Il futuro ha un cuore antico Memorie e identitĂ a cura di F. Patti - G. Pennica - A. Russello
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Il nome di Empedocle agrigentino... per oltre duecento anni è stato accompagnato da lodi meravigliose degli antichi tra i quali Lucrezio giunse a dire: che credibil non par ch’egli d’umana progenie fosse D. Scinà, Sulla vita e filisofia di Empedocle gergentino
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F. Patti - G. Pennica - A. Russello
una scuola ma della comunità. Questo lo spirito che anima Il futuro ha un cuore antico, articolato in sezioni arricchite da un apparato iconografico ed armonizzate dalle parole di Empedocle. Il filosofo acragantino, nel corso della pubblicazione, racconta di sè ed intreccia il suo pensiero, la sua storia con quella di quanti hanno frequentato l’Empedocle. Fa da file rouge la memoria, la volontà di lasciare ai giovani la consapevolezza della propria identità. Non c’è pretesa di scientificità, né di esaustività in questo libro che, con senso di rigore presente nei singoli contributi, ha la forza del mito fondante nell’ offrire occasione di cogliere nel mondo classico la via del rinnovamento. Queste pagine non avrebbero visto la luce senza un impegno corale del Collegio dei docenti, degli alunni, degli ex allievi e della città tutta, senza la condivisione di scelte editoriali a volte complesse, senza la condivisione di emozioni che appartengono, sicuramente, anche a chi è stato muto protagonista di questo racconto. Un grazie particolare alle colleghe Agata Gueli, Graziella Parello, Sandra Scicolone per il contributo dato alla sezione Microstoria. Alla sensibilità di tutti si fa appello per chiedere venia delle inevitabili omissioni: mancano i nomi ma non certo l’umanità di quanti hanno respirato l’aria dell’“Empedocle”. La nostra storia non si conclude con questo volume. A chi verrà, affidiamo pagine bianche…
Prima di iniziare...
Raccontare chi siamo stati non è facile. Alto il rischio di cadere nella retorica autocelebrativa lasciandosi trasportare dai ricordi. Difficile dare voce alle pareti che trattengono e custodiscono echi di parole antiche, frammenti di vita, immagini sfuocate di un lontano vissuto. Eppure basta il suono lontano di una campanella e improvvisamente… passato e presente si fondono. Si mette in moto la macchina delle emozioni, dei ricordi sedimentati negli anni, specchio nel quale ognuno di noi scorge traccia della propria storia. Parole sdrucite, suoni colori atmosfere frammenti di vita si rincorrono, si fermano su una foto, su un documento, su una testimonianza. E il volume prende vita crescendo, giorno dopo giorno, alimentato dall’entusiasmo dei ragazzi, dalla passione di chi quotidianamente vive nella scuola. Il liceo “Empedocle” diviene laboratorio di ricerca, luogo di incontro, di confronto tra generazioni. Quanti ex alunni, padri , nonni dei liceali di oggi hanno con generosità contribuito alla ricostruzione di questi 150 anni. Anche le istituzioni tutte si sono lasciate contagiare dal desiderio di ricordare la prima scuola superiore nata in città. Grande peso l’”Empedocle” ha avuto nell’animare la vita culturale di Girgenti. Non poche personalità di ieri e di oggi, gente comune, si sono formate all’ombra del filosofo akragantino. Non si può allora non affidare alla forza della parola scritta la storia non soltanto di
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Anna Maria Sermenghi
Ogni uno di noi ha provato così a scrivere, facendo propria l’idea di Borges “ Il mio racconto sarà fedele alla realtà, o almeno al mio ricordo personale della realtà, che è poi la stessa cosa”. Consapevoli della responsabilità pedagogica e culturale, che abbiamo sentito dentro noi stessi come non disattendibile, volendo comunque essere modelli significativi e coerenti per i giovani, abbiamo coinvolto i nostri alunni in un cammino, che ci ha visto vagare tra i luoghi dell’anima. La nostra scelta culturale si è fatta anche impegno psico-sociale e storico, per fissare nella mente e nel cuore il valore della memoria, ponendo alla riflessione la ricchezza della simbolizzazione, yunghianamente radicata nell’ inconscio collettivo di una società, quella agrigentina e di una delle sue più forti espressioni, quella del Liceo Classico “Empedocle”, rivisitata anche alla luce del suo essere stata rappresentazione e particolare traduzione dello svolgersi del sistema scolastico italiano nei 150 anni di Unità Nazionale. Forse, che il conoscere sia un ricordare era già noto a tanti, prima di avviare la nostra “recherche”, di sensibilità proustiana, ma è possibile che il ritrovamento di un tempo perduto abbia fatto comprendere anche l’importanza di una simmetria, per la quale il ricordare stesso è conoscere, consentendo così il realizzarsi dell’operazione sottesa all’intenzionalità progettuale, di ridefinizione della propria identità e di costruzione di una comune ragione d’essere
Il perchè di una scelta
E’difficile scindere le ragioni profonde dell’anima dal percorso intellettuale intrapreso, per realizzare l’idea di scrivere la storia del Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento, al volgere dei suoi 150 anni. Presentarne gli esiti in modo autentico significa allora racchiudere, in un’ultima fatica, la sintesi di un’esperienza di condivisione, che ha affondato le sue radici in una memoria collettiva ricercata, interrogata e mai perduta …. riletta allo specchio di questo nostro presente inquieto, che ha bisogno di ridefinire il proprio senso, attraverso i significati reconditi e profondi della storia, che può diventare riferimento per un’identità forte di fronte alle sfide e alle incertezze del futuro. E’ il nostro dialogo col tempo, che mentre ci vede impegnati a recuperare dall’oblio gli echi di anni ormai lontani e i frammenti di quelle esistenze che li hanno attraversati, diventa fondamento di un inscindibile rapporto tra il conoscere e il non dimenticare, che ispira la narrazione come flusso indefinito della Memoria, che nel suo scorrere connota le parole di un intrinseco valore metafisico” (Formusa). In ragione di ciò abbiamo pensato di avventurarci tra i labirinti del tempo e di varcare la soglia di un tempio di memorie, che si poneva al nostro sguardo con il fascino antico delle cose appartenute alla storia, perché rivivessero in una rievocazione capace di riannodare i fili di una comune identità, volta a ricercare nel passato le ragioni per un futuro migliore.
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della scuola, nella scuola. Un viaggio negli anni trascorsi, ricco di suggestioni, ha restituito al ricordo volti,persone, fatti, eventi e scelte compiute, ponendo all’attenzione di tutti , piccole e grandi testimonianze di un’esperienza umana, che si è svolta nel tempo, dove, come dice Paul Ricoeur “ciò che avviene è conoscibile solo in forma di racconto”. E puntare alla forma del racconto non ci è sembrato certo cosa da poco, nell’universo di una contemporaneità che ogni giorno continua a privare i giovani di tante narrazioni, che potrebbero rendere meno fragili le loro identità. Parole che soccombono alla rapidità di immagini, che sono solo icone dell’effimero, povertà categoriali che imbrigliano il volo della mente verso le altezze della riflessione concettuale e del pensiero autentico, sono scenari tristemente noti a quanti mettono in gioco quotidianamente la propria professionalità, interrogandosi nietzschianamente “Sull’avvenire delle nostre scuole” e adoperandosi spesso, per restituire senso e significato al futuro dei giovani che, sia pure con un linguaggio e un pensiero diversi dal nostro, insistentemente chiedono orizzonti e confini, prospettive e limiti, e un rigore logico ed umano, di cui riescono a cogliere solo la perdita , in quella società che li ha generati. Per le tante motivazioni che hanno animato questo impegno, abbiamo accolto la lezione di Emmanuel Le Roy Ladurie, che ha rivolto la sua attenzione alle microstorie, ai piccoli luoghi e ai piccoli fatti, ritenendo che l’indagare su di essi potesse condurci ad un’analisi a più ampio respiro 6
sui grandi eventi di cui sono espressione, senza rimanere intrappolati in un intento celebrativo autoreferenziale. Il metodo seguito nel progetto complessivo ci ha indotto a non perdere di vista la linea di demarcazione tra un percorso esclusivamente storiografico e l’esigenza emotiva e rappresentativa di porre domande alle fonti rinvenute. Contemplando la prima esigenza, l’opera propone un passaggio essenziale dalla storia degli eventi a quella delle strutture, cercando di far propria la lezione dell’ ”Ecòle des Annales”, al fine di inscrivere il mosaico delle microstorie nello sfondo integratore del Liceo Classico “Empedocle”, rivisto per altro verso nell’ evoluzione del sistema scolastico italiano e nel cambiamento della società agrigentina, in 150 anni di storia. Entrambe le chiavi di lettura hanno significato una scelta culturale di impianto e di metodo, tendente ad approfondire l’interpretazione di fatti e di eventi secondo una duplice prospettiva, sincronica e diacronica, funzionale all’individuazione di ragioni storiche entro cui contestualizzare la ricerca effettuata, al fine di ricollocare i tanti ritrovamenti, talvolta piccoli e frammentari, entro le grandi ragioni del passato, ponendo all’attenzione dei giovani e di questa città un interrogativo rivolto al presente e soprattutto al futuro. Per quanti di noi hanno creduto in questa impresa, domandarsi quello che il Liceo Classico “Empedocle” potrà ancora dare a questa città, si è tradotto nel cercare di capire quale possa essere oggi il rapporto scuolasocietà. Abbiamo guardato così ai giovani
che, consapevoli delle difficoltà cui andranno incontro quando resteranno soli ad affrontare la vita, spesso non riescono a trovare risposte alle loro domande di senso, per una distanza linguistica e categoriale fra generazioni, che la scuola talora non coglie e per le tante palesi incoerenze di un mondo adulto, che si sta chiudendo sempre più alla fiducia, sconfitto da una crisi di valori e di idee, in cui trova legittimazione il non mettersi in discussione, che è mancata assunzione di responsabilità. In questa prospettiva che si allarga alla città e al nostro tempo, i nostri intenti hanno trovato affinità con la “mission” del Centro Culturale “Pier Paolo Pasolini”, per altro impegnato nella celebrazione dei trent’anni di attività, che ha riconosciuto l’interesse dell’iniziativa in ordine ad una riflessione sulla storia della città di Agrigento, di cui il Liceo Classico “Empedocle” rappresenta una delle pagine più importanti, e l’ha proposta all’attenzione di un pubblico più ampio, anche come spunto per un dibattito su temi di sociologia dell’educazione, secondo uno stile intellettuale che nulla ha concesso in questi anni ad un provincialismo inevitabile nelle periferie della cultura. Il fine della pubblicazione ha consentito un incontro con il Liceo Classico “Empedocle”, che sta attualmente portando avanti con i propri studenti un lavoro di approfondimento sulle radici e sul senso di un modo di essere e di fare scuola che, riscoprendo un prestigiosa tradizione, consenta un’assunzione di consapevolezza su come i grandi valori del mondo classico siano fondamentali nella formazione sia a carat-
tere umanistico che scientifico, nella cultura aperta ai nuovi saperi delle giovani generazioni e nella preparazione di una nuova classe dirigente, che dovrà affrontare le sfide della complessità e della globalizzazione, nella società del terzo millennio. Tutto questo, a nostro avviso, non poteva non passare attraverso la lezione della storia, che abbiamo voluto consegnare attraverso il libro “Il futuro ha un cuore antico” che, divenendo occasione pedagogica preziosa, intende comunque lasciare testimonianza del passato e lanciare un messaggio al futuro. Certo ci rendiamo perfettamente conto di come la raccolta delle fonti sia stata estremamente parziale, a fronte della ricchezza di documenti e materiali, che forse avrebbero meritato ulteriori rivisitazioni e richiesto uno sviluppo e una prosecuzione della ricerca. Preme invece qui sottolineare come il nostro tornare ad un tempo ormai andato sia stato quasi come aprire una finestra su una soffitta polverosa, permettendo che un raggio di sole illuminasse con la sua luce piccole e grandi cose, che attendevano silenziosamente di essere ritrovate. Non è un indulgere ad una sensibilità crepuscolare ma un rivolgersi, alla maniera del Guicciardini, al “particulare”, come espressione di una dimensione dell’umano che, se per un verso fa da limite alla costruzione scientifica, per altro verso crea “la speranza o l’illusione che essa rappresenti qualche cosa di più universalmente umano che non sia l’utile o l’onore individuale” (Valeri). Il nostro “particulare” ha preso corpo nella narrazione delle tante storie, che sono ap7
punto il cuore della memoria, dove quel raggio di sole sulla soffitta è la metafora di un raccontare che si apre ma non si conclude, muovendosi dall’esigenza di dare unitarietà alle tante voci di un’anima che ha voluto ritrovare la sua identità. Questo è stato il nostro progetto, dove ognuno si è impegnato a fare la sua parte, in un gioco di intrecci, che parla il linguaggio delle suggestioni emotive e della rievocazione commossa. Per il resto, potremmo solo aggiungere come l’intenzionalità pedagogica abbia deciso l’impianto dell’opera, cercando di non perdere l’armonia delle singole parti, che in una visione olistica dovevano comunque contribuire ad un “tutto”, che fosse qualcosa di più e di diverso da una mera giustapposizione. Ecco perché, quando abbiamo cominciato, un anno fa, a guardarci allo specchio, ci siamo resi conto che l’identità che vi si rifletteva diventava un’immagine via via sempre più nitida, che dava un soggetto alla nostra storia…….eppure soltanto dopo, alla fine, il passaggio “dai molti all’uno” ha consentito un “divenire altro”, ponendo termine ad una ricostruzione storica, che avrebbe potuto e che potrà ancora continuare, ma che per noi ha significato una bellissima esperienza che, in modo totalizzante, ci ha avvinto ad impegnato, consegnando a quanti vorranno leggere in profondità un racconto che, dalle risonanze dell’anima, ci ha condotto a risalire la china del tempo, trasformandoci.
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Maurizio Masone
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ὦ φίλοι, οἳ μέγα ἄστυ κατὰ ξανθοῦ Ἀκράγαντος ναίετ’ ἀν’ ἄκρα πόλεος, ἀγαθῶν μελεδήμονες ἔργων, ξείνων αἰδοῖοι λιμένες κακότητος ἄπειροι, χαίρετ’· ἐγὼ δ’ ὑμῖν θεὸς ἄμβροτος, οὐκέτι θνητός 12
Il futuro è nei classici Atti del Convegno - Agrigento 14 Novembre 2011 Essere saggi è condizione prima della felicità (Sofocle, Antigone vv. 1347-1348)
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culturale insostituibile, nei propri percorsi culturali e professionali. Ripercorrere tutto questo non è tensione autoreferenziale finalizzata alla autocelebrazione, è per tutti noi diventata una grande occasione invece, per dire a noi stessi, alla nostra città, al nostro tempo, quale valore possano avere avuto e avere ancora gli studi classici nella formazione dei giovani. Le tante domande di un presente che segna grandi difficoltà e non solo economiche, ma anche culturali per un grave degrado dei rapporti sociali si rivolgono spesso a un’idea forse un po’ troppo semplificata dell’utile o comunque dell’utilità di tali studi. Vorremmo subito dire da che parte stiamo. “La filosofia non serve a nulla, dirai, ma sappi che proprio perché priva del legame di servitù è il sapere più nobile”. È Aristotele a dirlo. E noi sulle sue parole cerchiamo gli spunti per un ragionamento capace di segnare la strada verso una prospettiva che, guardando in senso ampio all’amore verso il sapere, ci faccia anche comprendere il grande ruolo che la natura classica può ancora giocare in questo momento della nostra storia. Mi piace dirlo con le parole di Francesco Petrarca, precursore di tanti valori e principi del nostro Umanesimo, il quale, proprio parlando degli studi classici e citando Seneca, Cicerone, dice: “Tralascio gli altri, troppa fatica sarebbe ricordarli uno per uno, loro e le loro sentenze, ed è studio degno di un giovanetto, non di un vecchio
Il futuro è nei classici
Vi è un tempo nelle cose della vita che ne trasfigura il senso e i significati, lasciando scoperto l’orizzonte dai riferimenti immediati dell’essere e dalla scontata concretezza dell’azione. E’ il tempo dei ricordi, il luogo della memoria, che racchiude il passato della sintesi del pensiero, quando tutto il resto si dissolve. Tanti episodi ed eventi, piccoli e grandi, si sono susseguiti nello scorrere dei 150 anni di questa nostra grande e amata scuola, il Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento, ed ora che il divenire li ha evocati, appaiono innanzi a noi, fissati al filo invisibile di una dimensione dell’esistere che li ha trasformati in simboli, pieni di ricchezza, verità toccate dalla riflessione che succede al tumulto degli eventi. Guardare a tali simboli diventa il senso più alto della celebrazione odierna, nella consapevolezza di dover guardare attraverso essi al passato, per trovare le ragioni di un futuro migliore, seguendo anche quell’idea junghiana che guarda al simbolo come esperienza. Quando lo incontriamo è come un sogno che ci emoziona e, mentre cerchiamo di afferrarne il senso, abbiamo l’impressione che quell’immagine abbia cambiato qualcosa in noi, nella nostra vita, nella nostra storia. Gli alunni di ieri e di oggi che guardano agli anni della loro giovinezza trascorsi al Liceo, dicono quale sia stata la loro formazione, acquisita tra i banchi della prestigiosa scuola e poi riversata, come bagaglio
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collezionare fioriti esempi letterari. Ma questi esempi e mille simili a questi, spesso da me, spesso con me raccogliesti da quegli scrittori. Per quel che mi riguarda di quale intenso desiderio di raccoglierli avessi da giovane e per alcuni anni quando non conoscevo ancora così familiarmente un tal genere di scrittori, lo attestano i libri di quel tempo, che ancor mi restano, e i segni con i quali di mio pugno sottolineavo soprattutto quelle sentenze, dalle quali estraevo e meditavo con meditazione più matura dei miei giovani anni, fin allora il presente e il futuro mio stato. Notavo con sicura convinzione non gli ornamenti verbali ma la sostanza, cioè le angustie di questa misera vita, la sua brevità, velocità, l’affrettarsi affannoso, il suo dileguarsi, la sua corsa, il suo volo, il tempo revocabile, il caduco e mutevole fiore della giovinezza, la bellezza effimera di un roseo volto, la sfrenata fuga della giovinezza che non ritorna, l’insidia della vecchiezza che tacita e furtiva si insinua e alla fine le rughe, le malattie, la tristezza e il travaglio e la spietatezza e la crudeltà dell’indomabile morte. … Questi pensieri sembravano una sorta di sogni, a me già allora, chiamo a testimonio Dio che vede ogni cosa, sembravano cose vere e quasi presenti”. Nonostante lunga, questa citazione l’ ho voluta proporre perché da una sensibilità inquieta, ricca e tormentata come quella di Francesco Petrarca, si possa trarre spunto per un rapporto con la cultura classica, che è ricco, intriso di valori che indubbiamente concorrono a una formazione che non riguarda semplicemente la persona, la vita, 16
l’esistenza, ma anche il modo di guardare il mondo, perché è elemento fondamentale di una formazione che poi diverrà retroterra culturale fondamentale a prescindere dalle scelte professionali. Certo, parliamo di studi classici ampliando il discorso a una cultura, alla formazione e indubbiamente in questa sede e non solo perché si tratta dei 150 anni, ma anche perché il dibattito nel mondo della scuola oggi è particolarmente ricco, vivace, ma anche pieno di tanti interrogativi a cui spesso non troviamo risposte adeguate, interrogativi che noi sentiamo dentro. Certamente sono questi gli interrogativi che riguardano il mondo della scuola : fino a che punto la cultura classica oggi riesce ad essere ancora portatrice di valori e a porsi in questo stesso modo in una relazione dialettica con la società odierna tale da rendere la scuola attuale, ancora in grado di dare risposte funzionali? Come conciliare la cultura classica con quella scientifica? Il logos, la scienza, il pensiero, la virtù devono essere congiunti con una visione dell’Umanesimo e della scienza stessa ,ma anche della tecnologia che possa essere al servizio dell’uomo. E tutto questo può garantirlo proprio quella concezione dell’humanitas che i classici ci hanno consegnato. Uno studioso tedesco ci dà una bellissima definizione dell’humanitas: un primo aspetto di natura sociale è vicino al concetto greco di filantropia e si esprime nella mitezza, nella comprensione, nell’opera benefica di assistenza verso tutti i nostri simili. Il secondo aspetto di natura culturale
corrisponde all’ideale di formazione e di educazione dello spirito. E su questo voglio proprio soffermarmi, ricordando Cicerone che identifica proprio il concetto di humanitas con cultura, in quanto le arti liberali e le discipline scientifiche che formano l’uomo, sono proprie di lui soltanto e lo distinguono dagli altri animali. Il terzo aspetto è quello estetico, per cui humanitas è anche la virtù propria dell’uomo cortese e raffinato, dotato di buona educazione, di elevati sentimenti, capace di vivere con dignità nella società degli uomini. Noi vorremmo trasmettere una sensibilità, vorremmo far crescere la consapevolezza di tutto questo, l’importanza del linguaggio dei classici. La saggezza, l’amore verso il sapere, la filosofia in rapporto con i classici, indubbiamente affinano la sensibilità, l’intelligenza, il pensiero critico, flessibile, il pensiero strategico, la capacità di guardare al mondo e alle cose. E questa è lezione di tolleranza, di apertura mentale, questa è lezione di una cittadinanza che può essere rifondata su grandi basi culturali.
Cicero al Senato, C. Maccari (particolare)
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Cicero al Senato, C. Maccari
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Ordinario di Lingue e Letteratura Greca
Salvatore Nicosia -
i processi storici che trasformano uomini, territori, istituzioni. Perché l’idea di razze pure che rifuggono da ogni contatto pensando di mantenere intatta la loro purezza è una tragica aberrazione della mente che ha prodotto soltanto disastri. E’ ancora vivo il ricordo degli orrori, dei disumani furori e delle violenze perpetrate nella ex Jugoslavia nel tentativo di districare e separare popolazioni inestricabilmente legate da mille legami. Un discorso più articolato richiede la definizione di civiltà greca. Essa si sviluppa nel corso di tre millenni: partendo dalla penisola ellenica si espande a Oriente e Occidente tramite le colonie, domina il Mediterraneo orientale avendo come centro promotore Atene, conquista l’Egitto e il Medio Oriente sotto l’impulso di Alessandro Magno, dà vita per un millennio al potente impero bizantino per poi restringersi, in epoca moderna, alla sola penisola ellenica con le sue 10.000 isole: la Grecia moderna, quella devastata oggi dalla crisi economica e presa di mira dagli speculatori internazionali, è l’erede di quella antica (sarebbe bene non dimenticarlo), anche qui attraverso processi di mutazione e trasformazione. I rapporti della Grecia con l’Italia, e segnatamente con la Sicilia, sono stati intensi e prolungati. Cominciano nell’VIII secolo con la fondazione delle colonie
I classici nella cultura del nostro tempo
Nell’affrontare l’argomento bisogna chiedersi quale possa essere il ruolo degli studi classici, oggi, quale l’interesse per il passato, in un’epoca in cui internet dischiude l’universo contemporaneo e favorisce contatti immediati tra realtà e persone lontanissime, quale sia il senso dello studio di una civiltà che si esprime essenzialmente attraverso i testi nell’epoca del dominio dell’immagine. Prima di tentare una qualche risposta a questo problema vorrei chiarire che quando parliamo di “studi classici” intendiamo sostanzialmente lo studio rivolto a due grandi civiltà del passato, quella latina e quella greca. La prima si sviluppa nel Lazio a partire dall’VIII secolo a.C. e si caratterizza per la creazione di una grandiosa entità politica sviluppatasi da un piccolo villaggio, per aver elaborato uno straordinario sistema giuridico, modello per i secoli futuri ancora fino ad oggi, per aver espresso poeti come Virgilio, Orazio e Catullo, e scrittori come Cicerone e Tacito. Applicare a questa civiltà il concetto di “passato” è soltanto un errore prospettico: noi siamo in realtà gli eredi diretti dei latini, l’italiano che parliamo è il latino che si è evoluto, il territorio che abitiamo è lo stesso abitato da questi nostri progenitori: il tutto sottoposto ad un millenario processo evolutivo fatto di innesti, trasformazioni, apporti, adattamenti, come sempre avviene con
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in Sicilia e in Magna Grecia, e i templi di Agrigento (il più grande parco archeologico greco del mondo) costituiscono il segno più evidente e affascinante di questa secolare presenza greca che non è mai cessata del tutto. Perché dal 535 fino alla conquista araba (prima metà del IX sec. d.C.) la Sicilia è sotto il dominio di Bisanzio, capitale dell’impero bizantino. Ne rimangono tracce evidenti: ad Agrigento c’è la chiesa di Santa Maria dei Greci, edificata sopra le rovine di un antico tempio greco, e divenuta, durante la dominazione bizantina, cattedrale di rito ortodosso; il santo qui più venerato, San Calogero, ha un nome greco che si riferisce alla sua condizione monacale (kalógheros “monaco”); in molti paesi dell’agrigentino si venera una Madonna dell’Itria, che altro non è che la madonna Odighítria (“che guida, che indica la via”), e sono in uso, in questa città (e altrove in Sicilia), parole di chiara origine greca come agnuni, grasta, búmmulu, lemmu, pitirri, taddru, cuddrura (con il cognome Collura), e infinite altre. Se qualcuno non le conosce, è solo perchè siamo in un’epoca di impoverimento linguistico che vede l’affermazione di una koinè italiana di poche parole, “l’italiano del fare” verbo tuttofare (“fare benzina”, “mi faccio un panino”, “fare bancomat”), incapace di ricrearsi e di articolare le differenze e le sfumature. Fra Sicilia e Grecia intercorrono, come si vede, rapporti che sono millenari, profondi e assai documentati. Ma non 20
è questo soltanto il motivo che ci induce a sostenere l’importanza degli studi di greco. Più rilevante ci sembra la constatazione che concetti, attitudini, temi fondamentali della condizione umana sono stati elaborati, e linguisticamente definiti, in Grecia, e da qui trasmessi a tutte le civiltà che sono venute dopo.Filosofia, storia, poesia, musica, lirica, teatro, economia, fisica, matematica, geometria, biologia, zoologia, dialettica, retorica, democrazia, tanto per citarne alcuni, sono termini e concetti che trovano in Grecia la loro prima formulazione ed elaborazione e sono oggi patrimonio comune delle più svariate culture. Se i Greci hanno potuto sviluppare una tale libertà di pensiero e di creatività linguistica, ciò si deve sostanzialmente a due fattori: l’assenza del libro sacro che avrebbe cristallizzato il mondo così com’era, e la netta separazione tra potere politico e potere religioso. Ce n’è uno, fra questi termini, che nel mondo giovanile ha subìto una notevole evoluzione del significato: “è un mito”, o “mitico”, si usa comunemente nel senso di “cosa straordinaria”, “eccezionale”. Il “mito” è in realtà una storia tradizionale sacra relativa al mondo degli dèi e degli eroi, che si trasmette di padre in figlio (o forse meglio, da nonna a nipoti), e che costituisce il sapere fondamentale dei Greci. Solo che queste storie, per quanto possano apparire talvolta stravaganti, esprimono spesso, ed esemplificano in forma evidente, i temi fondamentali dell’esi-
stenza umana: si pensi a Ulisse, metafora dell’uomo che conosce popoli e vive avventure diverse, riuscendo a superare, con la sua intelligenza, tutte le difficoltà incontrate sul suo cammino; o a Dedalo e Icaro, che realizzano il grande sogno di potersi librare e volare nel cielo come gli uccelli, ma nello stesso tempo sperimentano i limiti della loro condizione di esseri terrestri, vittime della forza di gravità. Proprio per questa capacità di esprimere nodi esistenziali fondamentali il mito può riproporre all’infinito i propri significati: il drammaturgo tedesco Berthold Brecht ambienta l’Antigone di Sofocle in un rifugio antiaereo a Berlino, durante la seconda guerra mondiale, e tutta la trama mitica funziona perfettamente attribuendo a Creonte l’identità di Hitler; e moderne “Odissee” sono l’interminabile peregrinazione (dalle otto di mattina alle due della notte del 16 giugno 1904) dell’agente pubblicitario Leopold Bloom per le vie di Dublino nell’Ulysses di J. Joyce, e il ritorno verso casa, dopo l’8 settembre 1943, del nocchiero semplice della fu Regia Marina Italiana ‘Ndrja Cambrìa in Horcynus Orca, il grande romanzo del messinese Stefano D’Arrigo. Di fronte a questo stato di cose noi possiamo percorrere due vie: a) ignorare il tutto, e credere che il mondo sia nato ieri, e noi pure, figli di Internet: ma si badi bene che la rete linguistica di Internet non fa che ricorrere alla terminologia greca e latina (computer, archiv, alias, file, microsoft, masterizza-
zione, megabyte, microchip, ecc.), e latini sono termini oggi usatissimi che ci vengono però dall’inglese, come tutor, mass media, sponsor, governance; b) studiare e approfondire queste culture in quanto parte essenziale della nostra identità: quale essere umano non spinge il proprio sguardo al di là del padre e della madre? C’è poi il problema linguistico, assai rilevante in un’epoca in cui si registra un preoccupante impoverimento dello strumento espressivo fondamentale. Una percentuale consistente delle nostre parole hanno un’origine greca, o per trafila diretta attraverso il latino (per es. fenomeno < phaenomenum < fainómenon “che appare, che si manifesta”, paradosso < paradoxum < parádoxon “contrario alla comune opinione”, farmaco < pharmacum < phármakon), o formate in epoca moderna sulla base di radici greche (atmosfera < atmós “vapore” + sfáira “sfera”, nostalgia < nóstos “ritorno” + álgos “dolore”, telefono < téle “da lontano” + foné “voce”, discoteca < dískos “disco” + théke “contenitore”), o infine desunte dal greco direttamente (euforia, cibernetica, meteorologia); più in generale, è noto come il greco abbia fornito interamente la terminologia allo sviluppo scientifico occidentale, anche attraverso la non comune capacità di far ruotare, nella modalità più economica, l’universo linguistico attorno ai fondamentali assi esistenziali ed espressivi: si pensi all’alfa privativo, e alla sua funzione distintiva del possesso e della pri21
vazione (politico e a-politico, morale e a-morale, teismo e a-teismo); o alla produttività dei confissi mega- (megafono, megalomania) e micro- (microstoria, microfilm), tele- per la distanza (televisione), pseudo- per l’ambito del falso (pseudoscientifico), e bio- per quello, sterminato, della vita (biologia, ecc.); o a filo- e miso-, che segnano il discrimine tra i due poli empedoclei dell’amore e l’odio, fra la filantropia e la misantropia; o alla capacità delle preposizioni di evidenziare nella forma più fulminea le oscillazioni verso l’alto/molto o verso il basso/poco (ipertrofia e ipotrofia, ipersensibile e ipotiroideo), o di segnare, con para-, il dominio dell’approssimazione, dell’affinità, della brutta copia, la via che costeggia la strada maestra (paramedico, parastatale, paranormale, persino paraparesi). E se si pone attenzione allo sviluppo semantico delle parole si potrà comprendere che kósmos (nel significato di “ordine”, quindi “mondo ordinato” contrapposto al chaos) e cosmetico sono in stretta relazione, che l’hypokrités “attore” è degenerato motivatamente in “ipocrita” (cioè uno che recita, che fa finta di essere un altro), e che un termine importantissimo come krísis “discernimento, giudizio” ha la stessa radice del siciliano crivu, strumento per “cernere” e “(dis)cernere”. Lo studio della lingua greca si rivela così strumento fondamentale per la comprensione dell’italiano, per recuperarne la profondità e la complessità 22
contro ogni tendenza a fermarsi alla superficie: perché se ci sfugge la complessità del linguaggio, ci sfugge anche la complessità del mondo. Potrei anche richiamare, a sostegno di questo tipo di studi, un’ argomentazione di ordine pratico. Indagini condotte all’Università di Palermo qualche anno fa hanno dimostrato in maniera inequivocabile che gli studenti provenienti dal liceo classico superavano con maggior successo di qualsiasi altro tipo di scuola i test di accesso all’Università, qualunque fosse la Facoltà, scientifica o umanistica: per una certa acquisizione di flessibilità mentale – ritengo – e per un maggiore impegno nella comprensione linguistico-logica. Un’ultima argomentazione. La società italiana ha conosciuto, nell’ultimo ventennio, un degrado etico e culturale senza precedenti. Si impone, a partire da oggi, il compito immane di ricomporre il tessuto culturale del Paese dopo la devastazione operata dalla Weltanschauung dominante, che io ritengo assai più disastrosa di quella economica, fondata com’è sui principi che l’interesse personale prevale su quello collettivo, che ognuno può fare quello che gli pare e piace, che la competizione conta più della giustizia sociale, che la sobrietà è un grave limite culturale, e la pacchianeria una dote redditizia, che l’avere è più importante dell’essere, che ogni forma dell’attività umana è monetizzabile, che l’immagine è più importante della lettura e della meditazione, che le regole sono un in-
tralcio alla libera espressione di sé, che l’importante è apparire (meglio se in televisione). Non è impresa di poco conto: perché si affermi l’idea che c’ è un bene comune al quale subordinare, all’occorrenza, il bene egoistico, occorrono decenni di esercizio della democrazia, mentre basta un solo giorno a demolirla in quanto non corrispondente alle più radicate tendenze dell’uomo; così come occorrono millenni per convincersi che «gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti» (come recita la Dichiarazione dell’ ‘89), ma basta un solo giorno perché un’intera società si induca a smentire, nella prassi dei concreti comportamenti, quel principio. A quest’opera di risanamento culturale, di ricostruzione ideale, le civiltà greca e latina sono in grado di dare, con i loro storici, filosofi, poeti, con la loro meravigliosa capacità di definire linguisticamente il mondo e aiutare le altre lingue a definirlo, un contributo rilevante. Potremo ricavare da Cicerone, per esempio, l’idea che l’osservanza della legge è la condizione della nostra libertà (legum omnes servi sumus ut liberi esse possimus, “siamo tutti servi delle leggi proprio per poter essere liberi”), non una costrizione da demolire; o da Platone l’ammonimento sui rischi che corrono le società governate da persone che dispongono di una grande ricchezza: “Nessuno dei governanti abbia alcuna proprietà personale, salvo necessità assoluta; poi, che nessuno possegga un’abitazione o un ma-
gazzino a cui non possa accedere chiunque lo voglia, e i mezzi per vivere […] li ricevano secondo un accordo degli altri cittadini come ricompensa della loro attività di governo [...]. E così essi saranno salvi, e salveranno anche lo Stato: perché se invece possedessero terreni propri, e case, e denari, sarebbero inevitabilmente amministratori e proprietari terrieri anziché custodi dello Stato, e odiosi padroni anziché alleati degli altri cittadini. E così trascorreranno la loro vita a odiare ed essere odiati, a insidiare ed essere insidiati, temendo molto di più i nemici interni che quelli esterni, correndo ormai vicinissimi alla rovina, loro e tutti gli altri cittadini». Potremmo anche differenziarci dai Greci per certi aspetti, e respingere con decisione l’idea di una loro superiorità sui “barbari”, in pratica i “balbettanti” un’altra lingua, e cioè tutti gli altri popoli tranne loro: un’ intollerabile prospettiva di etnocentrismo in un’epoca come la nostra, che impone la necessità della convivenza di culture, costumi e religioni diverse, potrebbe essere soltanto disastrosa. Come si vede, ci sono molte ragioni per coltivare questi studi: come strumento di crescita individuale, come formazione dell’uomo e del cittadino, come contributo allo sviluppo culturale della società. E perciò mi auguro di poter celebrare, almeno nel 2061, il bicentenario del Liceo intitolato ad un grande greco di Sicilia, il filosofo Empedocle. 23
La scuola di Atene, Raffaello
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Manager Unicredit
Giampiero Bergami-
ziate per segmento di vettura. Questa analisi, soprattutto rivolta all’ambiente esterno, viene integrata dai risultati provenienti dall’ambiente interno. L’azienda pone in atto una strategia. A tal proposito ne ricordiamo alcune definizioni. La prima: “La determinazione degli obiettivi di lungo periodo di una azienda è l’adozione di corsi di azione, è l’allocazione delle risorse necessarie per arrivare a quegli obiettivi”. Ed ancora, “La determinazione degli obiettivi di lungo periodo è la valutazione di quali sono i mezzi che una azienda ha a disposizione per raggiungerli”. “La strategia è la ricerca volitiva di un piano di azione, che costituirà un vantaggio competitivo per una certa attività economica e contribuirà a svilupparlo. Per ogni impresa la ricerca è un processo interattivo che inizia con il riconoscimento del collocamento competitivo di quella impresa e dei mezzi che essa ha a disposizione”. È chiaro dunque che ogni ragionamento strategico non può non fare riferimento al posizionamento relativo di una azienda, a una grande organizzazione complessa rispetto ai suoi concorrenti e rispetto alla sua industria, rispetto alla struttura produttiva di quella industria, rispetto alla zona geografica, alla cultura. Sicuramente la definizione che più incarna il significato profondo di formulazione strategica afferma: “L’obiettivo dell’analisi strategica non è quello di fornire delle risposte, ma quello di aiutarci a comprendere i problemi”. Questo è un passaggio
Il pensiero strategico
Le grandi organizzazioni complesse, siano essi Stati, governi centrali, grandi enti o grandi aziende, tutte formulano delle strategie di business, di affari. La strategia è un principio guida che tenta di dare coerenza e direzione alle azioni e alle decisioni di una organizzazione. Il pensiero strategico si concretizza nella formulazione di un piano di sviluppo di lungo periodo. A volte si tratta anche di strategie di difesa dalla concorrenza. Tutte le strategie hanno un elemento in comune, cioè devono portare a un risultato in qualche modo tangibile. Nel mondo degli affari le grandi aziende formulano delle strategie per preservare la capacità nel tempo di remunerare chi porta capitale. Questo è l’obiettivo delle strategie che vengono formulate nelle grandi organizzazioni complesse. Si pensi alla General Electric, o la Eni italiana. Nella costruzione di una strategia di business non si può prescindere dall’analisi dell’ambiente esterno che si basa essenzialmente sul tentativo di comprendere il mercato. La FIAT ad esempio ha comperato di recente la Chrysler. E’ evidente che per una operazione del genere gli analisti di FIAT hanno dovuto portare a Marchionne, l’amministratore delegato, un’analisi estremamente dettagliata dell’ambiente esterno basata sulle previsioni di vendita di automobili nel mondo a livello globale, nelle varie regioni geografiche, quali, per citarne solo alcune, l’Europa e gli Stati Uniti. Non si tralasciano le previsioni di vendita differen-
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fondamentale: quando si forma una strategia, di gran lunga l’elemento più importante nell’analisi strategica è capire quali sono i nodi da sciogliere, quali sono i riferimenti dei quali dover prendere atto prima di decidere un corso di azione. Questa definizione ci porta vicini al tema centrale della formulazione strategica. La capacità di capire come si muove un’ entità aziendale, un’impresa multinazionale all’interno di un contesto è fondamentalmente basata sulla comprensione non tanto delle risposte da trovare quanto dei problemi da affrontare. Il ragionamento strategico è inestricabilmente connesso con il collegamento tra il singolo business, la singola attività economica e l’ambiente esterno, mercati, regole, concorrenti, la geografia, e, perché no, la cultura dei paesi nei quali si decide di avviare un certo tipo di attività economica. La capacità di formulare una strategia efficace dipende essenzialmente dall’abilità di cogliere i rapporti di causa – effetto tra l’evoluzione dell’ambiente esterno e l’impresa della quale si fa parte. Per formulare strategie efficaci bisogna analizzare e capire gli ambiti omogenei di attività, discriminando tra ciò che rileva e ciò che non rileva. Quali sono, per esempio, gli elementi utili che influenzano i processi produttivi, i processi di vendita? Quali quelli che influenzano i processi di investimento per arrivare alla formulazione della strategia che si possa attuare, che si possa fare, che si possa mettere in pratica? A tal proposito riflettiamo sulle tecniche che vengono utilizzate quotidianamente nelle aziende. Soffermiamoci sulla cosiddetta 26
Swot Analysis. Swot è un acronimo che sta per Strenghts, Weaknesses, Opportunities and Threats, ed è semplicemente il tentativo di schematizzare le opportunità e le minacce che stanno di fronte ad una impresa. Immaginiamo un sistema di assi cartesiani. Sull’asse delle coordinate ci sono elementi interni ed elementi esterni alla azienda. Sull’ asse delle ascisse si distingue tra elementi dannosi e quelli utili e si tenta di scomporre sia l’attività dell’azienda, sia soprattutto l’ambiente esterno cercando di individuare quali sono le minacce e quali le opportunità che un certo tipo di pensiero strategico pone. Prendiamo adesso in esame una formulazione molto più complessa, elaborata da Porter, professore all’Università americana di Harvard che ha inventato un tipo di analisi composta da 5 forze. Gli ambiti nei quali si spezza, si frammenta la realtà, vengono a loro volta declinati in moltissimi sotto elementi. Facciamo l’esempio di un nuovo potenziale entrante in una certa industria e/o in un certo mercato. Si analizzano a questo livello le economie di scala che caratterizzano quel tipo di industria, se esistono degli elementi riconducibili alla forza distributiva dei marchi, se esistono delle esigenze di capitale particolarmente elevato o meno. Al di là dei dettagli, tuttavia, ciò che più importa è visualizzare come la realtà viene scomposta in tantissime sottocategorie, per riuscire poi a individuare quali sono i problemi, gli ostacoli per realizzare il disegno strategico che ci si è posti. Questa operazione è fondamentale: esaminare il rapporto e l’alternanza tra l’analisi interna all’azienda e
l’analisi del mondo esterno, creare rapporti di causa effetto tra le mosse dei potenziali concorrenti e di quelli esistenti, cogliere il mutamento del quadro geo-politico-economico macro e le reazioni della impresa che si intendono sintetizzare nella formulazione della strategia. La formulazione strategica quindi implica le stesse operazioni mentali utilizzate nell’attività della traduzione, entrambe esercizio di confronto con la complessità. Accostarsi ai classici latini e greci significa elaborare ipotesi, decostruire i testi per individuare le relazioni tra le proposizioni principali e le subordinate, cogliere le differenze tra i sistemi verbali e ricostruire il pensiero degli antichi rispettando le regole della logica. Cimentarsi in questo esercizio crea un’abitudine mentale di approccio alla scomposizione della complessità. Tradurre dal greco e latino equivale ad assumere delle abitudini mentali di approccio, assimilare una mentalità incline al problem-solving, è un po’ sfidare noi stessi rispetto a un problema da risolvere: abbiamo un testo, dobbiamo capire cosa c’è dentro, e ciò abitua all’individuazione dei rapporti di causa – effetto. Svolgere l’analisi del periodo o l’analisi logica significa mettere in relazione un discorso, un pensiero, un logos, con il contesto, ovvero abituarsi a separare gli ambiti omogenei, a capire se c’è una relazione tra quelli che sono esplicitamente diversi. La regola aurea della traduzione è per prima cosa leggere tutto il brano, avere una visione d’insieme, questo atteggiamento mentale aiuta non poco nel mondo del lavoro. Mi capita spesso che i neoassunti di fronte
ad un problema appena illustrato propongano immediatamente la soluzione, spesso senza averne ancora una visione d’insieme. In inglese la necessità di contestualizzare il dettaglio all’interno del quadro complessivo si dice to get the big picture ovvero porre gli elementi di dettaglio in un contesto più ampio. Cogliere il big picture significa passare dal particulare al complessivo e viceversa. Ritorniamo alle lingue classiche. Tradurre il greco, con le sue particolarità linguistiche basate anche sull’uso ricorrente di particelle contrastive, abitua a comprendere il contesto. Quando si formula una strategia ci si pone in maniera dialettica rispetto all’ambiente che circonda l’impresa, sia essa una impresa produttiva, manifatturiera, finanziaria, l’importante è cogliere l’elemento fondante. Chi fa business, soprattutto in un mercato globale come quello di oggi, deve ragionare in termini dialettici e si deve confrontare con una complessità molto articolata. Oggi, la globalizzazione ha reso molto più eterogenea la realtà, la cui comprensione richiede categorie critiche molto ampie e approfondite. Quando si deve formulare una strategia in un contesto così correlato è fondamentale capirne il quadro complessivo, suddividerlo in sottorealtà, proprio secondo il concetto latino di intelligere: entrare dentro e poi scegliere, prima in maniera astratta e poi in maniera estremamente concreta. Così la FIAT ha analizzato attentamente il mercato americano, lo ha segmentato, ha tentato di capire quali erano le preferenze dei consumatori a seconda del reddito e della provenienza. Poi, dopo aver scomposto la realtà, l’ha ricom27
posta, sintetizzandola, attraverso la formulazione di una strategia e ha deciso di comprare la Chrysler. Quello che osserviamo da professionisti è che tradurre dal latino e dal greco, oltre a far acquisire elementi di analisi assolutamente indispensabili per tentare di codificare la complessità che ci sta attorno, abitua anche alla consegna in un tempo stabilito. Questo in economia si chiama delivery: l’abitudine a consegnare dei risultati con dei vincoli di tempo. Da studente del Liceo Classico “Galvani” di Bologna, ricordo che la valutazione della versione era condizionata dal rispetto del tempo di consegna e a nulla serviva averne tradotto correttamente una buona parte. Questa regola che allora mi sembrava eccessiva è diventata un mio abito mentale. Ho lavorato circa dieci anni fuori dall’Italia e ho fatto parte dei comitati Hiring Committee per le assunzioni. Anche in questa occasione gli studi classici mi hanno aiutato a comprendere immediatamente le capacità strategiche del personale. Allora non stanchiamoci mai di tradurre!
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La scuola di Atene, Raffaello (particolare)
Centocinquantâ&#x20AC;&#x2122;anni di una esperienza ancora aperta ... dovunque vi sia un canale per conoscere, ... afferra con intelligenza ogni cosa. (Emp. fr. 3)
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Dal monopolio ecclesiastico a quello statale Il principio della sovranità dello Stato nel campo della formazione scolastica era stato affermato per la prima volta esplicitamente, in continuità con il riformismo giurisdizionalistico di matrice dispotico-illuminata, nel corso della rivoluzione francese. L’Assemblea Nazionale Costituente, sorta dalla mutazione rivoluzionaria degli (1) Prefazione a cura di V. Lombino in “Notizie storiche del Seminario e del Collegio dei Ss. Agostino e Tommaso di Girgenti dalla loro fondazione al 1860”di Antonino Lauricella, pagina III.
G. Bonomo - G. Burgio - A. M. Sermenghi
Niente nasce dal nulla La storia del Liceo Classico “Empedocle” si innesta in quella della scuola agrigentina prima dell’unificazione e di quella statale post-unitaria. Come scrive il Lombino ¹ “…il seminario e l’annesso collegio dei SS. Agostino e Tommaso…furono ad Agrigento le uniche scuole abilitate ad impartire un’istruzione superiore e di altissimo livello”… Almeno fino all’arrivo di Garibaldi ed al decreto con il quale il prodittatore Mordini introdusse in Sicilia la legge Casati – vigente dall’anno prima nel regno di Sardegna con l’annessa Lombardia - , finalizzata a sovrintendere all’amministrazione generale dell’istruzione da parte dello Stato.
Stati Generali, aveva posto con forza tra i propri compiti quello di “creare ed organizzare un’istruzione pubblica comune a tutti i cittadini” sottraendo l’insegnamento all’iniziativa di altre istituzioni ed al sostanziale monopolio esercitato in questo campo dal clero. Napoleone realizzò poi questo intento istituendo una scuola unitaria nella struttura e nelle finalità che curasse in modo uniforme la cittadinanza devota alla nazione e perciò libera da “ogni spirito di parte”. Costituì così un nuovo corpo insegnante, opportunamente scelto e preparato, che armonizzasse la propria azione educativa ai principi nazionali e ai valori della modernità imperiale. Introdotta nei Paesi occupati, tale riforma rappresentò un decisivo contributo per l’ammodernamento della vita civile in tutta l’Europa impregnata di giacobinismo ed in una cospicua parte degli Stati italici ottocenteschi, ad eccezione dello Stato Pontificio e del Regno delle due Sicilie. Ciò spiega la ragione dell’anomalia per cui ancora fino all’unificazione nazionale risulta confermata ad Agrigento l’esclusiva del clero in campo educativo ². Nel Regno di Sardegna, fin dal fatidico 1848 – anno della rivoluzione e della prima guerra anti-asburgica – con la legge Boncompagni si operava un’aperta rottura della tutela ecclesiastica fino ad allora esercitata; all’art. 54 essa recita infatti: “ogni istituto educativo dipenderà dal Ministero
Centocinquant’anni
CENNI STORICI SULL’ISTRUZIONE LICEALE IN ITALIA Le origini di G. Bonomo
(2) Idem, prefazione, pagina XIX.
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della Pubblica Istruzione e dovrà osservare le regole promulgate… tutti i privilegi fino ad ora ottenuti in dispregio di tale principio si intendono revocati”. Lo stesso orientamento è alla base della legge Casati che disegnò un sistema rigidamente verticistico ed accentrato sul ministero della Pubblica Istruzione la cui impronta genetica è stata faticosamente, e non ancora definitivamente, corretta a tutt’oggi. Quando nel 1861 il Regno d’Italia nacque - anche come risultato dell’espansionismo sabaudo sulla penisola -, essa fu progressivamente estesa dal Piemonte alle altre componenti del nuovo Stato. I primi anni “Il 4 aprile del 1860 scoppiava la rivoluzione. Collegio e seminario per tutto quell’anno stettero chiusi. Girgenti, che sino a quest’epoca non aveva avuto per gli studenti della provincia che il solo seminario, ebbe ginnasio e liceo, scuola e istituto tecnico: il seminario servì soltanto per i chierici” ³. Il 21 ottobre del 1860 gli elettori siciliani e meridionali furono convocati per il plebiscito (a suffragio universale maschile, secondo il modello napoleonico) sull’annessione al Piemonte. La percentuale dei votanti fu altissima (quasi l’80 %); la domanda proposta (“Volete l’Italia una e indipendente con Vittorio Emanuele re costituzionale e i suoi legittimi discendenti?”) non prevedeva alternative – poco più d’una domanda retorica dunque – ed il voto era pressoché palese. La risposta fu, naturalmente, unanime: il 17 marzo del 1861 il (3) Idem, pagina 197.
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Parlamento subalpino – non un Parlamento rappresentativo di tutti, si badi bene – proclamò Vittorio Emanuele II “Re d’Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione”. Fatta l’Italia, adesso bisognava fare gli italiani: il compito venne affidato in primo luogo alla scuola. Il 14 novembre 1861 il Consiglio Comunale di Girgenti deliberò all’ unanimità l’approntamento delle spese necessarie per l’istituzione del ginnasio e del liceo. Tuttavia, e non poteva essere altrimenti, “il clero ebbe un importante ruolo nella costituzione delle nuove strutture statali” 4. In continuità con la tradizione radicata la sede non poté che essere la medesima del passato: il ginnasio iniziò la propria attività didattica il 10 gennaio del 1862 in un’ala del Palazzo Vescovile, sotto la direzione del canonico Gaetano Gallo 5, fino all’anno prima professore di Rettorica del Seminario. Nell’anno successivo, sempre nella stessa sede e sotto la stessa direzione, sorse il Regio Liceo. In un contesto socio-economico di drammatica arretratezza in rapporto alla già problematica situazione generale del meridione, il liceo-ginnasio mantenne a lungo il carattere elitario strutturatosi nella sua stessa gestazione. A titolo asseverativo basti osservare che se nell’anno scolastico 1867-68 gli iscritti al ginnasio erano 51 con(4) Idem, prefazione pagina XVII. (5) Il canonico Gallo fu sempre un prete liberale. Alla morte del Cavour fu lui a pronunciare ad Agrigento l’elogio funebre dello statista piemontese. A motivo di una situazione canonica irregolare, …, ...fu scomunicato, si sposò e si trasferì, con non poca amarezza a Siracusa, dove morì nel 1872. Idem, prefazione XVIII. (6) Idem, pagine 7-8.
tro i 18 frequentanti il liceo 6, nel 1607 – primo anno di vita del Seminario – gli alunni erano stati 16 ed alla fine dello stesso secolo “si aveva un corso completo di studii: quattro classi di grammatica, una cattedra di belle lettere, una di logica e metafisica, un’altra di fisica, una di leggi e due di teologia dommatica e teologia morale. Contava per ordinario da 110 a 120 seminaristi, tra alunni e convittori, oltre ad un immenso numero di esterni”7. L’esiguità dell’utenza, se da un lato si spiega con la geografia rurale del resistente latifondo, dall’altro esplicita la vocazione selettiva del liceo, ancora funzionale – in quel momento storico di transizione – alla formazione dei giovani di estrazione sociale elevata e quindi alla perpetuazione di una casta dominante autoconservatrice e retriva. L’anomalia genetica del sistema scolastico italiano L’avvento dello stato nazionale nella gestione scolastica ha portato con sé, pur con tutte le contraddizioni di un percorso accidentato, specifiche funzioni di promozione civile e professionale delle nuove generazioni. Ciò ha comportato lo sviluppo progressivo della scolarizzazione sia in senso orizzontale (con l’allargamento della base quantitativa di alunni), sia in senso verticale (con l’innalzamento del numero di anni di carriera scolastica per ciascun alunno): prima istituzione elitaria, per pochi, selezionati in vari modi (prevalentemente, ma non sempre per censo); poi per molti, indipendentemente dalle condi(7) Idem, pagina 29.
zioni sociali, dalle aspirazioni di vita, dalle capacità intellettuali; infine per tutti, almeno sul piano del diritto. L’Italia arriva all’appuntamento col sistema scolastico con un ritardo storicamente incolmabile, evidenziato drammaticamente dai dati dell’analfabetismo: nel 1861 la percentuale degli analfabeti è in media del 75%, nel meridione e nelle isole è intorno al 90%. In gran parte dell’Europa centro-settentrionale l’analfabetismo è un fenomeno raro già dal XVII secolo. La ragione di tale divario risiede nella storia politico-religiosa che ha prodotto, in quelle aree, la Riforma e, in Italia, la Controriforma. Affermando il principio del “libero esame” la Riforma trasforma il fedele in sacerdos sui e gli impone l’obbligo di istruirsi per poter procedere direttamente alla lettura e all’interpretazione delle Scritture. E’ lo stesso Lutero che nel 1530 chiede allo Stato di rendere obbligatoria l’istruzione per tutti; re e principi protestanti presiedevano le comunità riformate e , in quanto statisti, si fecero carico della diffusione di scuole gratuite e obbligatorie la cui frequenza era vissuta come imperativo di coscienza, più vincolante di qualsiasi obbligo di legge. La Controriforma invece concepisce l’istruzione come apostolato e la Compagnia di Gesù – il suo frutto più maturo –, assumendo il compito specifico dell’evangelizzazione, privilegia il terreno della formazione scolastica organizzando scuole secondarie di cultura classica - saranno i moderni licei – in cui coltivare l’educazione della classe dirigente. La Chiesa posttridentina nasce arroccandosi nella difesa di un millenario ed esclusivo monopolio 33
intellettuale ed oppone questioni di principio sia allo Stato educatore, sia all’obbligo scolastico, a difesa dei diritti naturali della famiglia 8 . Le stesse argomentazioni a difesa della libertà educativa dal rischio di omologazione statalista sono del resto sostenute da settori non marginali dello schieramento progressista (i liberali, ad esempio, sostenitori del pluralismo educativo) e si saldano paradossalmente alle tesi di quei conservatori che si oppongono all’alfabetizzazione in nome della difesa dell’ordine sociale dal pericolo della contaminazione rivoluzionaria eventualmente favorita dall’emancipazione culturale delle masse. Lo sviluppo della legislazione scolastica Il vero problema della scuola italiana delle origini fu dunque quello dell’analfabetismo. La soluzione indicata dalla legge Casati (sebbene per sola enunciazione) fu quella dolorosamente necessaria dell’obbligo scolastico, norma di segno tipicamente dispotico-illuminata che giustifica la coercizione con cui furono scolarizzate d’imperio le grandi masse refrattarie con il messianesimo del progresso morale e civile del popolo della Nazione… Le classi dirigenti non avevano bisogno di essere obbligate e continuarono ad avere il loro liceo classico, adesso di Stato, anzi Regio e non più seminariale. E’ con la legge Coppino del 1877che andò precisandosi il carattere autoritario della scuola italiana (speculare per altro a quello (8) “Lo Stato non ha il diritto di insegnare, appunto perché non è depositario della verità, non è fonte di dottrina…” scrive, ancora nel 1918 P. Mario Barbera sul num. 5 di “Civiltà Cattolica”, l’organo ufficiale dei gesuiti.
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del nuovo Stato) per almeno due ragioni: l’imposizione di sanzioni per le famiglie inadempienti l’obbligo e l’introduzione dei doveri – si noti bene, dei DOVERI – dell’uomo e del cittadino. E poco incide, ancora, il vincolo posto dalla successiva riforma elettorale del 1882 tra il conseguimento della licenza elementare, primo ciclo, e l’accesso al diritto di voto, nella determinazione del processo di inclusione delle masse nella vita dello Stato. A qualche anno di distanza, nel 1888, i Nuovi Programmi per la scuola di base Gabelli puntarono all’educazione della volontà, fatto che avrebbe in seguito prodotto un’eccessiva considerazione per i metodi disciplinari. Infatti la Premessa proponeva “un esplicito parallelo tra la caserma e la scuola, fra il rispetto dovuto al re e il saluto al signor maestro e definiva la disciplina scolastica lo strumento più poderoso che abbia la scuola per formare nell’alunno l’abitudine di adempiere ai suoi doveri, intendendo per doveri la sottomissione e la deferenza verso i maggiori di età” 9. Nei programmi Baccelli, che soppiantarono i programmi Gabelli nel 1894 – nell’era di Crispi e del suo progetto di assestamento autoritario dello Stato – il complesso dei contenuti fu sfoltito a favore dell’essenzialità degli argomenti: bisognava “istruire il popolo quanto basta, educarlo più che si può”. Come a dire che la finalità della scuola era quella di formare intanto il suddito, in attesa delle condizioni per trasformarlo in cittadino. E’ in età giolittiana che si avvia la svolta (9) L. Corradini: “La difficile convivenza” edizioni “La scuola” Brescia, 1975.
della scuola di base in scuola di massa con il prolungamento dell’obbligo scolastico fino al dodicesimo anno di età previsto dalla riforma del 1904 che porta la firma di Vittorio Emanuele Orlando. E’ ancora un intervento settoriale e parziale, ma è un passo che segnala la necessità e l’urgenza di procedere ad una riorganizzazione generale della scuola alla luce della prossima conclusione – con la prima guerra mondiale – del processo di “italianizzazione” degli italiani. Il nuovo compito della scuola sarà ora quello di elevarli qualitativamente: una scuola di tutti e per tutti, con l’innalzamento dell’obbligo a quattordici anni, ma in grado di selezionare e formare una nuova aristocrazia nazional-popolare per meriti culturali. Sarà la scommessa della riforma Gentile… tradita poi dalla fascistizzazione incipiente, a partire dal Concordato del 1929. LA RIFORMA GENTILE DEL ‘23 di G. Burgio Roma, 29 Ottobre 1922, Vittorio Emanuele III convoca per l’indomani il capo del fascismo Benito Mussolini, cui affida l’incarico di formare un nuovo governo di coalizione. Del nuovo esecutivo faranno parte fascisti, popolari, nazionalisti, liberali ed anche alcuni tecnici. Tra quest’ultimi, il filosofo siciliano Giovanni Gentile alla Pubblica Istruzione che occuperà la scrivania già di Francesco De Sanctis e, successivamente, di Benedetto Croce. Il nuovo gabinetto, ottenuta la fiducia della Camera e del Senato, costituirà il trampolino di lancio con cui Mussolini realizzerà la graduale conquista del potere impensabile solo pochi anni
prima, nonché, mediante le cosiddette leggi “fascistissime” degli anni successivi, la liquidazione dello Stato liberale fino alla “dittatura a viso aperto”. Giovanni Gentile prenderà la tessera fascista qualche tempo dopo l’Ottobre del ’22, caratterizzandosi ben presto, assieme al giurista Alfredo Rocco, come il costruttore più brillante dell’edificio teorico del regime. Gentile, in buona sostanza, sosteneva che il fascismo fosse il più autentico inveramento delle istanze migliori del liberalismo, della democrazia e del socialismo; e che le varie matrici culturali che variamente lo ispiravano, dovessero convergere verso ciò che più tardi Noberto Bobbio definirà “spiritualismo immanentista”. Futurismo, nazionalismo, sindacalismo rivoluzionario, nel fascismo avrebbero dovuto trovare una sintesi ideologica da riversare interamente nello “Stato etico”, uno Stato cioè dispensatore di una propria visione esaustiva e totalizzante della sfera politica, morale e pedagogica da imporre alla Nazione nella sua interezza. È all’interno di queste coordinate filosofiche - per la verità delineatesi compiutamente soltanto dopo - che nel 1923 Gentile realizzerà la sua riforma come la più organica risposta all’istanza pedagogica, oltre che politica, di formare le classi dirigenti della Nazione al fine di rigenerarla totalmente. Tuttavia non va sottaciuto che la riforma che porta il nome del filosofo di Castelvetrano era già stata concepita negli ambienti liberali degli anni precedenti, quando ancora il fascismo non era apparso sulla scena politica italiana. La riforma Gentile, che si estendeva dal35
l’asilo d’infanzia all’università, individuava nella scuola elementare, presente su buona parte del territorio nazionale, lo strumento principale della lotta all’analfabetismo. Tramite essa occorreva che acquistasse un’importanza fondamentale l’insegnamento religioso; e non, come si potrebbe credere, per motivi confessionali. Quanto piuttosto per favorire successivamente, nelle scuole secondarie, l’approdo finale alla filosofia, considerata la dimensione più adeguata a cogliere le manifestazioni storiche dello Spirito, nei confronti della quale, la religione doveva offrirsi come una sorta di meditazione propedeutica. Tale impostazione non era gradita ai cattolici, i quali respingevano l’equiparazione della religione all’infanzia e della filosofia alla maturità. Contrariamente a quanto rivendicato da socialisti e radicali, ovvero una scuola media unica come strumento di realizzazione di quote significative di uguaglianza sociale, la riforma ne prevedeva una differenziata sulla base di diversi criteri di destinazione culturale. Inoltre, fiore all’occhiello della riforma, veniva pensato un ginnasio-liceo classico elitario e selettivo, una scuola di tipo prevalentemente professionale e un istituto magistrale per formare i maestri, qualificandoli ulteriormente attraverso lo studio della filosofia e del latino. Oltre che sancire a chiare lettere la supremazia delle discipline umanistiche su quelle tecniche, la riforma Gentile del ’23 introduceva l’esame di Stato al termine di ogni ciclo di studi, ed il già citato insegnamento della religione alle elementari. Ha scritto in proposito Sergio Romano: “ A chi gli avesse rimproverato il carattere classista 36
della sua riforma, Gentile avrebbe replicato ricordando l’unità dello spirito e della sua incarnazione civile, lo Stato etico. Gli italiani che egli destinava a ruoli minori erano legati agli altri da una stessa storia, appartenevano ad una stessa comunità spirituale ed erano quindi partecipi di un lavoro comune”. Ed ancora: “La scuola di Gentile era quindi scuola di élite, ma anche al tempo stesso scuola nazionale, e le distinzioni gerarchiche che essa operava all’interno della società, erano mitigate […] dall’unità dei valori di cui era partecipe chiunque la frequentasse”. Qualche anno fa, Alberto Asor Rosa, dopo aver ricordato che la riforma Gentile aveva ricevuto l’approvazione e il sostegno convinto di Benedetto Croce, si chiedeva se questa potesse essere considerata “una riforma della scuola veramente fascista”. La risposta, necessariamente articolata, forse può essere riassunta in questi termini: non v’è dubbio che sia possibile riscontrare corrispondenze fra il modello di scuola gentiliano e quello relativo alla società che il fascismo intendeva costruire. Essa doveva fondare la propria identità sullo spiritualismo antimaterialista, sull’autorità e la gerarchia. Tuttavia, Asor Rosa giungeva alla conclusione secondo cui nel caso dell’utilizzazione che il fascismo fece della riforma Gentile, era possibile rintracciare, come in tante altre occasioni, l’eredità di un pensiero conservatore. DALLA RIFORMA GENTILE AD OGGI di A. M. Sermenghi La Riforma Gentile del 1923 fu, dopo la Legge Casati, il secondo grande intervento
legislativo da parte dello Stato, concepito in modo organico e complessivo ed attuato come riorganizzazione profonda e generale della scuola italiana. Ispirata alle esigenze di un particolare contesto storico-politico, e fondata sui principi del primato della cultura filosofica e umanistica e di una severa concezione selettiva, che caratterizzava la scuola secondaria prima ancora che l’università, la Riforma Gentile creò un sistema scolastico, che costituiva il naturale rispecchiamento di una società basata su profonde differenziazioni di classe, dove l’auspicata selezione meritocratica si traduceva in una selezione sociale. Il “doppio canale” già presente nella Legge Casati, che per la scuola superiore prevedeva o il Ginnasio o gli Istituti Tecnici, si rafforzò con la Riforma Gentile creando due scuole parallele, dove era comunque indiscussa la superiorità del Liceo Classico, in quanto scuola della classe dirigente, all’interno di una prospettiva di gerarchizzazione, che finiva col dare a ciascun ceto la sua scuola, assicurando così la stabilizzazione sociale. Nei due anni in cui Gentile fu Ministro della Pubblica Istruzione, la cornice culturale dell’Idealismo rappresentò il fondamento filosofico della sua politica scolastica, mentre i ritocchi apportati alla riforma durante il Fascismo delinearono un assetto del sistema scolastico, che per lungo tempo rimase pressoché saldo e inalterato. Caduto il Fascismo, finita la seconda guerra mondiale e completata l’opera di ricostruzione materiale e politica, nella realtà di un’Italia ormai repubblicana, gli anni ’60 registrarono una ripresa sotto il profilo economico e sociale che, politi-
camente segnò il passaggio da governi centristi a governi di centro-sinistra e diede l’avvio ad un processo di cambiamento socioculturale, che portò ad una reale estensione dell’obbligo scolastico attraverso incisivi interventi rivolti a contrastarne l’evasione e a favorire la scolarizzazione di massa. Il punto di approdo fu la L. 1859 del 31 dicembre 1962 istitutiva di una scuola media unica obbligatoria, dove l’insegnamento del latino fu reso facoltativo. Il 1968 vide il nostro Paese investito da una ondata di rinnovamento scaturita dal fenomeno della contestazione studentesca che, partito dall’Università di Parigi, si estese in altri Paesi Europei animando la protesta giovanile contro la società borghese e contro una scuola definita “apparato ideologico di Stato”. Nel 1969 in Italia fu liberalizzato l’accesso alle facoltà universitarie da tutte le scuole superiori e nello stesso tempo fu varata una prima riforma dell’esame di maturità al termine delle scuole secondarie superiori, con una riduzione drastica del numero di materie da sostenere, che rese indubbiamente più facile l’esame stesso. Le scelte di politica scolastica di quegli anni interpretavano quanto dai movimenti veniva posto come questione prioritaria nel dibattito culturale in atto: l’accusa all’Istituzione che il rigore eccessivo degli studi determinasse una selezione di tipo classista, che finiva col danneggiare i ceti popolari e la conseguente richiesta di adeguare la scuola alla società in trasformazione, che proclamava l’esigenza di una democratizzazione in grado di contrastare la selettività del sistema scolastico tradizionale. Tutto ciò, se per un verso rese 37
più facile la frequenza a scuola, determinando una diminuizione delle ripetenze e abbassando il livello del rendimento scolastico, per un altro verso, pose come necessaria la richiesta di una riforma dei programmi e degli ordinamenti. In quella fase storica cominciò a differenziarsi l’evoluzione successiva dei segmenti di un sistema scolastico che fino ad allora avevano trovato una composizione unitaria nell’ordinamento della Riforma Gentile, concepito all’interno di una comune visione culturale. Vale la pena a tal fine ricordare la L. 444 del 18 Aprile 1986 che realizzava la statalizzazione della scuola materna, la L. 820 del 24 Settembre 1971 che introduceva nella scuola elementare il tempo pieno e la già menzionata L. 1859 del 1962 relativa alla scuola media unica che sopprimeva le scuole post elementari, la scuola di avviamento e la scuola media, istituita nel 1940, a seguito dell’approvazione, nel 1939, della Carta della Scuola del Ministro Bottai, che aveva modificato l’articolazione del Ginnasio.Si ricorda infatti come il Liceo Classico nella Riforma Gentile avesse un impianto curricolare di 8 anni: 5 di Ginnasio e 3 di Liceo, unico in quel periodo a dare accesso a tutte le facoltà universitarie. Dopo la scuola elementare, già a undici anni, occorreva scegliere se proseguire al Ginnasio o nell’Istruzione Tecnica, secondo il principio di una alternativa più formale che reale, che non consentiva passaggi e che, in una prospettiva di gerarchizzazione delle scuole secondarie, creava inevitabili distinzioni di scelta tra diverse classi sociali, facendo della scuola uno strumento di stabilizzazione. Anche per tali ragioni va 38
sottolineata l’importanza, in un primo momento, della Riforma Bottai che, comunque prevedeva una scuola media unica con latino e esame di ammissione, una “scuola artigiana” data ai maestri e una “scuola professionale” affidata ai professori e seguita da un biennio tecnico e, soprattutto, va evidenziata la grande svolta del 1962, con la scuola media unica, che cancellava definitivamente la logica del “doppio binario”. Tutto questo ebbe particolari risvolti sotto il profilo didattico, per il modificarsi graduale della configurazione socio-culturale della popolazione scolastica che affluiva al Ginnasio, e per il processo di rinnovamento, che caratterizzò i diversi segmenti della scuola di base, in ordine agli stessi programmi didattici. L’unico intervento riformatore che tuttavia investì la Scuola Secondaria Superiore e dunque anche il Liceo Classico fu la Legge Delega 31 Maggio 1974, che introdusse i Decreti Delegati nelle scuole di ogni ordine e grado, istituzionalizzando l’idea deweyana di una scuola come comunità educante ed eliminando l’apparato burocratico e verticistico di una amministrazione chiusa nei suoi meccanismi autoreferenziali, che veniva rinnovata con il principio della partecipazione democratica alla vita della scuola, attraverso gli Organi Collegiali, che si aprivano a tutte le componenti sociali, alle famiglie e agli studenti. A fronte di tale innovazione che aveva toccato tutto il sistema scolastico italiano, si manteneva inalterata la fisionomia istituzionale della scuola secondaria superiore e soprattutto del Liceo Classico, che pur accoglievano alunni provenienti da una
scuola media e da un percorso di istruzione di base già ampiamente riformato, per gli interventi attuati in differenti momenti nei diversi ordini di scuola, cui avevano fatto seguito anche innovazioni nei programmi, che invece non subivano modifiche sostanziali nella struttura e nell’impostazione dell’insegnamento nella scuola secondaria superiore. Il grande problema di una Riforma della scuola secondaria superiore venne posto già a partire da quegli anni, per la notevolissima discontinuità strutturale del sistema scolastico italiano, che si approfondì ulteriormente negli anni ’80 e ’90, nei quali, invece, processi di grande cambiamento continuarono ad investire i segmenti del sistema scolastico di base e, nell’ambito della scuola secondaria, gli Istituti Tecnici e Professionali. Relativamente ai Licei il tentativo di innovazione si tradusse nell’emanazione dei Programmi “Brocca” proposti nel 1991/1992 e nella possibilità di attuare maxisperimentazioni di ordinamento e di struttura o sperimentazioni, parziali, con l’introduzione nel curricolo tradizionale di discipline quali il diritto o la lingua straniera per il triennio liceale classico. In ogni caso rimase inalterato l’ordinamento del Liceo Classico, immutato nella sua articolazione strutturale e nella prosecuzione di un impianto didattico legato ai programmi tradizionali, piuttosto che alla sperimentazione del Progetto “Brocca”. Ciò significò demandare alla scelta culturale e professionale dei Presidi e dei Docenti la necessità di un adeguamento della scuola alle mutate condizioni di contesto, che esigevano la sperimentazione di nuove vie, nel metodo e nell’im-
postazione dell’insegnamento/apprendimento e nel processo di programmazione/valutazione dell’azione educativa. Tale possibilità di percorrere la strada dell’innovazione si ampliò nella stagione dell’autonomia scolastica, quando con l’art. 21 della L. 59 del 1997 si posero importanti basi per favorire la progettualità delle Istituzioni Scolastiche, concepite come unità funzionali e chiamate ad autodefinirsi nel territorio, nell’esercizio di una autonomia, che il D.P.R. 275 dell’8 marzo 1999 estendeva alla didattica, alla metodologia, al curricolo e all’organizzazione stessa della scuola, mediante i Piani dell’Offerta Formativa. Furono anni nei quali avveniva contemporaneamente una grande trasformazione nella pubblica amministrazione che dal 1991in poi, passando nel 1995 dalla stagione della Carta dei Servizi e della contrattualizzazione privatistica dei rapporti giuridici, è proseguita fino ad oggi con i recentissimi interventi del Ministro Brunetta. Furono ancora anni nei quali l’esigenza di provvedere alla Riforma della Scuola divenne improcrastinabile non solo ed in particolare per la scuola secondaria superiore, ma anche per il sistema scolastico nel suo complesso, che avvertiva la necessità di una riforma organica e complessiva, come lo era stata la Riforma Gentile, per superare la discontinuità culturale, pedagogica e didattica tra i diversi livelli dell’istituzione e per adeguare la scuola italiana alle grandi sfide del processo di integrazione europea e della complessità in una società post-moderna e post-industriale, globalizzata, tecnologicamente avanzata e aperta a nuovi saperi. Ricor39
diamo il primo tentativo compiuto dal Ministro Berlinguer in carica nel Primo Governo Prodi e nei due Governi D’Alema con la L. 30 del 10 febbraio 2000 sul Riordino dei Cicli, che seguiva a due importanti innovazioni introdotte nella scuola superiore: la legge 425 del 10 dicembre 1997 che riformava l’ Esame di Stato, non più di maturità e finalizzato ad accertare conoscenza, abilità e competenze al termine del percorso quinquennale e la L. 9 del 20 gennaio 1999, che in fase di prima applicazione elevava l’obbligo scolastico di un anno, prevedendone l’estensione fino al primo biennio della scuola secondaria superiore, non appena fosse entrato in vigore il Riordino dei Cicli. Tanto la L. 9/99 quanto la L. 30/00 furono abrogate dalla Legge n. 53 del 28 marzo 2003 con cui il Ministro dell’ Istruzione Letizia Moratti compiva il disegno riformatore durante il secondo e terzo Governo Berlusconi, proponendo un sistema di istruzione e di istruzione e formazione professionale, che si articolava nella logica di un “doppio binario”, tra il Sistema dei Licei e il Sistema dell’ Istruzione e Formazione Professionale. La Riforma subiva comunque una battuta di arresto, con la successiva breve parentesi del Secondo Governo Prodi negli anni 2006/2008, segnati dagli interventi del Ministro Fioroni, che introduceva il nuovo obbligo di istruzione con il D. M. 139 del 22 agosto 2007 e rilanciava l’Istruzione Tecnica e Professionale, sopprimendo la riproposizione del sistema duale avvenuta nell’ambito della riforma Moratti. L’auspicata Riforma complessiva e globale della scuola italiana si compie nel corso del 40
quarto Governo Berlusconi, con gli interventi di riorganizzazione e di riordino del Ministro Gelmini e con l’ emanazione dei D.P.R. 87,88,89 del 15 marzo 2009 che regolamentano in modo definitivo il Sistema dei Licei, il Sistema dell’ Istruzione Tecnica e il Sistema dell’Istruzione Professionale. Vengono soppresse tutte le sperimentazioni di ordinamento e di struttura nella scuola secondaria superiore e si introducono i nuovi testi programmatici che per il Liceo Classico coincidono con le Nuove Indicazioni Nazionali per il Curriculo del Sistema dei Licei. Il Liceo Classico “Empedocle ha mantenuto negli anni il suo impianto tradizionale, aprendosi comunque nel 1996/97 alla sperimentazione dell’ insegnamento del diritto, con D. M. del 15 luglio 1996, trasmesso con C. M. prot. 18/18 del 16 agosto 1996. Agli studenti fu data in oltre la possibilità di uno studio più ampio della lingua straniera ed in particolare dell’ inglese o con il Progetto “Ragazzi 2000” o attraverso i corsi organizzati in collaborazione con il “Trinity”, di cui oggi è diventato sede. Ha anche offerto ai propri studenti le opportunità della progettualità legata al FSE con i progetti P.O.N. e ha implementato grazie al FESR le sue dotazioni strumentali e i suoi servizi.Oggi è pronto ad affrontare gli impegni connessi alla Riforma e soprattutto le sfide di una società profondamente cambiata e, nel compiersi dei suoi 150 anni, si ritrova a promuovere una riflessione culturale su se stesso, che intende ritrovare nell’attualità e nel valore della cultura classica e nella prestigiosa tradizione dell’Istituto le radici e le ragioni per un futuro ancora ricco di prospettive.
I Luoghi e la Memoria ... ho levato pianto e gemiti al vedere il luogo inusitato... (Emp. fr. 118)
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Francesco Catalano
subentrarono le figlie di San Paolo, che fondarono l’omonima libreria. Negli anni cinquanta il Liceo ottenne la sua sede attuale, che occupò per una felice stagione con tutte le sue componenti: il biennio del Ginnasio e il triennio Liceale convissero per un breve e non più ripetibile periodo nel medesimo edificio. L’aumento della popolazione studentesca comportò infatti conseguentemente la ricerca di nuove sedi fisiche dove ospitare i corsi del Ginnasio. Da allora Ginnasio e Liceo non sono più stati nella stessa sede: ha inizio una “diaspora”, una divisione fra ginnasio (primo biennio) e liceo (secondo biennio e quinto anno) “in giro” per il territorio comunale che perdura ancora oggi. I locali del Ginnasio, a titolo ovviamente provvisorio, sono stati ospitati di volta in volta: - in un piano interrato di un edificio condominiale nella Via Gioeni; - in locali messi a disposizione dall’ITG Brunelleschi, in contrada Calcarelle; - in spazi e strutture del complesso sede dell’ITC Leonardo Sciascia, sempre in contrada Calcarelle. Finalmente, durante la presidenza del Prof. Giuseppe Patti, si avviò il processo di trasferimento delle attività, del personale e degli studenti del Ginnasio nella Via Minerva, in stretto rapporto di vicinato con l’Istituto comprensivo Garibaldi. Il Ginnasio è ancora là. Accanto a questa storia ne va raccontata un’altra, meno nota e sicuramente con
Un lungo vagare
All’indomani dell’unificazione nazionale la Legge Casati estende la sua azione e i suoi effetti su tutto il territorio nazionale. Fra le città che precocemente si attrezzarono per dotarsi di un Regio Liceo Ginnasio c’è la Girgenti ottocentesca. Nel corso dei centocinquant’anni che ormai ci separano dal primo giorno di scuola del Regio Liceo Ginnasio intitolato a Domenico Scinà, la nostra scuola ha cambiato molte sedi. (Fig. 1) Il Vescovado, nella via Duomo, fu verosimilmente la prima sede della didattica del nostro Liceo. E certamente anche il Seminario vescovile, ospitato nell’antico complesso chiaramontano dello Steri, in Piazza Don Minzoni, offrì i propri spazi ai suoi giovani allievi, non solo a coloro che avrebbero perfezionato il percorso vocazionale che li avrebbe condotti al Sacerdozio, ma ai figli di tutta la città. Le notizie dei vari spostamenti che la sede fisica del Liceo dovette subire, ci riferiscono di un periodo lungo, in cui i corsi si tennero nei pressi del complesso francescano, in ambienti di origine medievale, prospicienti le antiche mura della città oggi demolite, in luogo sostanzialmente coincidente con la sede attuale. Altre fonti riferiscono che per diversi anni, a seguito dei danni causati dalla seconda guerra mondiale, il Liceo fu ospitato nella ex Casa del Fascio di Agrigento (è del 1929 il cambio del nome della nostra città), e lì vi rimase fino all’inizio degli anni cinquanta del XX secolo, quando nell’edificio
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aspetti meno visibili sullo scenario urbano: l’esistenza di sedi coordinate che nel corso del tempo hanno segnato una presenza qualificata del Liceo in diversi centri del territorio provinciale. (Fig. 2) Negli archivi della scuola si conservano infatti tracce di sezioni del Liceo nei comuni di Naro, Ribera, Cattolica Eraclea, Favara, Porto Empedocle (funzionante quest’ultimo fino a tempi recentissimi). È attraverso la scoperta e la ricognizione della storia delle varie sedi in cui il Liceo è stato che comprendiamo quanto la scuola abbia dato al territorio e quanto abbia fatto per il suo progresso civile. Veramente, il Liceo, prima di essere la scuola della città, è stato attore di sviluppo per molti centri sparsi nella provincia, e per i giovani e le famiglie che lì vivevano. Anche l’accidentata storia del Ginnasio, se richiama alla memoria il disagio di “dover fare scuola” in sedi non acconce o non deputate a rendere un servizio importante come quello scolastico, sottolinea tuttavia come il Liceo sia stato “lievito” e portatore di istanze di progresso, sviluppo della migliore cittadinanza, la più promettente e qualificata nel cuore stesso della città. La storia dell’”Empedocle” diventa perciò la storia stessa di Agrigento, delle sue speranze, delle sofferenze, dei traguardi raggiunti, di quelli da raggiungere ancora, nel futuro, in un rapporto stretto e indissolubile.
Fig. 1
Fig. 2
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Calogero Mallia
zione del canonico prof. Gaetano Gallo. L’anno successivo viene fondato, sotto la presidenza dello stesso Gallo, anche il Regio Liceo intitolato con regio Decreto 4 marzo 1865, n. 2229, al grande fisico palermitano Domenico Scinà. Il 15 ottobre 1864 Ginnasio e Liceo vengono trasferiti, con comunicazione del Sindaco della città al Prefetto di Girgenti, nell’ala occidentale dell’ex convento di San Francesco d’Assisi che ospitava anche la scuola normale e la scuola tecnica. Ma si trattava di locali fatiscenti e inidonei alle esigenze della scuola, lo testimonia la comunicazione del 9 febbraio 1863 fatta dall’allora preside, canonico Gaetano Gallo, al Provveditore agli studi di Girgenti. Nell’anno scolastico 1878/79 in una pubblicazione dell’istituto, “Cronache”, il preside Ferdinando Cristiani scriveva, infatti, che il sito delle scuole è disadatto, malsano, indecente, trattandosi del primo Istituto d’istruzione della Provincia. Un’ analoga situazione di degrado si ha per i sussidi didattici e le apparecchiature scientifiche costituite spesso da materiali vecchi e malfunzionanti. Non era presente neanche una vera e propria biblioteca. Scrive sempre il Cristiani quella che impropriamente chiamasi biblioteca era costituita da una manciata di libri, circa una ventina, custoditi in presidenza. Questa situazione di ristrettezze di mezzi e di disagio rimane, all’incirca, immutata per tutto il secolo. Come in tutti gli istituti secondari siciliani, specie nei centri minori, la difficoltà che gli
Il Liceo e la Città
Come tutte le storie delle scuole statali italiane, la nostra inizia con il Regio Decreto legislativo del 13 novembre 1859 n.3725 del Regno di Sardegna, noto come legge Casati, entrato in vigore nel 1860 e successivamente esteso, con l’unificazione, a tutta l’Italia. La legge esprime la volontà dello Stato di farsi carico del diritto-dovere di intervenire in materia scolastica a fianco e in sostituzione della Chiesa cattolica che da secoli ha detenuto il monopolio dell’istruzione. Si conferma così la nuova concezione che vede nell’istruzione la possibilità di uscire da un’atavica e “predestinata” condizione di subalternità sociale. In Sicilia, però, dove il fenomeno della mobilità di status era più lento per le poche industrie e la non capillare diffusione di una cultura operaia, la scuola non riesce a promuovere l’ascesa delle classi subalterne e alto rimane il tasso di analfabetizzazione rispetto ai coetanei del resto d’Italia. Nel 1860, comunque, il prodittatore di Garibaldi in Sicilia, Antonio Mordini, adotta anche per la nostra regione (decreto del 17.10.1860, n.263) la legge Casati sulla Pubblica Istruzione e il Consiglio Comunale dell’allora Girgenti, con delibera comunale del 14 novembre 1861, all’unanimità si dichiara pronto alle spese necessarie per la fondazione del Ginnasio e del Liceo. Come si evince dalla documentazione rinvenuta nell’Archivio di Stato di Agrigento, il Ginnasio inizia la propria attività didattica il 10 gennaio 1862, provvisoriamente in un’ala del palazzo vescovile, sotto la dire-
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alunni incontrano negli studi è accentuata dal fatto che la stragrande maggioranza degli insegnanti proviene dalle regioni del Nord-Italia ed è, perciò, totalmente estranea all’ambiente locale e alla sua cultura. Ne consegue una reciproca diffidenza ed incomprensione che incide negativamente sul rapporto educativo e si manifesta in una, forse, eccessiva severità nel giudicare gli alunni. La conflittualità fra docenti e discenti sfocia in alcuni clamorosi episodi di aperta ostilità, se non di ribellione singola o collettiva, incoraggiata a volte dalle stesse famiglie degli alunni o dall’opinione pubblica. A tal proposito si ricorda l’episodio del trasferimento, da Girgenti a Trapani, del preside del Liceo, il trevigiano abate don Pietro Donna, riportato dal quotidiano palermitano “L’Amico del Popolo” dell’11 ottobre 1874, in cui si legge: il preside ha lasciato finalmente quelle povere scuole e si è rifugiato a Trapani nel locale liceo (...) La fama, l’opinione, la stima ch’egli lasciò in Girgenti ci fanno ben persuasi del sistema inverecondo di chi governa la pubblica istruzione in Sicilia specialmente, mettendo alla direzione delle scuole gente inetta, presuntuosa e volgarissima (...) Non vogliamo continuare l’elogio di don Pietro Donna perché gente di tal fatta ci ripugna; ci duole tuttavia che il liceo di Trapani dovrà goderselo qualche poco, e provare i benefici effetti di codesto buzzone. Ma anche quando, superato il primo traumatico impatto, si iniziano a instaurare condizioni di reciproca stima e intesa, il meccanismo burocratico dei trasferimenti rinnovava annualmente, quasi per intero, il 46
corpo docente, interrompendo l’attività educativa e didattica e riproponendo ex novo l’incertezza di un’ intesa non sempre facile, talora impossibile. Se (e non soltanto in Sicilia) tutta la scuola d’indirizzo classico si contraddistingue per essere fortemente selettiva, a Girgenti questa caratteristica appare ancora più evidente. Ad esempio nell’anno scolastico 1867-68 gli iscritti al Liceo sono 18, mentre al Ginnasio 51; nel 1870-71 agli 80 studenti ginnasiali si contrappongono 17 liceali, di cui un solo iscritto nella seconda classe e due nella terza. Una selezione determinata anche dalla difficoltà di molti giovani di dover vivere lontano dall’ambiente familiare poiché le scuole, seppur presenti nel circondario, non sono facili da raggiungere a causa della pessima viabilità e dei rari mezzi di collegamento pubblici. Pertanto, gli iscritti alle classi dei ginnasi e dei licei siciliani costituiscono una minoranza molto ristretta di studenti. A farne parte non sono più soltanto quei giovani che, in virtù del blasone o del censo, si sentono tradizionalmente depositari del diritto alla cultura, ma anche i rampolli delle nuove classi emergenti, per i quali un titolo di studio è un mezzo per assicurarsi un’occupazione più o meno lucrosa, ma tale comunque da riscattarli dalle umili condizioni di nascita. Fra questi, i giovani meno dotati o più scorretti ricorrevano talvolta a sotterfugi, a intimidazioni e illecite pressioni nei confronti dei docenti. Un comportamento che portava, tanto i presidi che gli insegnanti, ad accusare le famiglie di essere poco sen-
sibili al problema di un’autentica formazione intellettuale e morale dei loro figli. Famiglie sollecite esclusivamente a veder tramutato il frutto di un capitale economico non indifferente investito nell’istruzione in un diploma, non importa se realmente meritato. Ma sarà proprio in quegli anni che il nostro Liceo inizierà ad essere la fucina di grandi menti. Il 1867, nonostante in Sicilia imperversi il colera, risulta un anno di particolare grazia per Agrigento. Nascono Giuseppe Lauricella e Luigi Pirandello. Girgenti era un piccolo paese abbarbicato sul colle omonimo con circa ventimila abitanti e con un tasso di analfabetismo dell’ 89,91 % (censimento del 1871). In quel contesto sembra incredibile che siano venuti alla luce due geni di tale spessore in due campi diametralmente opposti: Pirandello, conosciuto in tutto il mondo per le sue opere letterarie, premio Nobel per la letteratura nel 1934; Lauricella, famoso nella cerchia di esperti in alta matematica, ordinario di calcolo infinitesimale presso l’Università di Catania. Entrambi studenti del Regio Liceo Classico “Domenico Scinà”. Superate le difficoltà del primo avvio, anche il Liceo-ginnasio agrigentino vede un graduale aumento della popolazione scolastica che non riesce, tuttavia, a superare le 200 unità se non agli inizi del ‘900. Col tempo si raggiunge un più equilibrato risultato degli scrutini e degli esami ed anche un fermento di iniziative culturali: la pubblicazione, nel 1883, di un periodico, L’eco dei Licei, diretto da V. Sclafani Gallo,
redatto dagli studenti; nel 1895 La Nuova Bandiera, bollettino del Liceo, e l’istituzione, il 1° giugno 1900, di una biblioteca allestita dal grande storico Nicolò Rodolico, allora docente del nostro Istituto. Con Regio Decreto 2 maggio 1901, il Regio Liceo-Ginnasio Domenico Scinà, secondo quanto proposto all’unanimità dal corpo insegnante e dal Consiglio comunale, muta la sua intestazione e viene intitolato al grande filosofo acragantino Empedocle. In quegli anni, come si evince dalla documentazione presente nell’archivio storico della Scuola, vengono aperte diverse sedi coordinate del Liceo: Favara, Naro, Cattolica Eraclea, Aragona… Del successivo ventennio fascista, la scuola possiede ampia documentazione, come ad esempio una raccolta di circolari ministeriali: Roma, 15 maggio 1933, A. XI°, con la quale il Ministro della Educazione Nazionale, dott. Ercole, chiede ai Presidi dei RR. Istituti d’istruzione, la redazione delle note informative in cui riportare fatti che valgano a delineare la personalità del professore (cultura ed efficacia didattica; con quale efficacia insegni allo spirito e alle direttive del Governo Fascista; con quale atteggiamento partecipi alle manifestazioni della vita nazionale; se siano iscritti al P.N.F, ecc…). Roma, 27 settembre 1933, A. XI°, con la quale il Ministro della Educazione Nazionale, dott. Ercole, dà indicazioni ai Presidi dei RR. Istituti d’istruzione sui criteri da adottare per la formazione delle classi: … il criterio fondamentale di tale distribuzione sia quello del sesso, così da costituire 47
sezioni o interamente maschili o interamente femminili. Roma, 15 settembre 1934, A. XII°, con la quale il Ministro della Educazione Nazionale, dott. Ercole, richiama l’attenzione dei docenti sulle pubblicazioni suggerite o date in lettura agli alunni … in quanto non sempre la indicazione o la offerta fu abbastanza ponderata: in più di un caso si sono messi nelle mani dei giovani libri o altre pubblicazioni ad essi non convenienti, perché per un verso o per l’altro contravvenivano a quella castigatezza morale di cui la scuola non deve mai prescindere, anche per conservarsi intera la fiducia delle famiglie. Roma, 15 gennaio 1935, A. XIII°, con la quale la Direzione Generale della Istruzione Media Classica, Scientifica e Magistrale, a firma del dott. Scaccia, dando seguito al R.D. 25 settembre 1934, comunica ai Presidi la revoca delle punizioni disciplinari in occasione della nascita di S.A.R. la Principessa Maria Pia di Savoia. Le più curiose risultano, però, le seguenti: Roma, 5 febbraio 1928, A. VI°. Il Ministero della Pubblica Istruzione invita gli alunni a partecipare ad un viaggio d’istruzione, a spese dello Stato, in Inghilterra. Lapidaria la risposta del Preside La Rocca, datata 18 febbraio 1928: Comunicasi che nessuno alunno vi parteciperà. Roma, 5 giugno 1928, A. VI°. Il Ministero della Pubblica Istruzione invita gli alunni a partecipare alla Coppa “Giuseppino Faelli” per il campionato nazionale di sci fra gli istituti medi di istruzione. In data 12 novembre 1928, il preside La Rocca, dopo aver ricevuto diverse sollecitazioni in me48
rito, risponde che non è possibile addestrare in questa sede gli alunni agli sci, perché qui e nelle vicinanze non cade mai la neve. Per avvalorare la sua tesi, continua ….. anche il Direttore tecnico-sportivo dell’Opera Nazionale “Balilla”, presso il quale, anche oggi, ho insistito di cercare di preparare almeno qualche alunno per la Coppa “Faelli”, mi dice che è nella impossibilità di farlo per l’assoluta mancanza di neve. In questi luoghi si ignora perfino cosa sia uno sci. Roma, 14 dicembre 1935, A. XIV°. La Presidenza Centrale dell’Opera Balilla, su incarico del Ministero dell’Educazione Nazionale, invita i Presidi a dare disposizioni agli alunni affinché essi portino alle sedi locali dell’Opera Balilla i rifiuti di carta di ogni genere che vanno di solito perduti, in quanto l’iniziativa ha uno spiccato valore morale e patriottico. Agrigento durante il fascismo, nonostante le innegabili privazioni e difficoltà di quel periodo, è una città molto viva, proiettata ad esaltare la spensieratezza e la dolce vita. Qualcuno già possiede delle automobili e i giovani della piccola borghesia destinano gran parte del tempo al divertimento e alle gite con gli amici. Molti aderiscono con entusiasmo alle manifestazioni del regime e la città è abbastanza compiacente e supina. Uno dei momenti più bui e tristi del ventennio fascista comunque è il 1938, anno in cui vengono approvate le leggi razziali. Eco di tale intolleranza sono le circolari ministeriali che arrivano a scuola. In quel periodo tra i più significativi docenti del Liceo si ricordano i professori Sciascia di italiano e letteratura italiana,
Carlo Greca di storia e filosofia, Palermo di matematica e fisica, Angelo Castagnolo, insigne grecista a cui la città ha intitolato una scuola media, le professoresse Adele Vullo Cremona e Antonietta Gaglio di latino e greco, Maria Alaimo, docente di lettere e allieva di Pirandello di cui ha lasciato un’interessante biografia, a cui la città ha dedicato l’ex piazzetta Caratozzolo nella parte alta della via Atenea. Il preside che in quel periodo lascia un’impronta significativa è Luigi La Rocca, che dirigerà ininterrottamente l’istituto dal 1927 al 1935. Anche lo scrittore Andrea Camilleri, dopo una breve esperienza in collegio (da cui si fa espellere per avere lanciato delle uova contro un crocifisso), si matura al liceo classico Empedocle nel 1943. Nel luglio dello stesso anno l’edificio scolastico viene distrutto dai bombardamenti alleati. Il Liceo è così trasferito in via Atenea, nei locali dell’ex Casa del Fascio, oggi sede delle Suore Paoline. Agli inizi degli anni cinquanta, grazie alla legge INA-CASA, n°43/49, meglio nota come legge Fanfani, l’impresa Pantalena inizia, nel sito dove si trovava la scuola prima dei bombardamenti, i lavori di costruzione del nuovo edificio. Nell’anno scolastico 1956/1957, come si evince dalla circolare n°16 del 12 gennaio 1957 emessa dalla preside Imbergamo Amante Anna, il Liceo viene trasferito dai locali delle Suore Paoline all’attuale sede. Un decennio dopo l’Istituto sarà attraversato dall’ondata di protesta studentesca che caratterizzerà il ’68, con le sue manifestazioni, occupazioni di scuole e di facoltà
universitarie, assemblee, corsi autogestiti, contestazioni. Nascono anche ad Agrigento i gruppi della sinistra extraparlamentare: Lotta Continua e Avanguardia Operaia. I dirigenti più in vista di queste formazioni provengono dal Liceo Classico “Empedocle”. Figure di spicco sono in quel periodo Giovanni Taglialavoro, Tano Siracusa, Maurizio Iacono i quali, insieme a Mimmo Vella e altri, cercano di scuotere le coscienze dei nostri concittadini (ad esempio, sul tema della penuria di acqua) organizzando sit-in davanti alla prefettura. In quel periodo e per quasi 30 anni, opera come dirigente scolastico il preside Giovanni Vivacqua, uomo di cultura e docente di filosofia. Oggi a lui è dedicata l’Aula Magna del Liceo. Il fermento politico prosegue sino agli anni ’70. Gli studenti del Liceo, sensibili alle tematiche sociali e politicamente impegnati (soprattutto nell’area della sinistra extraparlamentare), riescono a coordinarsi con gli studenti degli altri istituti secondari e ad organizzare manifestazioni studentesche con migliaia di partecipanti. La storia recente ci dice che, a causa del sempre più elevato numero di iscritti, nell’anno scolastico 1968/1969 il Ginnasio viene trasferito nei locali di via Gioeni. Dopo circa trent’anni di “stabilità” in quella sede le sezioni ginnasiali iniziano a subire frequenti spostamenti: “I.T.G. Brunelleschi”, Consorzio Universitario, “I.T.C. L. Sciascia” fino all’attuale sede presso la “S.M.S. Garibaldi”.
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Archivio storico “B. Milano”
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Calogero Mallia
alunni di sesso opposto nonché una bizzarra sollecitazione per gli alunni del Liceo Classico di Agrigento a partecipare ad una gara nazionale di sci! Diverse fotografie degli anni ’50 testimoniano lo stato dei lavori del costruendo edificio di via Empedocle sul sito dove si trovava la precedente sede distrutta dal bombardamento del 12 luglio 1943. Altre foto raffigurano il recupero, dopo tale distruzione, di una parte dei reperti che erano esposti nel Museo “F. Terrachini”, ex Museo “M. Foderà”, presente nell’Istituto fin dal 1865. Numerosi documenti ci regalano informazioni preziose sull’evoluzione del Museo che negli anni ’20 diventò Ente Morale e si dotò di uno statuto. Varia la documentazione relativa all’acquisto di pezzi per arricchire la dotazione del Museo, come ad esempio la corrispondenza tra il preside e il direttore dell’Istituto di Anatomopatologia dell’Università di Catania per l’acquisto dello scheletro umano tutt’ora presente a scuola. Alcuni assegni e buoni fruttiferi intestati al Museo “F. Terrachini” testimoniano questa attività. Avere fra le mani e leggere questi documenti consente di fare una sorta di viaggio nel tempo e nello stesso tempo di capire che la “Storia” non è soltanto quella racchiusa nei grandi Archivi , nelle Biblioteche Nazionali, ma anche quella che si trova nel nostro piccolo “grande” Archivio. Qui, infatti, sfilano volti e momenti di quella che è stata la storia della nostra città
L’archivio storico “B. Milano”
Gran parte dei documenti relativi alla storia del Liceo sono custoditi nell’Archivio Storico dell’Istituto. Altri sono presenti nell’Archivio di Stato, nell’Archivio Storico Comunale e al Seminario Vescovile di Agrigento, prima sede del Regio Liceo. Il merito dell’esistenza del materiale presente è dovuto senz’altro alla cura e all’attenzione dei docenti e dei presidi che si sono succeduti nel tempo, ma una menzione particolare merita, senza dubbio, il prof. Biagio Milano che ha vissuto come una “missione” la raccolta, la catalogazione e la conservazione del materiale che vi si trova. Fra i documenti presenti si possono annoverare: i registri generali dei voti di tutte le classi, dall’a.s. 1861/62 ad oggi; i registri degli esami di Stato; gran parte delle pagelle degli studenti che hanno frequentato l’Istituto; le foto autenticate degli alunni dai primi del ‘900 fino agli anni ’50. Vi si trovano anche alcuni registri di classe degli anni ’40-’50, quelli personali dei docenti, dei verbali del Collegio dei docenti e i registri attestanti l’esistenza di numerose sezioni staccate nella provincia di Agrigento. Ricca anche la dotazione di materiale di segreteria come i registri del protocollo e gli inventari. Interessanti risultano le comunicazioni tra i presidi e il Ministero della Cultura durante il periodo fascista. Sono presenti, infatti, circolari e disposizioni sull’abbigliamento, sull’opportunità di evitare i contatti tra gli
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negli ultimi 150 anni e, per certi versi, della Nazione. Basta pensare che sono stati nostri alunni personaggi come il drammaturgo Luigi Pirandello, il Ministro Nicolò Gallo, il generale Dalla Chiesa, il Presidente della Corte Costituzionale G. Ambrosini, lo scrittore e regista Andrea Camilleri e tanti altri ancora. Non mancano nel nostro Archivio riviste e pubblicazioni dalla fine dell’ ‘800 in poi che, in un’epoca in cui la circolazione di idee e cultura era limitata, permisero agli agrigentini del tempo di conoscere e partecipare al fermento intellettuale del momento.
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Calogero Mallia
riconoscimento della personalità giuridica di detta fondazione. Con la stesura dello Statuto, il museo venne intitolato a Francesco Terrachini, docente di Scienze Naturali del Liceo dal 1868 al 1883, che diede grande lustro all’istituzione museale. L’amministrazione fu affidata ad un Consiglio composto dal preside, dai docenti di Scienze Naturali e di Fisica del Liceo-Ginnasio, dai preposti al Consiglio dell’Economia della Provincia e del Comune di Agrigento. Il 21 giugno del 1934, con decreto regio n.1417 di Vittorio Emanuele III, il museo di Storia Naturale “F. Terrachini” divenne Ente morale. In questi anni si acquistarono diversi reperti grazie ad una serie di finanziamenti. Nel 1934 il suo patrimonio fu stimato in £ 212.509. Annualmente, fin dalla sua istituzione, viene stilata dal Direttore del museo una relazione dettagliata sulle condizioni e sviluppo del museo contenente anche proposte di acquisto. Il museo è un piccolo gioiello dall’enorme valore scientifico che subì delle perdite immani durante i bombardamenti alleati. Gli espositori in legno e le vetrine sopravvissute alla guerra evidenziavano urgente necessità di interventi capillari, di disinfestazione e ricostruzione; gli animali imbalsamati erano stati notevolmente danneggiati. Ciò che restava venne trasferito nelle varie sedi che, nel frattempo, il Liceo aveva occupato. Alla fine della guerra, sul costone che dal Piano San Francesco
Il museo di scienze naturali “F. Terrachini”
Dedicato inizialmente all’ illustre fisiologo agrigentino Michele Foderà, il Museo di Storia naturale venne affidato al Liceo nel 1868. Collocato all’interno del convento di S. Francesco, sede del Regio Liceo, comprendeva due grandi sale attrezzate con espositori in legno massiccio, vetrine e scaffali in cui erano custoditi i pezzi di una preziosa collezione che, nel 1925, annoverava un rarissimo esemplare di Kiwi proveniente dalla Nuova Guinea. Si accedeva al museo percorrendo il lungo corridoio con pareti a volta detto “della Gloria”, passando per una grande porta su cui stava scritto Ad virtutem litterae, virtus ad gloriam accedit. All’entrata si ergeva imponente il mezzobusto ligneo del filosofo Empedocle. Il Museo annoverava nel 1927 una discreta raccolta di reperti ed una buona biblioteca, come risulta dall’inventario in nostro possesso, dell’allora direttore prof. Tuttolomondo. Tra il 1927 e il 1932 furono acquistati diversi animali impagliati: leone femmina, canguro, foca, iena, colibrì, uccello lira, cigno nero. In seguito, la raccolta si arricchì di uno scheletro umano acquistato presso l’Istituto di Anatomia Normale della Regia Università di Catania, del cui acquisto si conserva copia nell’archivio storico della scuola. Nel 1930 iniziò l’iter per il riconoscimento del Museo come Ente morale. Venne istituita una fondazione e, con delibera podestarile del 14 maggio 1932, si autorizza la Commissione per l’amministrazione del Museo Foderà a formulare lo Statuto per il
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scende alla via delle Torri, si costruì la nuova sede del Liceo Classico “Empedocle”, ma per il museo di Storia naturale non furono previsti spazi adeguati e i reperti, scampati ai bombardamenti, ai saccheggi e al tempo, furono divisi tra i vari laboratori o trovarono provvisoria sistemazione lungo i corridoi. Generazioni di studenti ricordano ancora il grande orso nel corridoio e i minerali ammassati nelle vetrine. Tutto venne dimenticato per anni, abbandonando al degrado i reperti e le residue vetrine originali. Negli anni Ottanta, per interessamento prima del preside Giovanni Vivacqua e successivamente del preside Ferdinando Cuffaro, si decise di dare al museo un nuovo assetto nei locali della casa del custode. Qui furono raccolti tutti i reperti e gli animali restaurati dal tassidermista agrigentino Francesco Augello, uno dei pochi tecnici “imbalsamatori” che allora offriva la nostra città. Per settimane la piccola casa del custode si trasformò in un vero e proprio laboratorio in cui aleggiavano acido cianidrico e altre sostanze atte a “dar vita” ai reperti. Augello bonificò l’ambiente, i contenitori e il contenuto; ogni teca venne pulita, disinfestata, disinfettata, restaurata. Ogni animale passò dal “lettino” del tassidermista: venne ripulito e ricostruito delle parti mancanti. L’intervento durò quasi due anni, ma tali tesori rimasero nascosti per tanto tempo, ammassati nelle buie stanze del piano terra della scuola. Oggi il museo di storia naturale del Liceo Classico “Empedocle” è nuovamente fruibile e le sue collezioni, seppur ridimensio54
nate, continuano a rivestire un’enorme importanza scientifica e storica. I reperti interessano varie branche delle scienze naturali: la paleontologia, la zoologia, l’entomologia, la botanica, la geologia, la biologia, la chimica e la fisica. Tra i minerali presenti vanno segnalati splendidi cristalli di gesso e zolfo formatisi circa sei milioni di anni fa, nel periodo messiniano (Miocene), quando il Mar Mediterraneo si prosciugò e sul fondo precipitarono minerali come il gesso, lo zolfo e il salgemma. Le rocce sono raccolte in circa 200 scatoline originali della fine dell’800 e testimoniano quella che è stata la formazione della Terra. Tra i reperti fossili è da ricordare una difesa di Elephans mnaidriensis, un elefante nano vissuto in Sicilia circa 200.000 anni fa insieme ad una fauna molto particolare che vedeva anche la presenza di leoni, iene e bisonti. La parte dedicata alla zoologia comprende 27 animali tassidermizzati, 24 pesci essiccati, 62 animali in soluzione, 18 uccelli tassidermizzati, 7 scheletri (pesci, rane e tartarughe). Un rarissimo esemplare di Tapiro dalla gualdrappa o Tapiro della Malesia e un Ornitorinco endemico dell’Australia orientale spiccano tra gli animali imbalsamati. I pesci, essiccati nei primi del ‘900 grazie ad un metodo in uso in quel periodo a Palermo ed oggi non più noto, costituiscono un importante documento storico-scientifico e ne fanno pezzi unici al mondo. Nel 2007 il museo si trasferisce nei locali precedentemente adibiti a laboratorio di chimica. Nello stesso anno viene “perduto” l’erbario, donato alla Provincia Regionale di Agrigento e oggi restituito. Composto da
12 cassette, con circa 100 fogli ognuna per un totale di circa 1200 piante, rappresenta un patrimonio scientifico inestimabile che comprende rari esempi di piante caratteristiche di zone molto ristrette, come le isole che circondano la Sicilia. La sua importanza storica è notevole, poiché la maggior parte dei reperti è stata raccolta alla fine dell’800. Consapevole dell’ importanza del museo e di come esso possa risultare una risorsa importante non solo per il Liceo, nel 2009 il dirigente scolastico prof. Carmelo Vetro decide di valorizzarne il patrimonio. Inizia così un lavoro di progettazione che ha coinvolto anche personale esterno alla scuola, fornito di specifiche competenze, al fine di avere un risultato di apprezzabile livello.
Il 3 dicembre si arriva alla cerimonia di inaugurazione del museo di Scienze Naturali, collocato nei rinnovati locali del custode siti al piano terra dell’istituto. Il Liceo Classico “Empedocle” intende offrire tale bene alla città, aprendolo alle scolaresche e a quanti intendono visitarlo. Nell’anno scolastico 2010/2011 il museo, per intervento della dirigente scolastica dott. Anna Maria Sermenghi, viene arricchito di una nuova sezione dedicata ad attrezzature e macchine di fisica, di biologia e di astronomia. Al suo interno sono state raccolte anche una serie di pellicole dell’Istituto Luce con filmati di carattere scientifico e artistico, nonchè proiettore e diapositive su vetro riguardanti le principali opere d’arte del nostro Paese.
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Biblioteca “O. Lo Dico”
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Gilda Pennica
cere della lettura attraverso la letteratura, promuove il piacere della ricerca attraverso l’uso delle fonti, contribuisce alla formazione di cittadini responsabili, presenta la cultura come atto critico, non omologante, educa alla complessità. La biblioteca, infatti, è un inventario di idee, un campionario di emozioni e di stili dove tutto “può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili”. Aperta alla consultazione anche esterna, è visitata da studiosi della classicità. Negli ultimi anni, accogliendo le nuove sfide nel campo della comunicazione, è stata incrementata la sezione degli audiovisivi. Pur non rinunciando ad essere luogo della scolè, la biblioteca ha siglato protocolli d’intesa con enti pubblici ed associazioni, promuovendo iniziative aperte alla città.
La Biblioteca “O. Lo Dico”
Una scuola senza libri, per dirla con Cicerone, è come un corpo senza anima. La biblioteca è il cuore pulsante di una scuola. E’ il luogo per eccellenza da cui spiccare il volo verso il cielo della libertà. E’ lo spazio che ci consente di uscire dalla prospettiva limitata del nostro io per fare esperienza dell’altro, dell’alterità. E’ il tempio del sapere in cui si diventa cittadini del mondo, come ben sanno le generazioni di giovani studenti che in questi lunghi anni hanno frequentato la biblioteca del liceo “Empedocle”. Dotata di ben tredicimila volumi, possiede prestigiose edizioni critiche quali la collezione Teuberiana e de Les Belles Lettres. Un accurato schedario, oggi anche in formato elettronico, rimanda alle ricche sezioni di storia, filosofia, letteratura, arte e scienze. Negli ultimi trent’anni, grazie all’entusiastica dedizione del professore Onofrio Lo Dico, docente di Lettere e autore di saggi e di poesia, a cui la biblioteca è stata intestata di recente, si è arricchita di riviste di filologia e di testi di narrativa contemporanea italiana e straniera. E’ frequentata dagli studenti che l’animano non solo con richieste di consultazione ma anche con attività laboratoriali di lettura e di scrittura creativa. Essa rappresenta, infatti, spazio di incontro e confronto con scrittori contemporanei ed esperti. La biblioteca è il cardine dell’azione educativa del Liceo. Grazie all’attiva collaborazione con e tra i docenti promuove il pia-
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I Presidi nella memoria della scuola La scuola nella memoria dei Presidi ...Lâ&#x20AC;&#x2122;intelletto si accresce negli uomini.. (Emp. P. F., 1, v. 25)
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Vincenzo Sambito nel ricordo di Magda Bocchino Per Vincenzo fu motivo di particolare orgoglio iniziare la sua carriera di preside, nel 1958, presso il liceo classico “Empedocle”. Quello stesso anno il Ministero della Pubblica Istruzione gli affidò l’istituzione della prima sezione del liceo scientifico per inserire in città un indirizzo scolastico fino ad allora non esistente in città e in provincia. Sempre attento ai bisogni della scuola e del territorio, cercò di coniugare l’autorità del suo ruolo con le istanze di un mondo giovanile in quel periodo particolarmente in fermento. Si preparavano gli anni della contestazione da lui vissuti in prima persona nella doppia veste di preside e di padre. Molti lo ricordano ancora davanti al portone della scuola a richiamare quanti fossero in ritardo o quanti, a suo dire, non avessero un abbigliamento consono. Diede grande impulso alle attività sportive invitando i docenti di Educazione Fisica a creare squadre di atleti che partecipassero a gare di carattere anche nazionale con l’intento di incentivare lo sport in città. Amante della poesia e della letteratura, contribuì alla crescita culturale della città tanto che nel 1982 ottenne la medaglia d’oro al merito della cultura, dell’arte e dello sport ad opera del Ministero della Pubblica Istruzione. Per diversi anni resse contemporaneamente i due licei ubicati in sedi diverse, con gravi problemi logistici soprattutto perché le sezioni del liceo scientifico andavano crescendo di numero. Quando nel 1963 fu necessario per il Ministero, visto il numero di iscritti, rendere autonoma la sezione dello scientifico, Sam60
bito preferì seguire la vita del “figlio più giovane” che intitolerà a Leonardo da Vinci. Giovanni Vivacqua nel ricordo di Paola Vita Ero arrivata al ginnasio dopo avere superato un forte contrasto in famiglia. I parenti avevano pensato per me ad un futuro di brava sarta , e se avessi proprio voluto studiare ritenevano più adeguati a me gli studi magistrali. Per questo approdai al ginnasio consapevole di dovere dar prova di essere all’altezza della scelta. Non sempre quegli anni furono facili, ma accanto a me ebbi la fortuna di trovare la straordinaria figura del preside Giovanni Vivacqua che si è rivelato un punto di riferimento importante nella mia vita scolastica. Uomo capace di trasmettere, anche con poche parole, con gesti molto controllati, persino con i silenzi, l’amore per la cultura, l’attenzione per il bene comune e per il rispetto delle persone. Era il lontano 1965. Gli echi della contestazione giovanile del ’68 erano assai vicini nel tempo ma ancora lontanissimi nella testa di molti. Avevo iniziato bene il quarto ginnasio. Alla fine del primo trimestre avevo infatti conseguito dei soddisfacenti risultati. Fin quando la mia insegnante di lettere non scoprì, nel corso del primo ricevimento, le umili origini della famiglia da cui provenivo: ero semplicemente la figlia di un contadino e come tale non potevo, a suo dire, aspirare a studi ginnasiali. Non mi rassegnai. E quando qualche giorno dopo la professoressa di italiano mi
accusò di avere copiato il compito in classe, reagì con veemenza e determinazione. Presi il mio tema, l’accartocciai, ne feci una palla e la tirai d’impeto contro la mia insegnante alla quale offrii l’occasione per potermi espellere dalla scuola. Solo l’intervento del preside, richiamato dalle nostre urla, evitò che questo si verificasse. Rivedo la figura di Vivacqua piegarsi lentamente verso la cattedra, raccogliere il tema accartocciato, stirarlo con le mani, leggerne il giudizio senza battere ciglio in un silenzio assordante. Quindi invitò l’insegnante a seguirlo in presidenza. In quel momento capii che un preside autorevole e giusto ha a cuore la crescita dei suoi allievi e mi sentii come una figlia tra le braccia del padre. Poi vennero gli anni della contestazione giovanile. Frequentai il triennio del liceo durante il ’68, l’anno del movimento studentesco e delle prime assemblee scolastiche non sempre tollerate da alcuni insegnanti, ma garantite dal preside che con lungimiranza capì che bisognava aprire un dialogo tra le generazioni. Questo era Giovanni Vivacqua, preside ironico e discreto, sempre autorevolmente presente anche con i suoi silenzi che parlavano alla mente e al cuore di noi ragazzi. Ferdinando Cuffaro Una vita per la scuola L’anno scolastico 1960/1961 venni nominato presso il Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento. Provenivo dal Liceo Classico di Bivona, dove dal 1955/56 avevo insegnato Latino e Greco. Preso servizio con l’incarico per le
discipline di Italiano e Latino, per le quali ero abilitato, fui assegnato al corso “D”. Mi meravigliai che i miei alunni del triennio fossero quasi tutti provenienti dai paesi viciniori. Ci volle ben poco a capire anche perché, in quel periodo, gli agrigentini, in genere appartenenti alla borghesia, se maschi si iscrivevano al corso “A”, se femmine al corso “C”. Nel corso “D”, al quale fui assegnato, mi trovai abbastanza bene sia per l’andamento e il profitto didattico degli alunni, sia per l’ambiente tranquillo e sereno, tanto da rimanere sempre in quel corso fino all’anno scolastico 1980/81. In questi anni il provveditore agli studi chiedeva la mia collaborazione, soprattutto quando rimasi per circa due anni in Provveditorato quale referente per le attività di aggiornamento per tutte le scuole di ogni ordine e grado della provincia. Nella primavera del 1961, per incarico del preside, fui il relatore, per tutto l’Istituto, della campagna per il primo centenario dell’Unità d’Italia. Negli anni Sessanta il Liceo Scientifico “Leonardo” era una sezione staccata del Liceo Classico. Il Preside, per dare impulso alle iscrizioni, mi mandò al Liceo Scientifico e mi assegnò la classe prima, abbastanza numerosa, di cui serbo un buon ricordo. Rimasi per alcuni anni al Liceo Scientifico, ma dovetti ritornare al Liceo Classico, perché, avendo vinto il concorso, il Ministero mi nominò al Liceo “Empedocle” dove tornai al corso “D”, nel quale rimasi fino al 1980/81. Avendo vinto il concorso a Preside, il Ministero mi nominò al 61
Liceo Scientifico “G.B. Odierna” di Palma di Montechiaro dove fui accolto con entusiasmo sia dagli alunni, sia dai genitori, per i quali la presenza di un preside di ruolo era una garanzia per un corretto svolgimento delle attività dell’Istituto. Nei primi giorni volli parlare con i genitori che facevano parte del Consiglio d’Istituto. Li ricevetti singolarmente e fui informato del loro punto di vista. Il loro incontro fu molto utile e proficuo, sia per capire l’atmosfera delle famiglie degli alunni, sia per cercare di operare con i genitori nell’interesse dei figli e della comunità cittadina. Va rilevato che quando ero costretto a chiedere che gli alunni fossero accompagnati dai genitori, trovavo in loro la più ampia disponibilità, perché si rendevano conto che si operava con il loro contributo, per la formazione degli alunni e in particolare dei loro figli. Rimasi a Palma di Montechiaro per sei anni e, se non fosse stato disagevole ogni giorno il viaggio da e per Agrigento, sarei rimasto a Palma di Montechiaro fino alla fine della carriera. Nel 1987/88 fui trasferito ad Agrigento, dove il Ministero mi assegnò un nuovo Liceo Scientifico, formato da due sezioni staccate del Liceo Scientifico “Leonardo”, Liceo Scientifico per il quale proposi il nome di “Majorana”, dal quale dipendeva la sezione staccata dell’isola di Lampedusa. Nel 1988/89 fui trasferito al Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento, dove trovai un ambiente, che conoscevo molto bene, essendo stato in questo Istituto per tanti anni come docente. Calorosa ed affettuosa fu l’accoglienza che mi riservarono i docenti, con la maggior parte dei quali ero stato per 62
tanti anni collega. Abbastanza rilevante fu la collaborazione di tutto il corpo docente, soprattutto degli eletti nel Consiglio di presidenza. Molto valida è stata la collaborazione vigile ed attenta di tanti docenti, tra i quali, per non farla lunga, voglio ricordare i professori Gucciardino e Magro, i quali furono sempre equilibrati sia nei riguardi dei colleghi, sia nei riguardi degli alunni. La permanenza al Liceo “Empedocle” fu molto serena, sia per il comportamento dei docenti, sia per il clima di valida collaborazione che si instaurò con la presidenza. Furono anni molto sereni e produttivi, sia per i discreti risultati in campo educativo e didattico, sia per l’attività sportiva che in quegli anni venne promossa da tutti i docenti, ma soprattutto dalla professoressa Irene Grenci, che si dedicava all’attività sportiva con molto impegno e vivida passione anche in ore non curriculari. Nell’attività di preside avvertivo la mancanza del contatto diretto con gli alunni dalla cattedra. Per questo motivo molto spesso, quando era assente qualche docente, io stesso andavo in classe e sollecitavo gli alunni a fare domande su argomenti nei quali avessero incontrato qualche difficoltà. Ero felice quando potevo esser utile agli alunni, che conoscevo anche attraverso gli scrutini, che personalmente presiedevo, non solo per avere presente la situazione didattico-disciplinare delle classi, ma anche per osservare un criterio uniforme per tutte le decisioni dei vari Consigli di Classe. In tal modo avevo presente non solo la situazione delle varie classi, ma anche con-
trollavo che venissero adottati criteri non contrastanti, almeno sui principi generali. Presso il Liceo “Empedocle” ho trascorso la maggior parte della mia carriera scolastica, ventotto anni su quarantadue di servizio effettivo. Da qui deriva il legame affettivo con la Scuola che mi ha visto in attività sia come docente che come preside per un periodo così lungo. Giuseppe Patti La grande famiglia dell’”Empedocle” Nel settembre del 1997 quando mi è stato conferito l’onore-onere di dirigere il prestigioso liceo “Empedocle”, già mi insediavo con una lunga esperienza maturata in un ventennio in diverse scuole di Agrigento e provincia. L’approdo all’ “Empedocle” per me, appassionato cultore delle lettere latine e greche, è stato come raggiungere il grado più alto ed ambito della mia carriera. E’ stato esaltante dirigere la scuola frequentata da alunni divenuti famosi come Pirandello, Camilleri, Dalla Chiesa, Ambrosini e tanti altri personaggi che hanno dato lustro ad Agrigento, spesso assurta agli onori della cronaca come terra di malaffare e quasi sempre l’ultima nelle classifiche del benessere e della qualità della vita. All’ “Empedocle” ho continuato il lavoro con umiltà, con determinazione, con impegno dando il meglio di me e delle mie energie. Ho preferito più ascoltare che parlare. Vagliando con pazienza ed attenzione le proposte dei docenti, degli alunni e del personale non docente, ho fatto sì che la scuola fosse quella grande famiglia dove,
con il confronto, la giusta comprensione che non è mai lassismo, il dialogo ed un’attività didattica sempre aggiornata e scrupolosa, ogni componente si sentisse libero, sereno e coinvolto nell’espletamento del proprio dovere. L’autorevolezza, mai scaduta nell’ostentato autoritarismo, è stata alla base del mio rapporto con i componenti di questa grande famiglia, riconoscendo ad ognuno la dignità ed il merito di un lavoro nobilissimo, anche se sempre sottovalutato dalla politica miope e dissennata dei vari governanti di turno. La sinergia delle competenze e delle capacità di noi tutti ha consentito di svolgere un lavoro sereno e proficuo, che ha visto crescere il Liceo sia nella qualità che nel numero degli alunni. E’ stato motivo di grande soddisfazione il risultato ottenuto negli esami di Stato del 2001 quando il nostro Liceo si è piazzato al primo posto in campo nazionale con ben cinque classi su sette tra le prime dieci classificate. Quando, dopo 43 anni di servizio, nel settembre del 2008, ho lasciato la scuola per il mio meritato riposo, certo all’inizio ne ho sentito la mancanza : mi mancava il contatto giornaliero con il personale tutto della scuola con il quale avevo instaurato un rapporto meraviglioso, ma principalmente mi mancavano i ragazzi, che ho sempre ascoltato con attenzione ed affetto paterno; la presidenza era sempre aperta a loro in qualsiasi momento e per qualsiasi problema; il loro sorriso, la loro vivacità ed esuberanza mi rendevano soddisfatto, sereno e felice. Che dire ancora? Quando incontro i miei 63
docenti, i miei alunni, i miei collaboratori degli uffici è sempre una grande gioia reciproca: mi fermano, ci abbracciamo felici: e questo è il segno tangibile del reciproco affetto e della stima che sicuramente dureranno nel tempo. Carmelo Vetro Il “mio” Liceo Il ritorno al Liceo, dopo l’apprendistato di una vita, è un ritorno a casa, con la riscoperta di affetti, sensazioni, sentimenti sopiti, in un gioco di corrispondenze e di rimandi, intenso e multiforme. Si, perché il Liceo, prima di essere un luogo di lavoro, è la “mia” scuola, la scuola dove ho studiato, da dove sono partito per confrontarmi con una realtà complessa, sfuggente, talora indecifrabile, talora dura, ma sempre, anche nei momenti bui, confortata dall’affetto e dalla fiducia di tante generazioni di giovani, con cui ho avuto il privilegio di venire in contatto e per i quali, non sempre riuscendoci, ho voluto essere un insegnante tra gli insegnanti, un promotore di esperienze e di cultura, più che un propugnatore di regole e teorie, articoli e commi. La fisicità stessa dell’edificio, a specchio del mare africano, racchiuso tra la valle e la Cattedrale di Gerlando, ha avuto il magico effetto di farmi riscoprire e rivivere la durata lunga della storia, quella fatta di permanenze, più che di mutazioni, quella connotata dalle pulsazioni lente, dai mutamenti impercettibili, che solo l’occhio esperto di chi è abituato a leggere i segni del passato, sa cogliere sotto la scorza delle novità rumorose, dietro le nebbie fuor64
vianti degli avvenimenti tumultuosi del periodo breve. L’angolo che più mi piace della scuola è quello in fondo, a sinistra della presidenza, da dove non ti stanchi di bere avidamente con lo sguardo il giallo del tufo, scandito e sottolineato dal candore calcareo dell’arco chiaramontano, animato da presenze indecifrabili mentre pensi che sono gli stessi colori che vedeva l’uomo medievale, bagnato dalla stessa pioggia, che, talvolta sottile come un male incurabile, provoca brividi di freddo nella schiena, anche se, scandalosamente, ti piace starci sotto, attraversando il terrazzo, crocevia di incontri, che separa le due ali dell’edificio, mentre susciti una malcelata commiserazione nei bidelli che ti guardano e non riescono a giustificare una simile “stranezza” o stravaganza. Poi se sali sul tetto, luogo ideale per un giardino dell’anima, dove puoi situare l’albero del bene e del male, intuisci il respiro lento del Mediterraneo che vedi solcato da navi di tutte le epoche, alte di fronte a te come un acquarello napoletano o una veduta inglese, dove ti trovi, quasi senza prospettiva, l’azzurro dell’acqua in primo piano. Il Mediterraneo, elemento unificante della storia dell’Europa, luogo di eterne partenze ed eterni ritorni. Miti e incantesimi, ma anche commerci e traffici fino all’all’ultimo vergognoso di esseri umani proprio dei giorni attuali. Poi se vieni su dal quel corridoio, dove era la tua classe, rivedi volti di giovani e adulti, qualcuno straordinariamente nitido, come quello di G., già avanti negli anni, dal cui sguardo,quasi perduto nel vuoto, trapela una tristezza indicibile, mortale, senza per-
ché, fino a quando non hai scoperto, narrata da lettere, strappate con pudore all’oblio del tempo, la storia della sua vita e di un amore che, come a tanti altri, anche a lei promise una felicità illusoria, effimera, inutile. Si tante storie puoi intuire in una scuola che vive da centocinquant’anni e che si è imposta, se non all’affetto, alla considerazione della città. Ma che dalla piccola città di provincia ha anche preso talora il carattere; un carattere conservatore come i valori di una classe media, acefala dato che una borghesia qui non c’è mai stata, non ha mai visto la luce. Come in buona parte dei paesi del Sud da dove straordinarie intelligenze sono partite e partono per arricchire altre città del mondo: avvocati e professionisti, burocrati e insegnanti non certo imprenditori e capitani d’industria. Eppure il “sommerso” che è circolato e circola nei depositi bancari e postali, per essere investito dove si può moltiplicare, è stato ed è ragguardevole. Qui le speranze di tanti si sono infrante nel torpore presuntuoso di un ambiente che non ha mai aperto gli occhi, pago di “certezze” nelle quali si è voluto ostinatamente credere. L’esteriorità, il disvalore, la rivalità e l’emulazione fine a se stessa hanno allora rischiato di avvelenare il cuore di alcuni, ma alla fine, e per fortuna, i giovani hanno saputo ( e sanno ) trovare in se stessi l’antidoto alla fredda vacuità, aiutati dai migliori tra gli intellettuali che hanno operato ( e operano ) nel nostro Liceo, nonostante difficoltà e incomprensioni. La gioventù operosa ha saputo trovare sempre la via, riscoprire la stella polare, la
continuità tra passato e futuro, nella consapevolezza che accanto alla struttura fisica del liceo ci sono le strutture immateriali più forti e più durature del cemento, fondate dai predecessori, ormai travolti dalla “fiumana “ della vita. Quando si vuole varcare un torrente, si buttano sul fondo delle pietre: le prime sembrano scomparire nel nulla e così quelle che seguono, ma in realtà esse rappresentano la base su cui si adagiano le ultime, quelle che affiorano e sulle quali si potranno poggiare i piedi per raggiungere l’altra sponda e continuare il cammino verso nuove avventure umane ed esistenziali. Anna Maria Sermenghi Tra presente e futuro Cosa dire di questo mio presente al Liceo Classico “Empedocle”? Ho scelto una scuola, che rappresenta una ricchissima proposta culturale, che con il maturare di un’esperienza professionale ho voluto ripercorrere. Il senso del ritorno mi ha guidato anche nel decidere di cambiare, nel lasciare alle spalle tante cose conquistate e nel ricercare nuove esperienze. Forse perché gli studi classici avevano segnato la mia formazione liceale e universitaria, forse anche perché tante motivazioni più lontane mi legavano ad essi, la dirigenza al Liceo Classico “Empedocle” ha rappresentato, all’interno di un percorso personale ed umano, l’ideale chiusura di quel cerchio, che la vita stessa a volte traccia per noi. Nei suoi raggi ho ritrovato i tanti momenti e le tante metafore di un andare attraverso il tempo, nella tensione quotidiana verso 65
un difficile equilibrio tra dimensione personale e realtà circostante. In tale ricerca ho vagato, pensando e ripensando tante volte all’antica lezione che il mondo classico ha lasciato, e ritrovando nella sua bellezza riferimenti e principi che hanno ancora molto da insegnare alla società del terzo millennio che, protesa a rifondare il rapporto cultura, scienza e tecnologia, non dovrebbe disperdere i grandi valori dell’umanesimo, che non hanno mai trascurato la centralità della persona nella storia. Tutto ciò mi induce ad richiamare il senso di una responsabilità professionale che continuo ad avvertire con crescente intensità per le sfide educative di questo nostro tempo e per l’impegno specifico che il lavoro di direzione del Liceo possa significare, in ordine alla possibilità di incidere sulla formazione dei giovani perchè ritrovino nelle radici culturali della nostra civiltà le ragioni storiche ed intellettuali capaci di dare fondamento al loro stesso futuro. Ritengo pertanto importante che il nostro sguardo, guidato da tale intenzionalità pedagogica, si rivolga al contesto nel quale il sistema formativo stesso si sviluppa e che nella sua espressione territoriale si identifica con la città, mentre nella sua dimensione più ampia si allarga alla relazione dialettica scuola e società, chiamate ad interagire per far sì che i rispettivi differenti bisogni vengano coniugati e i limiti di un’autoreferenzialità, chiusa al dialogo, colmati attraverso un intreccio di sollecitazioni culturali positive e di grande respiro. Vorrei pensare così, proprio attraverso i classici alle scelte di futuro, che chiamano in causa il nostro lavoro quotidiano, in fa66
vore di una formazione critica, flessibile, dinamica che possa essere fattore di sviluppo e di crescita sociale. Il curricolo del Liceo Classico conserva intatti un fascino ed un valore che devono tuttavia misurarsi con il tempo e con la contemporaneità; la sua attualità non può non essere veicolata se non attraverso un progetto di scuola, capace tanto di salvaguardare e trasmettere un patrimonio culturale universale, quanto di rielaborarne ed integrarne i linguaggi, con i nuovi saperi di una cittadinanza aperta all’Europa e ad un mondo globale, dove tutte le realtà locali sono chiamate ad interrogarsi su se stesse, quale condizione indispensabile per superare il rischio della marginalità culturale. Il lavoro intrapreso sin dallo scorso anno mi spinge ad andare avanti in questa direzione soprattutto quando la fatica e gli ostacoli si allontanano, quasi in un gioco di dissolvenza, al sopraggiungere nei miei pensieri di tanti sguardi intelligenti e di tante sensibilità inquiete, quelle dei giovani che ai loro maestri chiedono forza per contrastare la fragilità e risposte autentiche di senso, per potere affrontare la vita come artefici del proprio futuro.
I PRESIDI DEL LICEO CLASSICO “EMPEDOCLE”
IL PERIODO DELLA NASCITA E DELLA PRIMA DIFFUSIONE:
• GALLO Gaetano: dall’a.s. 1861/1862 all’a.s. 1871/1872
Legge CASATI, 1859.
• DONNA Pietro: dall’a.s. 1872/1873 all’a.s. 1873/1874 • COBAU Luigi: dall’a.s. 1874/1875 all’a.s. 1876/1877
Legge COPPINO, 1877.
• CELLI Pasquale: a.s. 1877/1878 • CRISTIANI Ferdinando: dall’a.s.1878/1879 all’a.s. 1879/1880 • BERITELLI Giovanni: a.s.1880/1881 • TERRACHINI Francesco: a.s.1881/1882 • NEGRI Raffaello: a.s. 1882/1883 • MILANESI Pietro: dall’a.s.1883/1884 all’a.s. 1884/1885 • GAMBERA Enrico: a.s. 1885/1886 • DIANA Fedele : a.s. 1886/1887
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IL PERIODO POSITIVISTA: Riforma GABELLI, 1888.
• ROMANI Enrico: dall’a.s.1887/1888 all’a.s.1890/1891 • MORELLO Pietro: dall’a.s.1891/1892 all’a.s.1892/1893 • RIBOLI Ludovico: a.s.1893/1894
Programmi BACCELLI,1894.
• DEL ZOTTO Pietro: dall’a.s.1894/1895 all’a.s.1895/1896 • VALERIANO Valeriani: dall’a.s.1896/1897 all’a.s.1897/1898
Legge NASI, 1903.
• SACCHI Carlo: dall’a.s.1898/1899 all’a.s.1902/1903
Riforma V.E.ORLANDO, 1904.
• COLOMBO Gaspare: a.s. 1903/1904 • BINNA Luigi: dall’a.s.1904/1905 all’a.s.1905/1906
Programmi ORESTANO, 1905.
• RIGONI Giuseppe: dall’a.s. 1906/1907 all’a.s.1908/1909 • GASPARINI Luigi: a.s. 1909/1910
Legge DANEO e CREDARO, 1911.
• FABRONI Pietro: dall’a.s. 1910/1911 all’a.s.1911/1912 • SAJEVA Salvatore: a.s. 1912/1913 • PICCO Francesco: a.s. 1913/1914 • ALIPPI Tito: dall’a.s. 1914/1915 all’a.s.1916/1917 • LAQUANITI Camillo: dall’a.s. 1917/1918 all’a.s.1918/1919 • SAJEVA Salvatore: a.s. 1919/1920 • MILANO Francesco: dall’a.s. 1920/1921 all’a.s.1921/1922 • PANAREO Salvatore: a.s. 1922/1923
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IL PERIODO SPIRITUALISTA E IL FASCISMO: Riforma GENTILE,1923.
• ARATA Luigi: dall’a.s. 1923/1924 all’a.s.1925/1926 • GAGLIARDI Francesco Paolo: dall’a.s. 1925/1926 all’a.s.1926/1927 • LA ROCCA Luigi: dall’a.s. 1926/1927 all’a.s.1934/1935 • CONSOLI Luigi: a.s. 1934/1935 • MAZZOLA Francesco: dall’a.s. 1934/1935 all’a.s.1935/1936 • FLORIDIA Salvatore: dall’a.s. 1935/1936 all’a.s.1937/1938
Riforma BOTTAI,1939 - 40.
• LO IACONO Antonio: dall’a.s. 1938/1939 all’a.s.1942/1943 + a.s. 1945/1946 • GRECA Carlo: a.s. 1943/1944 • BUONADONNA Gaetano: a.s. 1944/1945 + a. 1946/1947 + a.s. 1947/1948 • BARBARINO Francesco: dall’a.s. 1948/1949 all’a.s.1954/1955 • IMBERGAMO AMANTE Anna: dall’a.s. 1955/1956 all’a.s.1957/1958 • SAMBITO Vincenzo: dall’a.s. 1958/1959 all’a.s.1962/1963
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IL DOPOGUERRA E LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA: Il D.P.R. n. 910 dell’11 dicembre 1969 liberalizza gli accessi all’Università e i piani di studio accademici.
• VIVACQUA Giovanni: dall’a.s. 1963/1964 all’a.s.1988/1989
Il Decreto legislativo n. 9 del 15 febbraio 1969 modifica “in via sperimentale” gli esami di Stato. I “Decreti Delegati” sono promulgati il 31 maggio 1974- D.P.R. 416 sul riordinamento degli Organi Collegiali. Riforma ESAMI DI MATURITA’ legge 10 dicembre 1997, n. 425.
• CUFFARO Ferdinando: dall’a.s. 1989/1990 all’a.s.1996/1997
Sperimentazione insegnamento del Diritto, 1996 - 97 Riforma BERLINGUER legge 10 febbraio 2000, n. 30.
• PATTI Giuseppe: dall’a.s. 1997/1998 all’a.s.2007/2008
Riforma MORATTI legge 28 marzo 2003, n°53. Riforma ESAMI DI MATURITA’ e reintroduzione degli ESAMI DI RIPARAZIONE, FIORONI - 4 Agosto 2006. Riforma GELMINI, legge 133/2008.
• VETRO Carmelo: dall’a.s. 2008/2009 all’a.s.2009/2010 • SERMENGHI Anna Maria: dall’a.s. 2010/2011
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Noi e la città Come eravamo ... Ogni parte è uguale, senza confini per ogni dove... (Emp. fr. 28)
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Mary D’Alessandro - Francesca Patti
tinuavano ad attirare l’attenzione di intellettuali, studiosi, appassionati di archeologia. Ad alcuni di essi si deve l’iniziale recupero del patrimonio archeologico dell’antico sito. In particolare ad Alexander Hardcastle, ammiraglio della reale marina, venuto all’inizio del XX secolo in Sicilia e stabilitosi ad Agrigento, si deve il primo finanziamento degli scavi all’interno del parco archeologico e l’anastilosi delle otto colonne sul lato sud del tempio di Eracle, opere per le quali si meritò la cittadinanza onoraria e il grado di Comandante dell’Ordine della Corona d’Italia. Agrigento, certamente a merito delle sue antiche vestigia oggi riconosciute patrimonio dell’umanità e alle sue eleganti strutture alberghiere (Grand Hotel des Temples), continuò anche tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 ad essere meta di ospiti prestigiosi, tra cui si ricorda il Kaiser Guglielmo II con la consorte , imperatrice Augusta Vittoria, i sovrani di Svezia, il principe Edoardo d’Inghilterra. Tuttavia l’insensibilità delle vecchie e nuove amministrazioni lasciava irrisolti i problemi di sempre. Le difficoltà di un’economia legata ad un’agricoltura estensiva e latifondista e alle alterne fortune dello zolfo, le precarie condizioni igienico-sanitarie caratterizzate dalla mancanza di una rete idrica e fognaria, il bassissimo livello di istruzione degli agrigentini (il cui analfabetismo all’indomani dell’Unità interessava il 98% della po-
Schegge di vita
Agrigento, fatti ed avvenimenti 1900- 1960 Agli inizi del ‘900 Agrigento, a quarant’anni dall’unificazione del Regno d’Italia, non registrava novità di rilievo rispetto al passato. La città presentava ancora l’antico aspetto di borgo medievale arroccato sulle due colline di Girgenti e della Rupe Atenea e conservava il suo immutato profilo socioeconomico e culturale. Netta rimaneva la distinzione tra le plebi cittadina e rurale, che continuavano a vivere senza coscienza della propria condizione verso cui non davano alcun segno di insofferenza, ed una ristretta cerchia di aristocratici, che via via aveva visto sottrarsi l’indiscusso ruolo di ceto dominante da una sempre più consapevole borghesia costituita da professionisti, pubblici ufficiali, mercanti, appaltatori ,quadri delle forze armate che si erano andati affermando in città in epoca borbonica. Nonostante le umili condizioni, il “popolino” manteneva un tenore di vita modesto, ma dignitoso scandito dal ritmo delle attività materiali quotidiane e delle festività religiose tradizionali – ancora oggi radicate nel patrimonio folkloristico agrigentino- la cui ritualità costituiva occasione di festa e di consolidamento del senso di appartenenza. La città, pur nel suo immobilismo, continuava ad essere, come nei secoli immediatamente precedenti, meta di illustri viaggiatori qui giunti per lo più attratti dalle maestose vestigia dell’antica Akragas che, nonostante la secolare incuria dei locali, con-
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polazione) rendevano la città particolarmente degradata, sicché il tentativo dell’amministrazione municipale di affrontare il problema idrico con un progetto di convogliamento delle acque della sorgente del Voltano sita in Santo Stefano di Quisquina, rappresentò a fine ‘800 una vera e grande conquista civile. Amministrata da una ristretta cerchia di notabili filoborbonici, Agrigento era rimasta per lo più estranea agli sconvolgimenti di fine secolo e sostanzialmente non scossa se non marginalmente dal movimento dei Fasci dei lavoratori la cui sezione cittadina era stata fondata da Francesco De Luca. Sul finire del secolo, tuttavia, in città grazie ad un gruppo di intellettuali di tendenze internazionalistiche si respirò una ventata di novità tale da vivacizzare il dibattito culturale con iniziative sconvolgenti per l’epoca come una conferenza in favore del divorzio. Per tutto l’Ottocento e per circa metà del Novecento, la vita politica e culturale della città subì il vigile e diretto controllo della chiesa locale che, se da un lato ostacolò la diffusione delle nuove idee progressiste, dall’altro si fece promotrice di lodevoli iniziative miranti a migliorare le condizioni di vita della popolazione. Sono infatti i vescovi Gaetano Blandini (1885-1898), Bartolomeo Lagumina (1899-1931), Giovanni Battista Peruzzo (1932- 1963),- vittima di un tentato omicidio che fornì ad Andrea Camilleri spunto per il suo romanzo-inchiesta Le pecore e il pastore-, e sacerdoti come mons. Michele Sclafani (compagno di collegio di Eugenio Pacelli, futuro Pio XII) , che fondano confraternite , Casse ru74
rali ed operaie per sconfiggere l’usura, circoli cattolici, opere assistenziali promosse in linea con le indicazioni della Rerum novarum di Leone XIII. Agli inizi del XX secolo al completo disinteresse delle classi subalterne, legate ai ricchi possidenti e assuefatte alle proprie condizioni di vita , faceva riscontro l’assenza di una classe operaia su cui avessero potuto fare presa le idee socialiste. Non è un caso che ad Agrigento, così come in Sicilia e in generale nel Meridione, il socialismo avesse trovato adepti nella borghesia che sin dalla prima ora ne assunse la dirigenza. Un socialismo, quello agrigentino, che si caratterizzò per una spiccata opposizione ad un clericalismo da sempre trionfante, detentore di un indiscusso potere che trovava alimento nella miseria delle plebi contadine. In quest’ immota atmosfera va individuata la causa del successo politico di ecclesiastici , quali il sacerdote Michele Sclafani, parroco della Basilica dell’Immacolata, che, ricordato da mons. De Gregorio per il suo amore verso il popolo ed il bisogno di aiutarlo , fin dagli inizi del ‘900, partecipò attivamente all’amministrazione della città come consigliere e assessore. Distintosi per un’intensa attività politica, fu protagonista delle vicende legate alle elezioni indette il 26 aprile 1908. In quella tornata elettorale violento fu lo scontro tra Francesco Scaduto e Gregorio Gallo (figlio di Niccolò Gallo, già presidente della Camera, ministro della Pubblica Istruzione e poi di Grazia e Giustizia, nonché più volte deputato fino al 1904), appoggiato quest’ultimo dalla Chiesa, a favore del quale “il Papa
aveva tolto il non expedit” . Il sacerdote Michele Sclafani, presidente della Federazione diocesana delle opere economicosociali, comunicava, con lettera circolare, ai parroci e alle Casse rurali il provvedimento pontificio in favore di Gregorio Gallo e invitava a non votare l’avversario Francesco Scaduto definito anticlericale e divorzista, appoggiato da Gaspare Ambrosini. Il noto costituzionalista era legato a Scaduto da vincoli intellettuali nonché di parentela per averne in seguito sposato la figlia. Il “caso” Sclafani non fu certo un fatto isolato, né costituì un’eccezione in un periodo storico in cui la Chiesa gradualmente, e con cautela, tentava di liberarsi dalle conseguenze delle restrizioni del non expedit. Era necessario dare risposte concrete ai diseredati per sottrarli al fascino delle dottrine socialiste ed anarchiche servendosi anche dell’iniziativa partitica di don Sturzo. D’altra parte il persistere della povertà e della miseria delle plebi rurali e cittadine spiega il successo di chi, come il vescovo Peruzzo, fu sempre dalla parte degli ultimi e dei bisognosi. Fervente anticomunista per fede e per convinzione - come lo ricorda Camilleri in Le pecore e il pastore -, fedele agli insegnamenti della Rerum novarum, il vescovo si rivelò sensibile alle problematiche sociali. La sua adesione al fascismo, che si dichiarava non contrario ai valori cattolici di Dio e della famiglia, lo portò ad aderire al piano anticomunista degli Alleati. La sensibilità verso le giuste rivendicazioni dei poveri lo spinse ad impiantare a sue spese “le cucine economiche” assicurando
pasti gratuiti ai bisognosi. E a chi, nel ’45, tra i preti andava a chiedergli come bisognava comportarsi con coloro che votavano per i comunisti, rispose: Prima di dettarvi le norme da seguire, premetto che certi atteggiamenti del nostro popolo debbono ordinariamente essere considerati non come adesione alle teorie marxiste … ma come l’espressione di un animo esacerbato per la miseria in cui vive, per la disoccupazione che dilaga , soprattutto, desiderio di avere un pezzo di terra ove lavorare…. Queste parole possono aver armato la mano degli attentatori, sgherri di qualche feudatario arrabbiato col «vescovo dei contadini» , sostenitore della rivendicazione di terre da parte dei poveri coltivatori agrigentini. Uomo sensibile e pragmatico, Sua Eccellenza, convinto servitore del Regime, dopo lo sbarco degli Alleati non esitò a mutare in un fiat divisa, trasformandosi in fervente democratico e ricevendo al palazzo (vescovile), anche a mensa, gli ufficiali alleati. Accolte le indicazioni statunitensi, obbligò i sacerdoti a tenere prediche dal significato esplicitamente elettorale contro il Blocco popolare. Solo mons. Angelo Ginex si oppose e mise per iscritto le sue ragioni in Così nacque la democrazia. Gli agrigentini, la Grande Guerra e il fascismo Nel 1915 Agrigento si schierò a favore dell’interventismo che facilmente aveva fatto breccia nel cuore soprattutto degli studenti agrigentini come nella maggior parte dei giovani italiani imbevuti delle idee bellicistiche propagandate per lo più dai nazio75
nalisti e dal movimento futurista. Così anche la città pagò il suo tributo di sangue e di sacrifici, vivendo anch’essa, a conflitto finito, il dramma del dopoguerra in termini di disoccupazione e di carovita che diedero luogo a quelle manifestazioni popolari di malcontento e di fermento rivoluzionario passate alla storia come il “biennio rosso”, condizione favorevole al diffondersi del fascismo soprattutto là dove più modesta era la presenza di una classe operaia. In realtà, pur radicatosi con tutti i suoi apparati e organizzazioni (podestà, GIL, costruzione di opere pubbliche), il fascismo, che elesse a sua sede gli attuali locali delle Suore di San Paolo, in via Atenea, probabilmente non arrivò mai a penetrare in profondità nel tessuto ideologicamente impermeabile della città. Di buon grado il regime fu accettato perché da un lato garantiva gli equilibri politici del ceto dominante e dall’altro dava voce alle esigenze di ordine e stabilità invocate dall’emergente piccola borghesia impiegatizia che ad Agrigento continuava a considerare la gestione del potere come affare che non la riguardava. Il fascismo, inoltre, fatto non trascurabile, coinvolgeva le masse alimentandone il senso di appartenenza ed il sentimento di potenza che così tanta presa avevano sui giovani, maschi e femmine, bambini e studenti universitari che, più inclini alla mitizzazione, partecipavano ai giochi ginnici e alle parate militari nell’attuale Piazzale fratelli Rosselli. Era il sogno di un futuro di grandezza che sembrò concretizzarsi nell’impresa etiopica così goliardicamente sostenuta dalle manifestazioni stu76
dentesche dei liceali agrigentini. Come ci ricorda Alfonso Cigna, in un’intervista rilasciata alla rivista Suddovest, pubblicata il 5 novembre 2009, Agrigento durante il fascismo, nonostante le innegabili privazioni che hanno caratterizzato quel periodo, è stata una città molto viva, quasi costantemente proiettata ad esaltare la spensieratezza e la dolce vita….. La maggioranza della popolazione agrigentina, o per la sua organica adesione al partito fascista o in ogni caso per pura comodità e convenienza, è stata fascista. Quello di Agrigento è stato proprio un fascismo di provincia, gli antifascisti e gli iscritti al partito convivevano quasi pacificamente, la città è stata assolutamente compiacente e supina. L’unico momento, forse, in cui si sperimentava il rigore del regime e si assaporava la crudezza delle regole illiberali, tipiche di una dittatura, si presentava quando Mussolini o altri esponenti del Governo arrivavano in visita ufficiale alla città (allorquando ,i pochi) antifascisti agrigentini venivano costretti ad allontanarsi dalla città e a farvi ritorno a cerimonia e giornata concluse. Non mancò però un convinto movimento di opposizione. In collegamento con Palermo fu avviata anche ad Agrigento un’ attività antifascista che vide ancora una volta protagonista una ristretta élite di intellettuali e professionisti di provata fede democratica. Episodi di bieca vessazione fascista - arresti immotivati, punizioni spropositate - provocarono reazioni e critiche anche in strati sociali più vasti a cui si rese particolarmente inviso il federale Di Marsciano, uomo collerico la cui albagia del
potere risultò sgradita persino agli stessi vecchi dirigenti fascisti locali. I sentimenti antifascisti agrigentini si accentuarono a partire dalla primavera del ‘43, allorquando la città, nell’incredulità generale della popolazione a cui della guerra fino a quel momento erano giunti echi lontani , fu colpita dal primo bombardamento, preludio dello sbarco in Sicilia degli anglo-americani, con cui avrebbero dovuto imparare a convivere e a….morire.
La città da subito mostrò la propria impreparazione materiale e psicologica ad affrontare una guerra che imprevedibilmente ed improvvisamente aveva spostato i suoi scenari nell’Isola, costringendo i siciliani e gli agrigentini a svegliarsi dalla loro atavica indifferenza. La precarietà delle infrastrutture difensive e l’inefficienza dei rifuggi antiaerei cittadini furono la causa di numerose tragedie che allora si consumarono in città. Particolarmente gravido di conseguenze fu il bombardamento che distrusse il ricovero di via
Pirandello dove trovarono la morte un numero imprecisato di persone (dai 185 ai 343) tra cui Vito Contrino, docente dell’Istituto Magistrale, e Beniamino Sciascia, insegnante di latino e greco, del Liceo Classico”Empedocle”, le cui strutture, insieme all’annesso Museo di Storia naturale, furono gravemente danneggiate dal bombardamento. Solo da qualche anno l’amministrazione comunale ha collocato sulla scalinata di collegamento della via Atenea con la via Pirandello, una lapide commemorativa del sacrificio dei due docenti che, fuggiti dal ricovero, avevano tentato di raggiungere le loro rispettive sedi scolastiche per metterne in salvo gli atti amministrativi. Agrigento , l’immediato secondo dopo guerra e il referendum istituzionale Scene di giubilo accompagnarono l’ingresso per le vie della città degli “alleati” che, insieme alla “liberazione”, distribuivano beni di prima necessità con cui i più furbi misero su un redditizio mercato nero. Così gli agrigentini conobbero la carne in scatola, la chewingum, le sigarette Chesterfield, assurti subito a bandiera di progresso e di comportamenti à la page da seguire ed imitare. All’indomani dello sbarco angloamericano, anche ad Agrigento si era costituito un fronte separatista che ebbe largo seguito giovanile, mentre per effetto del provvedimento del gen. Badoglio, a cui il re aveva affidato le redini del primo governo post-fascista, si ricostituivano ufficialmente quei partiti politici che, durante il passato regime, avevano continuato ad operare nella clandestinità organizzando la Resi77
stenza e la liberazione del Paese. Già dal luglio-agosto 1943 risultarono costituiti ed operanti i principali partiti nazionali, tra i quali immediatamente si impose la Democrazia Cristiana, i cui programmi di governo trovarono ampia rispondenza nell’attività del clero anche agrigentino che, come già ricordato, dietro sollecitazione del vescovo, utilizzò il pulpito come luogo di persuasione da cui lanciare invettive e scomuniche contro il comunismo antibolscevico ed ateo. Si trattava di portare avanti una battaglia contro i valori anticristiani impersonati dal comunismo. L’inevitabile successo elettorale conseguito nelle amministrative del 31 marzo 1946 , parallelo a quello registrato a livello nazionale , fu bissato nelle elezioni politiche e referendarie del 2 giugno successivo , dalle quali risultarono eletti all’Assemblea Costituente i democristiani agrigentini Gaspare Ambrosini (che fece altresì parte della Commissione dei Settantacinque), Raimondo Borsellino, Giovan Battista Adonnino e il socialista di unità proletaria (PSIUP), Giosuè Fiorentino. In quelle stesse tornate elettorali si registrava un effimero successo del movimento separatista nel quale erano confluiti latifondisti, mafiosi, banditi, tutti coloro che nel “Blocco agrario”, nato all’indomani dello sbarco anglo-americano, avevano visto l’opportunità di difendersi dalle rivendicazioni agrarie dei contadini. Fu facile alla classe dominante consolidare i propri privilegi giacché il fascismo aveva realizzato una legalità di facciata. Così ritornarono con lo sbarco quanti, tra gli uomini d’onore, emigrati durante il fascismo, ave78
vano creato negli Stati Uniti una nuova mafia. Tuttavia sulle forze separatiste prevalse ben presto il fronte autonomistico. Guidato in Agrigento da Enrico La Loggia, il fronte si batté a livello regionale contro il MIS per un’autonomia che facesse comunque salva l’unità politica nazionale. La lotta condusse al riconoscimento dello Statuto siciliano emanato con regio decreto da Re Umberto II il 15 maggio 1946. Lo Statuto fu recepito per intero nella Carta Costituzionale (legge costituzionale n. 2 del 1948) grazie anche all’impegno di Gaspare Ambrosini, deputato agrigentino alla Commissione dei Settantacinque dell’Assemblea Costituente. Ciò nonostante il clima di immobilismo della città si riconfermava con l’esito referendario del 2 giugno ‘46 ampiamente favorevole alla monarchia. I risultati ufficiali furono: Monarchia voti 14.356 ; Repubblica voti 3.067. La situazione economica tra il ’50 e il ’60. L’agricoltura che un tempo, insieme all’attività estrattiva ed al conseguente commercio marittimo, aveva rappresentato la fonte di sostegno economico principale, era ormai sempre meno redditizia. Le coltivazioni, limitate agli ortaggi e alle uve da mosto, erano praticate soprattutto nelle zone di San Leone, Cannatello e Zingarello; sussisteva ancora una certa attività artigianale di antiche tradizioni legata alla lavorazione della terracotta con la produzione di tegole (canali) e vasellame tipico (bummuli, quartare), mentre l’attività industriale si limitava alle piccole imprese di
laterizi (la Keramos di Fondacazzo), alla produzione della pasta (opificio di Piedigrotta), a quella grafica (Sarcuto) e al turismo, sempre meno intellettuale e più di massa, che cominciò a diventare sempre più di transito. La città puntò sulla ricostruzione edilizia che, capace di assorbire una quantità sempre crescente di manodopera, riuscì a sconfiggere la disoccupazione, fenomeno particolarmente evidente e per ovvie ragioni alla fine del secondo conflitto mondiale. Così si incrementò notevolmente il reddito pro-capite degli agrigentini che, secondo una stima operata da Giovanni Taglialavoro in Passaggio a sud ovest, crebbe del 150% fino al 1966. Agrigento e l’altra metà del cielo Pur con la gradualità imposta dai tempi, la presenza femminile agrigentina nel sociale e nel politico è sempre stata una costante della storia della città, seppur scarsamente nota. Testimonianze antiche furono già rilevate da Giuseppe Picone nelle sue Memorie storiche. Le donne agrigentine, per lo più di estrazione alto-borghese ed aristocratica, contribuirono da coprotagoniste al dibattito politico risorgimentale. E’ in quest’atmosfera che si colloca l’iniziativa di alcune signore, tra cui la futura mamma di Luigi Pirandello, Caterina Ricci-Gramitto e le donne della sua famiglia, che aprirono ai giovani intellettuali le porte dei loro salotti, luogo di incontro e di dibattito politico, laboratorio in cui al complice chiarore di mute faci cucirono quei santi colori (che), dopo, avere baciato, affidarono come emblema di morte o di vittoria ai loro sposi,
figli, fratelli, perché s’innestassero…sulle loro baionette come l’unica e vera fiaccola di vita.
Furono alcune di loro, infatti, a tessere quella bandiera che nottetempo giovani patrioti (tra cui i fratelli Ricci-Gramitto), nell’ aprile 1860, misero nelle mani di una statua posta nella facciata della chiesa del Purgatorio nella speranza, vana, di incitare il popolo agrigentino alla sollevazione a seguito dell’insurrezione palermitana della Gancia. Una ristretta cerchia di signore, Anna Pancamo, Filomena Vadalà, Adriana Vassallo, Rosina Vullo, Teresina Maganzi, Caterina Pirandello, Carlotta Picone, fondò, su sollecitazione dell‘Associazione Nazionale presieduta da Adelaide Cairoli, madre degli omonimi fratelli garibaldini, un Comitato femminile con finalità filantropiche. 79
Fino a quel momento, l’impegno delle agrigentine era stato legato a scelte di vita monacale. E se noto è il nome della madre di Federico II Chiaramonte, Marchisia Prefoglio, fondatrice nel 1299 del Monastero di Santo Spirito, meno conosciuto forse è il nome di Epifania Zirafa fondatrice , nel 1887, del “Pio Istituto Zirafa del Sacro Cuore di Gesù” con sede in piazza San Domenico nell’antico palazzo di famiglia che Epifania, nello sbigottimento generale dei suoi stessi parenti, aveva ereditato da un ricchissimo zio. Nel 1880, a seguito dell’approvazione vescovile, l’istituzione monastica divenne luogo di assistenza e ospitalità delle donne invalide. Famosa in città e nelle campagne di Girgenti, Epifania divenne per antonomasia “la monaca” e ben presto fu protagonista della vita locale non essendo caduta nel tranello di far corrispondere alla propria scelta (monastica) una surrettizia defezione sociale. Promotrice della cultura musicale, fece del suo Istituto un vivace centro di diffusione e studio della musica, mentre il suo salotto fu aperto alla frequentazione tanto di cattolici quanto di liberali e “anticlericali d’assalto”. Così Settimio Biondi la descrive e la ricorda: L’ospite faceva servire il caffè o il cioccolato, donando ai fanciulli, che accompagnavano i genitori, bon-bon o monetine d’oro …. Il ruolo politico della Zirafa stava tutto qui, nel confronto stabile e sereno cogli altri.… Non c’era in tutta la città un luogo tanto moderno e tollerante come il “quarto” della monaca. Anche in città, più tardi, pervennero gli 80
echi del movimento delle suffragette di cui si rese protagonista Accursia Pumilia che con grande coraggio per quei tempi – era l’anno 1906- “osò” presentare alla Commissione elettorale istanza – puntualmente respinta- di iscrizione nelle liste politiche cittadine. Ai primi del Novecento è documentata in Agrigento la presenza di un’Unione Femminile Girgentina, nata per opera di un
comitato di signore presieduto da Rosina Vadalà Bonfiglio, promotrice di numerose iniziative volte all’alfabetizzazione delle adulte e alla loro formazione professionale, attraverso l’istituzione di una scuola festiva, di un laboratorio e di un ricreatorio cui concorrevano con la loro opera il fiore delle Signore e Signorine della città, come testimonia una cartolina viaggiata il 5 ottobre 1913 impreziosita dal vessillo della stessa associazione, l’Unione si costituì “dietro l’impulso dato da Rossana (pseudonimo della marchesa Zina Centa Tartarini) nel Congresso contro la delinquenza e l’analfabetismo tenutosi proprio ad Agrigento nel maggio 1911. Il Congresso, che fu fortemente voluto
dall’intellighenzia agrigentina che ne affidò la presidenza all’on. Napoleone Colajanni, si tenne dal 21 al 25 maggio 1911 nei locali del teatro Regina Margherita. Vi parteciparono qualificati relatori e studenti girgentini. Il convegno ottenne dal Ministero l’esonero dalla frequenza scolastica. Tra le relazioni sono da ricordare quella di Visconti, docente del Liceo Empedocle, sul livello di istruzione della Sicilia ed in particolare del territorio agrigentino, di Francesco De Luca , fondatore dei Fasci siciliani ad Agrigento, e della già ricordata Rossana, alias marchesa Centa Tartarini, autrice della relazione Sulla grande funzione educatrice della donna nella vita. Sin dalle amministrative del marzo ‘46 si registrò nei Consigli comunali della città la presenza, seppur sparuta, delle donne che, in quella prima tornata elettorale, poterono esercitare per la prima volta il diritto di voto. Fu eletta nella lista della DC, Maddalena Zaccaria, consorte di Francesco Lo Presti Seminerio, libero docente in discipline mediche, nonché primo analista di Agrigento. La Zaccaria, ventesimo consigliere eletta su quaranta, fu altresì dirigente diocesana dell’Azione Cattolica, presidente dell’Associazione Donne della sua parrocchia, dama di carità. Più tardi, nelle amministrative del ’52 e poi del ’56, al Consiglio comunale di Agrigento venne eletta, sempre per la DC, Raimonda Sajeva Scifo, promotrice, insieme ad un gruppo di signore impegnate nel sociale tra cui Teresa D’Angelo e Bianca Bonfiglio Rubino, di una sezione del CIF, associazione femminile nata a Roma nell’ottobre del ’44 per “promuovere la formazione politica e sociale della
donna secondo i valori etici cristiani”. La sezione del CIF, ancora attiva in città, soprattutto negli anni ’70 , fu protagonista insieme e in conflitto alle donne dell’UDI, di battaglie politiche e civili per il riconoscimento della dignità femminile. L’associazionismo si radicò sin d’allora in città con AGORA’, A.N.D.E, F.I.D.A.P.A, MARIA CRISTINA, SOROPTIMIST e, ultima nata, CIAK DONNA. Poche sono state le agrigentine protagoniste nella politica cittadina, più presenti sono state nelle attività sociali forse più in linea con le funzioni di “cura” tradizionalmente esercitate dalla donna. Ciò nonostante, oltre alle già citate consigliere comunali alle quali in discreto numero se ne sono aggiunte altre nel corso degli anni, ricordiamo alla presidenza della provincia regionale, Marica Caruselli. Testimonianze su società e giovani agrigentini negli anni ‘50 e ‘70 Negli anni in esame, se si vuole avere la misura del tenore di vita degli agrigentini del tempo, basta tenere in conto che costituiva occasione di mondanità l’andare a messa la domenica alle 11.00, in particolare nelle adiacenti chiese di San Pietro e San Francesco frequentate prevalentemente dall’élite cittadina. Non mancavano comunque opportunità più appropriatamente mondane, quali le lunghe passeggiate (maschili) in via Atenea e i concerti bandistici municipali a piazza Gallo e a piazza Cavour; più tardi le gite a San Leone, meta di bagnanti improvvisati ed equipaggiati alla men peggio. Nelle serate estive i giovani cominciavano a frequen81
tare le sale da ballo della Focetta e della terrazza dello Stabilimento. In città nacque con il Punicipio il primo teatro cabaret su iniziativa di Michele Guardì, Enzo Di Pisa, Enzo Iacoponelli, Bertino Parisi, Berta Ceglie, Giusi Carreca, Ninni Arena. Il successo consentì a quei giovani attori di approdare a Palermo negli studi radiofonici della Rai con le trasmissioni L’alto sparlante e La domenica del villaggio. Erano presenti diverse sale cinematografiche, tra cui il Supercinema, che sopperì per lungo tempo alla chiusura del Teatro Regina Margherita, oggi Pirandello. Altri luoghi di frequentazione erano: lo Stadio Esseneto, per le partecipatissime partite di calcio della gloriosa Akragas; San Leone, con il suo lungomare, un nastro d’asfalto che correva lungo la spiaggia di sassi vicino al mare. Poco frequentato era, nei mesi invernali, il Viale della Vittoria, perché ritenuto un po’ lontano dal centro della vita sociale cittadina; era scelto però per qualche solitaria passeggiata o per una piacevole passeggiata con il cuore spalancato a sentimenti amorosi. Appena fuori di Porta di Ponte, in lontananza il mare, veramente lontano e poco interessante per Agrigento, se non come quinta e scena del paesaggio, dato che la città non ha mai sostenuto attività marinare. Bastava la spiaggia del lido di San Leone per quei due, tre mesi estivi che volavano via come un soffio. Le foto d’epoca negli album di famiglia ci mostrano i girgintani, nelle festose ricorrenze, matrimoni, comunioni, cresime, in feste sociali e religiose, al mare tra barche e ombrelloni, nella Valle dei Templi, tra colonne doriche e i canterini della Sagra del 82
Mandorlo. Le donne vestivano con singolare eleganza la moda del loro periodo, quella degli Anni Cinquanta, ma vi erano ancora donne anziane con scialle nero sul capo e lunga veste. Le feste in famiglia erano l’unico modo possibile di approccio sociale fra ragazzi e ragazze. Con i genitori sempre presenti l’abbraccio delle coppie era morbido e rispettoso nel romantico slow, ma la danza diventava vivace e sgambettante nel fox-trott, a volte sulle note di “Agrigento Fox” dei Fratelli Li Causi. Nelle vie, nelle stradine e nei vicoli, dai balconi aperti in primavera, si udivano cantare dalle radio ad alto volume, come allora si usava, le melodiose canzoni dei cantanti in voga.
Era l’inizio della motorizzazione di massa, lunghe automobili nere, le 1400 Fiat, le Seicento e quelle carrozzate Giardinetta. Vi erano anche Lancia e le Alfa e tra queste la più sognata e desiderata, l’Alfa Romeo Coupè, possibilmente rossa. Poi i motocicli, Vespe e Lambrette, la rarissima BSA e la cromatissima Arley Davinson. I media incalzano, a metà anni Cinquanta entra in
campo la televisione, le esperienze si livellano, inizia un veloce processo di omologazione nel costume e nel sociale. La società agrigentina insinuata, e lievemente esaltata da un nuovo e sottile modernismo nell’abbigliamento e negli atteggiamenti dei giovani, in qualche modo si era un po’, ma proprio un po’, sprovincializzata da remore e ritrosie; una ventata sotterranea di libertà si avvertiva nei rapporti interpersonali, meno formali e meno conformistici, anche tra le classi sociali. Si organizzano, ora, nuovi svaghi estivi a San Leone Lido; alle autarchiche “gare di bellezza” si sostituirono le “Miss”, all’americana. Miss di qualcosa, come la “Primavera”, “San Leone”, “Mandorlo in fiore”. Si organizzano anche cinkane di moto e auto, manifestazioni sportive, come la pallacanestro e il tennis; la squadra di calcio del cuore è l’Akragas. Trascorrevano giornate armoniose, e poi la notte, che se era estiva aveva la luna chiara che saliva nel cielo di cobalto e mandava a casa gli ultimi nottambuli. Il silenzio siderale, nel chiarore della notte stellata sulla città, conciliava il sonno dei suoi abitanti. Città quieta, luminosa col suo bel clima e intorno lo splendore della natura, in fondo il mare preceduto dalla valle di ruderi e di colonne disgiunte, resti archeologici che interessavano prevalentemente ai francesi, inglesi e tedeschi (da Come eravamo…negli anni Cinquanta. La quotidiana vita sociale, in Sicilia 24 ore, 9 novembre 2010) Atteso appuntamento annuale era poi la Sagra del Mandorlo festa che, nata per celebrare l’inizio precoce della primavera siciliana qui annunciata dalla fioritura dei
mandorli che imbiancano le valli agrigentine, nel corso degli anni ha cercato di assumere una dimensione internazionale con la partecipazione di gruppi folkloristici provenienti da tutto il mondo. Un evento che, ancora oggi, costituisce un grande richiamo turistico per la città ; un’ occasione che non manca di suscitare soprattutto, nelle giovani generazioni, entusiasmo ed allegria spesso complici di antiche e nuove storie sentimentali nate e consolidatesi all’ombra dei mandorli in fiore. Tuttavia la dolce vita agrigentina si aprì con il delitto Tandoj, il 30 marzo 1960 in fondo al Viale della Vittoria, dove il commissario di polizia di stanza ad Agrigento abitava con la moglie, Leila Motta. Inizialmente seguita la pista passionale, nell’omicidio si scoprì ben presto la mano mafiosa che fu colpita con l’arresto e la condanna di cinque suoi esponenti raffadalesi. Sul ’68 e il movimento studentesco Anche nel ‘68 siciliano si ritrovano i temi standard nazionali e internazionali: la lotta contro l’autoritarismo per dare il “potere agli studenti”, i miti che hanno generato e accompagnato la contestazione giovanile dal Vietnam al Che, le letture che l’ hanno alimentata, da Marx a Marcuse passando per Fanon, le assemblee permanenti e la formazione dei gruppi della “sinistra rivoluzionaria”. Temi che qui si uniscono ad alcuni aspetti specifici dell’essere isolani, come ad esempio la lotta al potere mafioso. Nel ‘68 - ricorda Carmelo Sciascia in “Il 68 è la poesia del mondo che ancora ci fa vivere” ovvero, “del 68, al liceo di Agri83
gento”- ero appena quindicenne, un liceale quindicenne, di un paese sperduto dell’estremo sud. Un ragazzo che abitava a Racalmuto e frequentava il liceo ad Agrigento. Una provincia che è un’isola nell’isola e che con altre due province siciliane formavano il triangolo della fame, in opposizione al triangolo dello sviluppo economico ed industriale rappresentato allora da Genova, Torino e Milano.
Ero giovanissimo allora, ma come tutte le nuove tendenze culturali il ‘68 arrivò al Sud con qualche anno di ritardo, quindi dopo, di preciso non saprei, comunque è un fenomeno che si può collocare storica84
mente più che fine anni sessanta, inizi anni settanta. Nell’età giusta per parteciparvi a pieno titolo, con le azioni tipiche del caso. Azioni tipiche: occupazione del liceo, manifestazioni di piazza, volantinaggio, vendita giornali, creazione di un foglio dattiloscritto e ciclostilato che si chiamava, provate ad indovinare, “Il Rivoluzionario” (di cui gelosamente conservo ancora qualche copia). E S. Vaiana, in “Le origini del movimento degli studenti e della Nuova Sinistra” rammenta che: Negli anni sessanta, nei paesi capitalisti una nuova generazione di giovani, la beat generation, contestò la cultura dei loro padri arrivando a un radicale scontro generazionale…. Nel 1968, la contestazione attraversò la scuola di massa italiana e con essa gli studenti diventarono protagonisti di una stagione di lotte per democratizzare la loro istituzione e per una cultura critica e aperta. A marzo, ad Agrigento gli studenti si interrogavano già sulla esigenza di riforma della scuola: «Al Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento - informava il giornale studentesco “Alfa 68” - alcuni studenti hanno organizzato un incontro di idee tra i loro colleghi e numerosi esponenti del mondo scolastico agrigentino. La loro iniziativa ha voluto mettere in evidenza che anche nella città di Pirandello maturavano le nuove esigenze sentite dagli studenti di tutta Italia. Per gli agrigentini e i siciliani, tuttavia, il ‘68 non è legato soltanto al ricordo della contestazione studentesca. Nel gennaio di quell’anno infatti parte della Sicilia occidentale fu colpita e gravemente danneggiata da un tremendo sisma che la scon-
volse nella notte tra il 14 e il 15 gennaio. Dagli anni 60 ad oggi Spesso accade che il destino dei luoghi e delle comunità dipenda da vicende tanto repentine quanto rivoluzionarie per gli esiti che ne conseguono: la frana, che nel primo mattino del 19 luglio 1966, incise come una ferita il centro storico di Agrigento, costituisce sicuramente un evento centrale che segnò la città, facendone esplodere contraddizioni e determinando conseguenze irreversibili.
I primi smottamenti si ebbero nella parte occidentale del centro storico intorno alle sette del mattino. L’ allerta fu data da uno spazzino…. alla popolazione che ebbe il tempo di riversarsi in strada. Non ci furono vittime, solo un centinaio di feriti, ma nel giro di un’ora rotolarono a valle migliaia di
metri cubi di terra, crollarono palazzi, si sbriciolarono casupole e catoi lasciando 1500 famiglie senza tetto. La notizia fece rapidamente il giro del mondo; la città e l’edilizia selvaggia che l’aveva segnata subirono un vero e proprio processo nazionale: Agrigento divenne la metafora del disordine edilizio ed urbanistico e del malgoverno amministrativo che caratterizzava l’intero paese. Illuminanti sono a tal proposito le parole pronunciate dal deputato comunista Mario Alicata in Parlamento il 5 dicembre 1966, che accomunò i fatti di Agrigento all’alluvione di Firenze: “…le recenti calamità hanno fatto comprendere a tutti gli italiani, salvo forse al Presidente del Consiglio e al suo Governo, l’entità dei pericoli che minacciano la struttura fisica del nostro paese e la sopravvivenza della fisionomia tradizionale di città come Firenze e Venezia, le quali, come Agrigento, rappresentano anelli insostituibili di un processo storico e culturale di fronte al quale non si dovrebbe essere insensibili se si è, non dirò dotati di coscienza nazionale, ma uomini civili e moderni, e cioè animati da quel senso della storia che all’uomo moderno è o dovrebbe essere proprio” ; ed aggiunge “…per favorire un certo tipo di sviluppo economico nel nostro paese si sono calpestati i diritti della natura e della storia…”. All’indomani della frana, il ministro dei lavori pubblici Mancini, nominò una commissione d’inchiesta, presieduta dal direttore generale dell’urbanistica Michele Martuscelli, che consegnò, nell’autunno del 1966, una relazione. Fu un atto d’accusa che suscitò un’enorme impressione nel Paese. Martuscelli imputò agli uomini che 85
avevano governato la città nei decenni precedenti la frana gravi responsabilità, sia come amministratori della cosa pubblica, sia come privati operatori, parlò di spregio della condotta democratica, di colpe coscientemente volute che avevano sfigurato il volto urbano di quella che lui stesso definì la città dei tolli e identificò la causa dell’evento nell’enorme sovraccarico edilizio quantificabile in ben 85000 vani costruiti negli ultimi anni in contrasto con tutte le norme esistenti. Interessanti sono alcuni stralci della relazione di detta Commissione che ben evidenziano il cambiamento epocale determinato dalla frana nella città non solo dal punto di vista morfologico ed urbanistico, ma anche storico e culturale: … fino al 19 luglio 1966 nella coscienza comune il nome di Agrigento era associato o con una pagina letteraria o con i vivi ricordi della personale scoperta di un singolare paesaggio punteggiato di templi, inconsuetamente disposti e lontani dal mondo: la città sulla rupe era, sì, nota, ma come sfondo lontano ad un quadro arcaico che pareva resistere immutato nel tempo....Una frana di inconsuete dimensioni, improvvisa, miracolosamente incruenta, ma terribile nello stritolare o incrinare irrimediabilmente spavalde gabbie in cemento, ed al tempo stesso, nello sgretolare vecchie abitazioni di tufo, in pochi istanti, ha buttato fuori casa migliaia di abitanti ponendo Agrigento sotto nuova luce e nuova dimensione. Abbiamo scoperto così, non senza sgomento, che non solo migliaia di persone erano attendate ed attonite, ma che Agrigento stessa non era più quella dei ricordi. 86
L’effetto più lampante di queste vicende fu il Decreto che, a due anni di distanza, nel 1968, i due ministri, Gui per la Pubblica Istruzione e Mancini per i Lavori Pubblici, vararono al fine di “salvare” la Valle dei Templi attraverso la sua divisione in 4 zone, di cui quella centrale (la zona A) con divieto assoluto di edificabilità. Tale decreto, valido nel suo intento di salvaguardare il patrimonio artistico dei Templi, rimase però qualcosa di isolato e non fu completato, come sarebbe stato giusto, da nuovi provvedimenti normativi, da un piano regolatore in grado di dare delle risposte ai cittadini che per vocazione naturale avevano sempre concepito lo sviluppo urbanistico della città verso il mare. Sulla base di questi scenari prese l’avvio, negli anni a seguire, un processo di straniamento, di perdita di identità della città e dei suoi abitanti che si concretizzò o in fenomeni di abusivismo edilizio costantemente ignorato dalle varie amministrazioni comunali, o nella nascita di quartieri dormitorio satellite privi di qualità e di riconoscibilità, sviluppatisi su precedenti insediamenti abitativi rurali, come Villaseta (caratterizzata anche da fenomeni di degrado ed emarginazione), Monserrato, Fontanelle, San Michele, San Giusippuzzu e Villaggio Mosè. Si determinò pertanto una situazione lacerante, un rapporto insano tra individuo e territorio e tra cittadino e Stato, uno Stato che assunse o la faccia del censore, dispensatore di norme e vincoli senza un concreto disegno progettuale o, nella peggiore delle ipotesi, il volto del nemico, attraverso periodiche ordinanze di demoli-
zione delle centinaia di case abusive che gli agrigentini avevano costruito là dove non potevano. Si pensi ad esempio che già all’inizio degli anni ’90, quando Agrigento contava una popolazione di circa 50.000 abitanti, le domande di sanatoria erano già 10.000, una ogni 5 abitanti. In tale contesto maturò una costante agonia del centro storico della città che si andò progressivamente svuotando, per far spazio a fenomeni di abbandono e di degrado; e il recente crollo del settecentesco palazzo Lo Iacono Maraventano, non è che l’ultimo triste capitolo di una irreversibile perdita di quei luoghi a cui era legata la nostra identità. Queste vicende, unite ad una notevole stasi economica e ad altri antichi problemi, non ultimo quelli della crisi idrica e delle infiltrazioni mafiose in provincia, spiegano il motivo per cui la città, negli ultimi decenni, è stata spesso classificata tra le ultime province per qualità della vita e reddito pro capite. Giustamente ha fatto notare A. Maurizio Iacono in un articolo su Fuorivista, è come se … Agrigento viva se stessa in una sorta di eterno presente. Il presente per il presente. O meglio, la dimensione del pubblico e dell’istituzionale è vissuta senza futuro, poiché quest’ultimo rimane appannaggio dei privati. Ciò non significa tuttavia che la città non abbia vissuto da trent’anni a questa parte momenti migliori, caratterizzati da valori di etica pubblica e di coscienza civile. Si ricorda la “storica” chiusura dell’ospedale psichiatrico a seguito delle denunce prima di un gruppo di ragazzi che animavano una radio locale, “Radio Concordia”, poi di
due parlamentari radicali, Domenico Modugno e Franco Corleone che, in un blitz nei reparti del nosocomio, documentarono le vergognose condizioni in cui versavano i pazienti e provocarono l’apertura di un caso nazionale. Memorabili furono altresì i giorni del 9 e 10 maggio del 1993 quando Papa Giovanni Paolo II visitò Agrigento: l’entusiasmo e la trepidazione del popolo per quell’incontro segnarono profondamente la città, soprattutto per l’ anatema contro la mafia che il Papa pronunciò in un suo discorso nel cuore della Valle dei Templi. Anche dal punto di vista dei beni architettonici e culturali c’è stato qualche segnale positivo. Costituiscono momenti di crescita per una comunità troppo spesso sprofondata nel torpore e nell’indifferenza, il recupero del giardino della “Colimbetra” da parte del FAI, la riapertura del teatro Pirandello dopo 30 anni di abbandono che ha anche restituito alla città un’annuale stagione teatrale, il lungo restauro della biblioteca Lucchesiana, autentico gioiello sia per i pregiati scaffali in legno intagliato sia per i preziosi 48.000 volumi (comprendenti anche manoscritti e codici arabi) , e ancora, la risistemazione dell’ antico Collegio dei Filippini che ospita ben due collezioni private, quella “Sinatra” con importanti tele di Lo Jacono, e quella dei quadri di Giambecchina. L’apertura del Polo Universitario di Agrigento, nonostante le buone intenzioni, non ha inciso granché nello svecchiamento del clima culturale della città anche per un problema di carattere urbanistico: la maggior parte delle attività universitarie sono 87
allocate in un’area lontana dal centro, sita in contrada Calcarelle, e rimasta sostanzialmente isolata e poco fruita dalla comunità locale. Gli agrigentini, come hanno vissuto questi ultimi decenni della nostra storia? Molti, animati dal desiderio di migliorare la realtà locale, hanno promosso iniziative in cui sono emersi senso di responsabilità verso i beni comuni e la valorizzazione del patrimonio culturale. Sicuramente, tra tutti i nomi che si potrebbero fare, quello di Franco La Rocca, prematuramente scomparso nel 1993 a 45 anni, è degno di ricordo e di attenzione. Agli inizi degli anni ‘80 quando si fece strada l’esigenza di creare in città una struttura culturale efficiente, La Rocca si adoperò per la creazione della Biblioteca comunale “Santo Spirito” di cui divenne direttore ed animatore (oggi gli è stata titolata la biblioteca sita nei locali dell’ex Archivio notarile). L’eredità che La Rocca lascia è soprattutto la consapevolezza che, all’interno di una comunità urbana, un buon sistema bibliotecario è anche un efficace antidoto contro il malcostume e l’illegalità. Nei tragici giorni successivi alle stragi di Capaci e di via D’Amelio scriveva: Ricordiamoci, in questo periodo buio per la lotta antimafia, che fare cultura ed informazione è il solo modo che abbiamo per onorare la morte del giudice Falcone e del giudice Borsellino. Sempre agli inizi degli anni ‘80 La Rocca dà vita ad un’altra importante iniziativa, il Centro Culturale Editoriale “Pier Paolo Pasolini” da cui sono partite lodevoli iniziative nel campo della letteratura, della foto88
grafia, della pittura, nonché attività volte a favorire il dibattito politico e la valorizzazione dei temi della legalità, della solidarietà, dello sviluppo compatibile. Il Centro, nello svolgere questa funzione di aggregazione, ha avuto anche il merito di coinvolgere personalità del calibro di Leonardo Sciascia o di Giulio Carlo Argan. Altre realtà degne di nota sono il Centro Nazionale di Studi Pirandelliani, fondato da Enzo Lauretta che ancora oggi, anno dopo anno, promuove un convegno nazionale per incoraggiare e stimolare nei giovani delle scuole superiori l’interesse e la ricerca per l’opera di Luigi Pirandello; il Centro di Ricerca per la Narrativa ed il Cinema che ha istituito il premio nazionale cinematografico “Efebo d’oro”; l’Accademia di Studi Mediterranei”, fondata da Assuntina Gallo Afflitto, la cui attività ha lo scopo di diffondere la cultura, soprattutto quella della realtà siciliana nei suoi rapporti con i paesi del bacino del Mediterraneo. Una nota di rilievo merita anche l’Università della Terza Età che, attraverso l’organizzazione di incontri culturali di varia natura, offre possibilità di riflessione al pubblico dei meno giovani della città. Un contributo al rinnovamento del clima culturale locale l’ha poi fornito l’esperienza di “Suddovest” prima e di ”Fuorivista” dopo, due periodici che, nel corso degli anni ‘90 e dei primi anni 2000 hanno documentato e analizzato argomenti di notevole interesse: dalla pianificazione urbanistica alla mafia, dalla gestione del patrimonio artistico all’integrazione culturale, dall’accoglienza degli immigrati alla dimensione della memoria. E ancora il Circolo
“J.Belushi”, associazione impegnata nel campo della cinematografia e dei fumetti, oppure ancora l’associazione “Amici della pittura siciliana dell’Ottocento” che da una decina d’anni ha trasformato in spazio espositivo i luoghi delle Fabbriche Chiaramontane, allo scopo di promuovere la passione per le arti figurative. La meritoria attività di questi gruppi e di altri che si potrebbero citare, come il Centro Giulio Pastore, il Centro Studi Mediterranei, non impedisce che Agrigento stenti ancora a trovare una propria dimensione in termini di qualità della vita, di senso della collettività, di rapporto di integrazione con il territorio, anche perché ai problemi di sempre, soprattutto in termini economici e culturali, se ne sono aggiunti di nuovi. Oggi la città vive una sorta di bifrontismo: da una parte, a causa dell’estrema vicinanza delle sponde africane, aumenta di giorno in giorno la presenza di immigrati che fuggono dalla miseria, dalla disperazione, dai conflitti, e ciò pone noi tutti di fronte alla responsabilità di assicurare loro non solo accoglienza e asilo, garantiti in parte da lodevoli iniziative quali la Mensa della solidarietà, ma anche una speranza di integrazione con la comunità locale; dall’altra invece le nuove generazioni agrigentine, giunte al completamento degli studi secondari, emigrano al nord, scegliendo corsi di laurea in Facoltà non siciliane con la prospettiva di trasferirsi definitivamente altrove e di contribuire al senso di sradicamento e di perdita di identità. Inevitabile chiedersi di che cosa avrebbe bisogno Agrigento per crescere, per migliorare , per far emergere le sue potenzialità.
Certo, il primo problema da risolvere dovrebbe essere quello occupazionale, la cui soluzione andrebbe individuata nella razionalizzazione e potenziamento del settore turistico attraverso la valorizzazione e la migliore fruizione non solo dei siti archeologici, ma anche del litorale e del centro storico. Tuttavia, nella consapevolezza che il destino di una città non è soltanto nelle mani degli amministratori locali, ma anche nell’assunzione di responsabilità da parte della comunità, si ritiene che il problema sia anche di natura pedagogica. Infatti, se gli operatori nel campo dell’educazione e della formazione delle nuove generazioni riuscissero a diffondere, oltre che i semi della legalità, del buon governo e delle virtù civili, anche quelli del senso della storia e della continuità della comunità con il suo passato e con il suo territorio, molte ferite potrebbero essere sanate e sarebbe possibile far emergere la dimensione dell’ “aver cura” come chiave interpretativa del rapporto tra individuo e territorio. La ricostruzione fin qui condotta non vuole avere pretese di esaustività e scientificità, nella certezza di aver omesso involontariamente fatti, personaggi e movimenti significativi per la storia di Agrigento.
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Microstoria ... GiĂ una volta sono stato fanciullo e fanciulla, arbusto uccello e pesce muto che balza fuori dal mare... (Emp. fr. 117)
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F. Patti - G. Pennica - A. Russello
Atenea. La mia scuola era quella della riforma Gentile. Da una classe a quella successiva si poteva accedere soltanto dopo il superamento di un esame molto impegnativo. L’aneddoto più curioso risale all’anno dell’ esame di maturità, quando una comunicazione ministeriale annunciò che, a causa della guerra, tutti i maturandi non avrebbero sostenuto l’esame e si sarebbero diplomati regolarmente con gli scrutini finali. Ebbene sì, io non ho fatto gli esami di Stato. Ottenni ugualmente la maturità con la migliore pagella che mi fece guadagnare un premio in denaro di lire 50. I miei compagni di classe (eravamo trenta) pretesero un festeggiamento. Andammo così a prendere un grosso cono gelato del costo di 1 lira. A me rimasero soltanto 20 lire. Quegli anni ritornano anche nel ricordo di Giuseppe Sciangula: “Ho frequentato il Liceo Empedocle dal 1938 al 1940. Tutti allora portavamo la divisa. Al ginnasio per i primi tre anni si era balilla, dal IV ginnasio in poi si era avanguardisti. Allora avevamo vacanza il 21 aprile, Fondazione di Roma; il 28 ottobre, anniversario della “marcia su Roma” e l’11 novembre genetliaco del Re. Ricordo ancora quando Mussolini venne a Porto Empedocle. Era il giugno del 1938. Il duce arrivò su una macchina scoperta insieme al Ministro Starace”. Gli anni ’50 sono ricostruiti da Gaetano Gaziano: “Nel lontano ’56 frequentai il Liceo nei nuovi locali di via Empedocle. Mi diplomai nell’anno scolastico1956 - 1957. Era
Fatti e protagonisti del Liceo
Raccontare chi siamo stati non è facile. Non si può dare voce alle pareti che trattengono e custodiscono echi di parole sdrucite, frammenti di vita, immagini sfuocate di un lontano vissuto. Eppure a volte basta poco ed il passato ci sorprende. Di questo sono stati capaci i nostri alunni. Il loro entusiasmo ha messo in moto la macchina delle emozioni, ha riacceso nei nonni, nei padri, nei fratelli maggiori i ricordi sedimentati negli anni, restituendo momenti del liceo”Empedocle”, specchio nel quale ciascuno di noi scorge traccia della propria storia. “Nel 1934, durante gli anni del fascismoricorda Raimondo D’Alessandro- ho frequentato questo Liceo classico. L’edificio di allora era un ex convento dei Francescani, annesso alla Chiesa di S. Francesco. Le aule non erano molte, tuttavia sufficienti a contenere le classi delle due uniche sezioni. Durante l’ultimo anno, il 1940, a noi alunni della terza liceale fu dato l’incarico, scattato l’allarme aereo, di disporci nei punti di passaggio per facilitare il rapido trasferimento dei compagni nel ricovero antiaereo posto sotto la Chiesa di S. Francesco. Il ricovero era tutt’altro che sicuro, infatti vi morirono parecchie persone durante l’unico bombardamento. Anche per il Liceo “Empedocle” la guerra fu dolorosa. In una sola notte , quella del 12 luglio 1943, fu distrutto dal violento bombardamento alleato. Ciò costrinse il Liceo a trasferirsi presso l’ex Casa del Fascio, oggi sede delle Suore Paoline, in via
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mio compagno di classe Nino Picone Chiodo, straordinario studente- poi docente di questo Istituto- eccellente nel tradurre il latino e il greco, e proprio per questo motivo passato direttamente, appena diplomato, dal banco alla cattedra, su nomina del preside Sambito , come supplente annuale.” Viva la memoria di quegli anni in Angelo Salvaggio: “Entrai al Liceo a 16 anni, nel 1954. Ricordo che svolgevamo le lezioni di educazione fisica alla G.I.L., nell’attuale Piazzale Rosselli. In alcuni giorni della settimana le lezioni si tenevano nel pomeriggio e ciò non mi consentiva di prendere in tempo il treno, ancora a carbone, per rientrare a Grotte. All’inizio scrivevamo ancora con le penne stilografiche, dopo con la biro. Le valutazioni erano molto rigorose. Non c’era un bar all’interno della scuola e così acquistavamo la merende dal panellaro, in Piazza Stazione. Ho scelto il Liceo perché avevo in me una voglia di riscatto sociale, alimentata anche dalla mia famiglia di origini contadine. La scuola, infatti, aveva allora una visione elitaria e fortemente aristocratica dell’istruzione.” Del rigore dell’esame di Stato prima del ’69 dà testimonianza Nicoletta Averna : “Ci era richiesto di portare all’orale non solo il programma di tutte le materie dell’ultimo anno, ma anche i riferimenti ai due anni precedenti. Durante il colloquio, che si svolgeva in due giorni, si era interrogati singolarmente un’ora per ogni materia, ma l’orale era comunque l’ultima fatica. Lo precedevano quattro scritti : il tema di italiano-uno solo a differenza delle molte tipologie di oggi-, la versione dall’italiano 94
al latino, poi quella dal latino all’italiano ed infine la versione dal greco all’italiano. Era, senza dubbio, un esame eccessivo”. Nonostante l’onerosità dell’esame, nel 1965 Ninni Monteleone conseguì il riconoscimento della “Pagella d’oro”, premio indetto tra tutti gli studenti d’Italia dalla “Domenica del Corriere”. La Riforma del 1969 modificò quella consuetudine. L’esame previde solo 2 scritti ed un colloquio orale su due materie, una a scelta dell’alunno, l’altra sorteggiata tra altre tre. “Non fu, in ogni caso, un cambiamento positivo- afferma Maria Eballi- perché tutto cambiò improvvisamente senza neanche un minimo di preavviso. Ciò influì negativamente sul voto finale espresso in sessantesimi: nessuno quell’anno ottenne il massimo”. Le riforme riguardarono anche la scuola media, nonché gli istituti tecnici e professionali che furono equiparati ai licei nell’accesso alle facoltà universitarie. Tutto ciò fu conseguenza delle contestazioni in cui spesso docenti e studenti si unirono per una scuola più democratica. Nicoletta Averna, ritornata in quegli anni al Liceo “Empedocle” da supplente, rivive quei fermenti :” Avvertivo come mie quelle istanze di cambiamento. Finalmente, da docente, potevo agire per realizzare la scuola che avevo sognato insieme ai miei compagni. Mi battei per l’abolizione delle note di qualifica sugli insegnanti, le consideravo una forma di subdolo vassallaggio”. Questo periodo fu invece vissuto diversamente da Irene Grenci, docente di educazione fisica : “Ho insegnato al Liceo per 32
anni. Non ero molto interessata alle contestazioni giovanili, anzi sfruttavo quelle occasioni per avere la palestra libera e lavorare agevolmente. Il Liceo partecipava a tutte le manifestazioni atletiche distinguendosi sempre ed ottenendo tantissime vittorie. Una competizione molto amata dagli studenti era la fase d’istituto dei “Giochi della Gioventù”, nella quale gli alunni del liceo gareggiavano fra loro. In quella occasione l’agonismo era alle stelle. Il mio ricordo affettuoso va soprattutto ai presidi Vivacqua e Cuffaro che mi hanno sempre sostenuta e gratificata. Fu il preside Vivacqua a segnalare al Ministero della Pubblica Istruzione i grandi risultati ottenuti dal Liceo “Empedocle” nel campo dell’atletica leggera. Nel 1986 la squadra femminile si qualificò ai Campionati Nazionali Studenteschi di Pescara al secondo posto nel 1986. Il Ministero mi conferì la medaglia d’oro al merito sportivo”. Nell’anno scolastico 1968/69 il Ginnasio fu trasferito in via Gioeni per un incremento nel numero delle iscrizioni. Le lezioni di educazione fisica si svolgevano anche per i ginnasiali nella palestra della sede centrale. Chi non ricorda di aver ricevuto un ammonimento per non essere rientrato in classe puntualmente? Le vetrine della Standa, il profumo della tavola calda di Taglialavoro, gli aromi della pasticceria Amato valevano ben una nota! Quanti amori sono nati e quanti se ne sono infranti in quel tratto di strada che, seppur fisicamente breve, eravamo capaci di dilatare nel tempo giustificando i ritardi con le scuse più stravaganti. Ma gli elementi di distrazione non erano solo questi. Maria
Rosa Bellomo ricorda: “Per ricreazione scendevo sempre a prendere il caffè al bar “Empedocle”, cosa vietatissima. Mi capitò una volta di imbattermi nel preside Vivacqua mentre stavo sorseggiando un caffè. Me lo offrì lui ricordandomi che non sarei dovuta uscire dalla scuola ed esortandomi a non farlo più”. Del preside Vivacqua dice ancora Savarino:” Durante le contestazioni, un ragazzo entrò in classe in tipico abbigliamento sessantottino, gridando il suo odio per la matematica. Il preside Vivacqua, sentendolo, non si scompose ma si limitò a dire: “ma come puoi odiare qualcosa che non conosci?”. L’atmosfera degli anni di piombo è ricordata da S. Di Noto: “Mi sono iscritto al Liceo nel 1970. Era in maggioranza frequentato da giovani comunisti vicini al movimento di Lotta Continua e da pochissimi giovani fascisti. Discussioni animose erano all’ordine del giorno, qualche volta si passava anche allo scontro fisico. Una sparutissima schiera s’ispirava al movimento cattolico vicino alla Democrazia Cristiana. Le assemblee si svolgevano nella palestra del Liceo. In questi animati consessi si discuteva di Marx, di Adam Smith, di Locke, di Engels. L’impegno politico dei giovani si rifletteva anche nel loro abbigliamento: quelli di sinistra, con i capelli lunghi ed incolti indossavano solamente l’eschimo con la sciarpa rossa, quelli di destra, più conformisti, portavano il loden. Si facevano interminabili collettivi interstudenteschi, si organizzavano scioperi e cortei insieme agli operai dell’insediamento industriale di Porto Empedocle durante i quali venivano distribuiti volantini ciclostilati notte tempo. 95
La scuola pubblica era un volano sociale. I ceti meno abbienti miglioravano con l’istruzione il loro status.” Con difficoltà partecipavano a questi momenti collettivi gli alunni della sede distaccata di Porto Empedocle, sorta negli anni ’60. Così Giuseppina di Mare:“ Ho frequentato il Liceo Classico dal 1969 al 1973 nella sede di Porto Empedocle. I momenti d’incontro con la sede centrale di Agrigento si limitavano alle assemblee e alle rare visite del preside. Le due realtà non si integrarono mai, anche perché gli agrigentini ci guardavano con aria di sufficienza. Noi eravamo quelli di paese. Di quegli anni mi è rimasto quel senso di profonda familiarità e coesione che regnava all’interno della scuola. Un’ esperienza indimenticabile è stata la messa in scena nel teatro empedoclino di una tragedia greca, la Medea, sotto l’attenta direzione del prof. Burgio, responsabile del plesso” Gli anni Ottanta, quelli dell’edonismo reganiano, riaffiorano nei ricordi di Sergio Alletto: “A quell’epoca, ( 1979 -1983 ) l’Empedocle di Agrigento è stato un’autentica fucina di intelletti grazie alla presenza di un corpo docente preparatissimo guidato dall’indimenticabile preside Vivacqua. La mia non è stata una generazione di secchioni. Ricordo ancora l’orso impagliato e lo scherzo ai danni di un’insegnante. Quella volta rischiai seriamente di perdere l’anno. Con un mio compagno forzai la porta della “camera dei segreti”. Si trattava di un’aula sempre chiusa. Grande fu la sorpresa quando ci trovammo di fronte a centinaia di animali impagliati, tra i quali l’orso che oggi si può ammirare nel museo di scienze 96
del Liceo. Fu un attimo. Decidemmo di prenderlo dalla teca di cristallo che lo custodiva e di portarlo in classe. Lo posizionammo dietro la porta dell’aula, aspettando l’arrivo della docente, affetta da una miopia severissima, che le consentiva di mettere a fuoco gli oggetti solo dopo qualche secondo. Appena aprì la porta e vide davanti a sé questa figura, diede un urlo e stramazzò a terra svenuta. Successe il finimondo e ricordo ancora l’invettiva del preside: “Siete dei criminali!”. Tuttavia mi parve che, dopo un’attenta analisi della “scena del crimine”, il preside avesse tradito un mezzo sorriso. Forse era stato colpito dall’ originalità dello scherzo? Quella volta non fummo puniti. La mia generazione comunque fu capace di analisi politiche mature, di confronti serrati, di grandi gesti di solidarietà. Sono stato proprio io ad organizzare nella palestra del Liceo un grande concerto rock, la Woodstock dell’”Empedocle”. In quell’occasione raccogliemmo più di due milioni di lire che donammo all’Istituto Casa della Speranza. Quella volta il preside fu molto orgoglioso di noi”. Frequentano il liceo classico negli anni ’80 anche Nicola D’Alessandro e Daniela Graci:” Ci siamo conosciuti sui banchi di scuola. Galeotto fu il latino e il greco. Furono anni che segnarono profondamente le nostre esistenze e che perciò ricordiamo con nostalgia. Tanti gli aneddoti da raccontare, ma in particolare ve n’è uno rimasto bene impresso nella nostra memoria.In prima liceo si verificò improvvisamente un notevole calo del rendimento della classe. Alla fine del primo quadrimestre eravamo
tutti molto preoccupati per la consegna delle pagelle. Accadde però un “miracolo”: quell’anno i docenti aderirono ad uno sciopero che bloccò lo scrutinio. Fu la salvezza. Le tanto temute pagelle non arrivarono e si ebbe il tempo di recuperare. I risultati in tutte le discipline tornarono ad essere quelli di sempre e fummo tutti promossi a pieni voti. Quello fu pure l’anno della prima squadra di basket dell’Empedocle fortemente voluta dal Prof. Biagio Milano, sempre disponibile ed attento verso i giovani. Vincemmo il primo torneo provinciale di Carnevale che da allora continua ad essere una manifestazione coinvolgente ed attesa dagli alunni.” “Il mio Liceo-racconta Marco Savatteri - è una pergamena preziosa custodita gelosamente nella mia memoria: in essa vi sono le ambizioni, le aspettative e le promesse fatte a me stesso in tempi passati che pian piano vado mantenendo, e vi è narrata la storia di un ragazzo diciottenne di nome Marco, non troppo diverso da colui che sta scrivendo qui e ora. Ho un ricordo a colori, ancora tangibile e concreto della mia esperienza di “studente del Classico”. Di certo non sono stato un allievo mite e temperato, sempre puntuale nei miei quotidiani ritardi, ho esercitato ogni giorno la mia fantasia inventandomi le scuse più improbabili per giustificare ai professori le mie epifanie ad appello più che concluso. Mi piaceva molto scrivere i temi in classe. Proprio tra i banchi del Ginnasio, e poi al Liceo, cresceva in Marco il desiderio spietato e un po’ folle di organizzare, dirigere, scrivere e rappresentare spettacoli teatrali. Dopo aver diretto il coro in occasione del pre-
cetto pasquale dell’anno 2000 su sollecitazione del mitico prof. Conti, fu la prof. Gilda Pennica, che non finirò mai di ringraziare sentitamente per la sua forza catalizzatrice, a recitare queste parole: “Marco, non fermarti, adesso devi fare uno spettacolo, Evita; si, perché non fai Evita?!”. Ed infatti proprio di “Evita il musical” avevamo parlato qualche settimana prima con lei, avendo io deciso con Viviana Zarbo di presentarmi alla “festa della musica” della scuola con la famosa Don’tcry for me Argentina…. Il resto della storia fu poi un susseguirsi di prove, obiettivi da raggiungere, successi, ostacoli, nati e cresciuti tra le mura del caro Liceo “Empedocle”. Sono felicemente debitore nei confronti del “Classico” per avermi stimolato a decidere della mia vita, perché quello spettacolo, quel gioco, è oggi la radice del mio attuale mestiere. Questo grazie alla complicità di personaggi/professori quali, oltre ai citati, la professoressa Maria Neve Sammartino, solidale affettuosa e comprensiva, la professoressa Giovanna Gentile, simpatica sostenitrice delle mie follie, il pazientissimo professore Peppe Saitta e i professori Amalia Graceffo, Mario Scaglia, Anna Maria Palumbo, Maria Concetta Vaccaro e tutti coloro che mi hanno trasmesso non soltanto il loro sapere con forte dedizione, ma anche l’amore per capire e sentire il mondo con quella humanitas che è mezzo e fine di ogni esperienza sincera per la vita, per l’arte, per il senso in ognuno di noi. Grazie, da parte di Marco, quel ragazzo diciottenne e grazie da parte mia, grazie al mio Liceo.” La stessa nostalgia traspare dalle parole di 97
Maria José Messina che così ricorda: “Il mio incontro con i classici latini e greci è avvenuto nel lontano 1998, mentre frequentavo il IV Ginnasio. Ho conosciuto questo nuovo mondo e mi sono lasciata progressivamente trasportare dalla sua bellezza. Ad avermi guidato in tale percorso, sin dai primi passi, è stato il professore Marcello Landri, il quale con la sua maieutica ha gettato le salde fondamenta di quella che si è rivelata una forte passione. L’acme di questo amore è stato poi raggiunto al Liceo con la scoperta della letteratura classica; e in questo secondo cammino ho trovato al mio fianco un’altra indimenticabile figura, la professoressa Gilda Pennica, capace di trasformare la prosa letteraria in poesia e la metrica dei classici latini e greci in musica e in spunti di riflessione e crescita per il quotidiano che ci trovavamo ad affrontare… E questo traid union tra classico e contemporaneo mi accompagna oggi nell’esercizio di un mestiere che forse per molti non ha alcun recondito legame con gli antichi testi ma che in realtà pone ogni giorno di fronte a delle sfide in cui anche la scienza deve umilmente riconoscere il proprio limite ed aggrapparsi ad un’etica, quella del viandante, che esprime tutta la finitezza dell’uomo che nella decisione finale si affida, quella saggezza che alberga in ognuno di noi e che costituisce anche il nostro limite. I miei studi di medicina sono stati sempre accompagnati da questa visione” altra”, per cui non è un caso che sulla prima pagina della mia tesi di laurea si legge: Homo sum: humani nihil a me alienum puto. Ho imparato insomma non semplicemente 98
a leggere i classici ma a scavare profondamente in essi per ritrovare il senso di un’identità con la consapevolezza che spesso le cose non sono ciò che appaiono e che non esistono verità assolute ma solo probabilità plausibili da cui trarre un equilibrio tra forze contrarie. Il futuro e’ nei classici. Parole sdrucite, suoni, colori, atmosfere, frammenti di vita fin qui rievocati trovano la sintesi e la certezza del futuro nell’augurio di Daniele Magro: Buon compleanno Empedocle! Incredibile! 150 anni e non dimostrarli! E dire che di vite ne sono passate dai banchi e dalle cattedre del mio caro vecchio liceo, quello che i Greci chiamavano “gymnasium”, la palestra del corpo e della mente, ma che io molto più semplicemente ricorderò sempre come la mia scuola. Ogni tanto ci passo davanti e lo saluto timidamente, di nascosto, per evitare che qualcuno possa vedermi e prendermi per pazzo. No, non gli nego mai un salutino perché lui da vera star ama i complimenti e come tutti gli anziani (senz’offesa ) vuole essere ossequiato. E perché non riverirlo allora? In fondo gli devo moltissimo: quello che sono stato e quello che sono diventato. Ma partiamo dal principio. Correva l’anno 1861 e mentre pezzettini di regioni venivano messi insieme in un mega-puzzle chiamato “Italia” da simpatici giocherelloni (ben noti grazie ai libri di storia), sulla porta di un edificio di una piccola città di provincia di nome Girgenti, ve-
niva affisso un bel fiocchetto azzurro con su scritto:”Oggi è nato Empedocle”. Proprio così! La mamma (un po’ come oggi va di moda chiamare i bambini Ronaldo o Lady Gaga) aveva deciso di dargli il nome di quel filosofo mezzo medico e mezzo mago molto in voga in città qualche secolo prima.Il piccolo Empedocle si mostrò sin dai primi mesi un bambino socievole e di mente aperta e di vivace ingegno, disponibile verso gli altri, precoce e svelto nell’apprendere, padrone di casa impeccabile ed amorevole, pronto ad accogliere ed iniziare al sapere scrittori, filosofi, architetti, artisti, politici, medici, avvocati, insegnanti, ma anche casalinghe e semplici impiegati, tutti e ciascuno a lui debitori degli anni più belli e spensierati della propria vita. Io, che l’ho conosciuto quando di anni ne aveva già 142, non posso che riconoscermi tra le fila dei suoi debitori e stimatori. Ricordo benissimo il mio primo giorno al liceo: l’emozione e la voglia di conoscere persone nuove, di studiare nuove discipline, ma anche l’ansia di incontrare difficoltà con materie che non avevo mai studiato. Ed Empedocle, profondo conoscitore dell’animo umano, non nuovo ad ansie ed attese, mi venne amorevolmente incontro mettendomi a disposizione insegnanti appassionati e compagni di classe insostituibili. “Un viaggio in treno”, definì il mio professore di storia e filosofia, Lillo Sciortino, l’esperienza scolastica liceale che ci apprestavamo insieme ad affrontare. Un treno dal quale saremmo scesi dopo tre anni ricchi di souvenir e di ricordi, carichi di esperienze e conoscenze che avrebbero
costituito il bagaglio indelebile della nostra vita umana e professionale. Un bagaglio fatto anche di frasi significative, di battute scherzose, di gaffes e di modi di dire, “perle di saggezza” che appuntavo meticolosamente e che oggi a volte rileggo con nostalgia e che ripropongo di tanto in tanto ai miei ex compagni di classe davanti ad una pizza di “rimpatriata” stagionale. Non amo definire il mio un semplice “ricordo” del liceo. Lo trovo riduttivo; il ricordo rimanda sempre a qualcosa che non c’è più e che non potrà ritornare. Mi piace invece pensare al “mio” liceo come ad un paio di vecchi e cari jeans che non passano mai di moda, come alla colonna sonora della mia adolescenza, insomma come all’intramontabile evergreen del mio repertorio.
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La morte di Empedocle nella voragine, S. Rosa
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Nel ricordo di Empedocle ... Fatti coraggio e siediti al limite estremo della sapienza ... (Emp. fr. 3)
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O amici, che occupate la forte rocca, al sommo della città presso la bionda corrente dell’Acragante, impegnati in sagge opere di governo, venerandi approdi per gli ospiti, ignari di malvagità: bravi! Ed anche io, secondo voi, non più come un uomo mortale… sono stimato, quando vado in giro, ma do l’impressione di un dio sovrano, incoronato con infule e con fiorami vivaci. (fr. 100G.)
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Vittorio Alessandro*
quei palazzi che dopo la frana del 1966 aveva preso agli occhi di tutti la forma del punto interrogativo. Fu un ginnasio di nazionali senza filtro tirate in fretta sulla rampa in cemento del grattacielo. Di terremoto nel Belice e di aoristo, di timor di meningite e don Abbondio. Furono il verso, tanto citato dalla professoressa di lettere, dello “scendere e salir per l’altrui scale”, che sembrava voler cantare il nostro esilio, in realtà fortunato. I tre anni successivi del liceo virarono poi verso la promozione, non soltanto alla classe superiore, ma anche all’edificio di via Empedocle, e alla vista della valle dei Templi, del mare e del paese. Il liceo classico - sezione A - corrispose al lei con cui mi appellò per la prima volta l’insegnante di italiano il quale, arrivando alle mie spalle (il professor Picone trascorreva la propria ora di lezione camminando fra i banchi), indicò sul libro, con mano tremolante, un verso che mi era parso a una prima lettura scorrere senza lasciar traccia, e che da quel momento prese per sempre la forma di parole. Su quella cattedra vidi passare, indimenticabili, un preside e professori che con forza intellettuale ed umana straordinaria mi consegnarono gli strumenti con i quali ancora oggi, dopo tanti anni, cerco di conquistare la visione d’insieme, privilegio del filosofo e del pilota: prospettiva fortunata come quella di sentirsi finalmente fuori dal proprio paese e però guardarlo, innamorato e a distanza, dalla ringhiera di via Em-
Dalla ringhiera dell’”Empedocle”
Fa sorridere oggi il pensiero, ma per noi ragazzi di Porto Empedocle l’iscrizione al liceo decretò la fine dell’infanzia - ne fu prova stringente l’abbandono definitivo dei calzoncini corti - e soprattutto segnò la partenza per la città. Questa, come tutte le migrazioni, fu piccola conquista ed esilio innocente, espatrio quotidiano del breve spazio di mezza giornata confortato, sull’autobus delle sette e venti del mattino, dai veterani empedoclini del quinto anno, autorevoli tanto più se ripetenti. Agrigento, allora molto più lontana di oggi, giungeva al termine di un viaggio lento e collettivo a bordo di una corriera che, dopo la fermata dei Templi, ansimava a passo d’uomo e a colpi di mezza marcia. Non solo quella tortuosa strada in salita, ma anche i corridoi della scuola furono all’inizio un terreno di scoperta impervio come quelli oltre chissà quale mare. Ci lasciavamo alle spalle il privilegio del porto e dell’industria (non ne fummo abbastanza consapevoli, prima che alla Marina porto e industria precipitassero) e invidiammo invece quello – allora assai più importante – dei pomeriggi al viale e dell’arrampicata indigena sulla via Atenea, dove i nostri occhi dovevano abbassarsi di fronte agli occhi delle ragazze, donne d’altri per definizione. I due primi anni furono i più confusi. Ed è già molto confusa quell’età. Il ginnasio ci ospitava in via Gioeni sul piano stradale di uno stabile ingiustamente alto sulle nostre teste e su una valle in abbandono, uno di
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pedocle. E con il paese scorsi ogni giorno il mare, diventato poi professione e prospettiva, luogo eletto del mio tentativo insistente e accorato di uno sguardo dâ&#x20AC;&#x2122;insieme.
* Ufficiale del Corpo delle Capitanerie di Porto.
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Francesco Bellomo*
lezione di matematica, nell’aula si sentì un trillo. E fra lo sgomento dell’insegnante Lidia Alfieri e le risate dei miei compagni, la mia voce tuonò :“Pronto…si sono io….” Al grido strozzato di “Bellomo che fai?” risposi “Professoressa un attimo, non vede che sto’ parlando al telefono!!!”… Per la tecnologia era già storia!
Una lezione... con effetti speciali
Per la verità non ero più entrato nei locali del glorioso “Empedocle” da quasi ventotto anni. L’occasione l’ebbi quando andai ad assistere all’esame di maturità di mia nipote Esmeralda. Varcai il cancello pronto ad accertare se si fosse innescato il proustiano effetto Madeleine, ossia il meccanismo grazie al quale il protagonista della Recherche, addentando un dolcetto, la Madeleine appunto, riporta alla mente ricordi inaspettati e assopiti. Ebbi immediatamente un déjà vu rivivendo improvvisamente le emozioni dell’epoca. Certo non penso di essere stato un esempio da seguire come studente. Il mio contributo fu sicuramente più significativo come rappresentante di classe e public relation man, essendo condizionato già da studente da attività svolte nel mondo dello spettacolo e del giornalismo che continuo a svolgere tuttora con soddisfazione. A quell’epoca trasmettevo le radiocronache dell’Akragas per conto della emittente radiofonica agrigentina RTA e avevo sperimentato un sistema di cordless sovralimentato che , collegato ad un amplificatore, mi consentiva di avere la linea entro tutto il perimetro della città. Un giorno in cui avevo necessità di tenere i contatti per la mia attività esterna, con una decisione tanto fulminea quanto azzardata, decisi di portarmi in classe l’antesignano del futuro cellulare. Intorno a metà mattinata, nel pieno della
*Produttore teatrale
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Quale che fu la sua nascita, e come venne in terra, non lo sa persona. Apparve presso le rive dorate del fiume Acragas, nella bella città d’ Agrigento… Se ne deve arguire, forse, che era figlio di se stesso, come si conviene ad un dio. Ma i suoi discepoli assicurano che aveva già trascorso quattro esistenze nel nostro mondo, e ch’era stato pianta, pesce, uccello e fanciulla.(M. Schwob)
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Luigi D’Angelo*
consapevolmente, richiamava all’illuminismo o al solidarismo socialista o ai valori fondamentali del cristianesimo. Quel campus non si esauriva sui banchi, ma proseguiva nel pomeriggio in via Atenea che, come un grande fiume di persone, raccoglieva gli affluenti che scendevano dalle colline del Duomo e della “Batiola”, allora ricchissime di vita e di tradizioni umane. Lì sono nate amicizie tanto forti e vere da consentirci di annullare in un attimo lustri di lontananza e di tornare alla gioia ed alla spontanea confidenza che connotano ogni incontro con gli amici di sempre. Ricordo nitidamente il desiderio di una scuola meno catechetica e ancor meno nozionistica rispetto a quella proposta dai programmi ministeriali che ingabbiavano alunni e insegnanti. La presenza di alcuni docenti sensibili alle istanze giovanili portò ad una scuola più innovativa ed adeguata alle nostre genuine aspettative. Ai nostri occhi i docenti smisero i panni dell’autorità per acquisire quelli dell’ autorevolezza e fu un susseguirsi frenetico di nuove esperienze culturali dal cineforum alle visite guidate, ai tornei sportivi ed alle gite d’istruzione e i classici, venuta meno l’ansia della traduzione, divennero amici fidati capaci di illuminare il nostro cammino. Svelo un segreto: quando nella mia vita e nella mia attività professionale, splendida ma difficilissima, sono chiamato ad operare delle scelte laceranti, nell’immensa solitudine di quei momenti, spesso mi fingo
Un segreto...svelato
Vi sono dei momenti, nella vita, che consentono di cancellare le distanze temporali. Quarantacinque anni sono ormai trascorsi dalla maturità, eppure ancora oggi mi trovo a rivisitare esperienze vissute negli anni del liceo, il Liceo “Empedocle”. La mia classe era interamente composta dalla generazione di giovani nati dopo la proclamazione della Costituzione, cresciuti nell’entusiasmo per i valori che vi sono enunciati. In quegli stessi anni, la ricostruzione della nazione aveva prodotto importanti risultati economici ed era riuscita ad incidere sulle tante stratificazioni sociali. Soffiava forte il vento innovatore del Concilio Vaticano II di Papa Giovanni. Per le scuole superiori era stato l’addio agli educandati o ai convitti ed anche il nostro liceo non era più espressione della buona o della ricca borghesia, ma intercettava pienamente l’esigenza di formazione culturale necessaria a quanti fossero stati valutati idonei ed aspirassero a realizzare un importante progetto di vita, sul quale infinite volte eravamo stati interrogati con il fatidico tormentone “cosa vuoi fare da grande?”. E la mia classe era un campione autenticamente rappresentativo dell’intera società del territorio di riferimento. Era una novità che percepivamo con chiarezza, così come con chiarezza testimoniavamo l’orgoglioso rifiuto di qualsivoglia omologazione suggerita da imbonitori da mercante in fiera. Esisteva un mondo più profondo fatto di idee ed ideali che ciascuno, più o meno
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di discutere con i miei compagni ed i miei insegnanti. E i ragionevoli dubbi che emergono mi aiutano a verificare la correttezza giuridica e lâ&#x20AC;&#x2122;umana equitĂ di una pronuncia giurisdizionale. Grazie per quanto mi è stato dato in quegli anni. * Presidente del Tribunale di Agrigento
Empedocle scruta il cielo
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Antonino Di Geronimo*
di volontà, riuscendo ad uscirne indenne e con qualche piccola certezza in più. E ricordo con gratitudine, oltre all’amicizia e al rapporto con i miei compagni – anche se in larga parte ci siamo persi un po’ di vista – i docenti di quei cinque anni. Senza di loro, tutti loro, quel che di buono sono riuscito a fare negli anni successivi, difficilmente avrebbe visto la luce.
Non eravamo fannulloni!
Ricordare gli anni del Liceo Classico “Empedocle” è impossibile senza farsi inondare il cervello di pensieri, immagini, sensazioni, colori e odori di proustiana memoria. Al liceo sono diventato “grande”, insieme ai miei compagni, o almeno così pensavo. In quelle aule abbiamo misurato il distacco, a volte felice, a volte doloroso dall’adolescenza. Ci siamo posti le prime domande sulla vita, sulla morte, sull’amore, sui turbamenti nell’incontro con l’altro sesso, sulle inquietudini sociali. E letture, confronti, assemblee interminabili quando credevamo di poter cambiare il nostro spicchio di mondo, pensando ai nostri coetanei impegnati in lotte per la libertà e l’emancipazione in ogni angolo della terra. E studio. Tanto. E serio. Che non si dica che eravamo dei fannulloni. Da quella scuola, e anche dalla mia classe, sono uscite delle teste assolutamente brillanti e che nella vita hanno dimostrato tutto il loro valore, in campi anche diversissimi. Ancora oggi, pur lontano da Agrigento per motivi di lavoro che mi hanno portato in diverse città, penso ogni tanto con struggente affetto a quel periodo, alla luce del mattino, a volte fioca, a volte sfavillante che accoglieva noi studenti nella via che prende lo stesso nome della scuola. Ringrazio il caso, la fortuna, le circostanze di essermi potuto allenare alla vita in quell’ambiente così fecondo. In quegli anni ho constatato le mie indolenze e le mie pigrizie, ma anche la mia tenacia e la mia forza
*Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate della Calabria.
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Se mai per qualcuno degli effimeri tu, musa immortale, hai voluto visitare le umane prove del pensiero, allorchè ti pregarono, anche ora sii presente, o Calliopea, mentre espongo il mio probo ragionamento sopra gli dei felici; e in mezzo porterò questo tema degli elementi non generati, il fuoco e l’acqua e la terra e l’immenso culmine dell’aria, che mai non hanno inizio né hanno termine alcuno, e l’astio rovinoso, … e la concordia conciliatrice. Di qui tutte le cose che furono e saranno, e le cose che sono…(fr. 1G., vv. 1-9)
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Vito Di Marco*
parli del Foscolo…”. Il sabato mattina dettava dieci o dodici titoli per il tema d’italiano e alla fine diceva ” se qualcuno non è soddisfatto lo dica, ho ancora qualche tema di riserva”. Una volta gli chiesi un altro titolo e mi rispose “Di Marco, dato che lei è sempre prolisso, illustri il suo giudizio critico sulle opere del Manzoni in due pagine”. Fu dura, ma riuscii ad avere un buon voto! Mi resi conto che era necessario sapere, non imparare. Al posto delle nuove scarpe da calcio, comprai due testi di critica della letteratura italiana, uno dei quali fu il Sapegno. Imparai a studiare da più libri, a riportare in brevi schemi il pensiero degli autori dell’ ‘800 e le teorie dei critici e ad esporre o scrivere in maniera sintetica. Giocavo ancora a calcio, ma solo con i mie amici della Parrocchia S. Giuseppe di Via Atenea e con loro discutevo anche della “rivoluzione operaia” o della “rivoluzione culturale francese”. L’onda lunga del ’68 portò qualche folata di contestazione anche al liceo governato dalla tranquilla figura del preside Giovanni Vivacqua. Si discuteva, si organizzavano le assemblee, si contestavano i metodi di insegnamento e i giudizi (o i bassi voti) dei professori più severi, si sfilava in via Atena o al viale della Vittoria a sostegno degli operai delle fabbriche o contro la dittatura di Pinochet in Cile. Devo confessare però che qualche volta, “nelle giornate di sciopero o di manifestazione”, entravo a scuola per farmi interrogare dalla Giudice, insegnante di Scienze.
Da calciatore a ...medico
Ho frequentato il Liceo Classico “Empedocle” dal 1971 al 1976. L’impatto con il ginnasio, allora ubicato nei brutti appartamenti di Via Gioeni, non fu brillante. Nei primi mesi del IV ginnasio studiavo poco e passavo molti pomeriggi allo stadio Esseneto ad allenarmi nelle giovanili dell’Akragas. Alla fine del primo quadrimestre portai a casa una piccola raccolta di splendidi 4 in Matematica, Francese e Greco. Mio padre mi chiese se volevo intraprendere la carriera di calciatore o continuare a studiare, e sottolineò che non aveva previsto per me un futuro calcistico. Recuperai le insufficienze e abbandonai la mia “brillante carriera da calciatore di provincia”. Non è stata una grande perdita per il mondo del calcio! Ricordo invece con piacere il passaggio al corso A del liceo di via Empedocle. Oltre a vedere il sole e il mare dalle finestre della scuola, incontrai nuovi compagni di classe e diversi buoni professori, e fu una svolta per il mio rendimento scolastico. Ricordo con grande piacere il bravissimo insegnante di lettere, Antonino Picone Chiodo. E se Il mio maestro delle elementari mi insegnò a leggere e il professore di lettere della scuola media mi fece gustare la lettura dei libri, il professore Picone mi insegnò a studiare. Mi affascinava la sua conoscenza dei classici e quando recitava a memoria i canti della Divina Commedia o i Sepolcri di Foscolo. Quando interrogava, rivolgendosi con il Lei agli studenti, chiedeva semplicemente “ Di Marco, mi
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Sapevo che giudicava incomprensibile e deprecabile l’assenza degli studenti, che, invece di studiare e preservare la loro mente, la loro anima e il loro corpo dai mali del mondo, si occupavano di problemi che non spettava loro risolvere” e di conseguenza era molto generosa nei voti con i presenti. Un bel nove in pagella faceva sempre comodo!. A luglio 1976 superai gli esami di maturità con un buon voto e decisi di iscrivermi alla Facoltà di Medicina. Il metodo di studio del liceo mi è stato di grande aiuto e lo utilizzo ancora oggi quando preparo le lezioni per gli studenti o le conferenze scientifiche. Ricordo con piacere gli anni del Liceo “Empedocle” e sono contento che anche le mie tre figlie abbiano scelto di frequentare un liceo classico. Pur avendo intrapreso studi universitari diversi , possiedono un bagaglio culturale comune che sarà loro utile per affrontare un futuro sicuramente difficile.
* Associato di Gastroenterologia
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I quattro elementi
Onofrio Dispenza*
Onestà che mi costò. Un anno (prima che incontrassi il buon Di Vincenzo) fui rimandato a settembre, solo di matematica. E a settembre fui bocciato. L’estate naturalmente non studiai, e a settembre, appunto, fui bocciato. Dalla professoressa Fina Bosco. Le sono debitore. Si, perché fu una fortuna. Cambiai corso e approdai in una sezione, la sezione A, che mi regalò le gioie e le amicizie più preziose. Una sorta di magico viaggio nel mondo della sfrenata amicizia. Lo spazio per il ricordo stringe, proverò a sintetizzare per accadimenti, sogni e nomi. Profumo di contestazione. Ragazzi da una parte, ragazze dall’altra. No! E le cose cambiarono. Il preside Vivacqua, detto “Balatone”, un signore illuminato e garbato. Le ragazze. L’amore. Le partite di calcio notturne a San Leone con due amici gay che ci fanno da ragazze pon pon ai margini del campetto. Il sogno. La brioche da favola della mamma di Nando, quando ci preparavamo agli esami. La maturità, la prima riformata. Maurizio Papia - il più bravo e intelligente - che ci passa la versione. L’orribile giacca per gli orali. Il voto, 54/60esimi, il più alto del liceo in quel primo anno. E per quel dannato debito (oggi si chiamerebbe così) di matematica alle spalle, non ebbi 60, e trascinai nel mio 54 anche Papia, che lo avrebbe meritato il 60. Non me lo ha mai fatto pesare. Se ne fotteva. E’ il mio migliore amico. Ed è un genio in ingegneria. E io, un sognatore che non sa di matematica. Forse di poesia. Forse solo sognatore.
La “meglio” vita
Il ricordo del tuo liceo in venti righe. Come dire, la parte più bella della tua vita in un soffio. Complicato. Ci provo. Come cominciare? Comincio con un tributo, un tributo doveroso. Un debito che voglio pagare ora al mio vecchio professore di matematica, il professore Di Vincenzo. Un debito che onoro dopo anni, con affetto e con rossore. Un pagamento dovuto alla sua dolce signorilità, segnata da quelle sigarette Serraglio piatte, sfilate dalla custodia di cartone e portate alle labbra. Anche adesso - penso - ne sfilerà una dalla custodia, e la fumerà, perdonandomi. Sono sicuro. Non odiavo la matematica, ero a lei indifferente. Non sono orgoglioso di questa mia indifferenza, ne sono pentito. Sarei stato migliore se l’avessi studiata. Ma, é andata così. Lo ammetto, ai miei figli non ho detto di quanto fossi somaro in matematica. Ma ho capito che qualcosa sanno, c’è stata una spia, o lo hanno letto nei miei occhi. Quando provo a dire loro dell’importanza della matematica mi guardano con uno sguardo… Come se mi dicessero “Attento papà, non fare il furbo... abbiamo visto… nella tua tasca abbiamo trovato il perizoma di una top model”. Ok, toccato! Resta l’importanza della matematica. Lo devo al professor Di Vincenzo, che non ebbe mai la fortuna ( ?! ) di interrogarmi. Si, perché la materia mi era così estranea che, alla fine, onestamente, decisi di non comprare neanche i libri di matematica. Più onesto, mi dissi. E non risposi mai agli inviti, alle interrogazioni.
* Giornalista Rai
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â&#x20AC;ŚMa, o dei, stornate dalla mia lingua follia di argomenti, e da sante labbra fate sgorgare una limpida sorgente. E a te, musa agognata, o vergine dalle candide braccia, io mi rivolgo: ciò che spetta agli effimeri di ascoltare, tu porta, guidando avanti il carro ben governato dellâ&#x20AC;&#x2122;amore devoto.(fr. 1G. vv.13-17)
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Lorenzo Fanara*
e culture diverse, ho negoziato trattati e incontrato importanti esponenti della società civile, imparando nuove lingue e conoscendo nuove realtà internazionali. Eppure, ovunque mi trovi e con chiunque negozi, la mia identità resta intimamente connessa con il magistero morale e ideale ricevuto in quei splendidi cinque anni di Liceo Classico “Empedocle”. Questa è per me l’eredità più alta.
L’eredità più alta
Quando in un’assolata mattina di settembre arrivai al ginnasio fui preso dall’angoscia di dover passare le mie giornate nelle tetre aule di un modesto palazzo di via Gioeni. Questa sensazione fu con il tempo superata grazie all’entusiasmo per i nuovi studi. A distanza di un quarto di secolo, ricordo ora con gioia gli anni liceali, i vari professori (in particolare lo schivo ma autorevole professore Picone), gli interessi condivisi con i compagni di classe e le ore passate a tradurre versioni di latino e greco. Ma c’è di più. Quando rifletto su quel periodo, avverto la consapevolezza di avere ereditato dal Liceo Classico “Empedocle” e dalla sua classe docente un legato ancora più importante: l’ideale di libertà, il valore universale delle ragioni del dialogo e della centralità della persona umana. Un lascito tanto più importante alla luce del fatto che i miei anni liceali coincisero con un periodo in cui il muro di Berlino non era ancora caduto, il mondo era diviso in blocchi e il nostro Paese risentiva della spaccatura ideologica. Dieci anni dopo la maturità classica sono entrato in carriera diplomatica. Ho lavorato al Ministero degli Esteri a Roma, a Bruxelles alla Rappresentanza presso l’Unione Europea, in ambasciata a Mosca e da un anno sono di nuovo al Ministero a Roma. Tredici anni di incarichi, spostamenti e nuovi ambientamenti hanno arricchito il mio bagaglio di esperienze professionali e umane. Mi sono confrontato con colleghi stranieri
* Diplomatico, presso il Ministero degli Esteri.
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Senti prima i quattro nomi che sono le radici di tutto: lo smagliante Zeus ed Hera altrice, ed Aidoneo e Nestide, che inonda di lacrime la vasca umana. Con la terra, infatti, noi vediamo la terra, e con l ‘acqua l‘acqua, e con l’etere l’etere celeste, e con il fuoco il fuoco tremendo; e l’amore vediamo con l’amore e così l’astio con l’astio luttuoso…(fr. 1G. vv.53-58)
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Alessandro Finazzi Agrò*
scere ed amare, tra gli altri, uno scrittore, Antoine de Saint-Exupéry, scomparso in mare con il suo aereo, che solo molti anni dopo sarebbe diventato popolare anche in Italia, grazie al successo del suo Piccolo Principe, facendoci leggere in francese il meno noto ma anche più emozionante Vol de Nuit.
Sputaci, Empedocle!
Ho frequentato la quarta e quinta ginnasiale al Liceo-Ginnasio “Empedocle” negli anni 1954 e 1955 quando si trovava al centro di via Atenea. Allora ben poche macchine vi passavano, ma ancora qualche carretto, annunciato dallo stridio delle ruote e dagli zoccoli ferrati del paziente mulo che lo trainava. Nella bella stagione, le lezioni terminavano ad estate inoltrata e dalle finestre aperte per il caldo si sentivano chiaramente le voci dei passanti e le grida degli “abbanniatori”. Noi studenti scommettevamo su chi era in grado di indovinare a chi appartenessero quelle voci e quelle grida ma, soprattutto, cercavamo di concludere l’anno scolastico evitando la classica “gogna” alla quale gli studenti più ignoranti o più indisciplinati erano sottoposti dal preside Barberino: sostare in piedi sotto il busto del grande Eponimo e sentirsi dire “Sputaci, Empedocle!” Se non ho mai subito questa “onta” il merito va ai miei docenti di allora, così come gran parte di quanto sono riuscito a fare nella vita è dovuto ai loro insegnamenti. Tra di essi indimenticabili sono due professoresse assai diverse tra loro ma entrambe davvero speciali: la giovane professoressa di lettere, Francesca “Ciccina” Gueli, che alla grande cultura associava un aspetto molto gradevole con i suoi begli occhi azzurri e i capelli neri, capace di fare appassionare ai Promessi Sposi anche i meno ricettivi tra noi e l’ anziana professoressa di francese Sciascia che ci fece cono-
* Ordinario di Biochimica e di Biologia molecolare.
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…Sono soltanto questi gli elementi che esistono, e correndo gli uni attraverso gli altri diventano corpi di ogni genere; questo appunto, che esiste, la mescolanza tramuta… Durante l’odio tutto è distorto e contrastante, ma poi durante l’amore si sono accostati, e gli uni con gli altri si bramano gli elementi da cui risultano tutte le cose che furono e che sono e che saranno in avvenire… (Emp., fr. 21G vv.13-14; vv.9-12)
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Francesco Geraci*
Concluso il ginnasio, entravo in primo liceo. Ad accoglierci, all’ingresso dell’Istituto, stazionava a gambe divaricate, come a cercare un più stabile equilibrio, il signor preside: una persona abbastanza autorevole che vantava di essere uno squadrista che aveva partecipato, a suo dire, alla marcia su Roma. Era titolare di lettere un vecchio avvocato, forse anche laureato in lettere che, con una sua personale grammatica, aveva trasmesso l’amore per il latino a parecchie generazioni, compresa quella del preside. Un bel giorno questi venne a fare la sua solita ispezione istituzionale, mentre traduceva dal De bello gallico uno dei ragazzi più preparati che, ad un’osservazione del professore, che lo invitava a tradurre meglio, rispose “così c’è scritto nella nota”. Già, rispose il vecchio insegnante, oggi chiunque si permette di commentare, vediamo, quindi, chi è la bestia che ha messo questa nota. E mentre inforcava gli occhiali per leggere si sentì una voce, quella del preside con il volto sbiancato e la fronte imperlata di sudore, dire “Io sono quello che ha messo la nota”. E il professore per nulla scomposto: “Ah, tu si, Antò ca scrivisti sti noti, o tempora…” ma quando terminò la frase con “o mores”, il preside, parecchio rabbuiato, era già andato via. Venne l’otto settembre, poi l’ottobre del ’43 e con esso il divieto di pubbliche manifestazioni imposto, per ragioni di sicurezza, dalle forze di occupazione. Si avvicinava intanto il momento più temuto: la maturità.
Quando si dice la vita
Superata la quinta elementare, la mia famiglia decise di lasciarmi andare da solo in città, dove esistevano le scuole elementari. Allora, sto parlando della seconda metà degli anni trenta del ventesimo secolo, per recarsi in città da Aragona non esistevano autobus, né regolari né occasionali, non c’erano proprio; meno che mai esistevano automezzi privati; funzionava soltanto il treno. In queste condizioni non era facile, per un genitore, decidere di far continuare gli studi al proprio figlio. Fu così, che superato l’esame d’ammissione al ginnasio (di quei tempi la scuola era inesorabilmente selettiva per cultura e censo) mi ritrovai alunno del GinnasioLiceo “Empedocle”, uno dei pochi esistenti in provincia, allora. Vivevo in collegio e tutti i santi giorni percorrevo un paio di chilometri a piedi, spesso sotto la pioggia e con il solito sferzante e noioso vento che in ogni stagione tirava ed ancora tira da ogni lato in questo borgo che sul mare si affaccia. Iniziava così il nuovo anno scolastico che per me assumeva il significato di una svolta importante. Abbandonavo finalmente i calzoni corti ed indossavo, per la prima volta, la divisa di sempre: pantaloni lunghi, per i quali si esigeva il rispetto della piega, giacca preferibilmente a doppio petto con cravatta intonata con nodo scappino, e, a suggello della trionfante mascolinità, il cappello borsalino e le scarpe di camoscio, tutto comprato da Miccichè in via Atenea.
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Per tutto il periodo bellico nelle scuole italiane non si sosteneva più il mitico e, secondo leggenda, mostruoso esame di maturità. E poiché la guerra, anche se in Sicilia era finita, continuava nel resto del Paese eravamo certi di lasciare il liceo con i soliti scrutini di fine anno. Ma fu un’ illusione infranta da una nota ministeriale che fissava per i primi di luglio del ’44 l’inizio degli esami, da affrontare portando il programma del triennio relativo a tutte le materie, religione compresa. Non potevamo accettare questo provvedimento. Si decise di protestare. Per spettacolarizzare al massimo la rivolta, assieme a pochi volenterosi, con cautela e riservatezza, organizzammo un pubblico funerale alla defunta licenza liceale. Costruimmo uno scheletro di legno, rivestito di tela marrone. Visto da una certa distanza non aveva nulla da invidiare ad un’autentica cassa da morto di lucido ebano. Il corteo si mosse dalla porta del casino di mezzo, quello chiamato “ La spagnola”, e sbucò in mezzo al corso principale preceduto da giovani che portavano su cuscini di velluto i vocabolari di greco e di latino. Dietro la cassa, il corteo ordinatissimo della parte dolente che, malgrado il caldo, indossava cappotti e pastrani a bavero alzato in segno di profondo dolore. Fu un autentico, inaspettato successo. Ma quando cominciai a leggere l’elogio funebre alla licenza liceale, steso in una nottata insonne, il Commendatore O., questore della città, diede l’ordine alla polizia di disperdere il corteo. In quella storica circostanza la carica ebbe successo, anche perché per la prima volta 120
contro gli studenti si misero in azione gli idranti, in una città permanentemente e storicamente senza acqua. La manifestazione non ci salvò dagli esami che iniziarono a luglio con il tema d’italiano. L’esame minacciato come la prova estrema della vita, non fu più brutto di quanto la paura lo dipingesse. Quando gli esami ebbero termine, in attesa che cadessero le prime piogge e anche le prime illusioni e i primi disincanti, ormaimaturo, come recitava il diploma di licenza, lasciavo la terra ferma del vivere ancora in famiglia per affrontare il mare aperto e misterioso di quello che si dice la vita.
* Già Presidente dell’ordine dei medici di Agrigento.
Michele Guardì*
un giovane democristiano…Non riuscivo a capire….Che tempi! Venne sostituito dalla professoressa La Rosa che aveva un modo nuovo di insegnare. Mi piacque. Si faceva intervistare da noi sugli argomenti della lezione. Quando cominciai a preparare i primi incontri con gli ospiti dei miei programmi, da Unomattina ai Fatti Vostri, mi tornavano alla mente quelle prime interviste. Mi sono state utili perché la professoressa ci diceva di essere curiosi, non giornalisti. Mimmo Gareffa, professore di ginnastica, aveva pietà della mia totale incapacità a saltare. Mi diceva “marcia…marcia…quello ti viene bene”. Ma io sapevo che nel suo cuore uno che non sapeva saltare era un salame. E la bellissima professoressa Arioti La Lumia. Se oggi so di storia dell’arte, se so parlare di un Tintoretto o di un Pollaiolo, lo devo alla voglia che avevo di figurare bene con lei. Quando per la prima volta, al teatro delle Vittorie, incontrai Helen Kessler ebbi un tuffo al cuore. Era la copia della professoressa Arioti. O almeno così era per me. E il preside…Cecè Sambito. Che personaggio! Austero, deciso, con i pantaloni che gli cedevano sotto una cintura sempre più larga del necessario e che, in qualche maniera, gli conferivano una umanità che altrimenti facevamo fatica a riconoscergli. Ma l’aveva. La nascondeva anche sotto un austero paio di baffi per vigilare su una quantità di umanità, alunni
1961 Terza B
Arrivavo al Liceo “Empedocle” sempre di corsa, trafelato, dalla pensione La Felice che si trovava lì vicino, in via Porcelli, vicolo Salemi, a monte della via Atenea. Arrivavo di corsa perché ero un ritardatario organizzato. La campanella aveva sempre finito di suonare qualche minuto prima e il signor Minuta, il capo dei bidelli, mi guardava torvo…ma poi mi lasciava entrare dal mezzo portone ancora aperto. In classe, alla “terza B”, da Attard Pietro a Zarcone Benito, più o meno eravamo quasi tutti presenti, quasi tutti i giorni. Ogni tanto mancava Mattaliano che veniva da Cammarata e lì, allora, c’era qualche mattina di neve alta. Martorana Antonio entrava tra i primi con qualcosa da mangiare che qualcuno gli sfilava prima della ricreazione e lui, genericamente, ci chiamava scellerati e comunque ci puniva non passandoci le versioni di greco e di latino che faceva con una facilità incredibile. Era il più bravo. Se devo fare dei fermo fotogrammi, rivedo il professore Giovanni Vinci di latino e greco, a suo modo paterno, ma proprio a suo modo, la professoressa di matematica Fina Bosco alla quale in una memorabile gita a Caltanissetta chiesi un ballo che mi accordò. Il professore Eduardo Pancamo di storia e filosofia, personaggio ammiratissimo che lasciò la cattedra quando venne eletto deputato alla Regione Siciliana. Io soffrii moltissimo perché fu eletto nella lista del PCI ed io, che lo amavo tanto, ero
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ed insegnanti compresi, che altrimenti gli sarebbe sfuggita di mano. Qualche volta, d’estate, cedo alla nostalgia e passo sotto il liceo... Punto lo sguardo sotto quella finestra del secondo piano… Giuro che risento i nomi…gli appelli: Burgio…Frangipane…La Mendola…Grisafi… Nicosia… . Già, Nicosia…il mio compagno di banco… Caro Elio!!!
* Regista teatrale e televisivo
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Alfonso Maurizio Iacono*
non scelte. E’ in quell’epoca che si formano le grandi amicizie spesso destinate a mantenersi tutta la vita. O almeno questo è il mio caso. Con alcuni dei miei ex compagni di classe e anche di scuola mi sento e mi vedo spessissimo e soprattutto condivido con loro gli eventi, buoni e cattivi, felici e tristi. Lo confesso qui: questo resta per me, che vivo da molti anni in Toscana, dove ho per mia fortuna grandi affetti e grandi amicizie, una delle risorse più importanti della mia vita. Non è soltanto nostalgia degli anni giovanili, è presenza reale, che ha sì le sue radici nel passato, ma nel senso della sincerità e solidità di relazioni di amicizia durata nel tempo e in mezzo a molte vicende. E poi, come ci si conosce al liceo, non ci si conosce da nessun’altra parte. Dei miei docenti voglio ricordarne due. Il primo è il professor Stefano Macaluso di Latino e Greco, che sapeva anche di Filosofia. Piccoletto, grande fumatore, timido e deciso, credeva in ciò che faceva e lo faceva bene. Un giorno, a proposito del lavoro che ciascuno di noi avrebbe dovuto intraprendere, ci suggerì di riflettere sulla scelta di un’attività svolta con avversione o indifferenza e esclusivamente finalizzata al guadagno. Era preferibile non vivere per otto, dieci ore al giorno per poi vivere nelle ore del tempo libero? Potendo scegliere, era questa la scelta che dovevamo perseguire? Ho portato con me questo insegnamento tutta la vita. Il secondo è il professor Ubaldo Mirabelli, di Storia dell’Arte. Rivo-
Il mio liceo
Due anni fa ci siamo rivisti tutti, quasi tutti. Sto parlando degli alunni della III D. Grazie alla tenacia del nostro compagno di classe Peppe Pace (al secolo dott. Giuseppe Pace) nella non facile impresa di rintracciare gli ex compagni di scuola sparsi un po’ dovunque, con qualche apprensione iniziale, molta emozione e un po’ di ironia, ci siamo incontrati. Ho visto nei loro volti il tempo trascorso in me e nei loro occhi molto di ciò che eravamo e siamo ancora. Negli anni ’60 le alunne portavano ancora il grembiule nero (fino alla quinta ginnasio anche i calzini bianchi) e arrivavano a scuola alla chetichella prima delle 8,25. Gli alunni che, secondo regolamento, avrebbero dovuto indossare una giacca, aspettavano fuori il suono della campanella per potere entrare, guardando passare le ragazze e soffrendo della distanza e del desiderio. Le classi, tranne la sezione E, erano ripartite per sesso: maschili le sezioni A, B, D e femminile la C. Tutto questo stava cominciando a sgretolarsi, mentre si faceva luce una nuova consapevolezza critica nei modi di essere, nei costumi, nelle relazioni. Il ’68 si avvicinava e già in quegli anni cominciava a emergere il bisogno di una maggiore libertà individuale e collettiva. E’ incredibile come non ci si renda conto dell’importanza e dell’influenza che gli anni del liceo hanno sulla vita futura di tutti gli alunni. E’ in quel periodo che si accendono le lampadine delle nostre scelte o
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luzionò quello che era per noi il tradizionale modo di apprendere. Ci fece fare seminari alla presenza del pubblico, ma soprattutto ci insegnò veramente a comprendere e ad amare l’arte in un modo che mi è rimasto dentro. Il preside di allora era il professor Giovanni Vivacqua, un filosofo. Lo era nei modi, nei toni, nell’ironia, nella riservatezza. Autorevole ma mai autoritario. Infine, desidero ricordare un mitico viaggio organizzato dal Liceo, quello in Grecia. Giorni straordinari passati insieme al mitico professor Edoardo Pancamo. Non era l’epoca dei voli low cost. Andammo in nave, dove dormivamo, e fu la scoperta del mondo, lo stare fuori e lo stare insieme. Quasi un rito di iniziazione, inconsapevole e gioioso. Facemmo l’esame di maturità nell’estate del 1967. Quattro scritti, nove materie con i riferimenti degli anni precedenti. Fu dura. Poi un giorno, esattamente il 16 ottobre 1967, facemmo a San Leone l’ultima partita di calcio fra noi e l’ultimo bagno a mare. Dopo, ognuno di noi partì per andare a cercare la propria strada. L’abbiamo trovata ? O la stiamo ancora cercando? Forse, come accade quasi sempre, tutte e due le cose. Di sicuro partimmo da lì, da quel Liceo “Empedocle” che compie brillantemente centocinquanta anni. Auguri mio vecchio Liceo!
* Ordinario di Storia della Filosofia.
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Empedocle (?), Scuola di Atene, particolare - Raffaello
Enzo Lauretta*
mona, Calamita, Volpe, Biondi, Zarcone e tanti altri. Ci accordammo sui nuovi metodi: chiedere di essere interrogati (per poi ripetere da quel punto), voti palesi e commentati, un giornale di classe Piccolo Club, quaderni stampati apposta per gli appunti di Storia della letteratura, antologia e Divina Commedia. Insegnai loro ad amare la scuola e la Divina Commedia e continuai ad essere, in giacca e cravatta, puntuale, mai assente anche quando fui sindaco di Agrigento. Perché amavo quel liceo, amavo quella cattedra, quel registro, quegli alunni.
Beata fanciullezza!
Quando ci penso, ho dentro di me un sussulto: è là che, in pratica, si è consumata la mia beata fanciullezza, in quell’edificio gremito di aule, corridoi, banchi, compagni di scuola e professori che a me sembravano eccessivamente rigidi. Eravamo arrivati da Lentini e fui messo a frequentare la terza classe del Regio Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento. Quell’ aria di città, quella folla di compagni che scherzavano su tutto, l’ambiente severo, la Cavallina storna da imparare a memoria, le strade da percorrere per giungere da largo Seminario fino a scuola, l’uscita tumultuosa dal liceo, era tutto come una sborniatura per me. Allora c’era la licenza ginnasiale e fui bocciato in matematica, naturalmente. Persi un anno, ma poi lo recuperai saltando dal primo al terzo liceo, in una classe con dei compagni di cui conservo i nomi e la memoria: Rubino, Giglia, Camilleri, Di Leo, Giudice, Corso, Fiorino, Di Bella ed altri, tutti licenziati senza esami perché gli americani erano sul punto di sbarcare in Sicilia. E vi ritornai, in quel liceo, che intanto era stato bombardato e ricostruito, ma non era più quello di una volta: vi mancava l’atmosfera di quelle classi polverose, di quel Gabinetto di Scienze e Fisica, della palestra sotto la chiesa dell’Immacolata. Vi ritornai da professore di italiano e latino prima al Corso B e poi al Corso A, con tanti alunni da ricordare Gaziano, Guardì, Catania, Moscato, Cardinale, D’Agostino, Vullo, Vizzini, Prado, Bonaccolta, Castaldo, Cre-
* Presidente del Centro Nazionale di Studi Pirandelliani.
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... Pertanto, non prevalga nellâ&#x20AC;&#x2122;animo tuo lâ&#x20AC;&#x2122;inganno che da altra origine.... ....Sia la fonte dei corpi mortali, che ora sono manifesti e si producono allâ&#x20AC;&#x2122;infinito.... ....Ma sappi limpidamente tutto questo, avendo udito il mio racconto intorno alla dea....(Emp., fr. 21G. , vv.2325)
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Angela Lauricella*
di ingegneria, quando io, timida e disorientata in mezzo ad un universo maschile e soprattutto timorosa di non avere la stessa preparazione di base dei colleghi che venivano dallo scientifico, cominciai a seguire le sue lezioni : “So che in questa aula c’è una sparuta minoranza che viene dal classico, che mi segue con l’animo e con il cuore. Loro sanno qual è il modo giusto di studiare e di amare lo studio”. Aveva ragione. Dopo i primi giorni di sbigottimento, fu facile colmare le lacune senza alcun problema. Conseguita la laurea in Ingegneria Chimica, cominciai a lavorare presso la Raffineria della Esso di Augusta (SR) . Non era semplice inserirsi in una realtà lavorativa fino ad allora poco usa a vedere donne negli impianti e, con gli anni, a vedere una donna in posizioni di crescente responsabilità. Ebbene, non poche volte, mi sono trovata a ringraziare mio padre per avermi consigliato di fare il liceo classico. La formazione acquisita al Liceo “Empedocle” mi ha sempre consentito di avvertire il valore profondo ed universale che stava dietro i semplici fenomeni e di trovare sempre lo spirito adatto, le parole opportune: appunto quel pathos necessario per mettere entusiasmo ed amore in quello che facevo, dando il giusto peso ai valori umani anche nei rapporti con i colleghi ed i collaboratori. Questa è stata probabilmente l’arma vincente per il mio successo professionale e non solo. Ho sempre tenuto tra i libri più cari la let-
La mia vita tra μύθος e τέχνη
Ho cominciato a respirare il Liceo “Empedocle” e gli studi classici sin dalla nascita: mio padre, Antonio, insegnava latino e greco al Liceo “Empedocle” quando sono nata. Sono andati ad avvertirlo a scuola il giorno in cui sono arrivata...e le prime fiabe che il mio papà mi raccontava erano quelle dei miti greci...ed i primi insegnamenti mi sono stati dati con i versi di Orazio ...est modus in rebus... Poi, con il passare degli anni, mia sorella e mio fratello, più grandi di me, cominciarono a frequentare quel liceo che per me era già mitico ed io, piccolissima, li ascoltavo leggere metricamente e ne gustavo il ritmo. Crescendo, tuttavia, cominciai a mostrare una particolare passione per le materie scientifiche ed avrei voluto fare il liceo scientifico.....decisi però di seguire il consiglio di mio padre e la tradizione familiare. Avevo infatti sempre sentito in famiglia che ... “Il liceo classico é sicuramente la formazione più completa!” La mitica professoressa Messana mi aiutò a confermare la mia passione per la matematica e la fisica, passione che mi avrebbe spinto a scegliere di studiare Ingegneria, ma sentivo già che la cultura greca e latina, che padre De Gregorio mi ha fatto amare, avrebbero condito di un diverso pathos tutto quello che avrei studiato e fatto in futuro. Ricordo ancora le parole della professoressa di analisi matematica, al primo anno
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teratura greca e le Confessioni di Sant’Agostino in latino e ricordo ancora a memoria, con orgoglio, l’inizio dell’Iliade in greco! In fondo Empedocle era sì un filosofo, ma era anche uno scienziato e la distinzione tra cultura letteraria e scientifica è nata molti secoli dopo... allora la cultura era solo cultura. E’ stato forse proprio questo connubio tra il substrato di cultura classica e l’approccio tecnico a fornirmi il piglio giusto per affrontare e superare le difficoltà derivanti dal fatto di trovarmi, specie nei primi tempi, unica donna a lottare in un agone, fino a quel momento, esclusivamente maschile. Negli anni ho ricoperto diverse posizioni di responsabilità, all’interno della stessa Esso Italiana e della Exxon Mobil, in Italia ed all’estero, e più volte, in diverse occasioni, sono tornata con il pensiero e con il cuore a ringraziare questa capacità di unire due diverse anime della cultura che il mio liceo, sulla scia di Empedocle, mi aveva insegnato a coniugare.
* Global Training Manager Exxon Mobil.
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Nicolò Lombardo*
anni, ricordano le statistiche, sono stati tra i più freddi del secolo, nel ’56 si è verificata in Città una grandissima nevicata, con mezzo metro di neve per le strade, passata alla storia della meteoreologia. Ricordo ancora le imposizioni dell’Ente del Turismo. Obbligarono Piro, il più noto fotografo della Città, corrispondente del Giornale di Sicilia, che teneva nella sua bacheca di via Atenea una sorta di seguitissimo foto-giornale cittadino, a rimuovere le immagini dei Templi ricoperti di bianco e degli scogli che costeggiavano il mare di San Leone con i cocuzzoli di neve: compromettevano l’idea della precoce primavera agrigentina! E dire che aveva avuto la ventura di scattare delle foto storiche. Il guaio era che, secondo la moda del tempo, fino alla quinta ginnasiale dovevamo vestire i pantaloncini corti ma proprio corti e non all’inglese, se no eri un cafone, e solo con l’ingresso al liceo potevamo indossare i pantaloni lunghi, una sorta di rito di passaggio, quasi sempre ricavati da un abito dismesso di papà per opera della sartoria Noto di via Atenea. Ma il ricordo più bello resta quello dei miei docenti del ginnasio e del liceo: Bonadonna, innamorato dei Promessi Sposi e soprattutto di Don Abbondio ma che non ci risparmiava, tuttavia, dieci frasi dal latino e dieci dall’italiano al giorno tratte dal Bione e Vadalà, Palumbo Editore, una sorta di Bibbia del latino; Di Mauro, la matematica in persona; Sciascia il francese meglio dei francesi.
Il ricordo più bello
Ho iniziato a frequentare il ginnasio nell’anno scolastico ‘52/’53 nei locali di via Atenea delle Paoline, frequenza che si è protratta fino all’inizio della prima liceale essendo avvenuto, poi, in corso d’anno il trasferimento nei nuovi attuali locali di via Empedocle. Erano gli anni del dopoguerra e i segni dei bombardamenti erano ancora presenti in Città come ferite profonde che non rimarginavano. Anche la mia scuola media, la Pirandello, non ha conosciuto vere aule scolastiche. In seguito alle distruzioni della guerra aveva perso i propri locali ed era stata alloggiata nella ex caserma del 76° reggimento (ora villa del Sole), anch’essa semidiroccata con i segni delle fiamme che la avevano in parte divorata. Quando di lì a qualche anno il gioco della vita mi avrebbe portato a ricoprire un posto di responsabilità all’interno dell’Amministrazione Scolastica agrigentina, fino a quello di Provveditore, avendo sperimentato il peso della burocrazia, apprezzai il miracolo fatto, dopo la guerra, della ricostruzione in pochissimi anni degli edifici scolastici del liceo, del magistrale con la media Pirandello. Miracolo che non si sarebbe più verificato! Il mio ricordo di quegli anni è legato ad un freddo cane che rendeva la permanenza nelle aule una vera e propria tortura che solo la gioventù ci faceva accettare allegramente perché di riscaldamento, con quei chiari di luna, neanche a parlarne. Quegli
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Al liceo Sambito, poi incaricato della Presidenza, Di Vincenzo padre (ti metto due e ti regalo un punto!), per distinguerlo dal figlio che aveva anche lui intrapreso la carriera di docente, e poi Vullo, Marrone, Re Capriata, Augello, Scifo, ma anche Vivacqua, in seguito prestigioso preside dello stesso liceo. Tutti sicuramente mi hanno dato tanto ed hanno tanto inciso nella formazione mia e dei miei amici e compagni di liceo: se da quei banchi sono usciti ingegneri, dirigente di grande industria, direttore del Registro Aeronautico Nazionale, giurista assurto a consigliere economico e giuridico del Presidente della Repubblica o uno stimatissimo docente universitario, non sarà certamente un caso. Sarà stata la voglia di ripartire, dopo il disastro della guerra, che animava tutta la società di quel tempo, sarà stata la qualità dei docenti e la severità degli studi, pur in presenza di un’ economia post-bellica, di una scuola priva ancora di adeguate attrezzature e di laboratori, certo è che quegli anni sono stati assai fecondi. Infatti quella scuola ha saputo preparare quella classe dirigente che avrebbe consentito all’Italia, di lì a poco, di conoscere un boom economico che non si è più ripetuto.
* Già Provveditore agli Studi di Agrigento.
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Tanino Minuta*
magnanimità e la sua paterna affettuosa, talvolta severa, attenzione. Sapeva vedere e consigliare. Il vissuto di molti anni mi ha mostrato che la formazione è il risultato di molte componenti: non consiste in nozioni più o meno veicolate, ma nel misterioso passaggio dell’antica saggezza, dell’assorbimento di modelli culturali tratti dal comportamento dei genitori, degli insegnanti. In una parola potrei dire che il liceo ha plasmato in me la concezione del valore della persona e mi ha dato le coordinate per come relazionarmi con ogni uomo che incontro nel percorso della vita. È per questo che il liceo è stato una vera scuola di valori costitutivi della qualità della vita e mi ha reso capace di trasmetterli ad altri . Vorrei esprimere ad ogni studente l’augurio che gli anni del liceo, essendo gli anni decisivi di una vita, siano per ciascuno fecondi e felici. Grazie, Empedocle!
Grazie, Liceo Empedocle!
Mi sono reso conto del valore della formazione datami dal Liceo “Empedocle” quando mi son trovato a insegnare Storia della lingua italiana e Grammatica descrittiva all’Università Janus Pannonius di Pécs, in Ungheria. Più che la laurea in lingue e letterature straniere, mi è stato di reale supporto ciò che avevo imparato al liceo. Ho ripreso in mano i vecchi manuali, le antiche grammatiche, i testi di metrica e stilistica. Nei corsi monografici su Dante e Petrarca ho usato gli stessi libri sui quali avevo studiato e ridevo, insieme ai miei alunni, dei miei ingenui o azzeccati appunti sulle pagine. Riaprendo i fogli ingialliti tornava viva non solo la voce dei professori, ma si animavano i volti dei compagni di scuola, i sogni, le speranze di un’età che ha determinato il mio futuro di pubblicista e scrittore. Ma, rispetto ai miei compagni, avevo una soggezione in più: mio padre Umberto lavorava nello stesso liceo. Aveva lasciato la Marina e, nel primo dopoguerra, cominciando dalla gavetta, era arrivato per le sue capacità alla segreteria del liceo. Si era guadagnato la stima della preside, la signora Damante che, quando da via Atenea il liceo si è trasferito in via Empedocle, gli ha offerto come abitazione la casa riservata al custode. E così il liceo è divenuto, in qualche modo, la nostra casa. Molti degli studenti che hanno conosciuto mio padre ricordano la sua serietà, la sua
* Associato di Letteratura italiana.
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... Di nessuna delle cose mortali c’è “fusis” né fine di distruttiva morte ... ... ma solo mescolanza e saparazione di cose mescolate che nascita vengon chiamate presso gli uomini… (Emp., fr. 8) ... e alla fine vati e cantori di inni e medici e principi sugli umani della terra diventano, di dove rigermogliano dei, primi negli onori... (Emp., fr.146)
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Pippo Russo*
decurtata di dieci minuti, per consentire ai ragazzi di arrivare in tempo esatto. E si faceva sempre, col sole o con la pioggia. Che a ripensarci adesso noto quanto siano cambiati i costumi e l’attenzione alle norme sulla sicurezza. Toccava agli insegnanti e ai dirigenti scolastici assumersi la responsabilità per tutto quanto potesse accadere ai ragazzi durante quel tragitto, seppur breve. Ed è miracoloso che mai un incidente sia accaduto, con centinaia di ragazzi che facevano avanti e indietro ogni giorno per sei giorni alla settimana, da settembre a giugno. Oggi tutto questo sarebbe impensabile. Allora era una cosa normale, vissuta a cuor leggero. E poi c’era di bello che si andava a fare un po’ di sport, tempo permettendo. Non c’erano molte alternative, invero. Il cortile sterrato diviso in due offriva come alternative il basket e la pallavolo. Quanto al basket, le dimensioni del campo erano esagerate, sicché il tutto si trasformava in un’ibridazione col calcio. Inoltre, su un lato c’era la vasca di sabbia per l’atterraggio del salto in lungo. Oltre il bordo sul lato opposto c’era un affaccio di circa cinque metri che dava sul piano di sotto. Dunque, se per malaventura si fosse esibito lì un campione in erba nel salto in lungo, la prospettiva era catafottersi di sotto. Sicché la scelta per la pallavolo era quasi obbligata. Ci si prendeva a pallate, più che altro. Un volley primitivo, però ci si divertiva facendo attenzione a non mandare il pallone oltre la rete. Quella che sovrastava il muro
Quelle transumanze...
Ogni studente del Liceo Classico “Empedocle” ha un’epoca da raccontare, e questa è una delle più grandi ricchezze della sua vita. Purtroppo mentre la vive non lo sa. Gli pare che tutto quanto sia quotidianità, e nemmeno delle più esaltanti. Perciò se la lascia scivolare addosso senza nota. Soltanto più avanti ricorderà, sempre che nel frattempo abbia avuto cura di conservarne tracce. Capita a me, che nel corso degli anni ho appreso la funzione della memoria come scatola magica, di ripescare di tanto in tanto frammenti di quell’epoca. E stupirmi d’aver vissuto cose che parevano banali. Non lo erano. Di certo erano tutt’altro che banali i locali del ginnasio, ai miei tempi. Si trovavano nella parte alta di via Gioeni, negli scantinati d’un palazzo dalla bruttezza in linea con l’estetica media dell’edilizia agrigentina. Tre piani interrati, e aule buie che sapevano di muffa. Aprendo la finestra in primavera si poteva ammirare una collina dalla vegetazione brada, ornata di spazzatura varia e ingentilita dalla presenza di ratti a pascolare. Però ci si stava, dai! Poi la cosa davvero meravigliosa era l’ora d’educazione fisica. Inutile dire che negli scantinati dove si trovavano le classi del ginnasio non c’era uno spazio da adibire a palestra o qualcosa di simile. Perciò si rimediava in un modo semplicissimo: ci si spostava in massa presso la sede del liceo classico, in via Empedocle. L’ora che precedeva quella di educazione fisica veniva
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di cinta, mica quella che divideva le due metà campo. Una volta un mio compagno riuscì nell’impresa impossibile. Giocava nella metà campo che dava le spalle al muro esterno, e in ricezione provò un bagher che nelle intenzioni avrebbe dovuto spedire il pallone nell’altra metà campo. Invece la traiettoria prese la direzione opposta, alle sue spalle. Oltrepassò la rete di recinzione, rimbalzò per strada scavalcando la ringhiera, poi rimbalzò un’altra volta sul tratto di strada sottostante e planò sui binari della stazione. Un eroico compagno di classe dovette andare fin laggiù a recuperarlo. Superfluo dire che non si trattò dell’autore di cotanta prodezza. Le transumanze dal ginnasio al liceo duravano soltanto per i primi due anni di carriera all’ “Empedocle”. Esclusi i ripetenti, va da sé. Poi l’approdo alla prima liceo significava lasciarsi alle spalle quegli spostamenti da fare due volte alla settimana. E anche scansarsi una decina di minuti dell’ora precedente, che certi giorni era una manna. Per andare a fare educazione fisica bastava percorrere pochi metri di corridoio o poche rampe di scale e si era già lì. E che bello c’era? Certo, c’erano anche i giorni di pioggia, quelli in cui di andare all’aperto per le partite di pallavolo era cosa improponibile. In quei casi si addubbàva. Ricordo che una volta la professoressa d’educazione fisica ebbe un’idea geniale. Pur di non far perdere l’ora alle sue ragazze organizzò delle batterie di corsa veloce nel corridoio al primo piano del padiglione destro. Noi studenti chiusi dentro le classi di quel corri134
doio a far lezione la sensazione era quella di trovarsi in prossimità d’un rodeo. Soprattutto, c’era il problema delle porte delle classi che si aprivano verso l’esterno, con rischio terrificante per le ragazze lanciate in piena corsa verso il fondo del corridoio. Immaginate la scena: la studentessa lanciata verso il fondo del corridoio che d’improvviso si vede spalancare una porta in faccia. Collisione quasi inevitabile, roba da Beep Beep e Wyl Coyote. In effetti quella mattina un paio di volte si sfiorò lo spiaccicamento, e uno stavo per provocarlo io. E a quel punto la professoressa di educazione fisica ebbe la seconda idea geniale della mattinata: i ragazzi che uscivano dalle classi dovevano prima bussare per avvertire. Avete capito bene: bisognava bussare per uscire, mica per entrare. Sentendo quell’assurdità scoppiai a ridere in faccia all’insegnante. Che ovviamente prese cappello, e minacciò: “Smettila di ridere o ti faccio escludere fino alla fine dei tuoi giorni!”. Il senso dell’umorismo non si compra, e nemmeno lo si allena.
* Scrittore
Gaetano Savatteri*
discono quanto più i capelli ingrigiscono, così ci ritroviamo a sillabare stentatamente davanti a un’iscrizione sul portale di una chiesa o su una pietra sepolcrale. Ripassando nella memoria gli anni del liceo ci chiediamo spesso cosa ci resta. Ci restano amicizie inossidabili e lunghe come una vita intera, ci resta l’incontro fortuito e indimenticabile con alcuni insegnanti, ci resta il sapore di un tempo denso passato sui banchi del liceo “Empedocle”. Certo, ma cosa ci resta veramente? Se i professori Maria Concetta Vaccaro, Antonio Cimino, Felice Magro, Vincenzina Messana (solo per citarne alcuni) tornassero a interrogarci faremmo pessima figura. Dimenticate le desinenze della seconda declinazione – vir, viri, eccetera eccetera – dimenticato l’aoristo forte, dimenticate la maieutica socratica, la tabella degli elementi chimici, per non parlare della trigonometria. Ore e giorni passati a studiare cose presto sfuggite dalla mente, mentre la vita incalzava con le sue urgenze: a malapena ripetiamo l’inizio dei Sepolcri di Foscolo, una terzina di Dante, il primo principio della termodinamica, un falso sillogismo. Cosa ci resta, dunque? Al di là del privilegio di avere studiato nel liceo affacciato sul paesaggio più bello e più devastato del mondo, mi chiedo spesso cosa mi abbiano insegnato quegli anni. E anche se sono moltissime le cose che ho dimenticato, coperte di polvere come i libri finiti sullo scaffale più alto (il Petronio, il Villari, il
Una lezione di libertà
Se è vero – come dice qualcuno – che nascere in Sicilia è un lusso (ma qualcun altro, pessimista, aggiunge che è un lusso da esaurire alla nascita), allora può diventare addirittura un privilegio crescere e studiare ad Agrigento. Ancor più se la vita da studenti passa dalle aule di un liceo affacciato sul mare africano, aperto alla vista dei Templi, con vista sulla contrada del Caos. Dalla finestra della mia classe del corso C del liceo “Empedocle” perfino lo studente più svogliato con una sola occhiata riusciva a comprendere quasi tremila anni di storia: da Pindaro a Empedocle a Pirandello, attraversando guerre puniche e mondiali, incontrando romani, normanni, arabi, spagnoli, re e poveracci, conoscendo prepotenze ed eroismi, battaglie e sconfitte, rivolte e compromessi. Insomma, ogni finestra del liceo “Empedocle” si può dire che equivalga a un corso completo di letteratura greca, di letteratura italiana, di storia antica e contemporanea, di filosofia e, purtroppo, perfino di urbanistica moderna, con i suoi guasti e le sue incongruenze. Gli anni del liceo lasciano a ciascuno diversi e a volte contrapposti ricordi. In alcuni prevale la nostalgia, in altri l’insofferenza, c’è chi li rimpiange come gli anni migliori, ma c’è chi li detesta. Insomma, a ciascuno il suo. La presbiopia della memoria fa risaltare alcuni tratti, alcuni volti, mentre la distanza ne cancella molti altri, a volte annebbia perfino il ricordo di noi stessi tra quei corridoi e quelle aule. La memoria inganna: il latino e il greco impalli-
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Rocci, il Tortorici), al liceo “Empedocle” credo di avere imparato qualcosa di essenziale, qualcosa che non ha bisogno di regole grammaticali, ma che è la grammatica stessa della vita. In quegli anni, tra quelle aule e quei corridoi, nella luce di quelle finestre affacciate sul mare africano, ho imparato il valore della libertà. La libertà di poter spaziare nel pensiero. La libertà di non avere paura delle idee, né di quelle altrui né di quelle proprie. La libertà di scegliere e di decidere. La libertà di diventare adulti decidendo cosa e chi diventare. La libertà dei propri gesti. Non so se, assieme ai miei compagni di allora, siamo stati particolarmente fortunati nell’avere incontrato insegnanti capaci di far crescere il nostro desiderio di libertà. Non so se è stato un caso, ma voglio credere che invece fosse proprio lo scopo di quegli anni e di quegli studi e di quel liceo: insegnare la libertà. La libertà si misurava a partire dal fatto che i cancelli del liceo restavano sempre aperti. Credo che il preside Giovanni Vivacqua ne facesse un punto di orgoglio. Accadde una volta che il preside trovò un gruppo di noi fuori dal liceo, di ritorno dal bar, in un’ora in cui avremmo dovuto essere a lezione. Chiese spiegazioni. Rispondemmo con una certa faccia tosta che avevamo assoluto bisogno di un drink. Di un bicchiere di roba forte. Perplesso, si informò sulla lezione che avevamo disertato. Quando sentì il nome dell’insegnante, commentò: “Vi capisco”. Naturalmente, pagammo le conseguenze, non gravi, ma adeguate alla bisogna. Era anche questa una lezione di libertà. La libertà dei propri gesti, coscienti 136
che i gesti hanno sempre peso ed effetti. Ecco, questa lezione non l’ho mai dimenticata.
* Giornalista e scrittore.
Giovanni Taglialavoro*
comunista e dunque un fuorilegge in Grecia. Memorabili negli ultimi anni le supplenze del preside Giovanni Vivacqua: in pochi minuti ci spiegava con insuperabile chiarezza astruserie filosofiche indigeribili e ridimensionava, con affettuosa ironia, le nostre saccenterie storiche. Credevamo di essere la coscienza critica della città, i nostri docenti erano gli intellettuali di riferimento di Agrigento, eravamo convinti che dalle idee e dal sapere dipendesse il nostro futuro e quello della nostra comunità.
“Plautus natus est…”
Ho vissuto l’ultima stagione del Liceo serio. Le ragazze avevano un’entrata diversa dai ragazzi, le sezioni erano divise per sesso e il preside periodicamente riteneva un suo dovere controllare se i maschietti indossassero la giacca rimandando a casa chi non l’avesse. Sto parlando degli anni 1962-67. La bufera del ’68 incubava sotto traccia, ma ogni tanto faceva sentire qualche spiffero. Recitammo il Galilei di Brecht nei corridoi del primo piano e distribuimmo un volantino contro il colpo di stato dei colonnelli in Grecia. In secondo liceo, con la professoressa Di Mare, un mio compagno interrogato di latino chiese all’ incredula insegnante se poteva rispondere alle sue domande in latino e così al suo assenso cominciò: Plautus natus est…. Citò le opere direttamente in latino e in latino le commentò. La Di Mare alla fine disse che non poteva essere lei a decidere il voto. Clamorosa fu la gita in Grecia nella primavera del 1965. Era la prima fuori dai confini nazionali. Ci imbarcammo sulla Queen Frederica a Messina. Tra gli insegnanti c’erano Edoardo Pancamo, Fina Bosco e Paolo Di Caro. Assaporammo sulla nave la libertà e il piacere di stare con le nostre compagne. Una guida greca ci condusse tra le rovine classiche urlando le poche informazioni in suo possesso e abbassando la voce ogni volta che noi chiedevamo notizie di Mikis Theodorakis, musicista famoso in tutto il mondo, ma che aveva il torto di essere un
* Giornalista e autore RAI.
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Empedokles La vita tu cerchi, la cerchi e sgorga e brilla A te profondo dalla terra un fuoco divino, e tu sospinto da orribile anelito ti butti giù nelle fiamme dell’ Etna. E però a me sei caro, come il potere della terra Che ti rapì di morte audace. E seguirti vorrei nel profondo Se l’amore non mi trattenesse, mio eroe. F. Holderlin
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Marco Zambuto*
corgi. Il mondo delle idee di Platone mise in crisi il mio modo di vedere l’esistenza fino a quel momento; i versi del Paradiso di Dante Alighieri aprirono la mia mente, per non dire quanto movimento crearono dentro me Manzoni e Pirandello. Ma ancora non capivo. E adesso, in occasione della mostra per i 150 anni dall’istituzione del Liceo Classico “Empedocle”, ho rivissuto attraverso le foto, i registri, i documenti, un pezzo della mia vita ed un pezzo della storia della nostra città. Infatti, la storia del Liceo Classico “Empedocle” rappresenta la storia della città di Agrigento e delle tante generazioni che si sono avvicendate dal 1861 ad oggi. Ringrazio i miei insegnanti per avermi trasmesso l’amore per i libri, il desiderio di cogliere oltre le righe, l’amore per lo studio e il sacrificio, la lotta per ottenere un risultato e poi l’emozione di un verso di una poesia. Che anni meravigliosi quelli del liceo, quando già ognuno di noi inizia a capire le proprie inclinazioni naturali e la mente inizia ad aprirsi al pensiero! Quanti ricordi riaffiorano alla mia mente: le partite di pallacanestro con i compagni di scuola, le infinite ore con gli amici di sempre, quegli amici che da te non vogliono niente se non un sorriso o scambiare quattro chiacchiere, il silenzio delle ore in cui si traducevano in classe le versioni di latino e greco alle prese con il vocabolario nell’attesa di qualche suggerimento dei secchioni. In effetti io non ero un secchione. Studiavo
Che anni meravigliosi!
Nel varcare la soglia del cancello del Liceo Classico “Empedocle” di Agrigento ho provato un forte brivido di emozione e commozione. Ho rivisto luoghi, aule, banchi, scale, insegnanti.., ho sentito i rumori degli alunni… E poi ho rivisto me stesso, uno studente. Si perché per cinque anni ho salito e risalito le scale del mio liceo, ho costruito e consolidato amicizie , ho conosciuto bravissimi insegnanti che amavano il loro mestiere. Per ore e ore me ne stavo seduto su quei banchi ad ascoltare attentamente le lezioni di italiano, latino, greco, filosofia, storia e non solo. Certo è che le materie letterarie le preferivo a quelle scientifiche. La fase del liceo ha rappresentato un momento di svolta della mia vita, quello della crescita e della formazione ma anche della spensieratezza giovanile. Eravamo alla fine degli anni ottanta quando mi iscrissi al liceo classico e allora non capivo l’importanza del latino e del greco, della filosofia e della storia. Eppure quegli insegnamenti li sento fortemente dentro far parte di me e del mio essere, radicati nel mio modo di pensare e di vedere la vita. Ricordo le ore che la mia insegnante di italiano dedicava alla Divina Commedia, ascoltavo un po’ stordito e non credevo che un giorno quei volumi sarebbero diventati il mio libro preferito, la bussola di ogni dove e perché. Ho capito molto dopo l’importanza degli anni del liceo e di quella formazione che entra dentro la tua vita senza che neanche te ne ac-
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tanto quanto bastava per avere voti buoni ma i secchioni, quelli, erano un pezzo del liceo classico indimenticabile. E poi come fare a non ricordare il tempo speso per risolvere i problemi innumerevoli della scuola in qualità prima di rappresentante di classe e poi d’istituto. Questo è sicuramente il ricordo più bello di quei cinque lunghi eppur brevissimi anni. Le assemblee erano un momento fondamentale di raccoglimento e condivisione dei problemi degli studenti durante il quale si cercavano soluzioni, si apriva il dibattito e il confronto e si prendevano le decisioni su temi essenziali di vario genere. Già in quegli anni avevo fortemente maturato l’impegno politico che attraverso la rappresentanza degli studenti del liceo esprimevo con la più grande passione. Non dimentico, però, che eravamo alla fine degli anni Ottanta, un contesto sociale assolutamente diverso da quello di oggi. Il benessere economico di quegli anni era come il sole che spunta ogni giorno e che, anche se piove o c’è nebbia, anche se tramonta la sera, rispunta ogni giorno a trasmettere luce e conforto in ognuno e a cancellare qualunque offuscamento. Rimpiango del liceo la spensieratezza, ma anche la fase storica diversa di benessere economico e umano. Rimpiango l’armonia sociale e l’essere tutti più solidali l’uno verso l’altro. Un grazie di cuore a tutti i formatori che sono e restano la vera grande risorsa di questa Italia.
* Sindaco di Agrigento
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Immagini e ricordi Anche le immagini sottolineano il forte legame tra il Liceo e Agrigento. Alcune fotografie, scelte tra tante, restituiscono luoghi a volte scomparsi, a volte trasformati dal tempo e dall’uomo. Sfogliare questo album significa ripercorrere la storia urbana e antropica della città. Anche un vestito, un luogo un banco un atteggiamento fanno la storia della comunità nell’evolversi dei tempi. In filigrana ognuno di noi può ritrovare tracce di Girgenti... di se stesso...
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Suona la prima campanella! Tutti in classe in ... divisa 142
... E arrivano le ragazze: grembiuli e pizzi ... 143
... Piccoli uomini crescono... 144
... Gita fuori porta ... 145
... Lunghe trecce e doppiopetto ... 146
... Stile tutto liceale: cravatta e â&#x20AC;&#x153;borsalinoâ&#x20AC;?... 147
... Che stile prof.! ... anche al campo “Esseneto” ... 148
... Ad un passo dalla vittoria sotto lo sguardo della città che “cresce” ... 149
... Ed ora si gareggia al centro sportivo di Villaseta ... 150
... Uno scatto e poi tutti in classe nella nuova sede ... E la storia continua ... 151
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Il Liceo domani ... Cose saldamente confitte nella tua mente custodirai ... molte altre ne acquisterai... (Emp., frammmento fr. 110)
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M. Siracusa
che, con un forte investimento verso il costante aggiornamento culturale e verso l’innovazione tecnologica, come strumento di diffusione culturale e di integrazione internazionale in tutte le sue forme. Ad Agrigento, la città dove ha la propria sede, la Fondazione Empedocle, che nasce dall’iniziativa del dirigente scolastico Anna Maria Sermenghi, collabora sinergicamente con quanti sostengono il valore della cultura classica e con gli Enti Locali, promuove l’organizzazione di seminari, convegni e mostre documentarie, sostiene iniziative di studio e di ricerca, anche attraverso la consegna di borse di studio agli studenti meritevoli, contribuisce all’ampliamento dell’Offerta Formativa dell’Istituto, favorisce la diffusione e lo sviluppo di esperienze no profit nel campo della cultura, della formazione, dell’educazione e dell’istruzione, aperte al territorio. Nel corso dell’anno sono previste due attività istituzionali: la cerimonia di consegna dei diplomi agli studenti del Liceo Classico “Empedocle” che hanno superato l’esame di Stato e che vengono ammessi alla sezione Iuvenes della Fondazione; e la riunione annuale degli ex alunni per il conferimento del premio Fondazione Liceo Classico Empedocle. Un primo significativo segnale di riconoscimento viene dalle Amministrazioni Provinciale e Comunale e dall’Assessorato Regionale ai BB.CC, che hanno già sostenuto iniziative importanti della Fondazione Empedocle, nell’ottica di una scommessa che potrà essere vinta solo
La Fondazione “Empedocle”
Il lavoro di riflessione e di ricerca sul ruolo che il Liceo Classico “Empedocle” ha svolto nei 150 anni di attività, che lo legano allo svolgersi della storia della città di Agrigento, a partire dagli anni dell’unificazione e della proclamazione del Regno d’Italia, ha trovato espressione nell’istituzione della Fondazione Empedocle per la promozione della cultura classica. Essa nasce con la firma dell’atto costitutivo, redatto dal notaio Giuseppe Fanara in collaborazione con il notaio Claudia Gucciardo, il 12 marzo 2011 in occasione di un’importante cerimonia, svoltasi nella sala Concordia del Palacongressi di Agrigento, per le celebrazioni dei 150 anni di unità della Nazione. La Fondazione, che si propone l’esclusivo perseguimento di finalità culturali, sostenendo l’ambizioso progetto educativo del Liceo Classico “Empedocle”, si rivolge e dialoga nel territorio, in piena autonomia, con i soggetti della società civile e della cultura, con le forze politiche ed economiche, con le istituzioni pubbliche, allo scopo di rinsaldare il rapporto tra generazioni passate, presenti e future che trovano comune riferimento nelle radici culturali classiche e umanistiche, e di partecipare al dibattito sul futuro della città, offrendo il proprio specifico contributo culturale e di ricerca, con uno sguardo sempre aperto all’Europa e al mondo. Lo statuto le assegna il compito di favorire la crescita personale degli alunni, la formazione nelle discipline classiche e scientifi-
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con la forza di un’ intera città. Numerosi docenti dell’Istituto, ex alunni ormai affermati nelle alte professionalità, famiglie di alunni, giovani studenti e laureati, facendo proprio lo slogan Il futuro è nei classici, tema centrale del Convegno di Studi del 14 novembre 2011, sostengono fattivamente la Fondazione, nelle sezioni Partecipanti e Iuvenes, ed operano per il raggiungimento dei suoi scopi mettendo a disposizione il loro lavoro e la propria esperienza professionale, con l’orgoglio che caratterizza da sempre quanti sono stati liceali e con una grande attenzione alla crescita dei giovani, professionisti di domani e speranza dello sviluppo futuro.
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Ho vissuto; e come i fiori e i frutti dorati piovono dalle cime degli alberi E il seme ed il grano germogliano dal terreno scuro, così dalla pena e dalla necessità, venne a me la gioia e amiche scesero le potenze del cielo... …Non esigete il ritorno dell’uomo che vi ha amato: era uno straniero fra voi, e destinato a breve vita… C’è stato concesso uno splendido commiato, alla fine ho potuto ancora donarvi ciò che mi è più caro: il cuore tolto dal mio cuore… F. Holderlin
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INDICE
Prima di iniziare…. Il perché di una scelta (Masone) Il futuro è nei classici Centocinquant’anni di un’esperienza ancora aperta I luoghi e la memoria I presidi nella memoria della scuola. La scuola nella memoria dei presidi Noi e la città. Com’eravamo Microstoria Nel ricordo di Empedocle Immagini e ricordi Il Liceo domani
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