chiede il fondo scuro del quadro, in posa sorpresa e imbarazzata. La sua mano destra, in atto di sollevarsi, lentamente, o di recedere, accenna ad una benedizione della quale sembra non aver ben deciso il valore di saluto cerimoniale rispetto ad un significato gestuale più profondo e religioso. Un grosso anello con zaffiro gli orna l’anulare. Nel gesto benedicente le dita si incrociano, la mano diviene un crocifisso animato. Le pennellate rapide assecondano l’astrazione anatomo – funzionale. La mano sinistra giace sul grembo come un corpo stanco, diviso da rigidità e rilassamento. Pio IX indossa un abito nocciola chiaro con pesanti sopramaniche, fascia e risvolti bianchi ai polsi, “papalina” sui capelli grigi setosi, croce pettorale. Dal suo volto carnoso eppur scheggiato da due rughe profonde che scendendo dalle pinne del naso divaricano le guancie, promana cert’aria di sofferente incertezza – che è forse il sentimento del pittore nell’immaginare il personaggio. Gli occhi sono vivissimi, inquietati da un’energia portata più a resistere che a dettare o a ribattere. Complessivamente la psicologia del Papa è antiveduta, indovinata. Quanto al “modello” su cui ha lavorato il Politi, escludendo la sua personale conoscenza del Mastai Ferretti, non resta che di supporre la messa a profitto di una delle tante stampe e incisioni che in quell’anno correvano per tutt’Italia; ma la fine acutezza dello sguardo è mutata da quel Gannagostino De Cosmi di cui il Politi aveva eseguito il ritratto, e che come scienziato e religioso poteva bene imprestare qualcosa anche al papa, e rimanere indelebile nella memoria del pittore.
I NETTURBINI E LA CULTURA
A Palermo il fruttivendolo di albicocche aveva dato luogo ad una sensuale rappresentazione, egli era il banditore di schiavette circasse. I pircochi d’u parrinu, i pircochi d’u parrinu, rimenando con le mani a forca il monticchio della merce sul carrettino, spogliandola in balenii e rivestendola in quel suo scomporre e ricomporre il monticchio. Le albicocche si nascondevano l’una l’altra, arrossendo di vergogna o sdilinguendosi in pallori verdognoli. Se avessero potuto fiatare, avrebbero emesso gridolini di ritrosia coi falsetti di una reciproca sfacciataggine. A me che chiedevo il conto di quelle sue grida, il banditore buttò in quattr’e quattr’otto una storiella che sembrava desunta da Mateo Aleman e che per brevità unita alla decenza vi risparmio. L’esplicazione fu così stentorea da coinvolgere un piccolo uditorio. Mai come in quella occasione ho sofferto l’imbarazzo di apparire come un compare di scena. Le grida dei rivenduglioli ambulanti agrigentini erano meno istoriate e non usavano ingerenze: i sobri nomi delle merci, pochi e salienti aggettivi e tutt’al più qualche infiorettatura per inuzzolire tanto gli astanti quanto gli assenti che non vedevano ma udivano. I pesci erano vivi – vì, freschi perché vìnniru ora (quasi a piedi, da Fondacazzo, per sacrificio turistico). Quelli di mattina erano di tartaruni, svegliati appena e non ancora districati dai letti d’alga. Di sera la fragaglia veniva cantata per la beatitudine del gusto e la misericordia del costo. Delle pere si evidenziava l’incerata levigatezza e della marsigliana la biondezza di miele. Cala ‘u pani e fa ‘ vucca: serve da companatico e forbisce la bocca. Il limone era sempre autorevole: servi p’u baccalà e pi l’acidità. Gli interessati richiamavano i venditori con i nomi delle loro merci, cosicché nell’offerta e nei preliminari circospetti della domanda i bandi venivano ripetuti, ma con icastica accortezza da parte dei richiedenti, in quanto li privavano dalle frasche aggettivali. Chi si accinge a comprare vede la qualità con gli occhi e con la bocca la discala. Marsigliana veniva chiamato l’uomo dall’uva fulva e mielosa, e pisci l’uomo che vendeva il pescato. C’erano naturalmente, per gli attracchi degli
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affarucci cucinari e le chiamate da finestre e balconi, gli uomini – milangiani, gli uomini – nespuli, gli uomini – cipuddi e così via. Non si davano altre regole vocative, accentuato il caso, che si era ritrovato lesto lesto in un solitario e sollazzevole aneddoto, della monachella costretta a richiamare l’attenzione di un imbonitore di pisci cazzuni, un specie di palombo: la quale, soffrigendosi nella ambascia di abboccare ad orali licenziose sconvenienze, con timorata ipocrisia al motto del pescivendolo aveva verseggiato a mò di responsura la locuzione “’a vossia d’u pisci c’u santiuni”. Siamo nel campo delle svelte, transeunti soprannumerazioni negoziali e di servizio. Il totemismo appellativo si faceva tuttavia raccapricciante nel richiamo degli operai giornalieri che il Comune adibiva per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti urbani: ‘a munnizza. Avevamo in Città anche l’uomo – mondezza, scaricato e scacato dai richiamati. Res nullius la mondezza, homines nullius coloro che l’esitavano. E poiché l’uomo dice quello che concepisce e concepisce quello che è, se ne consegue che come numero gli uomini – mondezza andavano bene al di là di quello esigui dei richiamati, annoverando quello ben più cospicuo dei richiamanti. In sede interna, e cioè in partibus municipii, l’appellativo era diverso: gli operai – nulla venivano semplicemente chiamati col verso di “a tia”. La voce era contemporaneamente un ordine di presenza e di attenzione, una chiama, un calcio verbale. Il brigadiere che accudiva agli spazzini aveva la faccia di faina e i crudeli baffetti sudamericani. Ritto era una meraviglia magrissima, avendo la carne d’ossa: sull’attenti innanzi al sindaco, col saluto militare e la mano a visiera per ripararsi dal sole, indice e medio ingrommati di nicotina. Quando camminava sembrava invece guadagnarsi, con la sofferenza su questa terra, il paradiso. Aveva i calli e non esitava a parteciparlo a chiunque, era il suo modo per fare amicizia e stabilire confidenze, strascicando i passi come una lingua per voto, che so io, dalla porta della chiesa di S. Nicola o di S. Calogero all’altare. A volte raccontava qualche stolta ed oscena barzelletta, ma non agli spazzini che non avrebbero saputo né quando né per quale meccanismo di scioglimento scompisciarsi dalle ruffianissime risate che gli tributavano invece i caporali sottoposti ed addetti al diuturno aguzinaggio degli operai. Il compito del brigadiere e dei caporali era quello di reclutare ogni alba gli uomini – mondezza occorrenti per il servizio, e di licenziarli a fine giornata. Ciascun operaio sperava di essere riassunto all’alba
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successiva. Accanto a questa funzione vi era quella di spremerli a buccia durante il lavoro. Gli ingaggiati non conoscevano alcun diritto, non conoscevano neanche la parola; mancavano di qualsiasi garanzia e fuori servizio si votavano al vino. Nelle fiere di S. Calogero, del Signore della Nave e di S. Gerlando, invece, vigevano obbliganti ed onorate consuetudini per l’acquisto degli animali, che si potevano provare a riggirare a lungo ma non cambiarsi, una volta acquistati, con la protesta di un vizio di temperamento, d’ambio o di pigrizia. Per gli “a tia” sarebbe stata una fortuna essere acquistati dal Comune una volta per tutte: a forfait, vizi e anime incluse, ivi compresi gli accidenti di tracomi, scabia e tubercolosi che non mancavano. Parallelamente al mercato aurorale del lavoro maschile si svolgeva in pieno giorno quello promozionale delle mogli e delle figlie degli “a tia”. Esse imploravano o reclamavano una certa continuità di lavoro dei loro uomini. Se le donne erano piacenti e ragionevoli scattava una circuita attenzione all’uso sessuale. Se pulite e presentabili venivano avviate alle faccende domestiche. Le donne forti ma di sfatta apparenza erano impiegate come “criati” ed esseri di fatica. Entravano nel giro delle fruizioni amministratori, capi, sottocapi, mezzi e quarti di capi. Il Comune aveva la Bianca in casa. Brigadiere e caporali si servivano per primi, non è vero che chi spartisce ha la parte peggiore o minore. Essi, per così dire, si servivano direttamente in cucina. L’ufficio dell’antico corpo di guardia, locale della più antica biblioteca consorziale, era stata trasformata in garconniere: lettini da campo, un lavabo, qualche bacile, una caraffa d’acqua rifornita da alcune vicine quartare che, rispetto al biancore dello smalto, apparivano bigie e rugginose; un tiretto, asciugamani, qualche straccio a terra, una dismessa scatola di sigari in latta con dentro una saponetta color zolfo; sui muri qualche affresco a carbone, invitante ed inequivocabile. Brigadiere e corporali agitavano discretamente, non volevano apparire come coloro che tolgono il pane ai capi: profittatori, insomma. E dei propri calli il brigadiere si serviva come di un elemento ieratico e rassicurante. Ricordo anche che a picco sul lavabo, stranamente molto in alto, era appeso un enorme paracqua, nero di stoffa e bianco di polvere, non più usato da decenni, simile ad un uccello di malaugurio. La precisione dei miei ricordi deriva dal fatto che, non appena assunto dal Comune, portai a termine una delle mie prime operazioni “culturali” facendo sequestrare da un sindaco renitentissimo e impallidito dal livore quell’antropologico locale.
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Le donne degli “a tia” erano servite a lungo, risparmiando le mogli dei maschi comunali di vaglia dai loro mariti e dalle faccende domestiche. Agrigento era brano a brano misteriosa e cordiale, apollinea e satiresca, abbottonata e indifesissima. Per ogni tenda che si apriva una seconda ben chiusa rendeva invisibile il fondo. Le virtù tutelavano i vizi e le miserie morali. La vita di provincia pesava sordida, grassa, profittatrice, antichissima: ma si imbellettava di aria tra scanzonata e ingenua e sprovveduta, e comunque autosufficientemente nobile e venuta da lontano: in una parola, classica. Anche la bellezza congiurava per truffare la verità: la bellezza eterna plaga, quella eternativa dei templi, quell’altra del mare né vicino né lontano. Col passare del tempo il mondo degli “a tia” e degli uomini – mondezza si ritirò, battuto dalle battaglie culturali e civili che, col pretesto sindacale, una mano di giovani comunali condusse contro la grasceta dell’antico decoro. La biancheria intima della Città era veramente succida, e dall’interno del Comune vedevamo quello che si nascondeva negli scodinzolanti passeggi di via Atenea e nel cuore delle vecchie cautelatissime abitudini. Fu della partita anche un giovane amministratore di allora, Sodano. Lo condividemmo e ci condivise, spesso non senza scontri né musi brutti, ma sul piano dell’equivalenza degli intenti. Il servizio della nettezza urbana venne regolamentato, ebbe un organico, fu profondamente rinnovato e potenziato. Gli operai raggiunsero il numero delle 150 unità. Le nuove assunzioni avevano introdotto molti elementi proveniente da fuori città, i quali, preferendo all’emigrazione verso l’estero quell’umilissimo lavoro che eravamo riusciti a riscattare e riqualificare, portarono all’interno della categoria una ventata di qualificazione collettiva. Molti erano, infatti, coloro che possedevano un mestiere: chi calzolaio e chi falegname, chi elettricista e chi idraulico. Predominavano manifestamente gli ex contadini. Nei confronti di tutti permanevano inveterati pregiudizi, persino con punte rancorose da parte di certi ambienti pubblici, socio – culturali e burocratici. Agrigento, con un mondo contadino messo in fuga e i ceti d’arti e mestieri pressoché scomparsi, era ridotta ad anima e corpo, burocrati e sacerdoti, politica e consegne politiche. Sembrava che non ci fosse posto per altri sensi, per stimoli e sentimenti diversi come la disponibilità incondizionata, la gratuità degli impegni, la gratuità ludica delle occupazioni extra – produttive.
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Da funzionario comunale avevo mantenuto un rapporto privilegiato e ricambiatissimo con gli operai in genere e con quelli del settore in particolare. Ci si incontrava settimanalmente, portando avanti l’attività sindacale ed accanto ad essa una crescente attività culturale. Tutto era semplice e strabiliante: naturale. La storia della Città era tra gli argomenti preferiti e richiesti; verteva sul passato prossimo e su quello remoto. Perché i greci si chiamano greci ? – mi si chiese un giorno (a mia nonna, insegnante elementare, avevano chiesto un giorno perché l’uva fosse racina). Chi sono i saraceni ? Perché il Tempio della Concordia è bello ? Parlavo e parlavo, ascoltavo e ascoltavo. Spesso mi raccontavano antiche storie di quartiere, di cerchie, di paesi, di contrade. Erano lontani i tempi in cui avevo visto la Città dall’interno (vieta, asfissiante, istupidita da una mitica e surrettizia dignità) e ne avevo avuto conati: fin quasi a vedere i templi sottosopra. C’erano stati momenti in cui avevo pensato seriamente di andare via per amare asetticamente e quasi irresponsabilmente Agrigento, comodamente da lontano, e dirne tutto il bene ospedaliero possibile e fantastico. Amarla, cioè, in ricordo o in fotografia o in gita di ricongiungimento breve. Oppure ritrarmi nel reclusorio della Città riparatamente buona, tra amici ignari e incalliti di astratta prosopopea municipalistica. No, avevo trovato le mie giuste motivazioni. Il sindaco Alaimo mi aveva inviato presso il museo civico sprangato da anni, in via di spoglio e di liquidazione, perché curassi l’inventario e la salvaguardia di ciò che conteneva ancora. Ed avevo dietro di me un piccolo battaglione di amici. Dopo alcuni mesi il sindaco assentì al mio progetto di riaprire dignitosamente il museo civico, il più antico istituto culturale della Città, ma non seppe darmi uomini né poté darmi mezzi. Se ora guardo alle mie funzioni nel periodo in cui rivestii dapprima la qualifica di direttore del museo e successivamente di capo ripartizione dell’intero settore dell’istruzione pubblica e della cultura, debbo serenamente riconoscere che molti dei risultati conseguiti vanno ad attribuire all’incondizionata disponibilità degli ex uomini – mondezza, degli ex “a tia”: degli operatori ecologici, insomma. Questi umili operatori hanno sempre corrisposto con gioia e fiducia ad ogni mio progetto, sono accorsi ad ogni mia richiesta ed hanno prodotto ed assicurato risultati materialmente e spiritualmente culturali, non senza dare prova della loro moralità. Intanto la Città gli deve la riapertura materiale del museo cittadino: furono loro a ripulire e tinteggiare l’interno dell’edificio, fuori dell’ora-
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rio di servizio e senza nulla pretendere in pagamenti di straordinari. La spesa del materiale occorrente provenne da una loro colletta cui partecipai io stesso, ma non vollero che mi tassassi per una quota superiore alla loro. “Qui dentro siamo tutti uguali”, mi disse il gigantesco aitante Calogero Butera. Costui, giacché è avvenuto di citarlo, aveva trovato nella primissima mattina di una sua giornata lavorativa un sacco ricolmo di gioielli aurei, preziosi ed orologi. Si trattava della refurtiva abbandonata per strada da coloro che avevano svaligiato la gioielleria Capraro in via Atenea. Il bottino integralmente recuperato venne consegnato all’amministrazione, la quale non credette opportuno premiare il Butera, né ringraziarlo o comunque segnalarlo alla stima cittadina. Era infatti un ex “a tia”, nell’altro che un ex uomo – mondezza. Festeggiammo il Butera in una nostra riunione. A chi con lazzi e frizzi gli chiedeva il pretendere la medaglia, l’operaio rispose: quando mi pari a mia mi piglio il sindaco e mi l’appizzo nel petto. Da quel giorno il sindaco venne chiamato “signor medaglia”: e fu la civilissima e soprannominativa vendetta della categoria. Agli operatori ecologici la Città deve anche il recupero e la conservazione degli incartamenti dell’archivio storico formato all’interno del museo, allorquando i relativi fondi erano stati buttati fuori dal Comune, a formare una montagnola di carte nella piazzetta del vicolo Teatro, in attesa che la CRI li smaltisse e trasportasse per avviarli al macero. Fui io a rendermi conto dell’accaduto: e dopo la chiusura dell’ufficio, peraltro. Pioveva e faceva vento, non sapevo come agire, mi appellai ancora una volta agli operai, vi fu un passa parola di avvisi, in mezz’ora accorsero in un centinaio di unità: cinque ore di lavoro sotto la pioggia fino a notte, di imprecazioni alla volta dell’amministrazione, per salvare il salvabile. Quegli operai erano perfettamente coscienti dell’azione che compivano: non leggevano a fondo nei dettagli del suo significato, non ne vedevano le implicazioni e le vibrazioni culturali, ma si rendevano perfettamente conto dell’importanza della loro azione e della regalia del lavoro. Quando l’amministrazione mi ingiunse di evacuare in una settimana i locali del museo, per essere consegnati all’impresa che avrebbe provveduto al restauro dell’edificio, non mi poté indicare il luogo di raccolta o quanto meno di deposito e custodia delle raccolte. “Si arrangi”, mi si disse. Dopo infruttuose ricerche di nuovi locali e supplicati tentativi di trovare ospitalità conservativa ai beni, decisi di occu-
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pare abusivamente S. Spirito. Avevo l’idea ma non la forza di muovere la testuggine: ed ecco 140 operai lavorare gratuitamente tutta una domenica per effettuare il trasloco. La giornata cominciò alle 6.00, quando quella massa umana, me in testa, sfondò l’uscio del monastero (peraltro di proprietà comunale ma in mano ad una impresa che ne stava completando il restauro) prendendone possesso. Alle 11.00 accorse l’appaltatore delle opere, trafelato ed atterrito, comunicandomi con ogni scusa e circospezione possibile che l’indomani non avrebbe potuto far altro che denunciarmi. Gli chiesi di farlo contro ignoti, e mi accontentò. Ed ancora: nei vecchi locali di piazza Sinatra erano rimasti dopo il trasloco alcuni materiali inamovibili o pesantissimi. Ignoti malviventi, introducendosi notturnamente nello stabile, li danneggiarono, sfregiando anche la statua del fiume Akragas del Millefiori. Ancora una volta fu giocoforza ricorrere agli operai della N.U.: un nuovo appello, una nuova risposta favorevole. A lungo mi chiesero notizie sulla statua, e rimasero convinti della necessità del loro intervento. Nottetempo via Atenea assistette alla processione del fiume Akragas, più di trenta uomini sotto la grande base che sembrava un enorme fercolo inscenarono quello straordinario trasporto a spalla. In piazzetta Caratozzolo i portatori ebbero una crisi di stanchezza, e da lì la strada sarebbe stata, lungo via Foderà, in salita. Quand’ecco un portatore prorompere in una strabiliante scoperta: S. Calogero è nero e questo fiume è bianco! Alla parola S. Calogero sortì nuova energia d’entusiasmo, gli operai cedettero di processionare il santo, vollero giocare con la loro immaginazione, furono rapiti da un grande ritorno di energia: via a sollevare il fercolo, a prendere l’abbrivo con grida di reciproco incoraggiamento. Intanto proseguivano le distruttive incursioni notturne nei locali evacuati: la forza pubblica non riusciva ad individuare gli attentatori, sebbene avesse predisposto un servizio notturno di vigilanza. Fu un operaio ad attendarvisi, a coglierli sul fatto, a bastonarli di gran ragione (abbaiavano come cagnoli, mi disse). Il servizio notturno dei miei amici aveva funzionato. Ed i locali divennero tabù. Gli operatori ecologici agrigentini hanno avuto una parte insopprimibile ed indimenticabile nella formazione della sezione etno – antropologica del museo e nella formazione di quella medievale. Li ebbe sempre al fianco nel setacciamento dell’intero territorio agrigentino, nella visita di vecchi edifici campestri e masserie, nelle campagne fotografiche, nella localizzazione di antichi insediamenti bizantini ed
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arabi, nella raccolta dei materiali. Tutto questo avveniva di domenica, fuori del servizio, e si svolgeva a titolo liberale. In una paradisiaca e primaverile giornata domenicale 28 operai svuotarono dagli sterri un locale interrato da me precedentemente individuato nel fortilizio rupestre della Guastanella. Fu una giornata campale. Alle ore 14.00 vollero consumare il loro pasto all’interno del varco, e curiosando qua e là volevano sperimentare come vivessero gli arabi assediati da Federico II. Furono loro a scoprire in un dilavato canalone copiosi resti di cocci ceramici invetriati in bel verde. Vorrei ricordare infine la figura di Ciccio Farruggia, l’uomo – scrissero i giornali – che ha salvato centinaia di vite umane. C’era una enfatica esagerazione in questi titoli, ma sta di fatto che l’operaio Farruggia, urlando e bussando a decine di porte, la mattina del 19 Luglio 1966 aveva svegliato gli abitanti del quartiere sito a sud ovest della Città, quello più direttamente colpito e danneggiato dalla frana. Venne fotografato, intervistato, corteggiato dalle autorità alla ricerca di avvantaggiarsi della sua notorietà o di espropriargliela; venne anche proposto per una importante ricompensa al valor civile. Infine venne abbandonato a sé stesso, alla leggenda che gli avevano creato, alla rabbia di essere stato ingannato e dimenticato. Era un ex “a tia”: come si fa a premiare un uomo che, pur avendo cambiato nome di lavoro, rimaneva nella residuale e peggiore cultura cittadina un uomo pur sempre da poco ? Recentemente, nel corso di un convegno musicologico culminato nella esecuzione della Messa di Gloria dell’agrigentino Ignazio Lauricella, non ho avuto alcuna difficoltà nel dire tondo tondo che se Agrigento avesse avuto uomini di penna, di colletto e di bocca simile agli ex “a tia” piuttosto che a sé stessi, la Città tutta sarebbe stata diversa. I netturbini, una volta riscattati e umanamente inseriti nella vita locale, sono stati utili anche al di là del loro lavoro, a fronte di tanti individui vanitosi, perfettamente inutili, temuti o ammirati, asserragliati nella loro cultura o nella loro importanza e dei quali la Città, si e no, potrà ricavare quanto di mineralogico rimarrà dei loro resti. Come non ricordare, infatti, che la riscoperta e la rivalutazione tardiva di tanti compositori agrigentini, il grande Lauria in testa, si devono agli ex “a tia” ? Furono loro, infatti, a portarmi sacchi di cartacce raccolte in un antico edificio abbandonato, ritenendo giustamente che potessero riservare qualche sorpresa. Da quelle carte partì la rivisitazione storia della nostra tradizione musicale e compositiva; e quelle carte erano, in parte composizioni dovute ad agrigentini dimenticati.
NOTA
Lo scritto che dà titolo al libro – Una festa americana – è contenuto ne Il santo nero, un volume miscellaneo edito molti anni addietro e oramai introvabile. Gli ultimi tre saggi - La città scoronata: il vescovo Lagumina e lo spianamento delle mura e delle torri urbiche; Politi: un ritratto di Pio IX del Museo Civico; I netturbini e la cultura – sono inediti. Tutti gli altri lavori sono stati pubblicati sul periodico Fuorivista. L’idea originaria della pubblicazione di questo volume nasce da una sollecitazione di Tano Siracusa, che, già molti anni fa, quando Fuorivista ebbe disgraziatamente cessato di esistere, non avendo però mancato di ottenere tra le sue pagine alcuni dei più importanti intellettuali e spiriti liberi della città di Agrigento, avrebbe voluto raccolti in un solo volume gli scritti di Settimio Biondi. Il Centro Culturale Editoriale “Pier Paolo Pasolini” ed il suo presidente Maurizio Masone fecero propria l’idea senza incertezze e con autentica passione; poi, ragioni d’ordine vario e natura diversa (ragioni d’ordine vario e natura diversa) non poterono consentire che si addivenisse al lavoro finito e così del progetto non se ne fece più parola, pure se Tano Siracusa non ha mai smesso di ostinare sulla necessità di riunire in un’autonoma pubblicazione i saggi di Fuorivista. Oggi, nel trentennale del Centro Pasolini, sullo stimolo e l’insistenza amichevole di alcuni vecchi amici e nuovi compagni, questo libro vede finalmente la luce, arricchito da materiale inedito o introvabile che tuttavia compendia solo in minima parte il corpus integrale degli scritti di Settimio Biondi, che, mi auguro, sappiano col tempo trovare editori coraggiosi e ragioni culturalmente liberate. In questo senso, Una festa americana e altri scritti è un’occasione che non andrebbe dispersa quanto piuttosto promossa e seguitata. Con Tano Siracusa e Maurizio Masone, desidero ringraziare Giandomenico Vivacqua e tutti i redattori e collaboratori di Fuori-
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Settimio Biondi
vista che a vario titolo hanno contribuito alla pubblicazione degli scritti di Settimio Biondi sostenendo con pazienza il difficilissimo compito della trascrizione dei testi; e infine Giuseppe Greco che pi첫 di recente ha ricopiato alcuni inediti nei tempi brevi previsti per questa edizione. Beniamino Biondi
INDICE
Il prestigio dalla conoscenza di Maurizio Masone . . . . . . . . . . . . . . .
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L’altrove e il suo abitante di Tano Siracusa . . . . . . . . . . . . . . . .
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Una festa americana . . . . . . . . . . . . . . .
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Il Santo e il pane . . . . . . . . . . . . . . . .
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Hillary e la paura dell’acqua . . . . . . . . . . .
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Ma è una cosa seria. Una conversazione sulla mafia di Giandomenico Vivacqua con Settimio Biondi . . . .
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Sorvegliare e cognominare . . . . . . . . . . . .
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Domenico Alvise Galletto e il rossore del potere . . .
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La frana rivoluzionaria . . . . . . . . . . . . . .
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La città diocesana . . . . . . . . . . . . . . . .
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La sinistra inurbata . . . . . . . . . . . . . . .
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Il tempio e le torri . . . . . . . . . . . . . . .
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Rabatè . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Mons. Vajanella . . . . . . . . . . . . . . . . .
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La città onanista . . . . . . . . . . . . . . . .
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La città scoronata: il vescovo Lagumina e lo spianamento delle mura e delle torri urbiche . . . . . . .
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Politi: un ritratto di Pio IX del Museo Civico . . . . .
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I netturbini e la cultura . . . . . . . . . . . . .
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Nota di Beniamino Biondi . . . . . . . . . . . .
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Fotocomposizione e stampa
Via Unità d’Italia, 30 (San Giusippuzzu) - Agrigento Tel. 0922 602104 - 0922 602024 – Fax 0922 604111 Via Principe di Villafranca, 33 - PALERMO Tel. e Fax 091 6113173 www.tipografiatsarcuto.com FInITO dI STAMPARE nEL MESE dI dIcEMbRE 2011
SETTIMIO BIONDI E’ nato ad Agrigento nel 1937, si è laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Palermo, specializzandosi in Economia presso quella di Catania. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni di carattere storiografico. E’ stato assunto giovanissimo al Comune di Agrigento, e durante i 14 anni in cui ne è stato direttore, ha riaperto al pubblico il Museo Civico, rimasto fino ad allora chiuso per un decennio, e lo ha arricchito di nuove sezioni, quali quella medievale, quella etno-antropologica, e quella documentaria. Con fondi che al-
trimenti sarebbero andati perduti, ha riorganizzato l’Archivio Fotografico ed ha istituito l’Archivio Storico. Ha militato nel PCI, ricoprendo gli incarichi di segretario di sezione, di vicesegretario provinciale della Federazione e di componente del Comitato Regionale. Nel 1968 è stato candidato all’Assemblea Regionale Siciliana, risultando primo tra i non eletti, con il risultato di quadruplicare il numero dei voti attesi in Città, segnando cosi l’apice storico dei risultati elettorali conseguiti in ogni altra consultazione elettorale da quel Partito. Appartiene all’area culturale della sinistra, ma è disimpegnato da ogni collegamento a partiti. Per lunghi anni ha svolto le funzioni sindacali di Segretario Provinciale della Funzione Pubblica CGIL, e in qualità di componente della Commissione Regionale ristretta è stato estensore di uno storico contratto integrativo regionale dei lavoratori. E’ andato in pensione dal Comune di Agrigento con la qualifica di Dirigente Capo Ripartizione. Ama la lettura e pratica la ricerca storica. Ha ricoperto l’incarico di Assessore Provinciale alla Cultura nell’Amministrazione Vivacqua, e ancora, di recente, quello di Assessore Comunale al Centro Storico prima e alla Cultura poi nell’Amministrazione Zambuto.
www.centropasolini.it www.centropasolini30.it con il patrocinio ed il contributo della Regione Siciliana Assessorato Regionale Beni Culturali, Ambientali e Pubblica Istruzione. Dipartimento Beni Culturali ed Ambientali ed Educazione Permanente e dell’Architettura e dell’Arte Contemporanea