Periodico di cultura, informazione e pensiero del Centro Studi Bruttium (Catanzaro) Registrato al Tribunale di Catanzaro n. 50 del 24/7/1996. Chiunque può contribuire alle spese. Manoscritti, foto ecc.. anche se non pubblicati non si restituiranno. Sono gratuite (salvo accordi diversamente pattuiti esclusivamente in forma scritta) tutte le collaborazioni e le prestazioni direttive e redazionali. Gli articoli possono essere ripresi citandone la fonte. La responsabilità delle affermazioni e delle opinioni contenute negli articoli è esclusivamente degli autori.
Anno XXIV Speciale 01 - 2020 Direttore Responsabile Giuseppe Scianò Direttore editoriale Pasquale Natali Presidente Raoul Elia Progetto Grafico csbruttium.altervista.org Centrostudibruttium.org info@centrostudibruttium.org Direzione, redazione e amministrazione CENTRO STUDI BRUTTIUM Iscr. Registro Regionale Volontariato n. 114 Iscr. Registro Regionale delle Ass. Culturali n. 7675 via Bellino 48/a, 88100 - Catanzaro tel. 339-4089806 - 347 8140141 www.centrostudibruttium.org info@centrostudibruttium.org C.F. 97022900795
I RAGAZZI DELLA CERTOSA DI PADULA di Angelo Di Lieto
Durante la Prima Guerra Mondiale, dopo ogni assalto sui campi di battaglia o durante i bombardamenti e gli attacchi dei nemici nelle trincee, i soldati Italiani morenti, preoccupandosi del futuro dei loro numerosi figli, affidavano i loro piccoli a due cappellani: a Padre Giovanni Semeria, giovane barnabita ligure (1867-1931)e al sacerdote abruzzese Padre Giovanni Minozzi (1884- 1959). Quando la Guerra terminò, questi due eroi, dopo aver ricevuto l’autorizzazione da parte del Papa, girando prima per l’Italia e poi all’estero in cerca di fondi, con l’aiuto di caritatevoli benefattori e di sensibili autorità politiche locali, fondarono nel 1921 l’Opera Nazionale del Mezzogiorno d’Italia, la quale, riunificando i numerosi istituti che con sacrificio avevano fondato nel Centro e Sud Italia, mirava ad accogliere in prevalenza tutti i figli dei caduti della Grande Guerra. E così, la Certosa di Padula, o di S. Lorenzo, costruita a forma di graticola, (la graticola era lo strumento su cui era stato arrostito il Santo), dal 1923 al 1960, ospitò con altri istituti disseminati in tutta Italia migliaia di orfani di guerra del Primo e del Secondo Conflitto Mondiale, del Lavoro o per altre cause. La Certosa, sorta su un precedente cenobio, venne edificata nel 1306 su un’area di 51 mq. nella Valle di Diano, nei pressi di Salerno,da Tommaso di Sanseverino, conte di Marsico e signore del Vallo per motivi religiosi, territoriali e politici, ma soprattutto per ingraziarsi gli Angioini.
La Certosa è un monumento maestoso, pieno di fascino, un complesso barocco che ricorda l’arte, la storia secolare, la religione, la prigionia, la fede, il silenzio e l’educazione di migliaia di orfani che hanno lì vissuto. La Certosa, per l’ampiezza e la fertilità dei luoghi, divenne per i monaci benedettini e per il territorio un centro di sostentamento e di commercializzazione dei prodotti della terra che si coltivavano, e fu anche importante perchè, in quell’epoca, era considerato pure un centro di controllo delle vie che conducevano nel cuore del Regno di Napoli. Numerosi furono i personaggi che nei secoli passati visitarono la Certosa e resta famosa e storica la visita che fece l’imperatore Carlo V nel 1535, durante la quale i frati prepararono una gigantesca frittata con ben mille uova. Nel periodo murattiano, con la legge 13-2-1807, l’Ordine Certosino fu soppresso e la Certosa subì la depredazione da parte dei francesi di numerose opere d’arte (1807), soprattutto di tele che non furono mai restituite. Dopo di che fu destinata a caserma. Durante il nuovo periodo borbonico i Certosini rientrarono ed il luogo fu utilizzato da cinquanta religiosi come ospedale, chiamato “Ospizio della Salute”; col regio decreto n. 3036 del 7-7-1866 però, i monaci furono definitivamente allontanati e l’edificio divenne proprietà demaniale
dello Stato Italiano, per poi trasformare quegli enormi spazi in scuole, carceri, pubblici uffici ed ospedale. Nel 1882 fu dichiarato monumento nazionale, dopo di che la ricca ed antica biblioteca fu trasferita per motivi di sicurezza al Museo di S. Martino a Napoli, ove ancora è custodita, mentre altri beni, il Governo, per fare cassa, li vendette a privati. Nell’’800 la Certosa fu utilizzata anche come luogo per la lotta al brigantaggio, mentre, nel successivo secolo, per la lontananza dai luoghi di combattimento e per la tranquillità del posto, fu destinato a campo di concentramento per i prigionieri della Iª e IIª Guerra Mondiale e per i confinati politici, finché dal settembre 1923 lo storico immobile fu destinato al ricovero dei figli dei soldati italiani morti in guerra. Quando il costituito Impero Austro-Ungarico si dissolse, i Cecoslovacchi che nel periodo della Prima Guerra Mondiale avevano combattuto contro l’Austria e che erano stati catturati sul fronte italiano, furono dallo stesso Stato Italiano internati nella Certosa di Padula, a Salerno o in altre località italiane. Intanto, i prigionieri cecoslovacchi arrivati a Padula, all’inizio cominciarono ad organizzarsi promuovendo aggregazioni culturali teatrali, musicali e ricreative, poi, dato che continuamente arrivavano treni con prigionieri, pensarono di costituire anche un esercito da affiancare a quello italiano. Nella battaglia del 24 maggio del 1918, il Governo Italiano, a seguito delle continue insistenze dei leaders cechi, autorizzò il Corpo dei Volontari dell’esercito di Padula, formato da Boemi, Moravi e Cecoslovacchi, a combattere per la libertà di quelle etnìe, a fianco dell’esercito italiano nel XXII Corpo d’Armata. Quando questi ex prigionieri partirono con i loro leaders per il fronte, innalzando la bandiera dell’Indipendenza del nuovo Stato cecoslovacco, i cittadini di Padula, esultando, accompagnarono alla Stazione questo costituito esercito con festosa simpatia e con gli auguri di un felice ritorno in patria. Il rischio per questi prigionieri era divenuto particolarmente rilevante, sia perché potevano essere uccisi in combattimento e sia perché, nel caso che fossero stati fatti prigionieri dagli Austriaci, questi volontari sarebbero stati subito fucilati con l’accusa di diserzione e tradimento verso l’impero austro-ungarico. Il 21 ottobre del 1918 il costituito Stato Cecoslovacco ebbe pure il riconoscimento dell’indipendenza da parte dell’Italia e il 14 dicembre 1918 anche l’esercito potè ritornare nella nuova Patria. Da Padula cominciò a formarsi lo Stato Cecoslovacco e a credere nella libertà di un
popolo che desiderava diventare una Nazione. Dal 1941 nella Certosa di Padula furono rinchiusi anche i prigionieri inglesi ed americani, però dopo l’8 settembre 1943, durante l’avanzamento delle truppe alleate dal Sud Italia verso Nord, la situazione bellica si capovolse e così gli Inglesi da reclusi divennero i guardiani dei fascisti “pericolosi”, (considerati tali per la loro fede e non perchè criminali), dei combattenti della Repubblica Sociale Italiana, dei nazisti fatti prigionieri durante la ritirata, o degli Italiani sospettati di spionaggio o di attività sovversive contro gli Alleati, o che per motivi storici, ideologici e personali erano stati segnalati da vili delatori. Gli Italiani, durante la prigionia furono malamente trattati dai guardiani Inglesi, i quali, nonostante il freddo dei periodi invernali, li obbligarono a dormire all’aperto nel grande portico, dove un tempo vi era la passeggiata dei monaci, o per terra, o su insufficienti pagliericci, oppure in cuccette di legno a due posti, negli stanzoni dove vi erano finestroni ventilati, rotti o privi di vetri. Inoltre, disattendendo la convenzione di Ginevra, per economizzare le spese alla Corona britannica e con l’intento di mortificare lo spirito degli Italiani, offrivano loro per pasto ghiande, che, con grande dignità e senza protestare i prigionieri rosicchiavano. Poi, li obbligavano all’aperto e nudi a fare docce fredde d’estate e d’inverno. Tutti vivevano nel 371° P. W. Camp (=Campo di prigionieri di guerra) e quando gli Inglesi, verso la fine del 1946, rientrarono in patria, i prigionieri non furono più ironicamente considerati “Ospiti di Sua Maestà Britannica”, e così il Campo passò sotto il controllo degli Indiani e dei Greci, che per ordini ricevuti dai predecessori, si comportarono peggio degli inglesi, aggredendo gli Italiani a calci e a colpi di scudiscio. Dal 1923 Padre Semeria aveva destinato la Certosa ad accogliere i numerosi orfani della Prima Guerra Mondiale, costituendo per i ragazzi la “Colonia maschile agricola”; la Seconda Guerra Mondiale sospese l’attività benefattrice di Padre Semeria e di Padre Minozzi e, quando la guerra cessò, gli orfani di guerra furono nuovamente ospitati nella Certosa fino al 6 aprile 1960, giorno in cui l’Opera Monumentale fu definitivamente chiusa. Successivamente lo Stato Italiano ha avviato una serie di recuperi, provvedendo ad un serio restauro sia delle parti immobiliari che di quelle artistiche e storiche. Dopo il disastroso terremoto del 1980, la Certosa,dopo due anni, venne affidata alla costituita Sovrintendenza, che proseguì nella ristrutturazione e nella riparazione dei numerosi disastri subìti nei diversi periodi di occupazione.
Nonostante gli anni trascorsi, il desiderio di potersi incontrare restò sempre vivo nell’animo di ogni orfano, sin quando, un giorno, a seguito di un incontro occasionale fra due ragazzi, e successivamente con altri, e soprattutto nell’intento di ricevere un valido aiuto, iniziarono dal 2001 ad interpellare le autorità di Padula, le quali, invece di collaborare e di rinvenire gli atti e i registri scolastici dell’epoca, si disinteressarono totalmente della richiesta.
Il benvenuto ai partecipanti del Raduno dei Certosini del 9 settembre 2015: da sinistra: Giuseppe Iannaccone, Angelo Di Lieto, Ciro Minucci (Presidente Nazionale Associazione ex Alunni e Famiglie dei Discepoli), Romano Abbruzzese, Franco (amico di Minucci)
Nel 2006, invece, una locale associazione, denominata “Nuove Idee”, che era stata costituita uno o due anni prima, su iniziativa di alcuni ex Certosini, assunse l’impegno di individuare molti orfani e a convocarli per un incontro. Il primo convegno avvenne il 24 Giugno 2007 e i diversi successivi incontri, su richiesta degli stessi orfani, si ripeterono ogni anno sino al 2012. Successivamente, per diversi motivi di autogestione, il gruppo dei Certosini decise di programmare autonomamente i propri futuri incontri e a chiedere alla Sovrintendenza di Belle Arti di Salerno uno spazio nel quale poter documentare la loro storia con fotografie, libri e manifesti.
La Sovrintendenza, accolse la richiesta e assegnò agli organizzatori la cella n° 6, quella stessa che ospitò sia Padre Semeria che Padre Minozzi, allorché si recavano alla Certosa per incontrarsi con i ragazzi. Da quel momento nella Cella n°6 è stata perennemente esposta tutta la documentazione libraria, pubblicitaria e fotografica dei ragazzi, luogo che ha preso il nome di “Museo dei Ricordi” e che ha offerto e continua a dare emozioni, immagini e momenti di un lontano passato. La sede venne inaugurata ufficiosamente il 30 Giugno 2013 e ufficialmente il 29 Giugno 2014. E così, ogni anno, questi ex Certosini si stringono in un affettuoso e caloroso abbraccio, più intenso dell’istante in cui si erano lasciati molti anni prima, e continuano a mantenere viva la loro storia, i loro ricordi, la ricomposizione della loro antica amicizia, per proseguire ed aggiungere ogni volta, nelle loro pubblicazioni, episodi inediti al loro inesauribile commovente racconto. In questi anni sono stati pubblicati numerosi libri, articoli di stampa e scritti di stima e di affetto nei confronti di questi non più giovani, i quali con tenacia e determinazione hanno voluto pubblicizzare la loro storia, quasi sempre ignota agli Italiani e agli Stranieri che hanno visitato la splendida Certosa di Padula. Oggi in alcuni resta il dispiacere di non avere più rivisto i tanti compagni di scuola scomparsi o emigrati all’estero, e nello stesso tempo rimane in essi la curiosità di non aver potuto conoscere di tutti il loro destino e la loro vita vissuta fuori dalla Certosa, mentre, in contrapposizione poi, in ognuno, è chiaramente rimasto impresso nella mente il volto ed il ricordo delle monellerie di quei meravigliosi ragazzi. Si aggiunge che un grande merito va a tutti quelli che con passione ed amore si sono adoperati a ricomporre nella Certosa il Museo, ricco di cimeli, a ricordo dei tanti momenti tristi e felici vissuti. Si evidenzia inoltre che questi ragazzi, nella loro vita, sono rimasti sempre legati ad un filo d’amore e alle attività educative e formative ricevute negli anni da Padre Semeria e Padre Minozzi, dai vari sacerdoti della Famiglia dei Discepoli, dai docenti, dagli assistenti e dalle Suore delle Ancelle di Santa Teresa di Gesù Bambino. Da un Elenco di recente compilato ho scoperto che vi erano moltissimi orfani che provenivano dal territorio di Catanzaro, ma anche dai paesini dell’area di Reggio Calabria e Cosenza; ciò dimostra che anche in Calabria vi erano stati moltissimi soldati che, morendo nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale, avevano affidato i numerosi figli ai due cappellani, i quali amorevolmente li avevano accolti in diversi Istituti ed in particolare nella Certosa, offrendo loro ospitalità, una guidae l’istruzione.
E così, dopo oltre cinquanta anni, i sopravvissuti si sono finalmente rincontrati dopo che ognuno, per diversi motivi, era stato costretto ad abbandonare la Certosa, o perché aveva raggiunto la maggiore età (21 anni per gli orfani di guerra, 18 per gli orfani del lavoro), o trasferito in altri Istituti dopo la chiusura della stessa Certosa. E oggi, un grande merito va a tutti quelli che con passione ed amore si sono adoperati a ricomporre nella Certosa il Museo, nella cella n. 6, a ricordo di tanti momenti tristi e felici vissuti.
Alcuni ex Certosini calabresi conosciuti, figli dei caduti in guerra, o di persone decedute a seguito dei bombardamenti effettuati nei centri urbani, e che appartengono a famiglie povere, dichiarano che alcuni, all’atto della nascita, con la madre incinta, nascevano già orfani, mentre altri affermano che del padre deceduto custodivano nella memoria soltanto un vago ricordo o un’immagine evanescente, oppure, per quelli morti sul lavoro, non ricordavano nemmeno più la voce del genitore o la carezza ricevuta il giorno della disgrazia. Tutti quelli che in questi anni ho conosciuto in Calabria o nelle altre
regioni italiane, erano tutte persone laboriose, rette e felici della loro educazione certosina ricevuta e della vita che avevano imboccato dopo aver abbandonato la Certosa con la maggiore età. Nella recente pubblicazione degli ex Certosini, dal titolo “Testimonianze” – Dep. Editori – Bracigliano (Sa) – 2016 – ognuno ha ricordato il freddo della notte nelle lunghe serate invernali, la fame lenita con castagne secche o frutta acerba sottratta ai contadini nei campi, e ciò per rammentare che il cibo che veniva loro dato non era sufficiente a coprire la povera ed insufficiente alimentazione ricevuta dalla quotidiana Provvidenza dai due grandi originali benefattori. Nelle loro ristrettezze economiche, in un’Italia povera e disastrata, Padre Semeria e Don Minozzi, senza dubbio facevano grandi sforzi pur di assicurare ed offrire il necessario quotidiano fabbisogno a questi poveri orfani. Entrambi fondarono a Catanzaro Marina l’Istituto delle Suore d’Ivrea nel 1931. Mi riservo di pubblicare tra breve la loro attività di ex cappellani prima e di religiosi dopo la Prima Guerra Mondiale a favore degli orfani dei caduti del Sud Italia, qui citati.
Padre Giovanni Semeria (1867-1931)
Padre Giovanni Minozzi (1884)-1959)
Ogni ragazzo, per la sua condizione familiare, aveva sulle spalle il peso della miseria, delle difficoltà economiche e la consapevolezza di non aver potuto più vivere in casa con il genitore superstite e con i numerosi fratelli. Ma anche chi per qualche tempo restava, dopo poco veniva destinato nella Certosa, o in qualche diverso istituto, così come avveniva per le bambine. In ogni arrivo alla Certosa, la scena era pressapoco identica, nel senso che secondo la distanza, si arrivava di giorno o a tarda sera, poi si suonava il campanello del grande portone, e dopo la presentazione e i convenevoli, si salutava il genitore o il parente che l’aveva accompagnato. Ma all’atto della partenza i pianti dell’accompagnatore, più spesso della madre, si fondevano con quelli del ragazzo, mentre durante le notti, nelle lunghe camerate, ponendo per riservatezza il viso sotto le lenzuola, per giorni e giorni le lacrime si perdevano sul cuscino.
Quando un orfano doveva essere accompagnato, un familiare partiva di solito da casa di notte con l’asino, col mulo o col calessino, per poi prendere, nella località più vicina, un treno a vapore che si fermava in ogni stazione. Alle prime luci dell’alba o della mattinata, dopo un estenuante viaggio e con mille pensieri, finalmente si arrivava alla Certosa. Chi giungeva in pieno inverno, spesso era malamente coperto e, poiché il clima a Padula era molto rigido, anche per l’abbondante neve che cadeva, quasi sempre il Direttore offriva all’orfano una mantellina che doveva sempre servirgli per proteggersi dal freddo pungente della giornata. La divisa di colore grigio, a detta di qualche ragazzo, sembrava quella degli spazzini napoletani. In prevalenza erano tutti bambini molto, molto piccoli, per cui, dai loro sguardi assetati di affetto si rilevavano visibilmente le preoccupazioni e la tristezza che vivevano in quel momento. Anche gli spazi ampi della Certosa, all’epoca sembravano più grandi e immensi, come pure le distanze nel colonnato e nei corridoi si presentavano quasi interminabili e infiniti.
Stazione di Padula: si arrivava a Padula piangendo - Si ripartiva allegri: si ritornava a casa
Molte volte il ragazzo, una volta preso sonno, quasi sempre sognava la casa con i suoi fratelli abbandonati, ma al triste risveglio, nella delusione della realtà, con palpitazione trascorreva il giorno in attesa di qualcosa che gli facesse rivivere la gioia del sogno della notte.
Nella Certosa faceva veramente freddo e i disagi erano notevoli: gli spifferi dei finestroni delle camerate erano rilevanti, al mattino poi i ragazzi si lavavano persino i capelli con l’acqua gelata e il viso con due dita; inoltre molti avevano mani e piedi con i geloni. Simpatica è stata l’espressione di un ragazzo che nel suo ricordo ha affermato che “il ghiaccio gli aveva ammorbidito le ossa”. Nella Certosa, per gli orfani arrivati, si verificarono pure momenti di disambientamento, dovuti alla rabbia di essere stati allontanati dalla famiglia, dai fratelli, dalla propria casa, finché, poi, con la frequentazione, ci si accorgeva che l’affetto riversato verso e dai nuovi amici, cresceva sempre più da parte di chi si era sentito all’inizio tremendamente solo ed abbandonato. Ma quei ricordi diventano pure momenti esaltanti della loro esistenza passata, anche se all’epoca vissuti con tristezza, e divenuti negli anni ricordi sublimi ed episodi di gioiosa spensieratezza, specie quando si giocava a pallone o si doveva partecipare a qualche campionato di calcio. Qualche ragazzo, ingaggiato nelle squadre domenicali locali, è divenuto anche un campione e che poi, proprio attraverso lo sport, ha trovato la sua strada nella vita. Alcuni ricordano che per anni, nelle ore di ricreazione e durante il gioco del pallone, quel portico risuonava di voci allegre e chiassose, mentre nelle ore dedicate allo studio, quel colonnato si presentava profondamente silenzioso e vuoto. Ma in quel clima di allegria e di divertimento le ore a disposizione passavano velocemente, però, quando invece mogi mogi raggiungevano la camerata per andare a dormire erano proprio quei momenti di tristezza in cui i ragazzi sentivano profondamente la nostalgia della famiglia e della casa. Anche l’alza bandiera o la recita del rosario nel mese di maggio erano appuntamenti che gli ex Certosini rievocano con tanta religiosità ed emozione. Vi erano ragazzi, poi, che negli spacchi della Certosa avevano individuati dei nidi di falchi e cornacchie, per cui, chi aveva pazienza e dimestichezza, riusciva persino ad addomesticare alcuni di questi piccoli uccelli catturati. Era una comunità dove si viveva affratellati, anche se ognuno aveva virtù e difetti. Di recente ho avuto modo di fare amicizia col fratello di un ragazzo che in piena notte, forse per sonnambulismo o per disattenzione, cadde da un alto finestrone perdendo la sua giovane vita. Chissà che cosa stava sognando e dove immaginava di trovarsi, come pure forse credeva di stare nella sua casa, nel giardino, mentre lui materialmente precipitava,
per poi proseguire il suo sonno in una fredda bara. Lo stesso mi ha raccontato che quell’anno, a causa delle difficoltà delle comunicazioni e della lentezza dei mezzi di comunicazione, la famiglia ebbe notizia della disgrazia non subito, per cui egli, in attesa dell’arrivo dei familiari, rimase in un angolo del cortile della Certosa, addolorato e triste, a piangere e a soffrire da solo il fratello maggiore morto. Anche per alcuni è stato triste il ricordo di un bambino di nove anni, il figlio del custode, che morì a seguito di una grave malattia. Rimase impresso a tutti il suo viso cereo, la sua bellezza nella morte e che lasciò un grande vuoto e tristezza nel cuore di tutti i ragazzi che, come alcuni, rivivevano intimamente in quel momento la passata esperienza della morte del familiare scomparso. Altre volte delle imprudenze che potevano divenire fatali servirono di monito nella vita, così come accadde a quel ragazzo che, facendo esplodere un proiettile di guerra, per fortuna, subì lievi danni. Però quell’esperienza servì ai ragazzi presenti a renderli consci della pericolosità di raccogliere per strada strumenti di guerra inesplosi.
Un mio cuginetto, Franz, morì a sedici anni, con una bomba che gli era stata donata imprudentemente da un suo amichetto. Gli ex Certosini, ancora oggi ricordano la solitudine cui venivano
2 Giugno 1951 data del decesso accidentale di un certosino 2 Giugno 2019 – Un gruppo di certosini ricordano l’amico
destinati quando si presentava una disgrazia in famiglia, perché il più delle volte restava la delusione del comportamento dei parenti che non erano riusciti a dare in quell’atmosfera un minimo conforto o un valido aiuto. Nelle famiglie numerose, le istituzioni provvedevano a dislocare nei vari orfanotrofi tutti i piccoli della casa: le bambine venivano assegnate negli istituti femminili (retti da suore) e i maschi in quelli retti dai sacerdoti. In questi casi, i bambini più piccoli, quasi neonati, venivano affidati alle amorevoli mani di suore buone ed infaticabili. In un momento successivo, precisamente nell’età scolare, venivano trasferiti in altri istituti per frequentare le classi delle scuole elementari
e trovare lì una famiglia, una comunità di giovani, i quali vivevano affratellati la loro stessa sofferenza. Alcune volte, quando si era piccoli, chi aveva subito un lutto in famiglia, memorizzava dei ricordi nebulosi, come se i diversi momenti si fossero accavallati sullo stesso fotogramma. Ma capitava pure che i fratellini più piccoli, non avendo per anni mai più incontrato le proprie sorelle, dimenticavano di averle, per cui, quando dopo anni riuscivano in qualche fortuita occasione a incontrarsi e a conoscersi, allora la felicità era immensa ed indescrivibile. Però, quando l’incontro cessava, restava sempre l’impegno che non si sarebbero mai più divisi e che un giorno sarebbero finalmente restati insieme per sempre. All’inizio del lutto, nelle famiglie numerose, i ragazzi venivano distribuiti un po’ ovunque, tra amici e familiari, anche se non sempre venivano trattati bene ed accettati. In questi casi si restava sempre in attesa della visita dei fratelli più grandicelli, che poi erano sempre di età inferiore ai nove o ai dieci anni. I momenti più brutti erano quando veniva dimesso per aver compiuto la maggiore età consentita (21 per gli orfani di guerra e 18 per gli orfani del lavoro), oppure quando veniva trasferito in un altro istituto; le lacrime, le promesse, gli abbracci non finivano mai, finché un gruppo non rendeva meno tragico la partenza scherzando e motteggiando il momento. Allontanarsi dalla Certosa significava di solito andare inizialmente a stare a casa di parenti, ma questa soluzione, anche se provvisoria, rattristava maggiormente il giovane, per cui, se vi erano difficoltà, si preferiva, se possibile, restare ancora qualche tempo in Certosa e non ricevere ospitalità da parte dei diretti familiari. Quando si usciva, in quell’attimo, ognuno immaginava che ci sarebbe stato un futuro con un buio profondo. Il ragazzo, una volta fuori, si chiedeva: “e adesso che cosa farò nella vita?” Però ognuno aveva gli strumenti che i docenti avevano loro trasmesso e cosi tutti riuscivano a trovare la forza ed il coraggio di lavorare dignitosamente, progredendo sempre onorevolmente nel lavoro e a formarsi una famiglia con tutti i valori che avevano ricevuto in tanti anni di sacrifici e di sofferenze. Quando il portone della Certosa si chiudeva alle spalle, ognuno lasciava la propria adolescenza e si trovava solo ad affrontare la vita, fra le lacrime di addio e tante promesse di rincontrarsi. Romantico ed estremamente fantastico è l’addio di un ragazzo, che allontanandosi definitivamente dalla Certosa, perché aveva raggiunto i diciotto anni, nel dare l’addio manzoniano ai monti di Padula che
non avrebbe più visto, pittorescamennte noterà che le numerose ville sparpagliate in lontananza sui declivi sembravano “tante pecore al pascolo”. Inoltre, quando un parente o un amico faceva visita al ragazzo ritornato a casa, anche se poteva sembrare naturale parlare nella circostanza della disgrazia subìta in famiglia negli anni lontani, purtroppo si creava, nella commiserazione, lo stesso clima di profonda tristezza del passato. E quasi sempre vi era chi si allontanava, perché non voleva più sentire quelle storie che nella rievocazione lo rattristavano e lo commuovevano profondamente, costringendolo a nascondersi nell’angolo più lontano dell’abitazione. Quando in una famiglia moriva qualcuno, nella commiserazione generale, vi erano pure parenti, i quali approfittando che gli orfani in quel momento erano piccoli, indifesi ed addolorati di aver perso il loro genitore, mettevano in atto comportamenti da sciacallaggio, nel senso che, appropriandosi senza ritegno, sottraevano le poche cose che possedevano. E’ un po’ come succede oggi, quando si apprende dai mass media che, durante un funerale, vi sono stati ladri che, approfittando del fatto che l’abitazione era rimasta momentaneamente deserta, hanno visitato la casa della persona deceduta, svuotandola di ogni bene. Sono azioni gravi, inqualificabili ed imperdonabili. Vi erano delle mamme che, pur di guadagnare qualcosa per i figli perché non avevano nulla da mangiare, si sottoponevano quotidianamente ad
ogni umiliazione, subendo alcune volte anche l’arroganza e i tentativi di violenza del benestante datore di lavoro. E’ capitato anche che alcuni ragazzi, tornando finalmente dopo tanti anni, vivessero in casa con grande imbarazzo e disagio, perché se la mamma vedova, per motivi di sopravvivenza e di protezione si era unita ad un compagno, era naturale che la famiglia nel frattempo fosse aumentata. In questi casi, i neo fratelli si comportavano con freddezza nei confronti del sopravvenuto, per cui si arrivava al punto di rimpiangere e di desiderare la vita ed i compagni della Certosa. Nelle numerose storie si apprendevano anche tanti tristi momenti della vita dei ragazzi, come pure si mettevano in atto azioni a protezione dell’incolumità del ragazzo e del suo nucleo familiare. Poi, se qualche famiglia produceva nei campi il grano o altri generi primari, questi prodotti, secondo le disposizioni del governo in carica, dovevano essere obbligatoriamennte consegnati e immagazzinati in appositi centri di raccolta. In questi casi vi era sempre qualcuno che, nell’interesse della famiglia, fraudolentamente e per bisogno, nascondeva una parte del grano,
dichiarando un quantitativo inferiore. Anche se la sfiducia nei confronti dei governanti è sempre esistita, la necessità di “rosicchiare” qualcosa e destinarlo alla sopravvivenza della famiglia, veniva giustificata dal fatto che si sottraeva quel poco che poteva essere considerato insignificante e di poco conto nei confronti dei milioni di chicchi di grano o delle merci che, invece, dovevano servire per razionalizzare la distribuzione nell’interesse dell’economia alimentare del popolo italiano. Alcune volte un giorno trascorso in campagna a cavallo di una trebbiatrice per lavorare nei fondi della Certosa, diveniva una giornata di grande felicità e divertimento. Mangiare poi una fetta di soppressata ed una fettina di formaggio, intingendo tutti insieme, secondo l’uso del contadino, il pane nell’insalatiera riempita di pomodori, olive e cipolle, quel momento diveniva per i ragazzi un ricordo indelebile e meraviglioso. Vi era poi una normativa che sanciva che i figli dei lavoratori deceduti, dopo le scuole elementari, potevano frequentare la Scuola di Avviamento Industriale/Agraria, oppure apprendere un’arte (falegnameria, sartoria, meccanica o calzoleria), mentre gli orfani di guerra, se dimostravano di aver buone tendenze allo studio, potevano frequentare le scuole medie e gli Istituti superiori, ma venivano trasferiti in altri Istituti dove c’erano queste classi; diversamente, potevano scegliere di apprendere un mestiere artigianale. Le celle dei monaci certosini erano state trasformate in aule per i ragazzi, però, questi piccoli ambienti, nei periodi invernali si presentavano particolarmente freddi e gelidi. E’ vero che vi erano i camini, ma per economia restavano sempre spenti. Ma in quelle giornate particolari di freddo, i docenti, a giustificazione, sostenevano che quei sacrifici che i ragazzi affrontavano, servivano per fortificarli e temprarli meglio nella vita. Questi piccoli orfani, poi, oltre che con i sacerdoti, con gli assistenti e i docenti, sono cresciuti anche con l’affetto delle suore che, come sempre, offrendo a Dio la loro giovane vita, assistevano questi ragazzi con la migliore cucina disponibile (si fa per dire, perché i mezzi erano affidati alla “Provvidenza”), oppure rattoppando centinaia di buchi nei calzini, o sistemando nelle lunghe camerate la biancheria appena lavata. Bellissima iniziativa di quell’orfano che quando si trovava dieci lire in tasca, andava a comprare un uovo, che invece di berlo, per la fame lo portava dalle suore in cucina, che così gli preparavano una frittata, che poteva mangiare con un pezzo di pane. Ma poteva capitare anche che, come un giorno avvenne, che un
ragazzo che aveva ricevuto dalla madre i viveri anche per qualche amico, abbia buttato dalla sua borsa il precedente cibo residuo. Il seguito fu che il cibo che era stato gettato via era stato immediatamente raccolto e divorato da altri orfani presenti. Vi erano ragazzi che ricevevano periodicamente le visite delle mamme, oppure dei parenti, altri invece, per lo stato di indigenza della famiglia o per l’impossibilità di fare un lungo viaggio, raramente riuscivano a rivedere qualche familiare, altri addirittura non hanno mai ricevuto una visita da parte di qualche parente. Alcune volte, per il troppo lungo tempo trascorso in Certosa, nella mente dei ragazzi svaniva quasi l’immagine della madre e questo alimentava il desiderio di rientrare in famiglia. La voglia di ritornare a casa era molto forte, per cui alcune volte scappavano, per poi essere ripresi il giorno dopo e accompagnati al portone della Certosa dai Carabinieri, abituati ormai a questo genere di ricerca e di consegna. Entrando nella Certosa bisognava dimenticare la libertà vissuta a casa sino a quel momento, affratellarsi con i nuovi compagni e fare tesoro per tutto quello che la vita gli offriva. I piccoli evasi, utilizzando ogni espediente per arrivare in famiglia, adottavano ogni minima furberia pur di non farsi scoprire durante la fuga, per poi arrangiarsi fuori in tanti modi. Se invece la famiglia era lontana e il desiderio di rivedere la casa era troppo forte, nei giorni di fuga mangiavano i frutti che rinvenivano nei campi e che sottraevano a rischio sugli alberi dei contadini. Ogni fuga, poi, si concludeva con la promessa verso i Superiori che non l’avrebbero più ripetuta. Poi, finché il fuggitivo non veniva riconsegnato alla Certosa dalla gendarmeria del posto, ogni volta i Docenti e le Suore si manifestavano sempre seriamente preoccupati e timorosi dei pericoli che i ragazzi avrebbero potuto incontrare durante la loro scappatella. Ma vi erano quelli che, pur avendo studiato la più sicura via di fuga per ritornare a casa, non la mettevano in atto quando si rendevano conto che tutta la Certosa, i professori, i compagni, restavano in ansia per i pericoli che avrebbero potuto avere nell’attraversamento delle strade. Capivano pure che restare in Certosa era per il loro bene e nel loro interesse, per cui, convinti, desistevano da ogni eventuale proposito. Una volta, un orfano aveva scritto in una lettera a casa che “nella Certosa non si trovava bene e che voleva ritornare a casa”. Dal comportamento di alcuni suoi docenti e forse anche da qualche parola fuoriuscita, si era accorto che la sua corrispondenza, prima della spedizione, veniva letta. Allora, da quel momento, aveva deciso che ogni lettera particolare che doveva scrivere, la consegnava ad un ragazzo del paese, suo compagno di scuola, che provvedeva poi direttamente a spedirla a casa.
Un giorno un bambino ebbe un’infezione ad un dito. Le buone suore ogni mattina lo medicavano, però, per il dolore che era costretto a sopportare, alla fine lo compensavano offrendogli qualche castagna o un pugno di fichi. Ma egli, nonostante la sofferenza, sperava di non guarire mai, pur di ricevere quelle poche cose. Ed è lo stesso orfano che un giorno affermò che era triste riconoscere che una guerra non desiderata, gli aveva sottratto “un bene così grande”, qual’era il padre.
Un ragazzino che a Natale era stato a casa e che si era accovacciato con i suoi compagni innanzi al focolare, mentre la mamma raccontava loro una fiaba, quando ritornò in Certosa, narrò in un tema la storia, forse per far vivere e trasmettere anche ai suoi amici certosini quello stato di beatitudine e di sogno nel quale egli aveva vissuto quel giorno con la sua mamma. Vi sono poi dei bozzetti di piccoli avvenimenti veramente simpatici e pittorici. Un orfano ha raccontato che mentre a casa stava preparando il lucignolo per la lampada, ad un tratto il gatto gli ha mangiato lo stoppino che era intriso di olio, per cui, per quella notte, tutta la famiglia, composta da
sette fratelli, in mancanza della luce elettrica, era rimasta nel buio totale. Anche la storia dell’albero di carrubbe è divertente, perché questi ragazzi, pur rendendosi conto che i frutti erano acerbi, per la fame cominciarono a mangiarli. Però quando era arrivato il tempo della maturazione, l’albero si presentava coi rami ricco solo di foglie. E’ veramente simpatico ricordare la scena del “cane certosino” che, facendo da guida, si metteva alla testa della fila dei ragazzi durante le passeggiate pomeridiane che alcune volte, a danno dei guardinghi
contadini, servivano per rifornirsi di frutta, di castagne, di semi di faggio ed altro. Quando alla Certosa vi fu l’incendio di alcune balle di paglia, quei piccoli ometti, come veri pompieri e con grande abilità, seppero gestire il fuoco, come pure appresero che l’apertura di una nuova corrente d’aria non coadiuvava lo spegnimento, perché con la ventilazione che si creava, le
fiamme si erano sviluppate ulteriormente, anche se poi, in qualche caso, l’incendio, senza poter più essere controllato, automaticamente si era estinto per esaurimento. Un ragazzo ha scritto che “la vita in Certosa non era bella, ma sicuramente piena di insegnamenti per affrontare la vita da grande”. Ogni consiglio che i ragazzi ricevevano dai loro Superiori, li spingeva a farne proficuo e utile tesoro, perché erano insegnamenti di vita, suggerimenti che si concretizzavano spesso nell’essere sempre buoni, onesti e retti in ogni momento della vita futura. Vi fu un periodo in cui, quando alcuni ragazzi stavano per compiere i diciotto anni, il direttore della Certosa decise di mandarli a seguire dei corsi di scuola guida, perché si rendeva conto che quando si sarebbero trovati soli ad affrontare la vita, la patente sarebbe risultata un documento molto utile per la loro sopravvivenza. Durante il giubileo degli anni ’50, con grande gioia i ragazzi furono inviati a Roma a visitare le meravigliose basiliche e una città così grande. Ovviamente la loro esperienza era limitata alla conoscenza dei loro piccoli paesi e delle loro chiesette parrocchiali e non alla maestosità dei monumenti della Città Eterna. Anche la colonia marina a Sapri, dove potevano i ragazzi fare i bagni, concedeva momenti di grande festosità e divertimento. Un ragazzo, forse ispirandosi ai luoghi dove aveva vissuto vicino a qualche stagno o a un ruscello, un giorno affermò che quei ragazzi che giocavano nell’acqua sembravano tante rane”. Grandissimo entusiasmo generò la visita dei Reali d’Italia, in modo particolare della regina Elena, allorché chiese loro cosa desiderassero in dono; all’unisono risposero: <<il pallone!>>, e così un giorno, appagando i loro desideri, la Regina inviò ai ragazzi una radio e dei veri palloni di cuoio, che sostituirono subito la famosa palla di pezza. Il ricchissimo armatore napoletano Achille Lauro, dopo l’armistizio del 1943, viene a Napoli arrestato e confinato dagli alleati a Padula. I lunghi mesi trascorsi nella Certosa lo avevano ridotto uno scheletro a causa delle privazioni e delle torture inflittegli dai guardiani inglesi, che ingiustamente lo avevano ritenuto un grande criminale fascista. La sua grande flotta che, durante il conflitto mondiale gli era stata requisita o bombardata dagli Alleati, dopo la liberazione riuscì a ricomporla, divenendo nuovamente in campo internazionale uno dei più famosi armatori. Un giorno, da uomo libero e prosciolto da ogni accusa, volle ritornare a Padula e durante quella visita accadde un evento particolarmente deplorevole ai danni di un bambino.
Quel giorno, il Comandante Achille Lauro, ritornato ricco proprietario di navi, durante il suo giro, sotto i portici della Certosa, memore delle privazioni ricevute, donò ad un orfano una banconota da diecimila lire, che all’epoca era un vero lenzuolo, cioè enorme e che aveva un grande valore economico. Ma poco dopo, un assistente che aveva osservato la scena da lontano, si avvicinò al ragazzo e, a viva forza, sottrasse molto meschinamente dalle mani di quel bambino la banconota, appropriandosene senza ritegno. La reazione del ragazzo fu che scappò dalla Certosa, ma, dopo poco venne riaccompagnato a Padula dalla stessa madre, solo che un direttore, innanzi alla mamma, invece di approfondire i motivi della sua “evasione”, lo definì “criminale”. Il ragazzo era scappato per rabbia dalla Certosa, dopo essere stato “derubato” con violenza dal suo assistente della banconota di lire diecimila ricevuta in dono dal Comandante Achille Lauro. Certe volte, davanti a tanta umanità e bontà, si sviluppa poi egoisticamente una tale rudezza ed insensibilità da parte di altri, che sconcerta chi si trova a dover rilevare contrastanti deprecabili comportamenti. Simpatico, invece è il caso di un ragazzo che si esercitava in falegnameria col suo maestro che, quando costruì delle sedie, piacquero tanto all’orfano che si preparò i modelli in cartone. Il giorno in cui abbandonò la Certosa e ritornò a casa, dopo essersi allestito una piccola falegnameria, le clonò adornando la sua casa. Se un ragazzo faceva una marachella, scattava subito una punizione che lo mortificava innanzi agli altri. Infatti, nell’ora di pranzo, mentre tutti mangiavano, il punito subiva la privazione del piatto di pasta. Inoltre era costretto a stare in refettorio, in piedi, nel centro, e a osservare tutti che mangiavano. Ma in questi casi vi era anche lo spirito di corpo dei compagni che scattava nei confronti del punito che non restava mai a digiuno, perché ognuno lo aiutava portandogli del cibo in camera. Dopo la punizione del pranzo, vi era sempre una suora che di nascosto lo riforniva, dandogli qualcosa da mangiare. Anche la punizione di non dover giocare a pallone, che era il momento più atteso della giornata per divertirsi, diveniva un castigo troppo penalizzante, perché si doveva stare fermi vicino alla rete di recinzione del campo e assistere i compagni che si divertivano. Un’altra imposizione repressiva che si manifestava indesiderata ai ragazzi, era quando veniva intimato la pulizia dei bagni. Qualche orfano, oggi, l’ha definito inumano, però credo che pure se malamente imposta come punizione, pur tuttavia era da ritenersi un metodo correttivo
deprecabile, anche se poi queste mortificazioni saranno sicuramente servite nella vita “all’uomo” per sopportare ben altre e superiori mortificanti difficoltà. Vi erano ragazzi che, introducendosi furtivamente nel reparto mensa o nei ripostigli dei superiori, si accorgevano che il sapore dei cibi che essi provavano era diverso da quello che mangiavano tutti i ragazzi. Ciò accadeva lo stesso durante la vita militare, perché la mensa dei soldati si è sempre differenziata da quella degli ufficiali. I sacerdoti e i maestri erano buoni e comprensivi, molto meno gli assistenti che, invece di convincere gli orfani che certi errori non si dovevano mettere in atto, punivano gli orfani con bacchettate e granone o pietrisco sotto le ginocchia. Erano le punizioni dell’epoca! Un’ insegnante giovane e bella aveva colpito il cuore di un ragazzo. E’ naturale che certe volte queste attrazioni si potevano verificare. Ma la docente era in simpatia con un altro collega, per cui il giovane, colto dalla gelosia e offeso da questo “tradimento”, per vendetta pensò di creare all’uomo dei disagi (non si sa di che genere, sicuramente scortesie e qualche dispetto). Nelle cantine della Certosa vi sono enormi botti e anche queste hanno una storia perché si è conosciuto la paternità del suo costruttore, che era uno zio di uno degli orfani. E il falegname era colui che costruì una valigia di legno che aveva realizzato per suo nipote per fargli mettere tutte le sue cose per entrare nella Certosa. Commovente e triste è la storia di alcuni ragazzi che, in una delle numerose stanze vuote, trovarono un vecchietto, che divenne il loro “nonno barbone”. Ogni giorno, sottraendo qualcosa alla loro dotazione alimentare, senza farsi mai scoprire, lo aiutavano a nutrirsi. Veniva considerato un uomo sfortunato dalla vita, ma onesto. Però un giorno, quando arrivarono vicino a lui per farlo mangiare, lo trovarono morto. Il dolore fu infinito: il loro nonno era finito col sorriso sulle labbra. Il momento più triste per chi lasciava la Certosa al compimento dell’età consentita era quando il ragazzone, divenuto uomo, veniva accompagnato al portone di ingresso. Le ultime raccomandazioni si mescolavano con le lacrime e ogni compagno aveva la tristezza nel cuore. Quegli istanti rappresentavano la fine della fanciullezza e l’inizio, all’esterno, dell’età adulta. Se qualche volta vi era stato fra ragazzi un contrasto ed il rancore era perdurato, la forza del giovane che usciva definitivamente dalla Certosa per affrontare il Mondo, si rilevava quando all’uscita, in un abbraccio, il risentimento scompariva. In quell’istante esistevano solo le lacrime
e forse anche la convinzione che l’ostinazione di un momento, che era stata la causa del diverbio, poteva essere superata, sin dall’origine, con una maggiore disponibilità e tolleranza. Una volta fuori, le difficoltà che emergevano rendevano gli ex Certosini più attenti e vigili, perché vi era sempre un estraneo che pensava di approfittarne; in ogni momento il ragazzo era sempre in allarme e pronto a difendersi. Avevano acquisito una tale oculatezza che riuscivano subito, uscendo fuori dalla loro personale esperienza, a capire là dove vi era una persona buona, da quella dove vi era una persona malvagia e pronta ad approfittarne. Quando si restava orfani, perché il padre era morto in guerra o deceduto in un momento successivo a causa delle gravi ferite riportate, vi erano associazioni che offrivano viveri e lavoro, consentendo così alle singole vedove di poter far sopravvivere la famiglia. Alcune volte anche gli insegnanti si impegnavano a sacrificare parti delle loro stesse sostanze, pur di aiutare ulteriormente un ragazzo e i loro familiari. I professori e i monaci della Certosa, poi, non venivano visti come persone normali, cioè pazienti, buoni, convincenti, ma erano considerati dei veri angeli che sapevano illuminare il cammino dei ragazzi, specie quando la tristezza o la nostalgia della loro casa distrutta da qualche evento funesto li coglieva. Alcuni educatori, invece, erano privi di sensibilità, di umanità e comprensione e ciò rendeva ai ragazzi la vita ancora più difficile e sopportabile. Anche nelle continue conversazioni, gli educatori facevano loro comprendere che il dolore che avevano nell’animo doveva essere utilizzato positivamente, nel senso che doveva servire come mezzo per reagire e per rinforzare lo spirito e la capacità reattiva. Anche un compagno più preparato, alcune volte, innanzi a qualche momentanea difficoltà dell’amico, si metteva a disposizione, dandogli consigli e suggerimenti, o anche ad aiutarlo con lezioni extrascolastiche. Alcuni poi, invero pochi, cancellando ogni ricordo bello o brutto, per la sofferenza dei metodi educativi ricevuti, hanno vissuto sempre male l’esperienza passata, preferendo a questo punto cancellare totalmente quei momenti e non sentire più il desiderio di ritornare o di rincontrarsi con i compagni di quel tempo. Chi invece, dopo tanti anni, ormai adulto e in compagnia della famiglia, ha visitato la Certosa, è stato colto da profonda emozione e da un pianto di felicità e di gioia, perché, nel silenzio del monumento, ha percepito ancora le voci squillanti e chiassose di tutti i compagni dell’epoca.
Rivedersi occasionalmente dopo tanti anni con un professore, ormai incanutito e trasformato nelle sembianze, è servito pure a far scoppiare il cuore ad entrambi, e ciò ha dimostrato che il filo del rispetto e della riconoscenza, sull’onda dei ricordi, non si era mai interrotto. Alcuni figli di ex Certosini, quando giungono per la prima volta a visitare la Certosa, rievocano a se stessi i momenti felici e tristi vissuti all’epoca dal loro genitore, ormai deceduto. E questi figli, rivivendo i racconti del padre, vengono colti dal pianto e dall’agitazione, percependo in quel momento la presenza del genitore che continua a rievocare sprazzi di vita vissuti con i ragazzi della Certosa di Padula. La Certosa, ancor oggi, viene sempre considerata un luogo di grande spiritualità, di emozioni, di rimpianti e di ricordi profondi. Per i sopravissuti, ritrovarsi dopo decenni, è divenuto un luogo di spirituale appagamento e di desiderio di voler ritornare a vivere quell’aria familiare di armonia e di gioia, e ciò avviene anche per i figli degli ex Certosini o per i parenti. Rivedersi, oppure scoprire nuovi volti di ex compagni cambiati nelle sembianze del tempo e dell’età, crea un’infinita felicità. Ricordiamo anche che la maggior parte degli orfani, nonostante le subìte disgrazie, hanno riscattato dalle avversità la propria vita, riuscendo a progredire nel loro avvenire e ringraziando sempre per l’accoglienza e per l’istruzione ricevuta i fondatori Padre Semeria e Don Minozzi, oltre che gli altri sacerdoti e suore. Questi ragazzi, sotto l’amorevole autorità di Don Minozzi e di Padre Semeria, ricevendo affetto ed istruzione, sono riusciti a conquistare nella vita ed in seno alla famiglia la via dell’onestà, della rettitudine e del lavoro. La raccolta poi, di tutte le esperienze vissute, sono servite non solo a ricostruire la storia del loro passato, di ben mille ragazzi, ma anche a conoscere la via che ognuno ha percorso. Si è anche rilevato che in prevalenza, quasi tutti fortemente temprati, sono riusciti con la forza interiore a superare nella vita le difficoltà e gli ostacoli incontrati. Ormai, con la maggiore età, non erano più ragazzini, erano divenuti dei veri e coraggiosi uomini. In ultimo, le numerose foto esposte, hanno indotto i visitatori alla sacrale venerazione e al pieno rispetto di quel luogo, oltre che ad una profonda e sentita commozione, per cui, tutti i messaggi e le firme apposte sul registro delle frequenze dalle persone arrivate in Certosa da tutto il mondo, sono divenute le espressioni più sentite, di rispetto e di commiserazione verso la sofferenza e il dolore di quegli orfani e verso
l’eroica iniziativa di quei meravigliosi fondatori. I sentimenti e le emozioni trasferiti sulle numerose pagine da chi durante la visita ha conosciuto la bellezza della Certosa, continuano ad ampliarsidi incredulità e di meraviglia, allorché, -cosa che in molti totalmente ignoravano-, hanno appreso l’eroica e palpitante storia degli ex Certosini di Padula. Credo che la Cella n. 6 del San Lorenzo a Padula abbia potenziato ed aumentato il fascino della stessa Certosa, perché i visitatori, nel prendere diretta conoscenza della grandiosità di questo antico mirabile monumento, nello stesso tempo, nell’osservare in rispettoso silenzio tutti i documenti e le rimembranze che sono collocati dagli ex Certosini in quelle sale, sono colti da profonda commozione e profonda ammirazione verso queste commoventi storiche testimonianze. Alla fine ci si accorge che tutti gli ospiti si allontanano dal selciato della Certosa con l’animo triste, ma felici di aver conosciuto la bellezza di una maestosa Certosa e la grandezza di due nobili cappellani: Padre Giovanni Semeria e Don Giovanni Minozzi, che seppero sacrificarsi per aiutare ed avviare i moltissimi orfani raccolti verso una vita migliore di quella che la sorte aveva inizialmente loro assegnata dopo la morte del loro indimenticato Genitore. Angelo Di Lieto ex minozziano Un doveroso ringraziamento va rivolto con affettuosità e stima agli ex Certosini Aristide Cirillo e Giuseppe Iannaccone, per avermi fornito delle precise storiche notizie con varie foto e che riguardavano più in particolare i loro ricordi ai tempi della Certosa di Padula.
Gli altri Quaderni SPECIALE Supplemento della La CIMINIERA. Ieri, oggi e domani Registrazione al Tribunale di Catanzaro n.50 del 24/07/1996 I° Edizione - Settembre 2020
Padre Giovanni Semeria