Le Maschere della personalità e il Teatro della sopravvivenza - Donatella SALVA'

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LUMH LIBERA UNIVERSITÀ DI STUDI PSICOLOGICI EMPIRICI MICHEL HARDY

LE

MASCHERE

DELLA

PERSONALITA’

E

IL

TEATRO

SOPRAVVIVENZA: ISTRUZIONI PER L’USO IN CHIAVE EMPIRICA

TESI PER L’ESAME F.A.I.P. DI DONATELLA SALVA’

10/11 GIUGNO 2011 Castel SanPietro

Titolo professionale: Counselor in Discipline Psicologiche Empiriche

DELLA


INDICE

1.0LA VITA È UN TEATRO E IL TEATRO È CIÒ CHE LA VITA È

pag. 3

1.1 Il teatro e il suo ruolo

pag. 3

1.2 Il teatro della persona

pag. 6

2.0CORPO E MENTE: “SENTIRE” LE EMOZIONI

pag. 8

2.1 Supremazia della mente sul corpo?

pag. 8

2.2 Gli indicatori emotivi e il perché delle nostre maschere

pag. 9

2.3 L’approccio empirico

pag.11

2.4 Integrazione tra corpo e mente

pag.13

3.0 LA PSICOLOGIA EMPIRICA

pag.17

3.1 Il sistema e l’ordine armonico/ esperienze di teatro

pag. 17

2.2 I ruoli sistemici

pag. 22

2.3 Il copione personale

pag. 27

2.4 Codice yin e yang

pag. 31

2.5 Il teatrino delle coppie

pag. 37

4.0 IL DEBITO SISTEMICO: MASCHERE E PERSONALITA’

pag. 46

4.1 Il debito empirico

pag. 47

4.2 Luce ed ombra: perché indossiamo le nostre maschere

pag. 50

4.3 Le maschere della personalità: Il cavaliere dall’armatura arrugginita pag. 53 5.0 L’ESPERIENZA DEL “TEATRO DEL SE’”

pag. 64

6.0 ESPERIENZE DI LABORATORIO TEATRALE IN CHIAVE EMPIRICA pag. 69 6.1 Il laboratorio teatrale

3

pag. 69

6.2 il tema del viaggio

pag. 71

6.3 Il mio viaggio

pag. 73

6.4 Esperienze di laboratorio

pag. 78

6.5 Lavoro sul Sé

pag. 82

Conclusioni

pag.


BIBLIOGRAFIA (e WEBOGRAFIA)

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pag. 86


CAPITOLO 1

LA VITA È UN TEATRO E IL TEATRO È CIÒ CHE LA VITA È. Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa andare bene come sei. Quindi: vivi come credi, fai quello che ti dice il cuore... La vita è un’opera di teatro che non ha prove iniziali. Canta, ridi, balla, ama... e vivi intensamente ogni momento della tua vita... prima che cali il sipario e l’opera finisca senza applausi....

(Charlie Chaplin)

1.1

IL TEATRO E IL SUO RUOLO

La teatralità, nell’accezione più ampia del termine, è per l’uomo un’esigenza primaria e necessaria di espressione, non solo come spettatore. L’immagine di sé, che si trasmette a chi ci sta vicino, è, adesso più che mai, idolatrata e, per costruirla, l’uomo ha bisogno di figure di riferimento: i bambini imitano i propri genitori, gli adolescenti imitano i propri amici e gli adulti imitano il modello irreale e ideale di persona che hanno deciso di essere e di mostrare agli altri. Il teatro è l’uomo che imita l’uomo, con le sue debolezze, i suoi sogni e le sue fantasie: il teatro è vita, ma rappresenta CIO' CHE LA VITA E'. Le rappresentazioni teatrali, come già nella pólis della Grecia classica, interpretano le idee, le vittorie, i problemi, le frustrazioni e la vita politica della comunità che le partorisce, per cui lo spettacolo teatrale non è semplicemente un’occasione di

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divertimento e di evasione, ma anche un momento d’incontro, di apprendimento e di approfondimento, per tutti coloro che vi partecipano. A teatro allo spegnimento delle luci, si entra in uno stato alfa, ossia in uno stato di rilassamento, quasi onirico, in cui l’inconscio esce fuori con i suoi simboli e “si sente” cosa avviene dentro di sé. Anche l’attore, come lo spettatore, man mano che i fari, che inizialmente accecano, si abbassano, comincia ad intravedere i visi degli spettatori, perdendo quello stato beta, in cui la mente è sempre vigile. Infatti, quando scende il buio per la visione di uno spettacolo, si abbassano le frequenze del cervello (come del resto avviene quando siamo davanti alla televisione e, soprattutto, quando viene mandata in onda la pubblicità) ed è in quella solitudine, in cui si perde quell’entità, spesso finta, che assumiamo nella vita quotidiana, che i messaggi “veri” del teatro arrivano con tutta la loro pienezza. Al cinema si possono sperimentare le stesse sensazioni, ma mentre qui le figure si muovono come “fantasmi”, che sono proiettate su uno schermo, nel teatro c’è “un’anima” che vive e passa le sue emozioni: se queste sono sentite e profonde e lo spettatore riesce a trovare risonanze con il suo mondo interiore, porterà con sé un’esperienza che ricorderà nel tempo, anche se, spesso, non a livello cosciente. L’arte del teatro, infatti, che vive di attimi e nel presente, ossia nel qui ed ora, se non lascia qualcosa a chi la fruisce, rischia di perdere il suo reale valore. In realtà il teatro non è inteso solo come spettacolo cui si assiste, ma anche come luogo in cui si crea e a cui si partecipa attivamente, tanto da mettere in moto meccanismi personali, spesso nascosti. Il laboratorio teatrale, infatti, come lo psicodramma o, anche se in modo diverso, le Costellazioni familiari, è una pratica creativa e stimolante rivolta alla conoscenza di se stessi e al miglioramento della relazione con gli altri. Il suo obiettivo consiste nel raggiungimento del benessere personale, attraverso la scoperta del senso della propria storia e cambiamenti e trasformazioni si possono attuare, grazie al potere catartico insito nella messa in scena di sé. Il drammatizzare, quindi, diventa un modo per dare una risoluzione al conflitto psichico, è una tecnica attiva, che ha una portata maggiore soprattutto con la presenza di un gruppo, che, se ben “riscaldato”, supporta il singolo, facendo si che i confini dell’Io si indeboliscano e che emerga quella realtà gruppale, capace di produrre quel coinvolgimento comune, che poi crea il cambiamento.

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Si instaura, infatti, una relazione interpersonale caratterizzata da una dimensione di profonda comunione che la sorregge: “L’incontro di due occhi negli occhi, viso a viso…. E quando tu sarai vicino scambierò i tuoi occhi con i miei e viceversa, cosicchè io ti guarderò con i tuoi occhi e tu mi vedrai con i miei” ( Moreno 1985) Il teatro, quindi, può produrre cambiamenti ed è dunque terapeutico e potenzialmente liberatorio, quando realmente esprime i bisogni e le emozioni delle persone e se promuove non tanto la produzione artistica in sé, quanto l’atto creativo che la sottende.

“In questa nostra società, in cui tutte le cose vengono fatte velocemente, non importa se male; in cui la lentezza, di cui necessita la scoperta e la cura dei fatti, è considerata un approccio noioso e controproducente, abbiamo bisogno di fermare il tempo e trovare in noi una prospettiva emozionata ed emozionante, che risvegli il senso della bellezza e la poetica delle cose. Il teatro è gioco, divertimento, ma anche uno strumento che ci permette di vedere la realtà da prospettive diverse, portando alla nostra vita più fisicità, più azioni e un patrimonio di nuove espressioni da mettere in gioco” (Roberto Cajafa). Il teatro, così insieme alla pratica-empirica di Michel Hardy, può diventare uno strumento potente per un nuovo approccio alla persona, perché, in perfetta sinergia, questi due modi di investigazione della realtà empirica, possono stare al servizio dell’espressività e del suo palcoscenico eterno… la vita. (Michel Hardy)

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1.2 ”IL TEATRO DELLA PERSONA”.

“Il teatro è lo specchio della nostra anima e la nostra anima si rispecchia in ogni cosa che facciamo o, ancor di più, che non facciamo”, ( Michel Hardy)

Questo modo di affrontare l’interazione tra ciò che siamo e ciò che in realtà mettiamo in scena ogni giorno della nostra vita è la base del lavoro del seminario esperenziale, all’interno del percorso della LUMH, “Il Teatro del Sé”, in quanto, Magister Michel Hardy, parte dal presupposto che ognuno di noi, nel quotidiano, quindi in casa, al lavoro, nel tempo libero, recita un ruolo cercando di interpretare quello che vorrebbe o non vorrebbe essere, seguendo un copione, che ripete meccanicamente.

“Attraverso le dinamiche ed gli stimoli del Teatro del Sé possiamo entrare in contatto con la nostra autenticità emotiva, relazionale ed espressiva, sperimentandoci nella “non finzione”; facendo emergere i nostri “buchi emotivi”, lasciamo che il Sé riveli i suoi segreti, per cui si possono svolgere indagini approfondite nell’ ambito del vissuto individuale di ciascuno, per fare uscire poi

i meccanismi di auto-boicottaggio che

utilizziamo nella vita, illuminando le strategie inconsapevoli e gli schemi mentali profondi che ci impongono un ruolo da sostenere” “Il "Teatro del Sé" apre il sipario del nostro palcoscenico privato, ci guida fuori dalle "quinte", liberando il corpo dalle maschere e l'anima dalle corazze. Quando ci sentiremo stanchi di dimostrare e preferiremo essere, il "Sé" illuminerà le nostre ombre. Potremo così interpretarle, integrandole in quella parte sana e vitale di noi che è al servizio dell'amore, della libertà e della conoscenza. (Michel Hardy)

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L’esperienza diretta, così, permette all’individuo, grazie alla sua capacità di autoosservazione, di decentrare l’osservazione da quella parte dell’io che recita la scena, facendogli prendere coscienza del suo modo di relazionarsi con se stesso e con gli altri. Mettendosi in gioco, il protagonista si può liberare dalle sovrastrutture costruite nel corso della sua vita, che hanno nascosto il suo mondo interiore, favorendo un incontro più autentico con gli altri. Inoltre, durante il succedersi delle scene, è possibile rivisitare la rappresentazione interiore dei ruoli con figure significative della propria esistenza, prendendo coscienza delle strategie di auto-boicottaggio che attuiamo nella vita di tutti i giorni. La spontaneità è una possibile spinta verso la trasformazione ed è importante liberarla e stimolarla, perché opera nel presente, nel qui e ora, che ripresenta inevitabilmente il “là e allora”, che scopre “imperativi antichi”, operanti sui comportamenti attuali, liberando potenzialità nuove, che tendono a promuovere il cambiamento. Attraverso la drammatizzazione si possono portare, quindi, nel presente, situazioni del passato e diventa terapeutico non tanto ricalcare gli stessi sentimenti già provati, quanto riviverli integrandoli nel presente. Rimettendo in gioco complessi, inibizioni, conflitti, ce ne si può liberare, anche con l’aiuto della dimensione “protetta” del gruppo, che permette ai soggetti di raggiungere un grado profondo di esplorazione della verità: come la maieutica di Socrate, così anche il teatro può fare accedere alla propria verità. L’esperienza teatrale-empirica, come le costellazioni familiari, offre la rara possibilità di rivivere drammaticamente scene di vita passate o presenti, di riaprire questioni conflittuali mai risolte, che possono continuare ad influenzare inconsapevolmente il nostro agire quotidiano.

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Claude Monet Impression, soleil levant) (1872).

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CAPITOLO 2

CORPO E MENTE: “SENTIRE” LE EMOZIONI

2.1 SUPREMAZIA DELLA MENTE SUL CORPO?

La filosofia antica e moderna, l’epistemologia che ne è derivata e l’impianto dottrinale del cristianesimo, che si fonda sull’antropologia dualistica, mutuata da questa eredità filosofica, ci hanno abituati a pensare ad una supremazia della mente sul corpo e ad una separazione tra la sfera della razionalità e del nostro approccio cognitivo al mondo e la sfera del sentire. Nonostante la filosofia contemporanea abbia superato ed invertito questa concezione, tale eredità fa da sfondo al nostro modo di intendere la relazione tra pensare e sentire, per cui la supremazia della mente sul corpo e del pensare sul sentire dipende da un convinzione difficile da sradicare, perché prolungatasi nel tempo. In realtà la mente non riesce ad andare oltre una certa soglia, che può essere superata solo dal “sentire”, la cui disattenzione, però, ha portato all'assenza familiare e sociale di una educazione sentimentale; alla convinzione culturale che i sentimenti abbiano una loro spontanea naturalità, determinata dai legami biologici di sangue e parentela; alla non considerazione del corpo come medium vivente nelle dinamiche relazionali. L’emozione è un’improvvisa alterazione di uno stato affettivo, che costituisce una risposta involontaria e reattiva a eventi o situazioni positive o negative; altera lo stato al quale sopravviene, si fa notare da chi la vive, oltre che dagli altri. Gli stati emotivi sono eventi che occupano il presente e la coscienza del soggetto che le prova e si consumano nell’attualità. Le emozioni hanno luogo nel teatro del corpo e, quando vengono registrate nel cervello, si formano i sentimenti, componenti fondamentali della nostra mente, che altro non sono che la percezione dello stato del corpo in un dato momento, unita alla percezione di una particolare modalità di pensiero. Non esiste quindi dicotomia tra mente e corpo, poiché la mente è fatta di immagini, rappresentazioni o pensieri relativi alle parti del corpo, che agiscono spontaneamente o subiscono modificazioni, indotte dall’ambiente. La sfera del sentire non è una dimensione passiva ed ogni esperienza della nostra

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vita si accompagna a un certo grado di emozione, sia negativa che positiva, che si evidenzia, soprattutto, quando si presentano problemi personali e sociali importanti.

2.2

GLI INDICATORI EMOTIVI E LE NOSTRE MASCHERE

Le emozioni sono, quindi, modi di comprendere il mondo e se stessi, perché è proprio nell’esperienza del sentire che l’essere di ciascuno si vive ed attiva una parte interna: la sfera affettiva, infatti, è la sfera di esperienza dell’interiorità e della profondità della persona o Sé. Naturalmente, secondo questi assunti, assenza di sentire, a livello profondo, significa assenza di vita personale, perché gli stati d’animo sono gli indicatori di ciò di cui viviamo e ci orientano precisamente sul nostro stato empirico, anche se non ci indicano chi siamo, ma solo come stiamo. Questi indicatori sistemici, infatti, ci permettono di relazionarci agli altri, secondo determinati parametri, per cui incontriamo e ci mettiamo in relazione spesso con chi fa da specchio alla nostra ombra ed è portatore dei nostri stessi indicatori empirici. L’eccesso o la mancanza di un’emozione, all’interno dell’assetto emotivo, mettono in evidenza uno stato empirico preciso, attraverso l’indicatore attivo, in quanto possono sia svelare situazioni che sono nascoste anche a chi le prova, sia il ruolo alterato che si impersona, dando la possibilità di riavvicinarsi all’ordine armonico e di avvicinarsi al proprio indicatore passivo, che è sempre vissuto con paura e rifiuto. Ogni stato emotivo dà anche una segnalazione empirica sul debito accumulato, ma non è in grado di intaccare l’anima e di coinvolgerla nelle sue dinamiche invadenti, perché essa si rende disponibile solo per i moti d’amore. In realtà se l’anima si distacca dal libero fluire, si ritira per potere sopportare il dolore dato dall’infrazione sistemica, che diventa la normalità dell’agire di una persona e mette in atto strategie di compensazione, facendo nascondere all’individuo il debito accumulato, pur di non soffrire. Solo nel momento in cui la qualità del debito diventa eccessiva e il singolo si rifiuta di affrontarla, l’anima subisce un inquinamento tale, che si inaridisce, come un albero che marcisce dalle proprie radici. Il singolo fissa il dolore al livello della coscienza empirica e, così, non lo può riconoscere come tale, anestetizzandosi e distaccandosi dal proprio sentire: ecco perché il sentire è condizionato dal proprio debito. Il sistema armonico, però, utilizza anche degli indicatori empirici, che crescono

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nell’ombra della persona, a fin di bene, mentre la mente li nega e li rimuove. Sono questi gli indicatori passivi, che affiancano quelli attivi ed incidono maggiormente sulla personalità: nel momento in cui non possono essere più contenuti, la persona si rende conto di quello che succede, perché non può aggirare gli impulsi emotivi dell’indicatore. Così l’individuo si rende conto che qualità ed atteggiamenti che gli sembravano naturalmente parte del suo carattere, sono in realtà una copertura del suo distacco empirico in quanto aggirando gli indicatori empirici, ci si allontana da ciò che più spaventa, ossia la parte ombra. La paura è l’indicatore passivo che ci porta a far indossare una serie infinita di maschere al nostro personaggio esteriore, in quanto lavoriamo instancabilmente per tenere in piedi una facciata, che impedisca a chiunque di intuire quali siano i nostri pensieri più nascosti, i desideri, gli impulsi e la storia di cui siamo fatti. E’ l’ombra del nostro passato, che ci induce a creare l’immagine che mostriamo all’esterno: la nostra personalità esteriore, infatti, non si è creata per caso, ma è il frutto di un’elaborazione volta a mascherare quegli aspetti che riteniamo censurabili e a compensare quelli che consideriamo come i nostri peggiori difetti. Se i nostri genitori erano imprevedibili dal punto di vista emotivo, cosa che costituisce una ferita profonda, cercheremo di rimandare un’immagine di calma ed autocontrollo; se abbiamo avuto una madre che si lamenta sempre del suo stato di salute e di ciò che la vita le ha rimandato, ci trasformeremo in persone sempre sorridenti, che portano avanti la bandiera dello “sto sempre bene”. Se il padre è una persona onesta, che vuole assolutamente stare nelle regole, probabilmente faremo di tutto per andare contro i suoi principi. Se consideriamo la nostra vita un fallimento, cerchiamo di sembrare l’opposto e così se, tormentati da un senso profondo di insicurezza, sviluppiamo una personalità esterna arrogante e saccente. Queste maschere ci illudono di conoscerci a fondo e che siamo le persone che l’immagine dello specchio ci rimanda, ma in realtà ci precludono altre possibilità, come di sperimentare quello che “sentiamo” veramente e quello che potremmo essere e diventare. La mente non realizza minimamente che, molto spesso, ci relazioniamo con gli altri, seguiamo i nostri desideri e finalizziamo il nostro operato soltanto mettendo su un “palinsesto”, una messa in scena per non sentire ciò che realmente è. L’immagine che ci siamo creati di noi stessi, infatti, spesso è molto diversa dalla nostra

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vera personalità: la mente non fa altro che agevolare questo gioco d’ombra, creando tutti gli argomenti necessari a trarci in inganno, mettendo in moto un meccanismo di auto-depistaggio, atto ad eliminare ogni dubbio sulle sensazioni che, spesso, ci dicono altro. Il desiderio di prendere le distanze dalle emozioni indesiderate, ci spinge a trovare qualcosa che ci possa fare stare meglio, così mettiamo in atto i nostri comportamenti autodistruttivi. Se, per esempio, lottiamo da anni con i chili di troppo, il vizio delle sigarette o dell’alcool, lo shopping compulsivo e ci ritroviamo sempre allo stesso punto o in condizioni peggiori, significa che non abbiamo saputo riconoscere le emozioni represse e l’ombra nascosta e quindi la vera origine dei nostri problemi, senza potere sradicare definitivamente il pattern comportamentale che ne consegue.1 Se i moti emotivi ci inducono ad una sensazione di disagio, interviene subito l’analisi della mente logica, che ha la pretesa di dare una risoluzione immediata: in realtà la causa empirica sfugge all’intelletto, soprattutto quando i debiti accumulati sono ingenti e partono dall’infanzia. Per essere certi che il nostro vero Sé, pieno di difetti ed imperfezioni, non possa essere scoperto, sviluppiamo caratteristiche opposte a quelle che vogliamo nascondere, depistando gli altri e noi stessi, sbarazzandoci delle sensazioni negative, legate agli aspetti più inaccettabili della nostra personalità. La mente, così, in mancanza di una consapevolezza, tenta di dare motivi ragionevoli alla comparsa della paura, della rabbia o del senso di colpa, discostandosi quasi sempre dalla vera causa empirica, cosa che crea una distorsione sulle ragioni dei propri sintomi e malesseri, senza metterli in correlazione con l’ordine armonico. Così è la maschera che ci siamo costruiti, che assume il controllo delle situazioni: solo smettendo di fare finta di essere ciò che non siamo affatto, senza nascondere o ipercompensare punti deboli e forti, avremo la libertà di esprimere il nostro Sé autentico, senza avere più paura del giudizio nostro e degli altri: questa è la via per uscire dalla trappola del nostro copione personale.

2.3 L’APPROCCIO EMPIRICO Nessuna emozione è infondata, ma aggiungendo l’ingrediente dell’auto-giudizio, ci possono danneggiare tutte.2 Il senso di un approccio empirico sta nel fatto di portare la persona a comprendere la 1

The shadow effect

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propria realtà empirica attraverso l’accostamento ad i suoi indicatori passivi. Il nostro corpo ha una grande apertura sul reale e la percezione, che passa attraverso esso, assume il significato di un'esperienza primaria. "Il corpo è il nostro mezzo generale di avere un mondo… Il mio corpo è il mio punto di vista sul mondo”. Ogni moto emotivo mette in moto dei meccanismi che coinvolgono l’essere umano a tre livelli: psicologico, comportamentale, fisiologico. Il cuore pulsa, le mani sudano, il respiro è affannoso, le gambe tremano…: sono eventi fisiologici, sensazioni che accompagnano molte emozioni, piacevoli, come l’amore o spiacevoli, come la paura. L’emozione, soprattutto se profonda, provoca alterazioni somatiche, che coinvolgono il sistema nervoso centrale, quello muscolare e quello endocrino. Si registrano variazioni significative nella produzione di adrenalina, lo stesso ormone che si attiva, quale risposta allo stress. Ci sono emozioni che possono essere espresse direttamente attraverso il corpo, in quanto ogni emozione, per evidenziarsi, passa necessariamente da esso ed altre che, per una qualche ragione, non trovano espressione diretta, ma rimangono ferme in parti di esso. La scelta tra ciò che diventa un pensiero o un’emozione espressa coscientemente e ciò che si ferma, rimanendo qualcosa di non digerito e sepolto in qualche area del corpo, viene mediata dallo stato empirico in cui ci troviamo. Il ricordo ed il vissuto personale sono codificati ed immagazzinati e rimangono inconsci fino a quando non viene riportato a coscienza attraverso una stimolazione delle parti di noi sepolte e delle aree corporee correlate. Ogni persona alterata sperimenta un moto emotivo predominante, che catalizza tutte le sue sensazioni e percezioni. Questi moti possono o segnalare la violazione dell’ordine e ci mettono in contatto con quanto di doloroso e rimosso c’è nel nostro Sé, come la rabbia, la tristezza, lo stato di angoscia e d’ansia; o il permanere della persona nel libero fluire, che diffondono sensazioni positive. Ogni indicatore empirico proviene, quindi, da una diversa qualità di debito, in grado di cambiare le strategie vitali, cioè la personalità del suo portatore. Il moto che, comunque, predomina nella nostra anima è sempre l’amore, anche se ci sentiamo spaventati, depressi e rabbiosi.

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Nei popoli occidentali è radicata l’idea che la passione coincida col "perdere la testa", in quanto la passionalità, nella nostra cultura, è legata all'idea di un'eccitazione, che annulla la capacità razionale di guidare le emozioni e ci spinge ad agire con l’impeto del momento. Ecco quindi l’ambivalenza della passione: la negatività della perdita di ragione contro la positività della liberazione delle proprie emozioni. Esistono, però, fortunatamente, altre culture in cui quest’ambivalenza non esiste, dove l'idea di passione, intesa come modo di subire gli eventi non è così traumatica, ma anzi stimola il contatto con una realtà interiore profonda. Nel Tantra, per esempio, si notano caratteristiche estranee alla nostra idea di passione: nessuna rivincita dei sentimenti rispetto alla ragione, ma piuttosto una sana collaborazione. La mente non è spazzata via dall'istinto, ma segue la corrente emozionale, incanalandosi nel flusso, fino a confondersi col tutto e a sparire. Per capire questa sensazione, così diversa dalla nostra, si può provare a guardare il movimento dell'acqua che passa nel terreno; osservandola mentre riempie gli spazi, aggira gli ostacoli, avanza e ritorna su se stessa e come conquista la discesa e colma la salita. 3

2.3 INTEGRAZIONE TRA CORPO E MENTE

Il termine “integrazione” viene ad indicare il momento in cui questi vissuti emotivi, in quanto parti della persona, vengono reintegrati nel corpo attraverso un lavoro di riappropriazione, con il risultato di una maggiore fluidità fisica e una conseguente armonia psichica. Chiudere la porta in faccia alle emozioni è pericoloso, dato che esse trovano sempre una strada per farsi sentire, facendo danni incalcolabili. Il debito empirico si propaga come un virus, portando a disconoscere le emozioni, che si confondono una con l'altra ed infine perdono il loro nome proprio: così la tristezza diventa ansia, la paura diventa rabbia ecc. In realtà ogni effetto è legato alla causa, ma spesso ciò che noi riteniamo le cause dei nostri malesseri, sono solo gli effetti. Infatti, con l'abitudine a questi enigmi, non si sa più che pesci pigliare e il moto emotivo non ha più voce: l'energia trova comunque un viottolo per uscire allo scoperto, facendo passare la fame, facendo venire il prurito, la gastrite, il mal di testa e così via. Quando finalmente elaboriamo le ferite del passato, la carica emotiva cambia: così la 3

Corpo, anima e cervello: Emozioni di Linda Scotti

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malinconia si trasforma in slancio vitale, la rabbia lascia il posto all’ auto valorizzazione ecc. modificando, praticamente, il carattere delle persone. Non si tratta di un cambiamento della natura profonda, ma di un maturazione del loro modo di esprimersi, basato su una nuova libertà, cioè quella di potere essere finalmente autentici. Quanta fatica gettata al vento nell'idea fissa di controllare e di gestire le emozioni: non sarebbe molto più semplice lasciare che ci aiutino a raggiungere i nostri desideri, dato che sono segnali di qualcosa che accade nel corpo e indicano la direzione da prendere, sapendo qual è il nostro bene…… molto meglio di noi! Il corpo è, dunque, il vero rivelatore del nostro stato empirico, mentre la mente……mente fondamentalmente.

ESPERIENZA PERSONALE A questo proposito vorrei dire della mia esperienza al seminario “Il digiuno dell’anima”: uno dei primi giorni di attività ( se si può chiamare così in un seminario in cui finisce per prevalere la lentezza e l’abbandono di ogni resistenza fisica!) ci è stato data la possibilità di sperimentarci, buttandosi all’indietro, ad angelo, dal ciglio della piscina, cosa che rappresentava metaforicamente “l’abbandono” al libero fluire e il “lasciare andare”. Vedendo i miei compagni che eseguivano l’esperienza, mi sono detta di come fosse facile, che sarei stata “brava”, che il mio corpo, da siciliana abituata all’acqua del mare, che io considero elemento primario nella mia vita, non avrebbe avuto alcuna difficoltà. Mi sono anche permessa di notare, tra me e me, come alcuni non riuscissero a

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mantenere il corpo dritto, nel buttarsi e di quante resistenze incontrassero in questo abbandonarsi, segno di tutte le loro alterazioni empiriche. Arrivato il mio turno, sono andata spedita, sicura del mio “successo”. Mi sono messa con un profondo respiro di spalle all’acqua e mi sono lanciata convinta. Quale è stato il mio stupore nell’accorgermi che il mio corpo se ne è assolutamente infischiato della mente e, nel momento stesso in cui era in diagonale con l’acqua, le gambe si sono piegate, la schiena si è inarcata, dalla mia bocca è uscito un urlo di terrore, facendomi rovinosamente cadere in acqua come un “baccalà”, con il risultato di bere e di farmi sentire tutta la “sconfitta” della mia mente. Questa, per me, è stata la prova evidente di quanto uno “se la racconti”!

Esaminiamo, ora, più approfonditamente, la filosofia psicologica-empirica del Prof. Hardy, che parte dalla concezione di un sistema, che sta alla base del divenire delle cose. Questa parte sarà esemplificata da esperienze di lavoro su due temi, datici durante la mia esperienza laboratoriale di teatro, che sarà elaborata nell’apposito capitolo. Il primo itinerario di scena era quello di descrivere una parabola, evocando dentro di sé un viaggio, con delle tappe ben definite: la nascita, la fanciullezza, le prime disillusioni, la maturità ed infine la vecchiaia, che poteva comprendere il decadimento fisico o anche la morte. Il secondo, lo sviluppo della seguente frase: “Negli smisurati ampi spazi, negli sterminati tempi, nell’immagine del mondo, nel profondo del tuo cuore, solvi al grande enigma il mondo” L’unica regola da seguire era quella di tirare fuori le sensazioni senza paura, in quanto l’unico errore sulla scena e, direi, nella vita, è rappresentare e non vivere. L’ambiente è protetto, non c’è giudizio da parte di nessuno, l’importante, soprattutto, è non auto-flaggellarsi! Il desiderio, infatti, di prendere le distanze dalle emozioni non desiderate, ci spinge a trovare qualcosa che ci possa far stare meglio…….ecco il perché, paradossalmente, dei nostri comportamenti auto-distruttivi. Tutte le nostre emozioni sono valide, ma se inseriamo l’auto-giudizio, diventano tutte negative, danneggiandoci. “Buttando fuori”, si ha la possibilità di conoscere parti di sé, su cui si può lavorare facendo l’attore, ma questo avviene non solo in teatro, ma anche nella vita

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interpersonale, dato che i nostri percorsi di solitudine, se si incontrano con quelli degli altri, saltano subito, se non conosciamo le dinamiche di fondo. Questo è stato, quindi, un lavoro di apertura, dato che ci è servito a capire, sulla scena, dove andare a “pescare” le nostre emozioni, in un viaggio libero da coordinate temporali o spaziali, attraverso visioni fantastiche e universi inesplorati. I nomi dei protagonisti sono inventati.

Jan Vermeer, Ragazza col turbante

CAPITOLO 3

LA PSICOLOGIA EMPIRICA

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3.1IL SISTEMA E L’ORDINE ARMONICO/ ESPERIENZE DI TEATRO

Alla base della psicologia empirica vi è l’esistenza di un sistema, che è al di sopra di tutto quello che siamo e che contiene modelli di comportamento che vanno al di là delle regole che l’uomo si dà. Nella sua unicità, non ha né inizio, né fine ed è quel contenitore arcaico che contiene le matrici di eccellenza, cioè i principi attivi, i diritti e gli obblighi dello Yin e dello Yang, ossia dei ruoli empirici d’eccellenza. Esso è l’artefice dei moti empirici, che sono sinuosi e morbidi e costituiscono il movimento di fondo, che sta alla base di ogni emozione o sensazione. Tali moti conoscono solo un comune denominatore: il proprio essere e le sue innumerevoli dinamiche vitali. I moti, infatti, creano delle traiettorie sulle quali si formano i vari ruoli empirici, che il singolo impersonerà, esprimendo il suo principio vitale. Il sistema non è Dio, non ha implicazione religiose, né segue le impostazioni sociali e di vita che l’uomo si è dato nel corso dei secoli, sfugge alla comprensione a prima vista ed è governato dal solo principio di causa ed effetto, dando così origine all’ordine armonico. “Il rapporto tra l’ordine e il sistema si può paragonare tra quello che esiste tra una persona e il suo corpo, che sono interdipendenti, dato che l’uno è contenuto nell’altro essendone la sua manifestazione visibile. Il sistema corrisponde alla persona, l’ordine costituisce il suo corpo, il suo fare ed il suo manifestarsi. Poiché le due cose interagiscono continuamente, non si possono distinguere nettamente, (fare ed essere si fanno da specchio), ma è proprio questo che permette all’individuo di vivere ed esprimersi.” (Michel Hardy)

ESPERIENZA DI TEATRO Poiché durante la rappresentazione degli stati d’animo riguardo il secondo tema del laboratorio, molti di noi non sono riusciti a tirare fuori l’emozione, troppo compressa nel corpo, il regista ha fatto eseguire, ove il caso lo richiedesse, questo esercizio: una

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persona viene sollevata e tenuta stretta ai quattro arti, da altrettanti uomini, che non le permettono i movimenti. Chi blocca si concentra sul non farsi sfuggire il “pazzo” che ha tra le mani, per chi è bloccato sarà il raggiungimento della catarsi, della liberazione e della trasformazione. Lo scopo, per gli uni, è quello di “contenere”, per il protagonista è quello di permettere al corpo di divincolarsi, nonostante la paralisi forzata e, quindi, simbolicamente, di liberarsi da tutte le sovrastrutture accumulate nel corso della vita.. Se non si rompe il muro dell’esteriorità, scavando interiormente e “sentendo” l’emozione, soprattutto raggiungendone gli apici, non si può contattare la propria ombra. E visivamente ed emotivamente, si viene coinvolti in questa catarsi, che si è svolta davanti ad i nostri occhi, anche come “pubblico”. In realtà ho trovato molta affinità, nel corso della sezione “individuale” del laboratorio teatrale, con le esperienze sull’esternare, per esempio, la rabbia verso il padre o la madre o comunque con buona parte degli esercizi che tanto valore empirico hanno nei seminari del percorso LUMH.

L’ordine armonico lascia l’uomo libero di sbagliare e di compiere atti contro-sistemici, senza giudicarlo e senza punirlo, ma lo avverte dell’entità del suo debito e della sua violazione, obbligandolo a prendersi responsabilità precise del suo fare; non lo prevarica, perché non ha una personalità o un ego da difendere, dato che il suo unico fine è quello di cautelare se stesso. Solo nell’ordine armonico, ossia nell’assenza di debito, l’anima può scoprire uno stato di pace sul piano del sentire, dato che solo in questa condizione l’individuo sperimenta uno stato di chiarezza e serenità ed un equilibrio interiore. Fino a quando l’individuo ne rimane collegato, si immerge nel libero fluire, che dà la sensazione di pienezza e di gioia di vivere. Seguendo binari empirici precisi, l’ordine non viene violato perché si è sintonia con il sistema in modo profondo, essendo in contatto con il suo moto principale: l’amore. La vita affettiva, l’auto-realizzazione sono piene e, a prescindere dalle condizioni esterne, che possono contrastare o meno, si sperimenta uno stato luminoso e fluttuante, perché si è in grado di rimanere nel proprio equilibrio, essendo in condizione di apertura, di disponibilità e di flessibilità.

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Eliade, donna finta Yin, è, apparentemente, molto morbida ed ha capito perfettamente come condurre la sua introspezione: il corpo si lascia andare, si culla, ride si canta la ninna nanna, in un delicatissimo dondolio . Il pianto e la disperazione poi la portano a rannicchiarsi in se stessa, in una ricerca della verità molto approfondita. Si è quindi abbandonata al libero fluire, senza inibizioni e senza l’intervento della mente.

Quando l’uomo si allontana da questo stato, si genera un conflitto empirico, in cui la volontà del singolo si contrappone alle leggi dell’ordine (la causa del disagio dipende dall’incompatibilità tra gli schemi personali e i moti genuini dell’ordine), l’anima si ritira dal moto dell’amore chiudendosi in se stessa, perché questa è l’unica azione di cui è capace, nel momento in cui il dolore da sopportare diventa troppo forte, generando da qui in poi al massimo stati di co-dipendenza con gli altri. Il sistema, però, si limita a segnalare l’infrazione, ad assecondare le scelte individuali a prescindere dalla loro qualità empirica, perché è sempre il libero arbitrio dell’uomo, l’istanza suprema all’interno del sistema. Così ogni debito, escludendo il singolo dal libero fluire, influisce sulla sua qualità della vita.

ESPERIENZA DI TEATRO Dario esegue un racconto corporeo con dovizia di particolari: tenta di alzarsi, ma non riesce, accasciandosi su se stesso. La sua tenacia lo porta con profondo dolore, a superare il suo limite e con rabbia e sfida, una volta in piedi, guarda intorno a sé, mettendosi a camminare. Infine sopraffatto dal dolore ricade, piangendo come un bambino. Il suo percorso era lineare e ben raccontato, ma troppo studiato, troppo mentale, cosa che gli ha fatto perdere la possibilità di lasciarsi sorprendere dalle cose che succedono nel qui ed ora, senza avere una struttura di narrazione ben definita. Il mettersi in gioco, il lasciarsi andare e superare gli schemi prefissati sono essenziali in questo percorso, per conoscere parti di noi nascoste.

La natura dell’uomo sarebbe in grado di avvertire l’ordine armonico, attraverso i moti della coscienza, ma la mente arrogante si oppone spesso alle sue rivelazioni profonde, perché riconosce solo le proprie convinzioni e le certezze acquisite. Il sistema, allora, ricorre alla legge della compensazione empirica, intervenendo dove

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l’uomo non sa creare equilibrio consapevole, ma così egli si trova in una condizione di cui non conosce lo scompenso. La legge emprica della compensazione sta alla base di ogni assetto emotivo: più una ragazza vuole mostrarsi come brava bambina, evidenziando l propria innocenza, più questo è una copertura che compensa la paura imperante del lato ombra; più qualcuno ha atteggiamenti aggressivi ed invadenti, più ci sono ferite profonde che rinnega; più una persona racconta sempre barzellette e fa il clown, più vuole esorcizzare la sua tristezza e malinconia; più l’uomo si pone come macho, più ha una paura profonda del femminile, soprattutto del proprio lato yin Questo processo è volto al recupero del proprio sentire, per controbilanciare la mente, che, nel suo delirio di onnipotenza e nella sua arroganza, allontana l’uomo dalla sua vera essenza. La paura di sentire fa commettere un’infrazione ai fini dell’ordine, per cui bisogna non eliminare la mente, ma ridimensionarla nella sua presenza assillante, per farla equilibrare con le altre parti del pianeta-uomo, aggirandone il controllo.

ESPERIENZA DI TEATRO: Federica, tipicamente Finta Yin, è una donna molto contenuta, cosa che si denota dagli atteggiamenti del corpo, che dimostrano quanto sia ritratta in se stessa e paurosa di mettersi in discussione, per non essere giudicata. Seduta in modo conserto, tutta raggomitolata, nell’evidente sforzo di trovare qualcosa dentro di sé, alza il viso rassegnata dicendo che non ce la fa. Pensa troppo e questo non le ha permesso di alleggerire il suo corpo e di liberarlo. Interessante l’esercizio in cui il regista la impegna: le fa inscenare cercandola e, infine, trovandola dentro di sé, una risata isterica, per farla sbloccare e la vera Federica stavolta, “esce fuori” con tutto il suo dolore, esasperando lo stato d’animo trovato. A questo proposito cito una frase di Giuseppe Pontiggia, (da “Le sabbie immobili”, 1991) che dice: “Ridere per non piangere. La radice tragica del comico”. La risata, infatti, può essere molto più tragica sul palcoscenico, di un pianto, in quanto lo spettatore si immedesima molto di più nella rappresentazione “La vita è una farsa dove tutti abbiamo una parte.." diceva Arthur Rimbaud

Spesso i desideri personali, le ambizioni e le aspettative non collimano con quelli dell’ordine, per cui si rivelano disarmonici. Ogni violazione delle leggi del sistema porta un aumento della tensione emotiva, anche

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se avviene in modo nascosto e subdolo. Un aumento di stress in un dato momento è solo la punta dell’iceberg, in quanto è la parte evidente di un arretrato sistemico. Tutto questo genera un conflitto empirico, in cui la volontà del singolo si contrappone alle leggi dell’ordine. Il sistema, però, si limita a segnalare l’infrazione, ad assecondare le scelte individuali a prescindere dalla loro qualità empirica, perché è sempre il libero arbitrio dell’uomo, l’istanza suprema all’interno del sistema. Non solo lo stress, ma anche l’invecchiamento precoce o le malattie rendono necessari un’indagine empirica su se stessi, per eliminare i conflitti con l’ordine. Fino a quando non si ha un processo di risoluzione empirica, la persona avverte la presenza del debito attraverso apposite segnalazioni emotive: gli indicatori empirici. La presenza di un moto empirico dominante segnala sempre la presenza di un debito, ed è proprio con l’apparizione di un indicatore che l’ordine tenta il salvataggio a fin di bene, incentivando l’individuo a riequilibrare lo scompenso. Non è un atto di punizione, ma un meccanismo di salvaguardia atto a cautelare ogni moto di vita, perché l’ordine spinge il singolo, per ripristinare il fluire armonico, a risalire a quanto rimosso, dato che ogni debito trattiene dolore non evaso. Solo la paura di quel dolore tiene lontano dal proprio arretrato, non facendo prendere le proprie responsabilità, le uniche che l’ordine considera.

ESPERIENZA DI TEATRO Angelica gira a lungo per lo spazio, fermandosi poi davanti a noi pubblico, osservando, ma chiaramente sta facendo spazio, dentro di sé, all’emozione da far uscire. E’ chiaro che nemmeno lei sa dove la porterà questa ricerca. Il miracolo di questo esercizio è che la ragazza, finta yang, esplode in un “NO” urlato decine di volte in modo allucinato, persistente, ossessivo, fino alla stasi finale, perché stavolta era importante raggiungere l’apice di un’emozione, per poi lasciarla andare. Questa donna ha un’apparenza sicura e determinata, con un carattere forte, anche se in fondo si sente vittima e bambina fragile, proteggendosi attraverso la sua “scorza dura”. Vittima rabbiosa, ha sempre esigenza di innocenza, pur non ammettendo questo suo bisogno, ma questo suo ” No”, che è un grido che viene dal suo essere profondo, per tutto quello che ha subito nella sua vita, probabilmente, è rivolto a tutte le scelte obbligate fatte nel passato, che l’hanno portata al disincanto e non credere più alle cose che riteneva giuste. La sua grande rabbia si è data finalmente il permesso di venir fuori: non ne può più e lei

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stessa si è lasciata sorprendere dalla sua reazione. In realtà, in questo caso soprattutto, si è creato un rapporto emozionale tra noi spettatori e lei “attrice”, che dà la misura della riuscita dello spettacolo, in quanto l’emozione da lei suscitataci è rimasta nell’aria, in modo palpabile. E per lei è stata un’esperienza catartica, in quanto l’ha messa in contatto con la sua ombra.

3.2I RUOLI SISTEMICI

Il concetto di “ruolo”, deriva dal latino “rotulos”, cioè il copione che gli attori del teatro recitavano per inscenare un personaggio. La nostra capacità espressiva all’interno del sistema è infinita, così ognuno di noi, nella propria vita e soprattutto nel vivere quotidiano, è portato a creare rapporti molteplici, che sono espressione della nostra poliedricità empirica. L’uomo, in quanto animale sociale, progetta e scandisce tutta la sua vita in gruppo e il suo sviluppo evolutivo si snoda intorno a questo, perché ogni tipologia di rapporto possibile ed immaginabile fa parte di una matrice naturale dell’ordine, che ci permette di adottare un’illimitata scelta di ruoli per rapportarsi agli altri individui, ma anche a noi stessi e al mondo circostante. Tutti i ruoli traggono la loro legittimazione dal fatto che ognuno può fare esprimere un’inedita sfaccettatura della capacità espressiva dell’uomo. Il ruolo, infatti, può essere considerato l’anello di congiunzione tra il mondo interno, la struttura della personalità e l’ambiente circostante. Ci sono ruoli che ci accompagnano per molto tempo, come quello di studente, di lavoratore, di figlio ed altri più brevi e marginali, come può essere quello di turista o dell’acquirente. Altri ancora si avvicinano di più al polo psicologico, come quello dell’amico, mentre altri sono più impersonali, come la cassiera ecc. Comunque ognuno di noi ha a suo carico, consapevolmente o no, un ventaglio di ruoli che mette in atto al momento giusto, in modo da risultare adeguato al proprio gruppo di appartenenza. Tutto questo però, ci può allontanare dal libero fluire e crea debito, se non è consapevole e non c’è un riconoscimento dei moti alla base dei ruoli che recitiamo.

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ESPERIENZA DI TEATRO. Davide, seduto con la schiena al pubblico, sospira, poi si tiene la testa, si accascia e piange accoratamente, riflettendo uno stato di assoluta solitudine. ( “Il comico è il tragico visto di spalle”. Gérard Genette, Palinsesti, 1982) Il suo disperarsi è sempre più accentuato, fino a quando non sfocia in una risata sempre più allarmante, che nei più del pubblico provoca ilarità, ma che, in effetti, è sempre più tragica. Adesso ha anche indossato un cappuccio, sempre mai rivolgere il viso, si mette in piedi, concludendo, così, il suo esercizio, che risulta perfettamente riuscito. “Non c’è niente di più comico dell’infelicità”, (Samuel Beckett, Finale di partita, 1957) in quanto dietro ogni tragedia, in realtà, c’è una grande comicità e se solo sapessimo cogliere il lato divertente, senza sentirci in colpa, potremmo fare una bella risata liberatoria. Nel teatro, l’attore è portato ad enfatizzare i suoi stati d’animo, non a minimizzarli, ecco perché esso è terapeutico sia per lui stesso, che per gli spettatori. Pensiamo a grandi attori come Charlie Chaplin o Totò, con la sua “Preghiera del clown”, che, con i loro personaggi, spesso sono stati molto più introspettivi, che se avessero

inscenato pianti e disperazione.

Preghiera del clown (Totò Dal film:"Il più comico spettacolo del mondo)

Noi ti ringraziamo nostro buon Protettore per averci dato anche oggi la forza di fare il più bello spettacolo del mondo. Tu che proteggi uomini, animali e baracconi, tu che rendi i

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leoni docili come gli uomini e gli uomini coraggiosi come i leoni, tu che ogni sera presti agli acrobati le ali degli angeli, fa' che sulla nostra mensa non venga mai a mancare pane ed applausi. Noi ti chiediamo protezione, ma se non ne fossimo degni, se qualche disgrazia dovesse accaderci, fa che avvenga dopo lo spettacolo e, in ogni caso, ricordati di salvare prima le bestie e i bambini. Tu che permetti ai nani e ai giganti di essere ugualmente felici, tu che sei la vera, l'unica rete dei nostri pericolosi esercizi, fa' che in nessun momento della nostra vita venga a mancarci una tenda, una pista e un riflettore. Guardaci dalle unghie delle nostre donne, ché da quelle delle tigri ci guardiamo noi, dacci ancora la forza di far ridere gli uomini, di sopportare serenamente le loro assordanti risate e lascia pure che essi ci credano felici. Più ho voglia di piangere e più gli uomini si divertono, ma non importa, io li perdono, un pò perchè essi non sanno, un pò per amor Tuo, e un pò perchè hanno pagato il biglietto. Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola, ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura. C'è tanta gente che si diverte a far piangere l'umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri.

In realtà, cosa c’è dietro le maschere che l’uomo indossa ogni giorno e cosa rimane della persona al di là del suo ruolo? E se il ruolo è un adeguamento ad un modello, quanto ci allontaniamo dal nostro vero ruolo empirico? Quando noi siamo la somma di tutti i ruoli assunti per rispondere alle richieste sociali, la nostra parte più profonda può entrare in conflitto, perché non approva un determinato ruolo o non è consono alle sue inclinazioni profonde, allontanandolo dall’ordine armonico.

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La mente ci dà l’idea di una realtà fittizia, mentre è il corpo il termometro del nostro essere. L’elemento fondamentale del ruolo è il sistema di aspettative che lo accompagna, che è legato al contesto nel quale ci si esprime: così è la famiglia che rappresenta l’unità micro sociale, nella quale gli individui apprendono i primi ruoli ed imparano a sperimentarli (consegna familiare).

ESPERIENZA DI TEATRO Ciccio è il più giovane del gruppo,inizia il suo percorso emozionale sdraiato a terra, ma poi si alza, seguendo un itinerario ben preciso, che indica come la sua vita segua binari prestabiliti. Lasciando libero il suo corpo, però, comincia a correre, sbattendo contro tutte le pareti, come se si sentisse in gabbia e volesse sfondare i muri di paura che lo intrappolano. Dopo essersi liberato, si ferma e cammina per lo spazio, molto lentamente, come a volere metabolizzare ciò che le sue emozioni gli hanno rivelato: stremato da quello che ha provato, cade a terra, rigirandosi su se stesso ed acquisendo una posizione fetale. L’attore ha bisogno di curare, far crescere e fiorire una parte di sé proprio dalla ricerca della verità, ecco perché è necessario non affibbiarsi delle maschere, ma anzi, imparare a gestirle, scoprendo cosa nascondono. Lasciarsi andare, equivale ad essere.

La necessità interiore di rispondere alle aspettative altrui, porta il soggetto ad essere prigioniero dei propri ruoli, facendolo perdere nel suo personaggio, pur di farsi accettare nel gruppo, quasi fosse un meccanismo di sopravvivenza della specie: ecco perché è attraverso un ruolo, o più ruoli, che l’uomo esprime se stesso o l’alterazione di se stesso, nel mondo.

ESPERIENZA DI TEATRO Gustavo gira per lo spazio, saltellando, in modo ansioso, come inseguito dal tempo, perché cerca un’emozione che non riesce a trovare. La rabbia, a poco a poco, gli sale da dentro, si denota in ogni movimento del suo corpo, fino a fargli urlare un’imprecazione. Finalmente liberato, si accascia su se stesso. E’ riuscito a lasciarsi andare, senza inibizioni, e l’indicatore della rabbia, che evidentemente è il moto che lui cerca di reprimere, si è fatto sentire.

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Il regista gli raccomanda di non dimenticare mai l’esperienza fatta sulla scena, in quanto lo ha messo in contatto con una parte di sé, che lui vuole rimuovere

L’assunzione di un ruolo, però, non concede al soggetto di prendersi alcuna libertà, perché è strutturato e definito, invece il “gioco” del ruolo, ossia la creazione di esso, lascia ampio margine alle sue iniziative personali. “Il giocare un ruolo viene prima dell’emergere del sé. Il ruolo non emerge dal sé, ma il sé emerge dai ruoli…” (Moreno 1946). Il sistema prevede i diversi ruoli, in quanto funzionali all’evoluzione della specie, alla sua salvaguardia ed alla sua libera espressione: donna, uomo, madre, padre, figlio, moglie, marito ecc., ma anche leader, eroe, carnefice, seguono tutti una loro matrice sistemica, come quello della vittima e del traditore, del santo e del salvatore. Al loro interno sono previste sia le espressioni più sane e funzionali, che le dinamiche più morbose e patologiche. L’ordine prevede tutte le espressioni possibili, senza giudicarle e senza alcuna censura, mettendole a disposizione del singolo, assicurando così il libero arbitrio come scelta finale. Ogni ruolo ha dei diritti sistemici, all’interno di un’apposita matrice empirica, sia essa maschile o femminile, che ha un preciso modello comportamentale di riferimento: più ruoli sistemici l’individuo sperimenta, più ha un appagamento profondo verso la vita, dato che ha assimilato tutte le sue espressioni possibili. Per capire perché in alcune aree della nostra vita abbiamo la massima libertà, mentre in altre ci comportiamo come dei “robot”, bisogna scoprire quali aspetti abbiamo imparato a reprimere ed è questo che la psicologia empirica, attraverso il “sentire”, cioè coinvolgendo il partecipante con esperienze sul campo, fa individuare, riportando l’individuo al copione di eccellenza, di cui è portatore naturale, ma che ha sostituito con comportamenti contro sistemici, costituiti da schemi personali, acquisiti nel corso degli anni e sedimentati sotto forma di strategie del proprio carattere. Questo processo di consapevolezza può avvenire solo sul piano sensoriale, mentre la mente lo può elaborare solo in un secondo momento: così l’approccio empirico con la propria paura, la rabbia ed il senso di colpa possono portare in evidenza atteggiamenti di auto-boicottaggio, ossia violazioni avvenute ai fini sistemici, che la mente non è in grado di individuare.

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Davide salta, rotea, dice che fa così quando si sente bene, continuando ossessivamente a parlare, nel suo tentativo di liberazione, di stanchezza, di sorrisi di circostanza, di senso di vuoto, che non gli permette di credere in un tutto quello che lo fa gioire, in un delirio di parole difficile da seguire. Per lui, tirare fuori le emozioni risulta difficile, perché ha un blocco enorme. La sua fiducia riposta negli altri, dice, molto spesso non è stata ricambiata, cosa che lo ha portato ad isolarsi come un autistico, nonostante la sua apparenza esteriore mostri l’esatto contrario. In realtà parla a se stesso, ma non si rende conto che butta sul mondo esterno tutte le sue insicurezze: infatti, a volte, tendiamo a pensare di essere il bersaglio, le vittime dell’accanimento altrui, mentre, in realtà, se solo riuscissimo a cambiare il nostro punto di vista, ci potremmo rendere conto di quello che i nostri stessi comportamenti provocano negli altri e quindi le loro reazioni su di noi.

Ognuno, durante l’evolversi della vita, per potersi sentire appagato, ha bisogno di incarnare più ruoli sistemici possibili, all’interno di un ciclo naturale, previsto dall’ordine, che, seguendo un suo programma empirico, attribuisce i ruoli di base in modo progressivo, accedendo anche ai sotto-ruoli, tutti strettamente dipendenti dall’acquisizione di quelli basilari. Così l’individuo passa dal ruolo base del figlio/a, a quello dell’adulto e solo in un terzo momento può entrare in quello della saggezza, che lo porta fino al suo esaurimento biologico. L’unica eccezione è quella del proprio sesso biologico, che si acquisisce come primo ruolo empirico sin nel ventre materno e rimane invariato sempre, anche se ciò non implica che il ruolo del maschile o del femminile siano essere uomo o donna, ruoli che si incarnano solo nell’età adulta. Solo a partire dalla piena maturità l’individuo è in grado di sostenere una moltitudine di sotto-ruoli contemporaneamente, che possano rendere la sua esperienza appagante, perché essi traggono forza e legittimazione dal ruolo di base (essere donna o uomo), pur seguendo matrici sistemiche diverse e spesso in contrasto fra loro, perché ognuno di essi appartiene ad una matrice di eccellenza autonoma. Ogni ruolo base ha diritti diversi, che, se non vengono utilizzati appieno, generano debiti sistemici : se, per esempio, l’individuo salta un passaggio di consegna previsto, come il bambino prodigio o l’uomo Peter pan, come il figlio che fa da padre o madre ai propri genitori, si trova in uno stato anti-sistemico.

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Il sistema, nella distribuzione dei ruoli, segue il criterio della massima funzionalità delle cose, perché essi garantiscono una corretta evoluzione della specie, per questo l’ordine non prevede i sotto-ruoli del padre e della madre associati a quello di figlio, cioè prima che la persona sia entrata nel ruolo d’adulto. Solo affrontando il dolore, anche se enorme, la persona può entrare nel libero fluire, portando pace ed ordine nella sua vita, così, chi è arenato nel ruolo di bambino, avverte il passaggio alla maturità come angosciante perchè ogni debito arretrato del ruolo “figlio”, che si tratti responsabilità attive o passive non evase, tiene lontani dal ruolo empirico dell’adulto, fino alla sua risoluzione.

3.3 IL COPIONE PERSONALE. Nessuno di noi può mostrare interamente se stesso perché quasi nessuno si accetta interamente per cui, tutti in maniera più o meno evidente, sviluppiamo delle “maschere” che fungono sia da copertura, che da protezione. Esse nascono dal fatto che, fin da piccoli, siamo chiamati ad intrecciare complicatissimi rapporti tra la nostra coscienza individuale, la famiglia e la società: è chiaro che le esigenze ed i bisogni personali non sempre possono collimare con ciò che ci viene richiesto dall’esterno, per cui siamo costretti a forgiare delle maschere che, se da un lato ci aiutano a relazionarci con il mondo evitando di sentirci troppo spesso “nudi e senza difesa”, dall’altro, soprattutto quando sono troppo rigide,ci spingono a nascondere la nostra vera natura, fino al punto di sviluppare un falso Sé.

ESPERIENZA DI TEATRO Francesco e Marco, due Finti yin, vittime rabbiose, hanno delle reazioni molto simili: uno dopo essere rimasto seduto per diverso tempo, si alza di scatto e urla a squarciagola, l’altro, dopo avere camminato avanti e indietro a lungo, si inginocchia e piange, disperandosi come un bambino. In realtà questi due individui hanno dentro una rabbia che vorrebbero tirare fuori, ma le impalcature della loro vita non glielo permettono:l’uno viene sopraffatto dalla rabbia, l’altro dalla disperazione, che sono i loro indicatori empirici. Lo stesso dicasi per Gennaro, che ha “rappresentato”, senza vivere l’emozione: lui stesso dice che nella vita è costretto ad indossare una maschera per non fare uscire il suo vero io. Infatti le mete che gli altri hanno per noi (la famiglia d’origine, la scuola, i partner ecc.) che non hanno nulla a che fare con le nostre vere aspirazioni, ci comprimono, ma

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bisogna trovare la strada per andare oltre alla ricerca del nostro vero Sé. Ecco perché alla fine Gennaro urla un’imprecazione contro il mondo: non è capace di ribellarsi, se non a parole, dato che probabilmente non ha gli strumenti per farlo, a tutto quello che lo opprime.

Le maschere, tuttavia, sono necessarie e ci possono aiutare ad entrare ed uscire dai vari ruoli a cui la società ci chiama: ci sono ambienti dove dobbiamo mimetizzarci di più ed altri dove possiamo respirare, perché possiamo lasciarci andare ed essere più veri e spontanei. In genere, se l’educazione ricevuta è stata sana, noi entriamo ed usciamo dalle varie maschere, senza per questo sentirci defraudati della nostra personalità; se invece abbiamo avuto grandi difficoltà a riconoscere la nostra vera natura, le maschere diventano come dei “calchi di gesso”, modellati sulla nostra faccia, ma molto più difficili da togliere e mettere a nostro piacimento.

“Ho seguito tutte le strade indicate da mio padre, ma non ci camminavo: mi fermavo e giravo intorno ad ogni sassolino che incontravo, mentre gli altri non si accorgevano, passandomi accanto, di quel sassolino, che intanto era diventato una montagna insormontabile, un mondo in cui si poteva, ormai, anche domiciliare…. In fondo anche loro, pur essendo arrivati, con la faccia di bravi bambini, alla fine della strada, avevano trovato il loro “carro”, a cui erano stati attaccati e che ora si tiravano dietro. Al contrario io non ho carri, né paraocchi, ma non so dove andare… ( “Uno, nessuno, centomila” di Luigi Pirandello)

La maschera che indossiamo è importantissima, perché contribuisce alla nostra visione del mondo: se è positiva, ci può aiutare a rispondere a canoni esterni e a modelli interiorizzati, se è negativa favorisce una visione cupa del mondo, cosa che può condurre a disprezzare la vita, gli altri e se stessi; se è di “inadeguatezza”, favorirà insicurezza, senso di difficoltà, paura, svalutazione e diffidenza nei confronti dell’esterno; se è troppo rigida può portare a regressioni, vero pericolo per la psiche, che si trova a non avere un sufficiente spazio per crescere. Queste corazze, anche se non corrispondono alla vera identità del soggetto, che avrà ovviamente anche altre qualità, faranno sì che questi venga percepito come una persona di cui “diffidare”, in quanto piena di difficoltà e di difese che non stimolano fiducia negli altri.

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E’ qui che la maschera – il nostro falso Sé – si impadronisce della nostra vera essenza e non ci permette di contattarla, ma finisce, anzi, per produrre pensieri e comportamenti, che attraggono esattamente l’uguale all’esterno. Quanto più aumentano la qualità e la quantità delle infrazioni empiriche, tanto più l’anima si distacca dal libero fluire, rimanendo in questo stato di auto-protezione fino alla risoluzione del conflitto, che sarà superato quando la carica del dolore, fino ad adesso insopportabile, non si abbassa. In questo modo si evidenzia una separazione tra la persona e le sue qualità empiriche YIN o Yang, che sfalza la gamma degli atteggiamenti e delle strategie vitali del proprio codice di appartenenza e dissociando l’individuo dai valori dell’ordine. E’ per questo che molte persone considerano la loro maschera e, quindi, la loro condizione alterata, come uno stato normale, abituati, sin da piccoli, a non sapere decifrare che uno stato emotivo eccessivo, come rabbia, paura, senso di colpa, sfiducia, deriva dallo stato empirico dei loro genitori e dalle proprie responsabilità mancate: si preferisce attribuire queste condizioni ad eventi esterni, che prescindono dal proprio volere, scaricando le responsabilità sugli altri, non essendo in grado di sostenerle e per sentirsi “innocenti”.

ESPERIENZA DI TEATRO Gilda decide di recitare un testo su Desdemona. In passato lei ha avuto esperienze teatrali , perché ha seguito delle scuole apposite, per cui dal punto di vista della dizione e del parlato risulta più accurata , rispetto a molti altri . Purtroppo, però, il suo corpo è sempre statico, non trasmette nessuna emozione, anche se la sua voce vorrebbe “interpretare”. In realtà lei è come se parlasse in terza persona, recitando in modo asettico, sul palcoscenico,dove, però, non si può “raccontare”, ma vivere in prima persona: non il personaggio “disse”, ma “io dico”, cioè tutto ha da nascere da un’esigenza interiore. Il regista, per farla uscire da questa “impasse”, decide di farle inscenare una “pietà”, con le che , come la madre di Cristo, tiene tra le braccia il figlio, inveendo contro una ipotetica donna che lo ha ucciso, distruggendo anche la sua vita. Gilda ha bisogno di perdersi in questa prefica, trovando uno stato d’animo devastante, che le possa anche trasfigurare il viso. Purtroppo lei si perde sempre nella sua facciata da vittima, senza, però, riuscire né ad arrabbiarsi, né a rendere visibile il suo dolore: si sente troppo “innocente”, e pur volendo entrare in contatto con queste sue emozioni, non riesce a superare la soglia della

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finzione. Non è capace di dare se stessa ed ha toccato con mano i suoi limiti. La tecnica che lei ha acquisito nei suoi corsi, non è riuscita a supportarla, per darle la consapevolezza del fare una determinata azione in quel momento, perché le manca, fondamentalmente, la coscienza di sé.

E’ quindi importantissimo cercare di capire bene quali sono le maschere che abbiamo dovuto indossare, in modo da utilizzarle al meglio per sviluppare le qualità e capacità intrinseche, che possono poi guidarci alla costruzione della reale identità dell’Io. Tutti i ruoli che noi impersoniamo nella metamorfosi empirica, non sono altro che la dimostrazione che le maschere che ci costruiamo sono frutto del nostro stato sistemico, ossia dell’aumento o della diminuzione dei moti della rabbia e della paura, che si compensano a vicenda .e che indicano, quindi, il debito di cui siamo portatori, che possiamo, in parte, colmare prendendo coscienza del lato luce e ombra che ci portiamo dentro . È sorprendente come l'essere umano sia disposto a tutto pur di non mostrarsi, cercando di compensare per non far vedere, come se fosse pericoloso rivelare ciò che si è realmente. Le maschere imprimono un fortissimo impatto sul mondo, che a sua volta produce una serie di comportamenti e di pregiudizi in grado di attrarre anche nel mondo ciò che è in linea con la nostra visione. Nel gioco dei ruoli che la società ci impone, tutti indossiamo una maschera (… e il mondo intero è una ribalta, diceva Shakespeare), specialmente nei ruoli ufficializzati, tipo il poliziotto quando scruta la folla manifestante, o l’insegnante nei confronti dell’allievo o del politico nel momento declamatorio oppure del medico col paziente; gli esempi sono davvero tanti.

3.4 CODICE YIN E YANG

Il codice yin e yang, che sono le matrici di eccellenza dell’essere uomo o donna, stanno alla base di tutti questi ruoli, perché sono il trampolino di lancio per ogni evoluzione. Ogni individuo è formato da un carica primaria e da una carica secondaria, che hanno bisogno di controbilanciarsi: nell'uomo la carica primaria è data dallo yang, per cui ogni uomo ha in sé anche una parte femminile, mentre nella donna dalla carica yin, quindi ogni donna ha in sé anche una parte maschile.

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Se non ci sono alterazioni, l'uomo rimane radicato nel proprio yang e, nel tempo, acquisisce ed integra anche i principi yin, viceversa per la donna. L'acquisizione della carica primaria avviene sempre nel grembo materno, al momento del concepimento, poichè ogni nascituro è portatore di una matrice d'eccellenza, che lo dota di tutti i parametri più appropriati per sviluppare i moti empirici genuini e di tutta la saggezza dell'universo. Durante la fase dell'attivazione, la matrice si inquina e la consegna familiare si sovrappone alla matrice d'eccellenza, attivando soltanto i principi sistemici previsti dal copione familiare, tralasciando tutti gli altri, per cui il contenuto disarmonico sovrasta la carica genuina del figlio e i valori deformati sostituiscono quelli della matrice d'eccellenza . L'attivazione della carica primaria avviene durante l'infanzia, attraverso il genitore del proprio sesso biologico, per cui se il padre o la madre sono mancanti o portatori di una carica debole, il bambino non riesce a radicarsi nel proprio sesso biologico, predisponendosi per un ruolo alterato. Nel momento in cui la qualità della consegna risulta scarsa o insufficiente, il figlio non riesce ad attivare le potenzialità empiriche e i principi guida, poiché neanche il genitore è un “portatore sano” e il bambino rimarrà relegato nel ruolo del piccolo, anche quando avrà già superato l'età biologica adeguata, perché egli assimila la stessa qualità e quantità di carica e i debiti empirici non evasi dal genitore.

UOMO YIN E DONNA YANG In presenza di debito ingente, allora, l'individuo può sviluppare una carica primaria “stretta” che il sistema riequilibra, per il principio della compensazione, con una carica secondaria molto forte, che sovrasta l’altra parte, che non sa contenerla, venendosi a creare, così, i ruoli dell’uomo Yin e della donna Yang, incapaci di radicarsi nel loro maschile o femminile. In entrambi i casi sono i principi guida del sesso opposto a prevalere e a determinare quindi tutte le percezioni del singolo.

I RUOLI SISTEMICI ALTERATI La presenza di debiti ingenti fa generare i ruoli dell'uomo yang alterato e della donna yin alterata, che si sviluppano a seconda della presenza dominante di una carica sull’altra: se quella primaria è troppo sviluppata e quella secondaria è insufficiente o mancante, l'individuo percepisce il mondo ed agisce secondo i principi guida sì

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appartenenti al proprio sesso biologico, ma in maniera alterata, in quanto manca un argine naturale che gli faccia da contrappeso, da binario, da contenimento. In realtà ambedue i gruppi, Yin e Yang, hanno sviluppato strategie compensatorie, evidenziate dai relativi indicatori attivi. Quello Yang alterato bilancia il debito acquisito con strategie di eccesso yang, per cui tende al ruolo del carnefice, usando la spinta rabbiosa come moto principale del suo fare e del suo essere; quello Yin alterato eccede con moti Yin ed è incline al ruolo della vittima. L’eccesso di energia Yin si manifesta attraverso lo stato di inadeguatezza e la mancanza di auto-valorizzazione, ossia come bassa autostima Questo ruolo compensatorio si acquisisce a causa delle strategie di paura, che questi individui mettono in atto, compromettendo la loro carica maschile, a prescindere dal sesso biologico, per cui essi si barricano dietro la corazza alterata, che, per quanto sia fonte di disagio, costituisce anche la loro sicurezza più grande, pur di evitare l’indicatore passivo, che è la paura per il carnefice e la rabbia per la vittima. Vittima e carnefice si aggrappano disperatamente al loro copione, bisogno profondo che viene supportato da tutte le loro strategie vitali, basate sul debito acquisito.

ESPERIENZA DI TEATRO Alfonza è una Yin alterata, di circa 55 anni, che vive l’angoscia del non sapersi imporre: fino ad ora ha probabilmente utilizzato il “Si” automatico, come strategia di difesa e vitale, per acquisire consensi, senza sentirsi “sbagliata”, evitando ogni opposizione/ scontro,rinunciando anche alle proprie convinzioni, pur di non entrare in contrasto con nessuno, soprattutto con la forza yang, che teme, sia nelle sue manifestazioni impetuose, sia nella sua spinta più genuina, subendo così anche la luce maschile, non solo la sua ombra. Alfonza, nella sua performance, segue un percorso molto interiore, con una lentezza quasi esasperante ed emana una morbidezza ed una purezza, che però ingannano solo a prima vista, perché non le sa sorreggere attraverso responsabilità ed azioni. Nella prima parte dell’esercizio ha tirato fuori sensazioni e ricordi che hanno reso molto partecipe il pubblico, ma nel proseguire il suo “racconto” corporeo, si accascia in se stessa, senza riuscire a far esplodere uno stato d’animo. Ha provato anche a dire un “NO”, ma senza quella rabbiosità ed amplificazione, che richiedeva l’esercizio per definirsi riuscito. Infatti ogni stato di innocenza rifiuta le proprie responsabilità empiriche, che appartengono all’infanzia:l’ innocenza è dei piccoli, la purezza è degli adulti.

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Così la Yin alterata confonde vittimismo ed impotenza con innocenza, senza approdare alla purezza, che si sviluppa lentamente con l’avanzare dell’età biologica, richiedendo , però, consapevolezza e spazio interiore, che vanno sostenuti ogni giorno attraverso il proprio fare ed essere, chiedendo alla donna Yin integrata di non farsi “inquinare” e di salvaguardare il proprio mondo Yin.. La quotidianità ci ha insegnato ad essere pudichi, ma in questa messa in scena bisogna essere spudorati, senza controllare quelle parti noi di follia, che sono proprio del teatro. Esprimere i propri sentimenti significa non ammalarsi, dato che le cellule dentro di noi, troppo sottoposte a compressione, finiscono per impazzire, dando luogo alle malattie e a stati di sofferenza. Tutto questo diventa quindi salutare ai fini della nostra stessa vita

VITTIMA RABBIOSA In mezzo a queste due coppie di ruoli, troviamo le varie espressioni di un altro ruolo, quello della vittima rabbiosa, che oscilla tra la propria paura e la propria rabbia. L 'uomo yin e la donna yin alterata sono ancora nel ruolo di vittime “semplici” ed autentiche, che si confrontano con un alto livello di paura, che schiaccia la rabbia, impedendole di essere un moto genuino che faccia da propulsore. Con l'aumentare del dolore non evaso , ossia del debito, avanzano nella propria metamorfosi empirica incrementando la loro rabbia e facendo loro sperimentare dei moti rabbiosi sconosciuti e repressi e mai “presi in mano”. Questa novità empirica manda in crisi la vittima autentica, che, ancora convinta di essere “innocente”, pur di non guardarsela, perché le fa troppa paura e la fa sentire in colpa, cerca di camuffare e nascondere la rabbia con moti compensatori. In realtà la vittima rabbiosa è il portatore più pericoloso della rabbia repressa, perché questa loro apparente docilità, con il tempo, viene scoperchiata, soprattutto in un rapporto di coppia e giudizi, critiche, denigrazioni escono fuori, a poco a poco, secondo una dinamica auto-rigenerante che si sviluppa nel tempo. La rabbia, infatti, è il termometro del nostro stato empirico e si manifesta attraverso il risentimento, il rancore ecc.

UOMO FINTO YIN E DONNA FINTA YIN. La vittima autentica, così, con l’aumentare della rabbia, si trasforma in “vittima rabbiosa”, il cui primo stadio è dato dall' Uomo finto yin e dalla Donna finta yin, che riescono a reprimere e a camuffare la propria rabbia ancora piuttosto bene, non

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essendo ancora ” stati scoperti”. In un rapporto di coppia, scegliendo sempre compagni con affinità alla propria ombra, detesteranno il compagno, proprio per averli guidati e si vendicheranno per tutto quello che hanno “subito”, non ricordandosi che erano proprio loro a volere questo. L’energia principale è l’ansia che incombe e la paura di vivere li fa arretrare di fronte agli ostacoli o fuggire nel passato, essendo legati al proprio dolore e al rimpianto o nel futuro essendo preoccupati del domani: ciò significa che sono privi della forza di essere presenti

UOMO FINTO YANG E DONNA FINTA YANG Con l’andare avanti della metamorfosi empirica, in cui la rabbia aumenta sempre di più, l'individuo non riesce più ad adottare le stesse strategie di prima, per cui la maschera Yin, fatta di atteggiamenti docili e gentili, dietro cui nascondeva il proprio sentirsi vittima, apparentemente assecondando e dando importanza agli altri, prima che a se stessi, viene sostituita dal ritrovato indicatore empirico della rabbia. Da questo momento in poi la paura, funzionale e sana se riconosciuta e gestita consapevolmente, viene rinnegata e questi individui coprono la loro fragilità con moti di sfida e competizione spingendoli, talvolta, a rischiare pure la propria vita. Qualità yin quali pudore, tatto, tristezza, pazienza e profondità vengono esorcizzate e la vittima rabbiosa cambia il proprio stato energetico, assumendo i ruoli dell'uomo finto yang e della donna finta yang. Il loro “sentire” è alterato da una spinta vitale eccessiva ed è quindi contro-sistemico: se la vittima rabbiosa Yin si difende con la propria paura e, nella metamorfosi empirica, sperimenta una rabbia sempre più forte, quella Yang usa come bandiera la propria rabbia, che da indicatore secondario è diventato primario e quindi evidente, mentre la paura serpeggia sempre, anche se come moto secondario. Anche in questo caso è un moto a fin di bene, generato dal sistema per permettere al singolo di raggiungere l'interezza e di integrare ciò che è stato represso. Il singolo “finto yang” sperimenta così sempre più stati di ansia, paura, inadeguatezza, tristezza, non si riconosce più, è spaventato e disorientato e si sforza così di coprire tale moto indesiderato aumentando sempre più i moti aggressivi, sempre più sfida, competizione, verso la vita, il mondo e soprattutto se stesso.

UOMO YANG ALTERATO E DONNA YANG AUTENTICA

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Tutte le vittime rabbiose sono in preda ad un moto di rivalsa crescente verso il mondo e verso se stessi, che, però, è ancora collegato solo ad una grande rabbia, perché non è ancora presente l'odio, che invece compare nelle figure Yang alterate. L’Uomo yang alterato e donna yang autentica, interpretano un degrado più avanzato, evoluzione diretta delle alterazioni precedenti. Questi ruoli sono caratterizzati dalla presenza di un debito maggiore ormai irreversibile e non c’è possibilità di tornare indietro o di poterlo recuperare, perché il moto predominante della rabbia è affiancato in più dalla sete di vendetta e dalla assoluta freddezza, essendo persone prive di scrupoli Il disagio, ormai, è talmente grande che rende la loro vita così difficoltosa e sofferta, da far loro raggiungere il livello più estremo ed irreversibile: l’inquinamento dell’anima. In realtà la loro parte più agguerrita rimane spesso nascosta dietro atteggiamenti diplomatici ed ammalianti, evidenziandosi solo al momento dell’apparente bisogno. Non sono cattivi, ma è proprio il loro degrado empirico, ormai avanzato al punto tale che rancore e risentimento sono diventati gli indicatori principali del loro mondo emotivo. Fino a che l'individuo si trova nello stadio della vittima rabbiosa yang, gli è ancora possibile affrontare il proprio debito ed evaderlo, ma c'è un momento in cui questo non è più possibile, ossia quando il dolore negato e le responsabilità mancate acquisiscono un peso molto elevato, trascinando la persona nell’abisso e portandolo al “distacco dell'anima” dal libero fluire, che il sistema prevede quando il debito è diventato così forte da non riuscir ad essere più compensato e non è più rimandabile ad un secondo momento nell'ambito della vita della persona. L'individuo soccombe nel suo conflitto empirico, perché ormai qualcosa di devastante è accaduto dentro l’anima, che si chiude, tentando di preservarsi da ogni altro dolore, ma impedendole anche di accedere all’amore e costringendola ad accontentarsi di surrogati. Avendo rinunciato definitivamente ad ogni possibilità di risanamento, il debito in questione viene dato in eredità alle generazioni successive al fine di potere essere visto, evaso e lasciato andare, secondo il principio dell'inclusione.

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Mister Hyde calpesta una bimba

La matrigna del film “Come d’incanto”:

A proposito del film “Come d’incanto”, è indicativo come la matrigna cattiva, donna Yang, al culmine della sua trasformazione empirica, rappresentata metaforicamente come un drago, pronunci queste parole:” Spregevole, vendicativa, gigantesca, ma pazza mai……”

3.5 IL TEATRINO DELLE COPPIE

“Un uomo onesto, un uomo probo, s'innamorò perdutamente d'una che non lo amava niente. Gli disse portami domani, il cuore di tua madre per i miei cani. Lui dalla madre andò e l'uccise, dal petto il cuore le strappò e dal suo amore ritornò. Non era il cuore, non era il cuore, non le bastava quell'orrore, voleva un'altra prova del suo cieco amore. Gli disse amor se mi vuoi bene, tagliati dei polsi le quattro vene. Le vene ai polsi lui si tagliò ,e come il sangue ne sgorgò, correndo come un pazzo da lei tornò. Gli disse lei ridendo forte, l'ultima tua prova sarà la morte. E mentre il sangue lento usciva, e ormai cambiava il suo colore, la vanità fredda gioiva, un uomo s'era ucciso per il suo amore. Fuori soffiava dolce il vento tralalalalla tralallaleru

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ma lei fu presa da sgomento, quando lo vide morir contento. Morir contento e innamorato, quando a lei niente era restato, non il suo amore, non il suo bene, ma solo il sangue secco delle sue vene. (La ballata dell’amore cieco” Fabrizio De Andrè) Questo brano, che trovo particolarmente significativo, oltre al fatto che la musica è stata messa in modo azzeccato al testo, in quanto il divario tra la drammaticità delle parole e il faceto della musica, jazz, quasi da banda, sottolinea la grandezza poetica di Fabrizio De Andrè, lo “uso” nel contesto scolastico, per far comprendere ai ragazzi quanto l’amore cieco possa portare anche all’auto-distruzione. Spesso lo accompagno anche alle immagini o ai video di donne che hanno subito violenza fisica o psicologica dai loro partner. E’ vero che questo è un brano sulla vanità, ma ha un impatto così grande, nell’ orrore del racconto, che serve a far prendere consapevolezza di alcune coordinate importanti della nostra concezione dell’amore, che non è “ l’innamoramento”, ma quello che viene dopo…….se viene! Lei donna yang , ha perso qualunque senso della misura nella manifestazione del suo Ego, l’odio è smisurato e farebbe di tutto per predominare sull’uomo, di cui ha una paura enorme. Lui, uomo finto yin, non trova di meglio, come affinità del dolore, che mettersi letteralmente nelle mani di quella donna, che lo porterà alla distruzione ed alla morte, dopo avergli fatto commettere delitti efferrati. Da uomo onesto, però, ha finito la sua vita, almeno, perseguendo un ideale, cosa che straluna tutte le convinzioni della donna, che, nel desiderio di soddisfare la sua vanità, si accorge che a lei non è rimasto assolutamente nulla, mentre lui “muore contento”. Se il nostro compagno/a non corrisponde alle proiezioni disarmoniche del nostro debito, anche se assurde ed infondate, ci sentiamo traditi ed abbandonati. Così se il partner non interpreta il copione alterato e non ci dà quell’amore cieco di cui sentiamo il bisogno, ci sentiamo rifiutati ed abbandonati. Se, per esempio, un uomo yang, con amore adulto e consapevole, si avvicinasse ad una donna empiricamente alterata, questa, nel suo stato di deviazione empirica, non si sentirebbe comunque soddisfatta, avanzando sempre nuove richieste, che, se il

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compagno volesse esaudire, lo farebbero allontanare dalla sua posizione sana. In realtà non supereremo mai la fase dell’amore cieco, concependo ogni relazione come stato di dipendenza, fino a quando le aspettative, acquisite attraverso la famiglia, non verranno dissipate. In ogni relazione alterata, si finisce per cercare, sempre, la figura del padre o della madre, senza esserne consapevoli. In ogni relazione alterata,infatti, si finisce per cercare, sempre, la figura del padre o della madre, senza esserne consapevoli L’iIIusione dell’Amore ci perseguiterà sempre, se non superiamo il ruolo del “piccolo”, che ci impedisce di vedere l’altro per quello che è veramente e ci fa permanere nel nostro stato di bisogno e di comodo in una relazione. Ecco perché un alto livello di aspettative verso l’altro rivela la propria incapacità di concepire l’amore, in quanto in una coppia ognuno di noi pensa di essere sempre colui che dà di più. L’assunzione delle proprie responsabilità, al fine di raggiungere la propria autenticità, si può attuare attraverso il Si consapevole, ossia una scelta cosciente e non apparente, che è invece necessaria a nascondere la paura di manifestarsi per quello che si è, che normalmente si fa con il Si automatico, che nasce proprio dalla paura di perdere l’amore, per quanto fittizio. Il Si consapevole si basa sulla capacità iniziale di saper dire No a chi ci ama, anche a costo di deluderlo, con scelte fatte con la forza del potere personale: questa è la differenza tra”saper sostenere” e “dover subire”, che distingue una persona ben radicata nei suoi principi guida, da una alterata, tra il ruolo empirico dell’adulto e quello del bambino. Ognuno si affianca a partner che evidenziano un tipo di alterazione precisa, che si costruisce intorno alle proprie strategie d’amore, che sono la parte centrale di ogni consegna familiare, cosa che crea, in futuro, affinità solo con determinate persone. Questo è il debito di base, che influenza anche lo sviluppo del corpo fisico e il suo funzionamento, con strategie corporee che non possono essere riconosciute dall’altro, in modo profondo. D’altro canto attiriamo solo persone uguali a noi attraverso un processo di risonanza, attraverso il loro ruolo speculare e non subiamo il fascino di partner al di fuori di tali ruoli. Alla base di tutto questo c’è la forza della nostra carica primaria, Yin o Yang: chi ha accumulato uno yang esuberante, ha bisogno di essere controbilanciato da uno yin di uguale forza, cosa che avviene solo nelle Coppie integrate. Ognuno si affianca a partner che evidenziano un tipo di alterazione precisa, che si costruisce intorno alle proprie strategie d’amore, che sono la parte centrale di ogni

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consegna familiare, cosa che crea, in futuro, affinità solo con determinate persone. Questo è il debito di base, che influenza anche lo sviluppo del corpo fisico e il suo funzionamento, con strategie corporee che non possono essere riconosciute dall’altro, in modo profondo. D’altro canto attiriamo solo persone uguali a noi attraverso un processo di risonanza, attraverso il loro ruolo speculare e non subiamo il fascino di partner al di fuori di tali ruoli Alla base di tutto questo c’è la forza della nostra carica primaria, Yin o Yang: chi ha accumulato uno yang esuberante, ha bisogno di essere controbilanciato da uno yin di uguale forza, cosa che avviene solo nelle Coppie integrate. Uno yang alterato, attira sempre un yin alterato; un’energia maschile scarsa, come quella dell’uomo finto yin, attira un femminile altrettanto debole, come quello della donna finta yang: in entrambi i casi, questi individui compensano vicendevolmente le mancanze del proprio compagno, avendo essi sviluppato i principi attivi del sesso opposto e sviluppando, quindi, una relazione in cui non possono fare a meno l’uno dell’altro. Risulta impossibile che si possano innamorare di un ruolo empirico diverso, sano o alterato che sia, perché ognuno si sente compreso e sostenuto, a livello profondo, solo con coloro con cui sente un’affinità di debito. L’avvicinamento al modello della coppia integrata può avvenire solo attraverso un processo di Yinghizzazione o Yanghizzazione, in cui si possa migliorare la qualità del proprio debito, viceversa si continueranno ad inseguire “felicità, equilibrio, amore” illudendosi di poterle raggiungere. Il “Principe azzurro e la sua Principessa” sono delle mete inesistenti, se ci si limita ad individuare sempre partner con arretrati simili ai nostri, rispecchiandosi nella loro ombra: essi sono piuttosto i nostri “principi assurdi e principesse sul pisello” con cui mai potremo costruire legami genuini e duraturi. Ricordiamo sempre, comunque, che la forza Yang è sostenuta dal diritto dell’autorealizzazione, mentre quello yin dalla maternità, per cui la più alta responsabilità per entrambi è proprio questa , qualunque cosa ne pensino razionalmente i suoi protagonisti, poichè in caso contrario prevede l’acquisizione di un debito ingente.

LA COPPIA INTEGRATA Questo è l’unico modello relazione sano e genuino, punto di riferimento per ogni uomo o donna, in cui l’uomo sa onorare la donna e lei sa sostenerlo.

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I suoi protagonisti sono l’Uomo e la Donna integrati, che portano tutta la carica genuina dei codici Yang e Yin, i soli in grado di generare una qualità di amore che vale ai fini empirici, segno dell’acquisizione della coscienza empirica e dell’assenza di debito. In questa coppia, nelle dinamiche del rapporto, domina sempre la donna, consapevole del suo pieno potere, mentre l’uomo la compensa con la presa di potere all’ esterno. La donna non sente il bisogno di competere con la forza maschile, sentendo la forza incondizionata come potere assoluto e non come debolezza,

“ UN UOMO, UNA DONNA, LA COPPIA “ Micol Ferrea Due teste diverse: Il Rotondo e Il Quadrato- Il Rosso e Il Verde che si intersecano negli occhi e che solo con un impegno forte e una convinzione importante possono fondersi mantenendo necessariamente la propria identità, sicuramente modificata, arricchita, cresciuta, ma distinta. Contro l'erronea convinzione del Mondo che una Donna ed Un Uomo debbano fondersi totalmente perdendo il proprio io. La Volontà di trasferire sulla tela un messaggio di eternità assoluta di due identità distinte Micol Ferrea

LA COPPIA ALTERATA Questo modello è formato da un uomo Yang ed una donna Yin alterati, in cui la donna ricopre il ruolo della vittima e l’uomo quello del carnefice, sviluppando una dinamica in

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cui la prima si sottomette, subendo il maschile ed accumulando rabbia. L’uomo è bisognoso di affetto e riconoscimento continui, la donna predomina nella relazione, attraverso la propria paura e il senso d’inferiorità, comuni ad ambedue i partner e che costituiscono l’affinità del debito. Infatti nessuno dei due si sente adeguato nel suo essere maschile e femminile, in quanto la donna sfoggia un eccesso di Yin, mentre l’uomo lo nasconde dietro una scorza dura. Atteggiamenti duri e formali o violenti e sprezzanti, nascondono la stessa paura di non essere virili, dato che questi uomini mancano della carica secondaria Yin e disprezzano la donna proprio per timore della propria parte femminile. Vittima dichiarata e dipendenza nella relazione, come darsi un tono non essendo in grado di sostenere la parte da recitare, dimostrano la mancanza di un Animus forte

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Nella donna che evidenzia una carica primaria che non sa sostenere per cui è terrorizzata dal mondo maschile. Queste strategie della coppia verranno tramandate ai figli come debito di base. Ogni donna alterata cerca quanto più possibile di nascondere la rabbia ereditata dalla madre, come l’uomo yang alterato è sempre convinto di non essere mai abbastanza mascolino ed è attratto dall’apparente innocenza di lei, ma più la carica aggressiva della donna si rivela, in quanto ella si sposta dal ruolo della brava bambina a quello della vittima rabbiosa e più lui stesso vede crescere il suo livello di ansia, con l’incapacità di dominare i propri moti rabbiosi, più si ritira dalla guida della coppia e lascia a lei più spazio., anche perché lo yang femminile aumenta. Quando l’uomo non può più sopportare le continue angherie e la donna stessa non può più gestire la sua rabbia verso di lui, la coppia si disgrega ed è questo il momento in cui lo yin alterato di lei, si trasforma in yang, in un processo senza ritorno che si ritorce anche sui figli, perché ella vuole invertire anche i ruoli di padre e madre, essendo detentrice ormai della maggiore carica rabbiosa.

Dal film “A letto con il nemico”

LA COPPIA CONGELATA. Quando la situazione descritta precedentamente si stabilizza, avviene un congelamento dei partner nei loro debiti, intrappolati in una situazione di insofferenza e di compensazione reciproca, e quindi di co-dipendenza. Finta donna yin e finto uomo yang esprimono lo stato empirico della vittima rabbiosa, che genera un tipo di rapporto basato su odio-amore, anche se non riescono a

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separarsi, rimanendo insieme, nonostante la guerra fredda tra di loro. La donna sembra sapere onorare il proprio uomo e lui venerare la sua compagna, ma in realtà non è così: il processo di degrado all’interno della loro relazione si è solo rallentato o stabilizzato. Altro esempio di coppia congelata, che ha come protagonisti un uomo ed una donna Finti Yin, a cui, invece, la paura riesce a bloccare la spinta rabbiosa, può esemplificarsi con casi in cui solo apparentemente uomo e donna si sostengono a vicenda, ma in realtà sono in uno stato di dipendenza assoluta, perché la donna ha congelato la rabbia, rimanendo nel ruolo empirico della madre solo come facciata e l’uomo ha una spiccata dote femminile. Soffrendo ambedue di sindrome da abbandono, hanno una paura folle di affrontare la vita da soli.

Da l film “Mariti e mogli” due finti yin

LA COPPIA GUERRIERA Un esempio lampante potrebbe essere quella del film “La guerra dei Roses”, dove i due protagonisti finiscono per morire l’uno accanto all’altro, pur di non mollare, metaforicamente, la casa e le cose comprate insieme

Dal film “La guerra dei Roses”

Lei , dopo la sua metamorfosi empirica, che l’ha portata da finta yin a finta yang, ricorre

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sempre al cinismo, alle frecciate sprezzanti, al rinfacciamento continuo, lui, nonostante senta ogni tanto qualche moto d’amore, naturalmente dettato dal “bisogno”, per lei, non fa altro che lamentarsi, criticando ed accusando, ma nessuno dei due si prende le sue responsabilità empiriche. In questo modo, crescendo enormemente il loro debito, in questo processo, finiscono per arrivare ambedue all’indurimento dell’anima, non riuscendo staccarsi da questo rapporto morboso. La stessa forza che da un lato li ha uniti, dall’altro li divide. Lei pretenderebbe il potere all’interno della coppia, anche se si vorrebbe appoggiare sul partner, ma solo quando lo vuole lei, mentre lui ha bisogno di sentirsi investito dal potere-guida, chiedendo alla compagna l’amore incondizionato e totalizzante.

LA COPPIA SFORZATA I due partner, yin e yin alterata si attraggono per la loro paura, perché sono angosciati dalla vita e soprattutto dall’altro sesso In realtà questo tipo di coppia è molto frequente tra gli adolescenti, ancora “puri”, senza esperienza, che non si compensano nella propria carica aggressiva, che è assente, essendo l’indicatore passivo di entrambi. L’unico posto in cui si sentono al sicuro è all’interno della coppia, trovando uno stato di risonanza profonda che scambiano per amore, come due bambini che sentono di non meritare nulla, se non la felicità tra loro.

Uomo Yin e Donna Yin alterata dal film “Come d’incanto”

Una volta “scopertisi”, però, la loro unione degrada ed ognuno di loro cerca di uscire

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dal disagio o tradendo il partner, senza però avere il coraggio di ammetterlo, o con il contrasto e la critica, anche se morirebbero alla sola idea che l’altro se ne vada.

LA COPPIA INVERSA Uomo yin e donna yang formano questo genere di coppia, che è quella più deviata tra le relazioni alterate, dato che mentre nel caso degli alterati yin e yang questi hanno conservato la loro carica primaria, questi ne sono completamente mancanti, al di fuori dei parametri empirici. perché sostituiti con quelli del sesso opposto, che inquinano il proprio codice. Paradossalmente chi interpreta questi ruoli è convinto di essere un modello di coppia, ma in realtà i due non sono capaci di amore sufficiente ai fini empirici e si scelgono rispecchiandosi la loro coscienza personale, ciascuno con le proprie aspettative e proiezioni alterate sull’altro.

Sylvester stallone e Brigitte Nielsen

Carlo e Camilla

La donna yang esige un uomo romantico e sensibile che compensi se stessa, l’uomo Yin si sente appagato solo da donne “con le palle”, con carattere forte e determinato, in un gioco di parti in cui la rabbia rappresenta il gancio emotivo per entrambi. Ma proprio questa rabbia, che aumenta in modo esponenziale, non permette a lui di fare da guida, subendo la prevaricazione di lei, che al la fine lo odierà per non avere la facoltà di appoggiarsi ad un uomo. Questi “giochi” sono così sottili, che nessuno si rende conto di essere in un ruolo deviato, anzi ognuno si sente portatore di un femminile e di un maschile evoluti, capaci di sintetizzare le qualità di ambedue i sessi. Alla fine però tutti sono insoddisfatti, perché anche se gli interpreti si illudono di stare nei loro ruoli, in realtà non fanno altro che litigare relazionandosi con astio, mancando completamente l’amorevolezza e il contatto fisico. I figli, naturalmente, vivendo in questa atmosfera di debito familiare, riconoscono da

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subito la violazione dei loro diritti empirici, rinunciando a ciò che spetta loro di diritto.

CAPITOLO 4

IL DEBITO SISTEMICO: PERCHÉ INDOSSIAMO LE NOSTRE MASCHERE

Io vivo nei panni di un alieno che non vola Che non mi assomiglia ma… Io vivo ai margini di una vita vera E non mi riconosco (Franco Battiato e Luca Madonia)

4.1 IL DEBITO EMPIRICO

Quando la persona è allineata con l’ordine armonico, cioè ha assenza di debito, l’anima è in pace sul piano del sentire, ha un suo equilibrio interiore ed accede alla gamma espressiva delle emozioni. Così solo l’individuo sperimenta ogni livello del proprio sentire, senza la prevalenza di un moto emotivo particolare: rabbia, paura, timidezza, senso di colpa, strategie di amore, gioia di vivere fanno parte del proprio bagaglio empirico e, in questa dotazione naturale, nessun ambito sovrasta o è assente.

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In questa circostanza soltanto, in cui tutti gli ambiti emotivi sono a disposizione, l’individuo reagisce liberamente ad ogni stimolo, senza dover aderire a binari emotivi obbligati. Se la carica empirica è bassa, anche la reazione è lieve, quando è alta, gli atteggiamenti sono altrettanto carichi. Ad ogni individuo, quindi, appartengono tutte le emozioni allo stesso modo, ma quando qualcuno ha bisogno di interrompere una carica molto intensa, dimostra la sua incapacità di contenere una data emozione e, allo stesso modo, chi rimane freddo e distaccato nei momenti di carica più intima o, chi prende troppo alla leggera le situazioni, significa che ha bisogno di prendere coscienza del suo stato empirico. Solo colui che sa interpretare la carica empirica in modo adeguato, non si fa risucchiare dalle emozioni ed si esprime, emotivamente, senza caderci dentro. Esiste quindi, un livello genuino di reattività, insita in ogni carica, ma in presenza di un debito empirico arretrato e persistente, il singolo perde ogni tipo di libertà e la carica ( rabbia, paura, senso di colpa ecc.) diventa l’indicatore sistemico che catalizza il suo sentire, dominando le sue reazioni e influendo su di lui al punto di fargli credere che questo sia il suo stato naturale, facendogli perdere ogni contatto con la realtà empirica. Chi, per esempio, si arrabbia sempre, chi piange facilmente, chi non sa esprimere le sue opinioni, chi percepisce di non meritare abbastanza, anche quando non sembrerebbe necessario, si confronta con le situazioni in modo alterato. Lo stato collerico e la percezione di essere sempre vittima, anche se sembrano opposti, sono segni della stessa alterazione. Il debito, che è sempre indicatore di ferite emotive, comporta schemi di difesa e solo se la persona è libera, può aggirare i “trabocchetti” della mente, evitando la rabbia costante, il senso di tristezza continuo, la diffidenza ecc. Il nostro stato empirico condiziona il nostro fare e il nostro essere, dato che filtriamo il mondo circostante attraverso le nostre ferite aperte, provenienti da un passato rimosso e nascosto nell’inconscio. Siamo portatori di handicap empirici, di blocchi emotivi, attraverso i quali tratteniamo la nostra rabbia, paura o colpa, reprimendoli con tutte le nostre forze. Siamo nello stesso tempo vittime e carnefici, facendo pagare agli altri ciò che noi abbiamo subito.

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Nella nostra vita produciamo quantità ingenti di debito e non lo estinguiamo mai, convivendo con le nostre alterazioni, riconoscendole come stato “naturale” del nostro carattere, identificandoci con queste “doti” personali, come se fossero espressione della nostra personalità. Solo quando tutte queste alterazioni diventano troppo ingombranti, incidendo in modo pesante sulla nostra vita, ci accorgiamo di come sia importante “contro-sterzare”, riconoscendo le nostre responsabilità non evase e facendoci rientrare in un equilibrio genuino, unica condizione naturale che l’ordine armonico riconosce. La base fondamentale di ogni debito è costituita dalla consegna familiare, in quanto al bambino è richiesto di prendere in carico questa eredità, potendola riscattare solo da grande, dato che, per evadere il proprio arretrato, ha bisogno prima di diventare consapevole, permettendosi prima di accedere al dolore che esso comporta, per poi trasformarlo, con tutte le difficoltà che tutto questo comporta. La parte più importante di ogni integrazione è la fase dell’accettazione e dell’approvazione del proprio debito, perché ogni individuo, in questa fase, soffre a livello profondo, cosa che conferisce valore a tutto il processo. Riscattare il debito personale significa anche riscattare il debito della propria stirpe, cosa che diventa obbligo, perché altrimenti, nel tempo, il nostro dolore si manifesta attraverso la rabbia. La nostra cultura, altamente consumistica è basata sull’apparenza, sull’immagine, sull’illusione ( vedi, per esempio, le pubblicità) e ci fa sentire non abbastanza bravi, belli, all’altezza delle situazioni. Vivendo una cultura di non accettazione verso la nostra realtà personale, compiamo sforzi immani per sostituire tutto ciò che ci sembra non all’altezza di questo ideale fittizio. Tutte le nostre strategie vitali sembrano volte alla sostituzione di quello che, nel reale, non ci aggrada dal punto di vista fisico, con le persone intorno a noi, con il lavoro e ci buttiamo nella sfida, nella competizione, nell’efficientismo, anche negli ambiti più intimi della nostra vita. La cultura della mente è stata portata all’eccesso e opportunismo, perfezionismo, attivismo sfrenato, iper-criticità, giudicare tutto e tutti sembrano i soli modi per poterci distinguere come cittadini responsabili ed evoluti: in realtà tutti questi comportamenti, considerati normali nella nostra società, aprono debiti personali per chiunque vi rimanga invischiato.

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4.2 LUCE E OMBRA: IL PERCHÉ DELLE NOSTRE MASCHERE

“Ogni persona possiede tanta luce quanta è la sua ombra”: l’unico modo per avvicinarsi ad un equilibrio vero è dato dall’integrazione delle due parti. L’ordine colloca le strategie più propense alla vita, che si manifestano attraverso tutto quello che l’individuo accetta e mostra di sé, nel lato luce, che è composto dai talenti e dalle qualità empiriche vicine alla matrice di eccellenza, che derivano dal proprio sesso biologico: l’assenza di luce si manifesta proprio attraverso la mancanza dei valori genuini previsti dal codice Yin e Yang. I principi dell’ombra, che si contrappongono a quelli del lato luce, l’individuo li rinnega e li vuole nascondere, facendo riferimento ai suoi schemi mentali ed alle sue convinzioni: più una persona vuole sembrare in una certa maniera, più tale parte costituisce solo una maschera di copertura per le sue strategie d’ombra. Dove manca l’emanazione di luce, l’ombra sovrasta l’esistenza. Ogni debito appartiene alla parte ombra della persona, che è parte integrante dell’essere umano ed esercita su di lui un fascino enorme. Tutti i moti che la rappresentano convergono nella spinta verso il fulcro della vita, ossia la morte, che è l’unico tabù reale ai fin empirici. L’ombra si rivela spesso con strategie nascoste, che non sono sempre riconoscibili, come il dolore fisico o con sindromi di abbandono, di tradimento e in tutti i momenti in cui l’indicatore empirico principale è la sofferenza, oppure, in modo più evidente, con moti che tendono alla morte e alla distruzione. Dietro il sipario emotivo della bontà, della disponibilità e della generosità, in realtà spesso si nascondono rabbia, paura e senso di inadeguatezza, come dietro la corazza dell’ aggressività, si cela un nucleo percepito come troppo fragile.

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Maggiore è la luce di una persona, il suo carisma, il suo modo di concepire la vita, pensiamo per esempio ai Santi, più grande è l’ombra nascosta, che si manifesta attraverso strategie molto più sofisticate e celate. Quando la luce aumenta, l’ombra non sparisce, ma si struttura in modo diverso, perché anche se l’uomo si liberasse da tutto il suo “arretrato”, rimarrebbe sempre portatore sano di una parte d’ombra, sebbene equilibrata secondo i parametri sistemici. L’ordine riconosce l’inclusione come unico principio vitale, per cui l’unico modo per avvicinarsi ad un equilibrio reale ed oggettivo è dato dall’integrazione di lato luce e di lato ombra, mentre ogni moto differente ( codificato come esclusone) si basa su strategie di chiusura. I moti di ombra e quelli di luce si danno stabilità a vicenda: nel momento in cui , però, si accumula debito, gli indicatori segnalano l’arretrato e si rompe l’equilibrio naturale, cosa che favorisce alcuni moti emotivi o ne accresce altri. Espandendosi il lato ombra, la rabbia, il senso di colpa, la paura prevaricano su qualunque altro moto naturale, ma allo stesso tempo, più si acquisisce debito, più il lato luce ha bisogno di espandersi e di sviluppare dei moti contrapposti per mantenere l’equilibrio. Le

infrazioni

causate

dal

nostro

operato

e

quelle

ereditate

dalla

nostra

stirpe “personalizzano” il nostro lato ombra, diventando la nostra presentazione all’esterno ed è proprio attraverso esse, attiriamo e siamo attratti da chi dimostra un’affinità speculare con la nostra ombra. La maggior parte degli individui, infatti, senza esserne cosciente, si fa guidare dall’ombra, come moto principale, che nasce soprattutto da un debito di base, ossia una qualità d’amore insufficiente, acquisito da piccoli. Poiché la persona tiene lontana l’amore, lo sostituisce con valori personalizzati, controarmonici, che sembrano più affascinanti, ma in realtà dimostrano la sua incapacità di aprirsi e la sua paura della luce. La separazione dal resto del mondo, diventa così il catalizzatore per l’ombra, che così non permette all’individuo di avvicinarsi al moto dell’amore, che, nonostante non se lo ammetta, è sempre la meta principale cui tendeK. Jung, ha formulato due concetti: persona=maschera, che è la parte esteriore di noi che usiamo quotidianamente con gli altri nei rapporti sociali ed ha una funzione difensiva.

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La parola “persona” è stata presa in prestito dal latino e dal teatro dell’arte; gli antichi attori, infatti, assumevano determinate caratteristiche identificandosi con la maschera che indossavano e nascondendo il loro vero volto. Jung sostiene che la “persona” è parte di un grande processo di civilizzazione che fa si che le parti più accettate saranno quelle più cristallizzate nella maschera e, come tali, mostrate con più evidenza all’esterno e al mondo. Ombra che, come indica il nome stesso, e' la parte nascosta, quella piu' oscura di noi, ma anche la piu' veritiera, che noi nascondiamo agli altri, ma anche a noi stessi. Prendere coscienza dell'ombra non e' facile, ma e' un atto di coraggio necessario per conoscersi e crescere. Freud affermava che il male degli altri risveglia il male che sta in noi, Jung invece afferma che solo conoscendo l'ombra possiamo controllarla e combatterla e solo da questa consapevolezza, può nascere la forza di prendersi le proprie responsabilità e vivere la vita da persone adulte, seguendo la propria via e non i richiami della società. “La persona” se non è rigida , serve al mantenimento di un ideale favorendo una buona immagine di sé, ma, quando non è flessibile, perde qualsiasi possibilità di adattamento,

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fino ad ingabbiare la personalità limitandola e riducendola, favorendo la comparsa di meccanismi di difesa, che tendono a mettere nell’ombra tutto ciò che non si conforma ad essa. Le maschere infatti, possono essere positive o negative: possiamo infatti tendere a mostrare caratteristiche che riteniamo ideali, così come altre che ci fanno sembrare delle “pecore nere” e questo dipenderà dalla nostra storia personale. La persona ha necessità, quindi, di avvicinarsi al proprio lato ombra, nonostante ciò lo spaventi terribilmente, perché solo così supererà il terrore dell’ignoto, togliendo potere a ciò che prima lo ha bloccato.

Michelangelo Caravaggio – Narcissus La luce, nei quadri di Caravaggio, nasce sempre dal buio. La luce penetra gli ambienti avvolti da profonde zone d'ombra, esaltando la tensione dei movimenti, rivelando i sentimenti delle figure umane, immersi in uno spazio non astratto, ma quotidiano. Luce che è, allo stesso tempo, reale e divina, che si sottrae e, sottraendosi, mostra nei corpi e nei volti un'umanità non fantastica e idealizzata, ma viva, e, dunque, tragica. La luce che rivela, fra gli strappi inconoscibili dell’ombra, uomini e santi impigliati in quel tragico scherzo che è il calcolo dell’ombra. 4.3 LE MASCHERE DELLA PERSONALITA’:

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“IL CAVALIERE DALL’ARMATURA ARRUGGINITA”

L’urlo di E. Munch

Il libro “Il cavaliere con l’armatura arrugginita” di Robert Fisher è emblematico per capire quanto le maschere che indossiamo condizionino la nostra vita. Un uomo voleva essere il più grande Cavaliere di tutti i tempi, per cui affrontava continuamente battaglie da vincere, draghi da uccidere e fanciulle da salvare. Quando non era impegnato in qualche sua prodezza, passava il suo tempo provando l’armatura ed ammirandone la brillantezza e, con il passare del tempo, si affezionò talmente ad essa, che la indossò anche in casa, fino ad arrivare a non toglierla più. Il Cavaliere aveva un figlio, che avrebbe voluto trasformare in un coraggioso prode come lui ed una moglie, che, ad un certo punto, non ne poterono più di non vedere le sue vere fattezze fisiche, ma solo di ricordale, per cui gli diedero l’out out: o l’armatura o loro.

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E’ vero che la maschera è l’abito che indossiamo con la duplice funzione di proteggerci e di mostrarci agli altri, ma come ogni abito, è fatto anche per essere tolto nell’intimità della nostra vita affettiva e nella sicurezza delle nostre mura domestiche cosa che lui non aveva fatto. L’uomo entrò in enorme confusione: come poteva la sua famiglia non capire che senza quell’armatura lui non sarebbe più stato nessuno, dato che era quella che gli permetteva di dimostrare a tutti di essere un cavaliere coraggioso, buono ed altruista. In realtà il suo volersi distinguere nelle battaglie, a tutti i costi, il suo volere apparire per sentirsi superiore agli altri, vincendo, gli era servito per camuffare la sua paura, il suo senso profondo di non-esistenza. E lui, durante il suo viaggio spiega anche il perché: non sentiva di meritare l’amore in quanto da piccolo una bambinaia gli aveva detto che era talmente brutto, che poteva piacere solo a sua madre, cosa che lo aveva portato alla necessità di imporre la sua “presenza”, per non sentire il senso di disgregazione nella sua vita. Il senso di esistere, di meritare e di avere un posto è direttamente proporzionale all’amore ricevuto da bambini, dato che amare ed essere amati significa “esistere”. Ogni debito di base non riscattato, impedisce di instaurare relazioni d’amore, in quanto permane il dolore provato in precedenza e si ha la paura di rivivere lo stesso abbandono subito in passato. Soltanto elaborando ed integrando le ferite del passato, l’individuo riesce ad abbandonare la sua affinità all’ombra e il suo bisogno di dolore e si sentirà non più attratto dal buio, ma dalla luce. L’amore per la moglie ed il figlio, però, anche se con riluttanza, lo convinse a togliere la sua corazza, ma per quanti sforzi fece, non riuscì a sfilarsela in nessuna maniera. Nemmeno le martellate del fabbro riuscirono a romperla e, la cosa ancora più grave, era che lui non riusciva nemmeno a sentirle, tanto si era anestetizzato contro il dolore: l’armatura gli era servita proprio a questo e gli aveva anche fatto dimenticare come ci si sentisse senza indossarla. La maschera, non ufficializzata e più complessa, che lentamente ci costruiamo addosso come la lumaca fa col suo guscio, serve a proteggere la parte più vulnerabile, che vive al suo interno e al tempo stesso ne ricalca le forme nascoste. Anche la maschera, in definitiva, serve a mostrare qualcosa di più intimo, pur continuando a fungere da scudo alle avversità esterne. Con questo presupposto, parlare di “viso aperto” non significa mettere a nudo (e quindi a repentaglio) la propria intimità, piuttosto vuol dire mostrarsi con una maschera

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aderente alla propria anima, quindi leale, veritiera e coerente con ciò che realmente siamo. L’infrazione sistemica, però, era diventata la normalità dell’ agire del Cavaliere: il fatto di buttarsi sempre in nuove battaglie, freneticamente, indicava proprio la necessità di voler coprire i suoi buchi emotivi, mettendo in atto strategie di compensazione per camuffare ermeticamente il suo debito A nulla servirono parole di negazione della sua colpa, dato che, secondo lui, il suo comportamento era scaturito solo per aiutare gli altri, perché la moglie lo mise di fronte alla verità: lui aveva delle precise responsabilità, perché tutto questo era stato fatto solo per se stesso, usando gli altri come alibi. Non sapendo più accedere alle qualità della sua anima, il cavaliere si era separato dai suoi talenti empirici Yang, distacco che si era manifestato in tutto il suo agire, sfalsando le sue strategie vitali e dissociandolo dall’ordine. Nonostante egli fosse convinto di mettere in atto qualità assolute, invece di sostenere la donna, la consumava, tanto che lei si rifugia nel vino; invece di chiedere, invadeva, tanto da salvare anche fanciulle che non richiedevano per niente il suo aiuto; invece di offrirsi, esigeva che la sua famiglia non lo disturbasse, essendo troppo preso dal suo sé. Man mano che aumentavano la qualità e la quantità delle sue infrazioni empiriche, infatti, la sua anima si distaccava sempre di più dal libero fluire, permanendo in questo stato di auto-protezione fino a quando non avesse deciso di dare una risoluzione al suo conflitto, cioè fino a che la carica del suo dolore non si fosse abbassata. Come liberarsi adesso di questo scafandro-debito, soprattutto senza averne gli strumenti! La sua necessità di camuffare il debito lo aveva portato ad usare strategie di compensazione, talmente ormai integrate nel suo bagaglio personale, che neanche lui le poteva più individuare come tali. Esse erano talmente acquisite, che si confondevano con il carattere e la personalità, formando un vero e proprio copione, una maschera attraverso la quale affrontare il mondo, cioè un moto compensatorio. La sua era una armatura visibile e dura, ma tutti, in fondo, ne indossiamo una: dipende da quanto siamo disposti ad affrontare le nostre paure e soprattutto il nostro dolore; da quanto vogliamo vedere tutta l’ombra che si nasconde nel nostro Io interiore, per riuscire finalmente a risalire la china e ritrovare la nostra luce. Ma ci chiediamo perché ci infiliamo dentro le nostre corazze?

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Ci costruiamo delle barriere per proteggerci da ciò che pensiamo di essere, fino a quando l’armatura ci rimane appiccicata addosso e non sappiamo più come fare per disfarcene. Solo un momento di disperazione, o una malattia, o un incidente o quando siamo costretti dagli altri a darci degli interrogativi, possono darci la spinta ad aprire gli occhi. La nostra saggezza e la nostra consapevolezza solo possono farci capire quando stiamo rimanendo incastrati e quindi riprendere in mano la nostra vita senza offuscamenti. Fu così che il Cavaliere partì per un lungo viaggio: non conosceva la strada, non sapeva neanche dopo quanto tempo e se sarebbe tornato e nemmeno se mai i suoi familiari l’avrebbero più voluto. •

Certo il bosco di Mago Merlino, che il cavaliere aveva da esplorare, era molto grande e nonostante egli si sentisse una persona molta colta, sopravvivere nel bosco era tutt’altra cosa: l’ignoranza adesso imperava sovrana. La mente, che tanto lo aveva sorretto sino ad ora, non poteva più contro il “sentire”. Solo l’ambizione del cuore, adesso, che non entra in competizione con nessuno ed è benefica per se stessi, poteva aiutarlo! Si era perso, se provava a bere, rischiava di affogarsi, se mangiava una pianta, non sapeva se fosse velenosa o meno: insomma, gli sembrava di giocare alla roulette russa. Tutto questo suo girovagare durò mesi, chè non è facile trovare la strada della verità, ma finalmente, incontrato Merlino, questi gli disse che era tempo di fermarsi un po’, in quanto questo correre sul cavallo senza una meta precisa era adesso inutile, per la ricerca della verità.

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L’importanza alla sua corazza era data dal fatto di essere troppo spaventato e di non sapersi godere ciò che la Vita aveva in serbo per lui. Bere la vita significa sorseggiare prima i sorsi amari e poi quelli sempre più dolci,, in quanto più si accetta quello che si beve, più diventa squisito. E’ chiaro che l’avere indossato un’armatura per troppo tempo fa sì che disfarsene non sia così facile, soprattutto se si cerca di darsi una spiegazione logica, con la ragione, che sicuramente è limitata: è proprio il cervello, soprattutto se troppo intelligente che intrappola. La paura di ferirsi, di morire, metaforicamente, affrontando il proprio dolore, fanno sì che, nel desiderio spasmodico di dimostrare agli altri e a se stessi quanto si vale, socialmente parlando, si dimentichi il proprio vero valore personale: che bisogno c’è di mostrare all’esterno cosa si è veramente, se non la maschera che la società ci impone di essere? Togliersi l’armatura significa non scappare dai problemi soccombendo in un sonno profondo e cieco e sentire oltre che il proprio dolore, anche quello degli altri, che, spesso, non consideriamo se non in relazione ad i nostri bisogni, visto che abbiamo la visiera abbassata. Una volta accettate la cose come sono, diventando sensibili al punto di accettare che esistono anche gli altri, le sensazioni vengono tradotte in parole e si crea quell’empatia necessaria alla comunicazione. Infatti, a questo punto, il cavaliere fu in grado prima di sentire gli animali, poi il dolore di chi gli è stato vicino, in quanto la sua anima comincia ora ad accedere alle qualità armoniche, imparando a sentire l’umiltà, ossia l’unica qualità empirica che può sovrastare l’IO dell’uomo e la sua applicazione più diretta, ossia la compassione, che si acquisisce quando l’amore tocca il dolore di qualcun altro, che equivale ad avere fatto spazio interiore. La compassione è diversa dalla pietà, porta leggerezza e non drammaticità ed ha a che fare con l’acquisizione dello spazio interiore. Come si può pensare di creare rapporti stabili di coppia, o addirittura avere figli se prima non si è capaci di prendersi cura di se stessi? Come si può pensare di trovare il proprio equilibrio e la soluzione dei propri problemi cercando l’amore romantico, mentre è solo “bisogno” personale, senza avere affrontato un derby con se stessi? Ogni portatore di debito usa strategie di compensazione, creando una corazza impenetrabile per coprire le sue ferite, per cui dove regnano il bisogno e la dipendenza non esiste lo stato d’amore. Ci si illude di potervi accedere, ma solo chi entra in possesso del ruolo empirico dell’adulto, lasciando quello di figlio, può sperimentare l’amore nella sua vera essenza.

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L’amore si può conquistare solo da grandi, trasformando il proprio bisogno nella forza di potere stare al proprio posto. In realtà dare agli altri qualcosa di sé, è il dono più grande che si possa fare, ma le nostre corazze sono così resistenti da rendere vani tutti i nostri tentativi e la cosa peggiore è che ci sentiamo vittime, dando sempre le colpe agli altri dei nostri fallimenti. Se incontriamo sempre la stessa tipologia di uomini/donne, siamo sfortunati (non è che ci fermiamo a pensare sul perché scegliamo sempre lo stesso genere di persona), se il lavoro non funziona, invece di considerare il fatto che la vita ci risponde in relazione al nostro stato empirico, diciamo sempre che il torto è di capi, dirigenti, colleghi, alunni ecc.; se gli amici ci tradiscono, siamo sventurati e le persone sono pessime……..insomma potremmo fare mille esempi per giungere alla stessa conclusione: se noi non togliamo il velo davanti ai nostri occhi, non riusciremo mai a cambiare noi stessi e il mondo ci risponderà allo stesso modo. Tutto nella vita prima o poi ritorna, è un ciclo che non si spegne mai, se noi faremo il nostro viaggio per rovistare nel fondo del nostro armadio, per quanto troveremo pezze vecchie, ammuffite e puzzolenti, le prenderemo, le laveremo o le butteremo, ma avremo toccato con mano anche ciò che non ci piace. “L’inverno è duro e rigido se il cuore è gelido e piccolo” Quando il Cavaliere si ritrovò sul sentiero della verità, cosa di cui non si era nemmeno accorto, come succede alla maggior parte della gente, che non vede le possibilità che la vita offre, si trovò di fronte a due alternative: riprendere la vecchia strada, che non lo avrebbe mai fatto disfare dalla sua armatura, facendolo probabilmente morire solo e stanco, o percorrere quella su cui si trovava, anche se, questa, come scelta si prospettava molto rischiosa. Certo il sentiero della verità è sempre più difficoltoso man mano che ci si avvicina alla vetta e magari sarebbe morto prima di arrivare alla cima, ma ormai per il cavaliere combattere in battaglie non aveva più senso, in quanto aveva capito che, prima di riscattare qualche principessa, doveva imparare a prendersi cura di se stesso. Né era possibile prendere delle strade più brevi, aggirando gli ostacoli, poiché avrebbe rischiato di perdersi. Tre erano i castelli all’interno dei quali bisognava fermarsi: quello del Silenzio, quello della Conoscenza e quello della Volontà e dell’Altruismo e solo entrando in tutti avrebbe imparato a conoscere ed amare se stesso.

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A questo punto non c’è più bisogno di spade e di cavalli, ma solo della propria “presenza”, della volontà di andare avanti e di prendersi le proprie responsabilità, risalendo alle aspettative e proiezioni che egli aveva su se stesso. Tutto il suo volere essere perfetto, imponendosi un’immagine fittizia, era dovuta al suo debito accumulato, facendogli scattare il meccanismo della critica e del giudizio su sé e gli altri, allontanandolo da chi non corrispondeva alle sue richieste. Entrato nel castello del Silenzio, si rese conto di quanto ci si possa sentire soli e con una sensazione di vuoto assoluto, aspettando di trovare una porta che non si vede e che possa condurre fuori: tutti capiscono cosa sia una battaglia, ma non tutti capiscono cosa sia la Verità. E’ necessario stare soli per disfarsi della propria maschera, perché la presenza degli altri aiuta a far uscire fuori la parte migliore di sé, impedendo di vedere ciò che si vuole nascondere. Tutto il nostro affannarsi a cercare qualcosa da fare, le nostre attività frenetiche, il cercare sempre qualcuno per non stare in solitudine, non sono altro che strategie atte a non incontrare noi stessi. Così come il rifugiarsi nell’alcool, nel fumo, nelle droghe sono espedienti per non scontrarci con il nostro dolore e comprimerlo per non “fare uscire fuori” cose che ci spaventano terribilmente. Perché, per esempio, nel seminario “Il potere in te”, abbiamo quella paura folle di metterci davanti allo specchio e guardarci e parlarci? Certo ritrovare il proprio viso, come estraneo, ci mette in soggezione, dato che spesso non sappiamo nemmeno chi abbiamo davanti. Spendiamo la nostra vita a parlare delle cose che abbiamo fatto e di quelle che faremo, senza vivere nel momento il qui ed ora. Diamo per scontate che le cose che ci accadono, senza fare caso alla sincronicità degli eventi, non ascoltiamo più la natura, i segnali del nostro corpo, né le persone che ci circondano: quanto soli si sentono i nostri compagni/e, chiusi anche loro nelle loro armature, incapaci come noi di abbandonare i loro ruoli alterati? Il nostro vero IO, in realtà, ci dà dei segnali, ma il vero modo per ascoltarlo è quello di fare stare in silenzio la mente, che ci dà un’idea falsata del nostro stato empirico. La mente, che è molto complicata, per ambizione ci spinge a migliorare continuamente rispetto a quello che siamo, perché tendiamo sempre ad essere anche migliori degli altri. In fondo potremmo restare semplicemente individui coraggiosi, altruisti e comprensivi, ma la sete di ricchezza ci spinge a primeggiare.

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Anche i sogni simbolicamente ci mettono davanti tutte le nostre percezioni del mondo, ma noi non siamo in grado di coglierle, quando siamo risucchiati nel vortice della paura. Toccando il dolore e la sua solitudine, al Cavaliere cominciarono a scendere fiumi di lacrime, cosa che non aveva mai potuto fare, perché i veri uomini, non piangono mai. Solo così potè cominciare a perdere i pezzi della sua armatura, cosa che gli permise di capire che stava cominciando a conoscere se stesso. Le crepe nella corazza della coscienza personale indicano una consapevolezza crescente, con il progressivo abbandono del proprio stato di innocenza, che fa risalire alle proprie strategie di auto-boicottaggio. Sbarazzandosi prima della visiera e poi dell’elmo, si sentiva libero, anche perché non aveva più bisogno degli altri per mangiare, dato che addirittura prima inghiottiva il cibo già masticato dagli altri . Metaforicamente questo ci riporta allo zainetto che abbiamo sulle spalle tutti, che si riempie, sempre di più, man mano che andiamo avanti con l’accumulo di debito. Mastichiamo ciò che ci siamo abituati a fare sin da piccoli, portandoci dietro la consegna familiare e sociale che ci hanno passato i nostri genitori. Il cavaliere a questo punto del suo viaggio arriva al castello della Conoscenza, dove trova queste due iscrizioni, in un’oscurità che lo fece rabbrividire:La conoscenza è la luce attraverso cui riuscirai a trovare la tua strada. Amore non va confuso con necessità. E infatti quanto aveva avuto bisogno della moglie e del figlio, quanto gli erano stati utili nella sua vita? Quanto aveva scaricato addosso a loro tutte le responsabilità di tutto, compresa dell’armatura che portava? E’ vero che li amava, ma non poteva fare a meno del loro amore perché non riusciva ad amare abbastanza se stesso. Quante lacrime adesso sgorgavano dai suoi occhi: ora conosceva la verità e la verità è amore. A questo punto una grande luce lo avvolse e, davanti ad uno specchio, riuscì a vedere la sua immagine: non era più l’uomo con l’espressione triste, il naso enorme ed una corazza che lo ricopriva dalla testa ai piedi, ma una persona affascinante, piena di vita, con uno sguardo carico di amore e comprensione. Non credendo ai suoi occhi, si rese conto, ascoltandosi, che quello era il suo vero sé, potenzialmente bello , onesto e perfetto, che aveva messo un’armatura fra lui ed i suoi sentimenti reali, sempre per la paura di non essere amato.

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Solo ora si rese conto che aveva trascorso la sua vita cercando di piacere alla gente, con le sue gesta gloriose. Adesso lo guardavano la generosità, l’amore, la pietà, l’intelligenza e l’altruismo, qualità che avrebbe adesso fatte sue. L’ambizione del cuore, finalmente stava sopraffacendo quella della mente: se contempliamo tutto ciò che ci è stato messo a disposizione, invece di andare in giro senza meta cercando di avere tutto, sfrutteremo il nostro potenziale, anche per soddisfare le esigenze degli altri. Lo spazio interiore è diverso da quello della mente, perché è legato unicamente dal proprio sentire e quindi viene attivato solo attraverso l’esperienza personale La mente genera aspettative, proiezioni e resistenze, determinate dall’incapacità di contenere il proprio dolore e da un IO distorto e disarmonico, troppo occupato con se stesso. Disporre di spazio interiore significa avere libertà di accedere in modo privilegiato alla coscienza empirica. Fuori dall’ultimo castello, quello della Volontà e dell’Altruismo si trovò ad affrontare, stavolta senza la sua fida spada, un terribile drago, quello della Paura e del Dubbio, proprio le sensazioni che lo avvolgevano con più intensità. In realtà, dopo essere stato nel castello della Conoscenza, il cavaliere pensava di essere ormai invincibile, ma questo stato viene solo dalla piena conoscenza di se stessi e dal desiderio di mettersi alla prova. La Verità fa più male di una spada ed alla prima avversità viene sempre voglia di scappare: ma i draghi sono solo un’illusione, per cui è necessario non farsi assalire dai dubbi e dalle paure ed affrontarli. Anche se ai primi tentativi rimarremo “scottati” dalle fiamme, con il coraggio potremmo contrastare le illusioni della mente: in fondo se combattiamo c’è la possibilità di soccombere, ma se non lo facciamo, “moriremo” sicuramente! I semi dello scetticismo, in fondo, si presentano sempre, ma man mano che diventiamo più forti, quelli saranno sempre più deboli. Finalmente, una volta eliminato il drago, il Cavaliere arrivò a vedere la cima della Montagna della Verità, che cominciò a scalare aggrappandosi con le dita sulle rocce scoscese, ma quando fu proprio vicino alla vetta, trovò un masso gigantesco con sopra un’incisione: Anche se l’Universo è mio, io non posseggo nulla, perché non posso conoscere l’ignoto, se ignoro ciò che è già noto.

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A questo punto il Cavaliere era veramente troppo stanco, gli sembrava impossibile continuare a scalare la montagna e contemporaneamente decifrare il messaggio, tantomeno i suoi amici animali vollero intervenire, sapendo quanto la comprensione indebolisce gli esseri umani. Ma ancora una volta egli non si perse d’animo e cominciò a pensare a tutte le cose che aveva ignorato fino a quel momento: per prima cosa la sua vera identità, ciò che pensava di essere e quello che pensava di non essere; poi le cose a cui credeva e quelle a cui non credeva; infine i suoi giudizi sulle cose che credeva giuste e su quelle che riteneva non giuste. E proprio a questo punto si rese conto che anche la roccia che stava scalando era qualcosa di noto: solo cadendo nell’abisso infinito dell’ignoto, avendo fede nella vita, nella forza, nell’Universo si sarebbe potuto salvare. Così, ormai convinto di morire, si lanciò nell’abisso dei suoi ricordi e così affiorarono alla sua mente tutte le volte che aveva scaricato le responsabilità sui suoi genitori, su sua moglie, sul figlio, sui suoi amici e tutti quelli che gli stavano intorno e si pentì di tutte le sentenze sputate sugli altri , di tutti i suoi pregiudizi e di tutte le scuse che aveva inventato per se stesso. Vedendo in modo chiaro la sua vita, si assunse tutte le responsabilità della sua esistenza: non avrebbe più accusato nessuno dei suoi difetti, dei suoi errori e delle sue disgrazie. Ora non si aspettava più niente dagli altri, aveva imparato ad accettare le cose, senza immaginarle e senza pretendere più nulla. Aveva finalmente imparato ad avere un approccio positivo con la vita e, accettando la sua ombra con tutte le sue emanazioni, si era avvicinato alla nuda e cruda realtà empirica, unica che genera lo stato di serenità e di pace, a prescindere dalle condizioni esterne. Con la capacità di inclusione, si acquista una profonda fiducia nel fluire della vita, accostandosi prima ai tabù empirici, per poi allontanarsene ed entrare nel ruolo empirico dell’adulto. Ecco perché, adesso, in lui si sviluppò un senso di gratitudine e l’accettazione dei propri limiti: non aveva più aspettative e così solo si può accedere al sentire assoluto. Finalmente non aveva più paura e una nuova serenità si impossessò di lui, tanto che cominciò inspiegabilmente a risalire l’abisso: ora si sentiva legato al centro della terra, alla sua parte più profonda, ma continuava a salire sempre più in alto, consapevole di essere in contatto con il Cielo e con la Terra.

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Trovandosi all’improvviso sulla cima della montagna, aveva lasciato dietro si sé ogni timore, che gli aveva inebetito i sensi: la sua volontà di lasciarsi andare all’ignoto, lo aveva reso libero e solo adesso poteva godere dell’Universo che lo circondava e di vivere tutto con lucidità. Avvicinandosi al suo centro aveva finalmente acquisito uno spazio interiore maggiore, che gli permetteva di contenere il suo dolore, senza più bisogno di sfuggire rinnegando i tabù sistemici e soprattutto si era avvicinato al tabù della morte. Il suo cuore fu inondato dall’amore verso se stesso e tutti gli altri, tanto che sentì la necessità di piangere lacrime che venivano dal cuore e talmente calde, che gli squagliarono immediatamente il resto dell’armatura. Adesso lo inondava una luce molto più forte di quella che emanava la sua armatura lucidata: l’amore che sostiene e non copre. L’unica cosa che l’anima sa fare è essere e fluire all’interno dell’ordine armonico, nutrendosi di un continuo moto d’amore, che è l’entità più misteriosa dell’uomo, che dà una sensazione di pace profonda, che si riassume nella spinta verso la vita.

Il giardino dell'artista a Giverny Claude Monet

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CAPITOLO 5

L’ ESPERIENZA DEL TEATRO DEL SÈ

Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via. Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai. Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d'umore, dalle ossessioni delle tue manie. Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare. ……… E guarirai da tutte le malattie, perché sei un essere speciale, ed io, avrò cura di te. ……….. Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza. Percorreremo assieme le vie che portano all'essenza. ………. ( da “La cura” di Franco Battiato”)

L’ esperienza del Teatro del sé mi ha colpito profondamente, poiché è arrivata, come sempre nel corso della vita degli individui, al momento giusto. Se è vero che nulla succede per caso, la sincronicità degli eventi, che mi ha portato a seguire il seminario nel settembre 2010, ne è l’esempio lampante. Certamente in altri periodi della mia vita, in cui ancora non si era aperto il sipario sul divenire intorno a me ( certo ancora molta parte delle tende offusca la visione del palcoscenico completo….diciamo che sono al proscenio! ) avrei dato per scontati molti avvenimenti e non avrei potuto minimamente interpretare molti dettagli relativi al mio stato empirico, come sono venuti fuori da questa esperienza.

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Parole come: “Il fare diventerà un agire davvero, non per dimostrare o per voler apparire, ma “semplicemente” per essere, rivelando se stessi attraverso la fiducia nelle proprie azioni, nel proprio corpo, nei propri sentimenti, nei propri istinti vincendo la timidezza, andando oltre le inibizioni: ripristinare il copione genetico personale attraverso l’esperienza della recitazione/non recitazione” ( Michel Hardy) non avrebbero assolutamente avuto la portata comunicativa, che hanno avuto in

quel

momento della mia vita. Il teatro, dunque, è diventato un mezzo rivelatore, perché il copione che ci è stato dato da recitare, anche se apparentemente non sembrava avere niente a che fare con la nostra vita, è stato lo specchio della nostra vita emotiva. “Un'occasione per conoscerci, incontrarci e ritrovarci. Per lasciar andare il vecchio ed andare verso il nuovo” Mi sono rimaste impresse le prime parole di Roberto Cajafa, il regista ed attore milanese, che ha affiancato Michel in questa esperienza, che hanno sottolineato come la capacità di un interprete sia quella di fare rinascere ogni volta la situazione, come se accadesse per la prima volta, sul palcoscenico. L’attore, infatti, ha la capacità di andare ad attingere ad ogni spettacolo, dalla sua interiorità, gli stati d’animo da scandagliare e da mettere in scena. E’ proprio qua che sta la bravura, cioè l’attore diventa un “ginnasta dell’anima”, perché sa trovare la giusta emozione ogni volta. La nostra battuta è importante, ma dipende sempre da quella degli altri, per cui bisogna ricreare sempre il percorso teatrale, momento per momento, attraverso la relazione con gli altri attori, cosa che in realtà sarebbe opportuno che succedesse in qualunque tipo di relazione.

Ok….allora iniziamo con la lettura del copione! La prima sessione di lavoro prevedeva la messa in scena di

parti significative

estrapolate da “Mariti e mogli” di Woody Allen ed ognuno aveva da scegliere la sua parte e, chissà perché, poi, ognuno ha preferito quella che più poteva fargli da specchio! Il testo, nonostante l’ironia di Woody Allen era sicuramente impegnativo, per cui, se non è stato facile identificarsi in quei ruoli, non altrettanto lo è stato metterli “in opera”.

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Diciamo che la bravura di Roberto Cajafa è stata proprio quella di far uscire da noi l’emozione giusta, facendoci identificare con i personaggi, dicendoci passo passo quale fosse il sentimento che muoveva, di volta in volta, lo svolgersi della scena e spronandoci a non lasciarci sopraffare dalla tensione della “performance”. Il copione in mano, all’inizio, ci è servito per far prendere al corpo confidenza con lo spazio, ma poi è stata data via libera all’improvvisazione: l’importanza era capire il senso del dialogo, da piegare sempre alla reazione di chi avevamo davanti. Sicuramente questo è un buon esercizio, che bisognerebbe anche applicare alla vita di tutti i giorni, per farci rendere conto di quanto ci discostiamo dalla realtà, senza metterci veramente in relazione con l’altro, ma seguendo un nostro copione personale, spesso avulso da ciò che realmente accade intorno a noi.. È qua che mi sono veramente resa conto di quanto il mo corpo fosse bloccato, della rigidità e delle false pose e degli atteggiamenti di apertura o chiusura che, sempre, io prendo nelle relazioni, di qualsiasi natura esse siano. La brava bambina è il ruolo che più mi tormenta, perché, nel caso della rappresentazione di “mariti e mogli”, è esploso tutto il mio sentirmi inadeguata, le mie insicurezze, in quanto non potevo dimostrare di “essere brava” a recitare, perché obiettivamente non lo sapevo (e non lo so) fare. Le mie emozioni bloccate non riuscivano a farmi entrare nella parte della moglie tormentata dal rapporto statico con il compagno, che pure sentivo, in quanto provate da me in prima persona, nella mia vita. Certo ora so che il recitare ha bisogno di nascere da un’emozione vera, da andare a cercare dentro di sé, ma certo non è facile proiettarsi in una situazione fittizia, al centro di un “palcoscenico” , quindi sotto gli occhi di tutti e mettersi a nudo. Credo comunque che noi siamo i peggiori giudici di noi stessi, per cui tutte le fustigazioni che ci diamo, gli altri nemmeno le vedono! La verità è che io in questo ruolo non mi sentivo a mio agio, volevo scappare e non stare più lì, ma sapevo che sperimentarmi era l’unico modo possibile per fare uscire qualcosa, da questo mio corpo “malato”. Non dimentichiamo che la rigidità, certe malattie, sono il frutto di emozioni bloccate nel corpo ed istinti naturali repressi, come quello sessuale. William Reich descriveva il corpo come una gabbia, che ci tiene stretti stretti e ci soffoca.. Più veniamo castrati in età giovanile con senso di colpa, indignazione, castighi, soppressione di energia sessuale, ecc... più ci troviamo la "gabbia" stretta finita la

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pubertà, che e' un'età critica dell'essere umano, mentre lo e' ancor di piu il primo anno di vita, soprattutto la fase di "mirroring". In pochi mesi i progressi da me fatti a livello fisico/mentale/emozionale sono stati notevoli, grazie anche alla continuazione del lavoro di teatro nella mia città, anche se non credo che le emozioni bloccate siano del tutto svanite, ma di sicuro la "gabbia" si e' allentata parecchio e, continuando a lavorarci, non ho idea di dove possa arrivare il mio miglioramento! E’ vero che il momento più difficile della recitazione è “la parola”, ossia il mezzo che serve da tramite, oltre al corpo, per esprimere l’essenza di un personaggio ed è qui che si mostra l’inadeguatezza delle persone che non hanno “fatto” teatro. Ci vogliono infatti studi approfonditi, bisogna seguire delle Accademie, per arrivare alla giusta unione tra linguaggi non verbali e verbali. La cosa che stride maggiormente, in dilettanti, è proprio la dicotomia che si crea tra il corpo, che “sente” e trasmette stati d’animo e la voce, che spesso segue un’altra traiettoria, più mentale, che spesso blocca le dimensioni più interiori. Esempio lampante è stata la messa in scena de “Il gatto e la volpe”, che il regista ha deciso, con un’idea geniale, di farci recitare ognuno nel suo dialetto. Il risultato finale è stato veramente entusiasmante, in quanto la lingua regionale è quella che, essendo stata assimilata in modo quasi ancestrale, meglio permette di lasciarsi andare completamente alla recitazione, poiché non si ha anche il problema di sentire la cattiva pronuncia italiana e le varie inflessioni dialettali, cosa a che a me, per esempio, blocca molto. Tutto il mio parlare “aperto”, con le vocali esasperatamente non chiuse, mi inibiscono nel confronto con il palcoscenico. L’improvvisazione, anche qui, è stata elemento catalizzante, poiché la battuta veniva piegata, sempre, alle esigenze della scena ed era sempre in rapporto diretto con la reazione degli altri attori. Qui è uscita fuori tutta la mia creatività, la mia esigenza di fare ridere, che è caratteristica del mio modo di rapportarmi con le persone, in quanto, attraverso la risata, io camuffo il mio sentirmi insicura e debole rispetto agli altri e tendo, con l’ironia, a costruire spesso i miei rapporti interpersonali. Le parole della mia amica “togliti quella risata stupida dalla faccia” mi hanno colpito moltissimo, facendomi rendere conto di quanto il mio “Debito Empirico,” fosse rappresentato proprio da quella maschera da Arlecchino. In quel caso, però, ha avuto il duplice vantaggio da un lato di farmi talmente entrare

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nella parte e di farmi divertire, da ottenere lo stesso risultato sugli spettatori, che sono stati completamente coinvolti, dall’altro, di “toccare con mano” il perché di questo mio atteggiamento nella vita Direi che il risultato è stato veramente in linea con ciò a cui mirava il Seminario e direi che ne è valsa veramente la pena! Una volta messi in moto determinati meccanismi, il lavoro è stato affiancato da Michel Hardy, che ci ha messo alla prova, ulteriormente, facendoci esternare tutto ciò che la Piece aveva smosso dentro di noi, cioè tutto quel sentire che, grazie al lavoro teatrale, è venuto a galla. E così mi sono resa conto di quanto il teatro è gioco, divertimento, ma anche uno strumento che ci permette di vedere la realtà da prospettive diverse, portando alla nostra vita più fisicità, più azioni e un patrimonio di nuove espressioni da mettere in gioco, trasformando in modo straordinario l'esperienza del vivere ordinario, perché ci fa vedere e sentire il quotidiano in modo non scontato. Ogni potere personale, quindi ogni palcoscenico, è internamente dominato dal conflitto tra due espressioni opposte. Questo conflitto ci porta a ricordare alcune circostanze che abbiamo vissuto, allora scritto nel copione della nostra vita e che scopriremo essere tra loro collegate. Il corpo necessita di emozioni, di sensazioni di stimoli, per cui è vero che la voce recita un testo, ma è il corpo che “sente”, dato in realtà la bravura di un attore sta proprio nell’entrare nella parte da recitare, come, nella vita, il rapporti interpersonali sono reali senza l’uso delle maschere. Quando una persona si relaziona con noi, siamo capaci di entrare empiricamente nel suo stato d’animo, o finiamo per proiettare su di lei sempre le nostre emozioni e il nostro vissuto? Sicuramente se non siamo ben centrati, è questo il meccanismo che si attua, per cui una persona può essere bella, brutta, simpatica o antipatica a seconda dei soggetti che la guardano. Qualunque situazione della vita, che ci sollecita emotivamente, è un termometro del nostro stato sistemico, infatti, il viaggio che intraprendiamo all’interno del percorso dell’Accademia del Sé, si svolge dentro e fuori di noi: dopo avere destrutturato tutta l’impalcatura che ci siamo costruiti, entriamo in dinamica, cioè in una parabola legata al dolore, in cui si sta male e non si vedono via d’uscita. Si sente allora il bisogno di fare una scelta, perché si ricompatta qualcosa, dato che è solo il dolore che può far uscire da questa strettoia.

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Tutta quella “roba” che ci portiamo dietro da una vita, finalmente ce la guardiamo e la affrontiamo, altrimenti rischiamo di rimanere sempre distaccati dalla nostra vera essenza.

Il bagaglio che ci portiamo dietro è così pieno, che quando lo andiamo a guardare, in realtà, sembra non sappiamo da quale parte cominciare a tirar fuori ed è questo, però, che ci serve per mettere un po’ di ordine nella nostra vita e cominciare a vedere quali sono le cause e non sempre e soltanto gli effetti.

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CAPITOLO 6

ESPERIENZE DI LABORATORIO TEATRALE IN CHIAVE EMPIRICA

6.1

IL LABORATORIO TEATRALE

"Un popolo senza teatro è un popolo morto" (Garcìa Lorca)

In seguito alla mia partecipazione al seminario “Il teatro del sé”, in cui ho capito che l’unico mezzo per entrare in contatto con il mio dolore e, quindi, la chiave di volta per riscattare parte del mio debito empirico stavano anche nel prendere contatto con il mio corpo bloccato e rigido, ho deciso di seguire un laboratorio teatrale a Messina, organizzato dal DAF, ossia IL TEATRO DELL’ESATTA FANTASIA, che ha come idea di base quella di creare un’occasione di incontro e scambio per persone, che non necessariamente siano aspiranti attori. In particolare questo percorso laboratoriale ha preso il nome de “ Il gioco più serio” per simboleggiare la possibilità di divertirsi, seguendo, però, regole precise. Attraverso lo studio del proprio corpo e dei meccanismi di comunicazione teatrale, diviso in Isole” (isola della Parola, del Pensiero, del Corpo e della Voce), con “incursioni” da parte di registi, attori e musicisti, che sono stati, di volta in volta, chiamati per dare il loro apporto professionale, il laboratorio si è posto come obiettivo un percorso di ricerca e di studio incentrato sulla commedia dell’arte, usando il corpo come strumento espressivo a 360 gradi. Il corpo, infatti, è la terra che abitiamo dalla nascita alla morte: la pelle ne è l'orizzonte e il tramite, ma spesso noi lo ignoriamo, considerandolo un velo superficiale o al massimo un abito da mantenere pulito e il più possibile in buono stato. In realtà noi possiamo dar voce al nostro essere partendo proprio dal corpo, in quanto esso è uno strumento dell'anima. Ecco perché la maggior parte degli esercizi effettuati hanno avuto a che fare con l’esperienza corporea, come mezzo per raggiungere consapevolezza di sé e per creare l’empatia nel gruppo. Il lavoro all’interno del laboratorio è diventato, quindi, una ricerca personale, ossia rappresentare, interpretare la realtà oggettiva, fantastica o simbolica che ci circonda,

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attraverso “giochi”, che in realtà sono esercizi (anche divertenti), che mirano alla ricerca di ciò che si è, anche nei confronti del gruppo in cui si è inseriti. Il teatro, così, è stato un atto espressivo semplice, che ha portato ad un mutamento di ottica nei confronti delle persone e della realtà che ci sta intorno, in quanto si è posto come una riscoperta del “fare attivo”, contro il “vedere passivo”, anche attraverso il recupero dei linguaggi non verbali. Il laboratorio prevede uno spettacolo finale, tratto liberamente dal “Pericle” di William Shakespeare ed interamente riadattato sulla base delle esigenze e motivazioni dei partecipanti, appositamente ridotto per mettersi in gioco in modo più profondo e parlare di sè e della nostra città, tanto è vero che il testo è in siciliano. Il tema fondamentale affrontato è quello del “viaggio”, quello intrapreso da questo eroe positivo, sottoposto a dure prove da parte degli uomini e dalla Fortuna, prove intese come confronto con desideri, bisogni e ostacoli che Pericle, nel suo girovagare per il vasto mare, sa accettare. In realtà il testo diventa il mezzo per parlare di noi, delle nostre aspettative, dei nostri stati d’animo, del nostro confrontarci col mondo, quindi grande metafora dell’ “Essere uomo”: infatti in questa opera la semplicità della favola arcaica si fonde in un sapiente gioco meta teatrale, capace di dar conto di tutte le oscure contraddizioni dell’uomo. Ci è stato chiesto di scrivere qualcosa di noi, che abbia a che fare con ciò che ci aspettiamo da questo laboratorio, sul tema del “viaggio” e su tutte le tematiche che lo accompagnano. Naturalmente, metaforicamente, questa partenza rappresenta tutti i cambiamenti che il nostro percorso di vita ci presenta e tutto ciò che ne consegue.

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6.2 IL TEMA DEL VIAGGIO

Il laboratorio esperienziale è una occasione dove le idee di ciascuno contribuiscono allo sviluppo di un tema dell'esistenza. Ogni spazio, naturale o voluto dall'uomo, è carico di evocazioni, di immagini, di espansioni per la coscienza e può essere un deposito di bellezza e stimolo alla sensibilità e al bello: noi viviamo in luoghi, siamo parte dei luoghi e i luoghi ci abitano. Ogni spazio porta in sé il fascino e l'orrore, tanto attira quanto allontana e di fronte ai luoghi noi stessi diventiamo luoghi espressivi e la parola crea ponte di continuità tra il dentro e il fuori. Quali parole scaturiscono di fronte all'impatto con il mare, la terra, il cielo, le case, i templi ecc.? Quale è la forza di "quelle" parole?

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I temi del laboratorio sono stati quelli del viaggio, la cui simbolicità è tanto cara a Shakespeare, quanto quello della tempesta, della scoperta e dell’abbandono della propria casa e ci siamo trovati naufraghi da una zona laboratoriale all’altra proprio per sottolineare questo nostro girovagare, che sembra spezzarci, ma in realtà ci fortifica e ci ritempra lo spirito.

Ci stiamo apprestando a lasciare il porto, siamo in partenza, alla scoperta di nuovi lidi, altre emozioni, da condividere, per cui i temi fondamentali diventano: 1)

la partenza e quindi l’abbandono, l’inevitabile separazione e quindi il lasciare

2)

a bordo della nave, le speranze e i sogni di tutti, cosa vogliamo dire e scoprire di noi e, per placare il buio e la paura di perdersi, raccontiamo una storia, che vinca sui timori di tutti

3)

l’incontro con l’altro a bordo della nave, che è prossima alla tempesta

4)

la tempesta, che ci divide, che ci annienta perché rappresenta gli obblighi e i ruoli di tutti i giorni, la realtà che ci travolge ed annienta la fantasia e ci porta lontano da noi stessi

5)

la solitudine della notte in cui ci ritroviamo soli con noi stessi

6)

l’arrivo e l’incontro, quando il viaggio è finito e non è stato vano, perché è stato importante perdersi e poi ritrovarsi, raccontarsi e scoprirsi diversi.

Importante è stata la compilazione di una serie di “ lassu”, (lascio) che ognuno di noi aveva da scrivere, per mettere in luce alcuni eventi, negativi o positivi, da abbandonare prima della partenza. Particolare il fatto che questi “lassu” simbolicamente nel corso degli esercizi, venissero affiancati o da un buttarsi al centro del cerchio formato da noi partecipanti, o da un lanciare un indumento personale, in modo da unire l’intenzione del lasciare alla voce e ad un gesto del corpo. Sappiamo quanto sia proprio il corpo, infatti, a non dimenticare ciò che ci ha segnato profondamente nella nostra esistenza, in quanto è quello che non dimentica, mentre la mente, razionalmente, perdona. Il tema del viaggio, particolarmente importante per me in questo momento, dato che ho proprio intrapreso un lungo percorso alla ricerca del mio vero essere, ho deciso di scriverlo sotto forma di lettera, liberamente tratta dal libro “La principessa che viveva nelle favole”, che era una delle possibilità dateci dal regista-attore, che ho dedicato a mia madre e che sintetizza l’ attuale mio “sentirmi”.

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6.2 IL MIO VIAGGIO

Mia cara mamma Adesso che sto per allontanarmi da queste rive, che sono state la mia casa per tutti questi anni, anche se tu non sei lì a salutarmi, sono certa comunque della tua “presenza” e ho il desiderio di raccontarti una favola…una storia che mi piace particolarmente. E’ vero che tutte le storie, di solito, cominciano con “C’era una volta”, ma ti dirò che la Principessa protagonista non “era” una volta, ma , in parte, lo “è” ancora e proprio il suo essere la somma del passato, del presente e, perché no, di quello che sarà, le hanno dato la carica e la forza di intraprendere il suo lungo viaggio.

La principessa Biancaluce viveva in un palazzo dove la vita scorreva tra i binari canonici della vita di corte; bella bambina, giocosa al punto giusto, educata, sempre al suo posto, mai una parola più del dovuto, brava a fare tutti i compiti che le erano assegnati, con un talento pianistico notevole, sognava il principe azzurro,che sarebbe arrivato a corte per lei…..insomma incarnava l’ideale di figlia, di cui i re e le regine sono orgogliosi. La nostra protagonista aveva anche un’amichetta, con cui viveva in simbiosi, che non lasciava mai, ma che, spesso, le faceva fare cose che mai lei avrebbe fatto, da sola: rispondere male, non stare “al suo posto”, mille idee vulcaniche, urlare, giocare in modo non adeguato, cercare non il principe “assurdo”, ma un Uomo, anche popolano. Insomma l’amica diventava uno stimolo “negativo”, che le faceva perdere quelle caratteristiche di “brava bambina”, cosa che la portava ad un conflitto con se stessa, con i suoi genitori e con il mondo circostante. Il nome della sua amica era Ombretta, che le procurava, come è facile immaginare, un sacco di guai. Ombretta sapeva ballare, gioire, suonava esprimendo tutta se stessa, aveva la capacità di abbracciare, di lasciarsi andare, di avere fiducia, tutte qualità che nel palazzo e nella vita di corte erano viste come “riprovevoli”, non adatte al ruolo di una principessa.

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A Biancaluce piaceva indossare i bei vestiti che la sartoria dei sovrani le confezionava, ma Ombretta preferiva provare abiti “diversi”, anche creati da lei; Biancaluce suonava rigidamente i pezzi a lei assegnati dal maestro di Corte, ma Ombretta amava improvvisare e riprodurre melodie di sua invenzione; Biancaluce eseguiva tutti gli esercizi dei balli figurati, Ombretta, invece, roteava e danzava liberamente seguendo il fluire della musica. Se arrivava qualcuno che suscitava simpatia in Ombretta, lei subito si lanciava ad abbracciarlo, ma subito Biancaluce la fermava, perché tale comportamento non era degno di una principessa. Ombretta si arrabbiava, aveva paura, amava, piangeva, urlava, rideva,emozioni che la portavano ad esternare tutto il suo mondo interiore, ma Biancaluce la bloccava continuamente, perché sapeva che il re e la regina, che di malocchio vedevano questa amicizia, prima o poi le avrebbero fatto lasciare l’amica troppo spontanea . I suoi sensi di colpa per quello che l’amica esternava, crescevano sempre di più, in quanto non riusciva più a coniugare la forma e l’apparenza, che la vita di corte le imponevano, con il vero essere di Ombretta, e così, a poco a poco, quando la presenza di Ombretta diventò troppo “ingombrante”, Biancaluce si vide costretta , con enorme sofferenza, ad abbandonare la sua amica, che relegò in un angolino della sua stanza, dentro un armadio, al buio, fino a che, crescendo, giorno dopo giorno, se ne dimenticò. Ma Ombretta continuava ad essere lì. Biancaluce diventa una ragazza, poi una donna e, nel corso di questi anni, si diploma in pianoforte, si

dedica per un certo periodo all’attività concertistica, segue corsi

di perfezionamento in Italia ed all’estero, si laurea; nel frattempo diventa anche insegnante, si dedica al volontariato, ma sempre con la sua valigia in mano per andare alla ricerca di cose nuove che potessero arricchirla professionalmente, ma anche per trovare qualcosa di nuovo da riportare indietro, nel suo baule, che nel frattempo diventa sempre più pieno. Sposa quel principe azzurro accettato a corte, ha una bellissima bambina : insomma la principessa ormai aveva assolto tutti i compiti che ci si aspettava da lei ed era come “lo specchio” fuori di lei la voleva. Ma, paradossalmente, più si avvicinava al suo essere “vera principessa”, più il consenso intorno a lei cresceva, più il suo senso di malessere aumentava e, ogni giorno di più, c’era qualcosa che non riusciva a cogliere della sua vita, che la rendeva sempre più triste, più arrabbiata, più paurosa.

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Con chi parlare dei suoi malumori, delle sue insicurezze, dei suoi pensieri e delle sue emozioni più intime? Con chi potere essere “veramente vera”??? Finalmente si ricordò di quell’amica, quella che era stata la sua compagna di giochi e di vita, che, però, aveva relegato in un posto oscuro, pur di non scontentare chi le era vicino e di farsi accettare come principessa. Il suo pensiero cominciò ad andare, allora, sempre più spesso a quella cara Ombretta. Come stava? Come poteva ancora sopravvivere , affamata, al buio, ferma e annichilita nel fondo di quell’armadio? L’avrebbe mai perdonata per quello che lei le aveva fatto? Nonostante le mille domande che Biancaluce si poneva, il desiderio di rivedere l’amica tanto amata si faceva ogni giorno più forte e più crescevano le sue fobie e il suo disamorarsi della vita, più il richiamo del passato era insistente. Così un giorno si prese di coraggio e ritornò nel palazzo dei suoi genitori, nella sua stanza, per guardare cosa fosse rimasto, nell’armadio, della sua amica. Aprì con grande cautela le ante, prima una e poi l’altra, stando attenta che la luce non entrasse all’improvviso: stava con le orecchie tese, per sentire ogni minimo respiro, soffio, suono o rumore che potesse venire da là dentro, ma all’inizio non sentiva nulla. Troppo tempo era passato, forse Ombretta era andata via, forse aveva deciso di non vivere più, forse….forse….forse…. Ma all’improvviso…ecco un gemito, un movimento, ecco due occhi sgranati che risplendevano dal buio più profondo……Ombretta era ancora là. Certo l’esser stata rinchiusa tutto quel tempo, aveva enormemente rallentato i suoi riflessi, il suo essere ne era risultato decisamente mutilato, ma riuscì lentamente a venire alla luce, con grande pazienza da parte delle due amiche. Anche il suo corpo aveva risentito di quella lunga e forzata sedentarietà: era più rigido, malaticcio, incapace di lasciarsi andare, ma con lavoro paziente le due amiche riuscirono a reintegrarsi . Con il tempo la principessa e la bambina ( ossia il nostro bambino interiore, che abbiamo bisogno di reintegrare nella nostra vita) ritornarono a vibrare insieme, sapevano di essere al sicuro, insieme, guardandosi negli occhi ogni mattina davanti allo specchio o in tutti quei momenti della giornata in cui, stringendosi la mano, si sostenevano a vicenda.

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E sapevano che solo così avrebbero raggiunto il traguardo dell’essere donna integrata, appagata ed accogliente, che si manifesta sia nella luce, che nell’ombra e che si libra nel libero fluire delle cose. E più è autentica la persona, più riceve lo stesso segnale dal mondo circostante, che non pretende più una perfezione apparente, ma l’essere genuino e la “presenza” in tutte le sue manifestazioni.

Ora che ti ho raccontato questa favola, cara mamma, sto proprio lasciando quella sponda, quella delle insicurezze, della paura di non essere accettata, del dovere fare “la brava bambina” e mi accingo a mitigare tutte le mie alterazioni, per raggiungere quella meta, che, ancora lontana all’orizzonte, so che vedrò nel mio viaggio in questo mare aperto, azzurro e limpido, ma anche increspato e minaccioso. Questa nave-laboratorio sarà uno dei miei strumenti, sarà lo specchio della mia anima, che si rispecchia in ogni cosa che faccio e, ancor di più, che non faccio, soprattutto nel mio vivere quotidiano, ma che posso sperimentare nel laboratorio-nave. I miei compagni di viaggio, come me, ogni giorno, in casa, al lavoro, nel tempo libero, quindi sulle terre che abbiamo lasciato, recitano un ruolo, cercando di interpretare quello che vorrebbero o non vorrebbero essere, seguendo un copione, che meccanicamente ripetono. Attraverso le dinamiche e gli stimoli che troviamo su questa nave, e grazie ai suoi capitani, possiamo entrare in contatto con la nostra autenticità emotiva, relazionale ed espressiva e, sperimentandoci nella “ non finzione”, possiamo scoprire il perché delle nostre strategie emotive e degli schemi mentali profondi che ci impongono un ruolo da sostenere. Ed è là che potremo svolgere indagini approfondite, lasciando che il Sé di ognuno di noi riveli i suoi segreti, i suoi raffinati meccanismi di auto-boicottaggio.In questo tortuoso viaggio faremo, quindi, agiremo davvero e non per dimostrareo per voler apparire, ma “semplicemente” per essere, attraverso la fiducia nelle nostre azioni, nel nostro corpo, nei nostri sentimenti, nei nostri istinti. Con l’esperienza del navigare, vinceremo la timidezza, andremo oltre le inibizioni e ci esprimeremo liberamente, per rivelare, attraverso la scoperta del sé di ognuno, quel nostro potenziale personale che rimane inespresso. Il lavoro di squadra sarà quello che meglio ci supporterà in tutto questo viaggio, perché attraverso gli altri vedremo la nostre debolezze, i nostri limiti, ma anche la nostra forza e la capacità di metterci in gioco………….in “un gioco più serio”.

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Adesso ti lascio….e mi lascio andare al dondolio di queste onde,

che come una

ninna nanna mi cullano e mi danno coraggio, sapendo che, prima o poi arriverà la tempesta, che sarò e saremo insieme capaci di dominare, guardando avanti, in fondo

all’orizzonte……….

Ciascuno implora Dio che dia luce al capitano. Che dia luce alla notte che avanza.

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Tempesta, tempesta a mai finiri, chi u cutturià u ppi tutta a so esistenza fino a quannu u distinu paci ci detti, ma dopu tanta, troppa sofferenza. Ancora avemu a campari, puru senza ragioni, tiramu, tiramu pi drittu e dduma a sirena si non ni vonnu sèntiri!

Donatella

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6.4 ESPERIENZE DI LABORATORIO

L’incontro-tipo del laboratorio si basa, sempre, sul prendere coscienza che il corpo ha un suo peso e si muove in rapporto ad uno spazio. Importante è lavorare sull’intenzione del movimento , perché mai esso è gratuito ed è necessario per capire come gestire i pesi diversi delle varie parti del corpo, per arrivare ad un movimento vero e sincero. Il rapporto tra movimento ed emozione nasce dal movimento stesso e il corpo è il punto, quindi, da cui partire per una ricerca. Il rilassamento iniziale ( almeno 15 minuti) è sempre stato l’elemento primario, per eliminare lo stress della giornata appena passata e riprendere contatto con sé, troppo ingoiato dalle attività giornaliere ed inquinato da emozioni che spesso ci allontanano dal nostro vero IO. Una volta in piedi, rinvigorire il corpo con massaggi energici e, sentendo il contatto con il terreno, camminare per lo spazio, in modo da eliminare la mente e far cedere il corpo alle emozioni, prima ognuno per sé e poi guardando il mondo circostante. Ecco che diventa indispensabile l’incontro con gli occhi degli altri, da non mollare mai sino a quando non sono scomparsi dal nostro raggio visivo. La velocità varia continuamente, in modo da tenere desta sempre l’attenzione e che il corpo non si abitui a schemi preordinati. Si può dire “ciao”, anche con toni diversi, ridendo, arrabbiati, tristi … l’importante è non perdere mai la consapevolezza di sé in mezzo agli altri. Ogni nostro movimento andrà effettuato con “intenzione”, per trasmettere ciò che siamo realmente in quel momento, in modo che gli altri sentano la nostra energia pulsante : necessari gli esercizi per entrare in empatia con i compagni e con il movimento altrui. Per questo sono stati fatti vari esercizi, come creare dei quadri in movimento, in cui bisognava subentrare al movimento degli altri in successione, solo quando si “sentiva” che era arrivato il proprio momento; oppure seguire qualcuno avanti a noi e cercare di abbinare i propri movimenti del corpo, anche senza vedersi. Il corpo, quindi, diventa il punto da cui partire per una ricerca personale perchè se le parole possono mentire, quello dice sempre la verità. La libertà linguistica è un altro tema del laboratorio, in quanto l’italiano è spesso una lingua difficile, teatralmente parlando, perché obbliga ad una sorta di mediazione col pensiero, che, invece, grazie al dialetto si riesce a tradurre in parola automaticamente.

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Questo consente di essere più equilibrati e giusto nella chiarezza del pensiero e dell’intenzione che si vuole trasmettere. Le esperienze di teatro qui riportate, sono interpretate in chiave empirica, cosa che naturalmente non è venuta fuori nel corso della messa in scena nel laboratorio, almeno verbalmente e i nomi sono inventati.

ESPERIENZA DI TEATRO: messa in scena da parte di donna e uomo finti yin

Questa interpretazione viene fuori da una parte del Pericle in cui a Mitilene, in un bordello, si trova la figlia dell’eroe, Marina, che riesce a conservare la sua verginità convincendo gli uomini a perseguire la virtù e, successivamente, riesce ad affrancarsi dal giogo vizioso diventando nota per la sua abilità nelle arti e nella musica. Bisogna inscenare appunto il momento in cui la donna si sottrae alle proposte di un nobile. Poiché i due protagonisti, in scena, non riescono ad entrare nell’emozione, il regista decide di far fare loro degli esercizi per stimolare la loro prestazione. Francesca e Fernando hanno da rappresentare la vitalità maschile, dell’uomo che vuole conquistare la donna e la vivacità femminile della donna, che non vuole cedere alle sue avances. Francesca, inizialmente, è rigida, non riesce ad entrare nella sua morbidezza, i suoi movimenti sono bloccati dall’ansia della prestazione e dalla difficoltà dimettersi a nudo. E’ una finta yin, con una rabbia trattenuta, che non permette alsuo corpo il esprimere il suo potere liquido, l’arrendevolezza è pressata all’ansia di essere giudicata. Non avendo una carica Yang appropriata, anche se secondaria, non sa sostenere la sfida data dal personaggio che ha di fronte, ma è sopraffatta dalla vergogna, che sviluppa ogni volta le viene chiesto di esporsi, di parlare a proprio sostegno e di farsi valere, poiché ha paura di sfigurare, temendo il giudizio altrui. La sua energia principale è l’ansia che incombe ( paura di vivere), che la fa arretrare di fronte agli ostacoli ed è quindi priva della forza di essere presente, cosa che si vede chiaramente dalla sua interpretazione….”tiepida”. Fernando è un uomo Finto Yin, chiaramente con una carica yang molto bassa, si distingue per i suoi modi gentili ed ha una sensibilità spiccata. Il suo essere compagnone si dimostra con il buon umore, con il fatto che intrattiene sempre tutti , ma si vede chiaramente che è una persona infuriata con il mondo, cosa

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che nasconde per non essere smascherato. Sulla scena, si muove con meno difficoltà della sua compagna, perché il suo corpo è più portato al movimento ed è molto snodabile, ma, ancora, non preciso nell’esplicare i principi yang da mettere in scena, anche perché ha bisogno di cercarli dentro di sé, dato che sono offuscati dalla forte carica Yin. Sono le parole da recitare che a poco fanno entrare nel personaggio Fernando, perché il testo è fondato molto sulla pronuncia delle consonanti, come la p, la erre, la t, che per loro natura portano alla terra, al contatto con le emozioni del I chakra. Ecco allora che il suo testo viene pronunciato a voce alta per sottolineare la carica Yang e man mano che procede con l’interpretazione, dall’iniziale tono piano e timoroso, comincia a tirare fuori una voce forte e grave, accordata al personaggio. Francesca recita il testo di una canzone che le è venuta in mente in quel momento “Come fare, perché il fiume scorra ancora, come far perdere…il profumo a questo fiore”, che di per sé esprime pienamente il senso dell’energia femminile da fare uscire fuori in questo contesto. Ma non riesce a sentirsi dentro, è priva della forza di vivere il presente. Riesce ad ammorbidirsi all’entrata del regista, che con lei fa i movimenti e che stabilisce un alternanza di parole tra lui e lei. Ecco avvenire una metamorfosi: lei a poco apoco si lascia andare, dando un senso alla coreografia e al gioco di coppia, dando spazio finalmente al libero fluire del suo corpo, che si scioglie in questo gioco di energia Yin e yang. All’uscita di scena del regista, la ragazza sembra di nuovo perdersi e irrigidirsi, ma l’energia di Fernando, che nel frattempo diventa sempre più consapevole della sua carica yang, la riattira, in un gioco in cui ognuno di loro prende a turno dall’energia dell’altro. Che bello vedere Fernando allinearsi con la morbidezza della donna e che bello vedere Francesca seguire a tratti la forza maschile, senza però farsi risucchiare da essa, ma mantenendo tutta la sua presenza femminile e il suo potere liquido. Il risultato è completamente diverso dall’inizio: l’idea che viene data è quella di una “coppia integrata”, in cui ognuno sa quale è il suo posto, nessuno invade il campo dell’altro, in un gioco di dare e ricevere che solo due persone che sono entrate in contatto con i loro principi guida sanno fare. Il “dualismo dinamico”, in cui le due parti Yin e Yang si compensano, ha conferito la massima espressione di forza ed equilibrio nella coppia. Francesca emanava una accoglienza ed una morbidezza, che prima le erano

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sconosciute, mentre Fernando ha fatto uscire fuori tutto il suo maschile, la spinta vitale e la sua forza yang. L’uomo è stato capace di far uscire fuori tutto il fuoco che lo ardeva, la donna la forza liquida dell’acqua che integra. Questo è stato possibile solo superando tutti i blocchi che la mente poneva loro: la paura di essere giudicati, il non sentirsi all’altezza della situazione, i blocchi del corpo ecc. e solo quando hanno raggiunto un livello di stanchezza mentale e corporea che li ha riportati alla loro vera energia, facendo riacquistare la loro carica primaria. Naturalmente, una volta usciti dalla scena, sono ritornati ai loro naturali ruoli alterati, ma, sicuramente, questa esperienza avrà fatto loro prendere contatto con parti interiori forse sconosciute.

Il “tirare fuori” insito nella messa in scena è un’esperienza molto pregnante, in quanto abbiamo assistito, in pochi minuti, ad un processo di yanghizzazione ed yinghizzazione, che nella vita reale, se abbiamo gli strumenti per farlo, avviene in anni di lavoro su se stessi.

Esperienza: “ il non sapere ascoltare”. Un esercizio che mi ha colpito molto è stato quello in cui ognuno aveva da ripetere un testo imparato a memoria, accompagnato dai movimenti delle sette parti del corpo, non in contemporanea: testa, bacino, gomiti, mani, ginocchia, piedi, spalle. In tre sulla scena, ognuno, a turno, chiamato dal regista ripeteva il suo testo, con i movimenti, mentre gli altri stavano fermi. Il gioco si faceva interessante quando ciascuno di noi aveva da dire il testo degli altri, per cui a quel punto l’improvvisazione diveniva l’elemento dominante, dato che noi riferivamo solo ciò che ci aveva colpito o quello che avevamo fatto nostro. Inutile ire, che , spesso, il senso del discorso prendeva una piega completamente differente dall’originale. Proprio in questa rilettura dei testi, abbiamo inscenato una “storia”, in cui Andrea era diventato il protagonista, che seguiva un suo percorso e seguendo le parole del regista, trovava degli spazi, mentre noi cercavamo di creare un gruppo omogeneo. Il punto è che proprio Andrea, ad un certo punto, è andato completamente per i fatti suoi, senza creare l’amalgama, per cui era difficile stargli dietro. In pratica non ha ascoltato nulla di ciò che avveniva intorno, seguendo un suo copione personale, senza entrare in sintonia con gli altri, rompendo l’effetto scena che si voleva

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creare. Il regista lo ha ripreso, facendogli notare questo suo “espediente” e in realtà Andrea

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stesso, in un momento di condivisione, ha ammesso che, nella vita, spesso non ascolta, seguendo sempre il suo percorso, senza mettersi realmente in relazione con gli altri. Bella consapevolezza gli è arrivata, ma quanto riuscirà a metterla in pratica senza un lavoro su se stesso?

6.5 IL LAVORO SUL SE’ Un altro tipo di lavoro è stato intrapreso con un regista e attore messinese, Giampiero Cicciò, che ha dato un diverso taglio all’esperienza teatrale. E qui abbiamo cominciato con il vero Teatro del sé, perché, tra l’altro, non è stato più basato sulla coralità, ma sulla individualità. Attraverso questo percorso abbiamo destrutturato le nostre sovrastrutture, approfondito stati d’animo sepolti, al fine di contattare parti di noi nascoste, mentre l’utilizzo di tematiche ben precise, ci ha permesso di rompere il diaframma che ci separa dalla maschera che portiamo, che ci porta a “rappresentare” un’emozione e quella più profonda, il nostro vero Sé, che invece ce la fa vivere ed esasperarla, come fosse “Espressionismo”. Il risvolto empirico di tutta questa attività è stato enorme, perché ciascuno di noi ha veramente rappresentato tutti i suoi blocchi e il suo stato empirico, anche se, come è chiaro, il nostro conduttore non era uno psicologo, ma un regista. Eppure la sua sensibilità è stata in grado di far uscire parti di noi, che faticavano a venir fuori, anche tramite esercizi appropriati ad ogni singolo individuo ed alle situazioni che scaturivano dal lavoro sulla scena. Il lavoro liberatorio nasceva dall’emozione che si andava a mettere in scena: per essere veri attori, il sentimento non può essere descritto come in terza persona, ma vissuto nel qui ed ora sulla scena. L’attore ha bisogno di vivere costantemente come un “ladro”, facendo man bassa di verità, approfondendo gli stati d’animo, per contattare parti di sé nascoste: in realtà questo “scavo” non serve solo nella finzione scenica, ma è necessario nelle relazioni interpersonali e nel rapporto con se stessi. Poiché le “corde” che vengono toccate in questo approfondimento, sono assolutamente personali, non si sa, in verità, cosa possano fare scaturire, quali elementi possano saltare fuori senza che noi siamo consapevoli, per cui spesso, nel lavoro sulla scena, si può “meravigliosamente” andare fuori tema, a seconda del sentire del momento. Quando il regista ci dice “non dimenticare il momento che hai vissuto”, significa che

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sulla scena sono state toccate parti di sé sconosciute, uscite fuori senza la chiusura dell’ Ego. Ecco perché la mente, a questo punto, ha bisogno di essere eliminata, individuando in modo irrazionale l’emozione da mettere in scena: è chiaro che pensare prima a cosa fare è inutile, perché passa automaticamente con il linguaggio del corpo quando un’azione è voluta e invece, quando è “immediata” ed estemporanea. La sintesi delle tematiche scelte,che andiamo a fare sulla scena, sintesi che non rimpicciolimento, ma anzi ingrandimento e che prevede un’apice espressivo e poi una discesa, esattamente come avviene nella vita, sarà affrontata con l’istinto del momento, con l’esplosione dei propri moti interiori. “Negli smisurati ampi spazi, negli sterminati tempi, nell’immagine del mondo, nel profondo del tuo cuore, solvi al grande enigma il mondo” Questo tema ha a che fare con i vari piani dell’esistenza: tempo spazio, l’incompatibilità col mondo ( da Eschilo a Bechet), i bisogni ancestrali che sono dentro di noi e bisogna trovare la serenità, la verità, l’equilibrio che nasce dalla soluzione del caos. Anche qui non c’era uno schema fisso da seguire, l’importante era seguire l’emozione del momento. Le esternazioni sono state molto variegate e ho citato, nel corso di questa tesi, quelle che mi sono sembrate più pregnanti. L’unico momento in cui la fantasia da adulti, senza sovrastrutture, può andare a briglia sciolta è quello del sogno, che è anche il momento più vero del nostro sé, in quanto esso ci “aggredisce” e ci abbraccia senza la nostra volontà: ecco perché sulla scena è necessario creare un ambiente semibuio, per favorire la concentrazione. (“Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni” William Shakespeare) E parlando di universo onirico è sicuramente Federico Fellini, che, più di ogni altro, ha saputo creare sul sogno una propria personalissima poetica. Film come La città delle donne (1980) ci dimostrano come l’uomo viva di sogni e come questi possano influenzare la realtà entrando a farne parte: non c’è distinzione tra reale e immaginario, sonno e veglia nel mondo di Fellini. Il grande potere del sogno sta proprio nella sua irrazionalità e al tempo stesso nella sua individualità, nel suo appartenere alla sfera interiore di ogni singola persona fuggendo a ogni possibilità di controllo. “Appena ti fabbrichi un pensiero, rìdici sopra": queste parole di Laozi amava sempre pronunciare Federico Fellini. CONCLUSIONI

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Questo lavoro è il frutto della mia esperienza nel percorso della LUMH, che frequento da circa cinque anni e che mi ha permesso di contattare parti di me sconosciute. Anche il seguire il laboratorio teatrale ha avuto una parte molto rilevante, perché è stato molto variegato ed intenso ed aspetto l’ultima avventura della performance finale, che si terrà a Luglio.

Vorrei dedicare questo mio scritto: a tutte le donne che ogni giorno urlano in silenzio a quelle che non possono vivere la propria femminilità alle donne che dedicano la loro vita alla famiglia e alla cura degli altri alle donne tutte……….. e soprattutto a quella piccola donna che è la mia Giulia, che possa seguire la sua strada con la facoltà di potere scegliere….senza maschere!!!

Vorrei fare un ringraziamento speciale a Michel Hardy, che stimola ed incoraggia questo mio percorso di ricerca personale e a tutte le persone che ho conosciuto e mi hanno sostenuto in questo “viaggio”.

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BIBLIOGRAFIA (e WEBOGRAFIA) • • •

La Grammatica dell’essere Vol. 1 La Grammatica dell’essere Vol. 2 La Grammatica dell’essere Vol. 3

Il Paradigma Empirico di Michael F. Hardy2008 Il Debito Empirico di Michael F. Hardy. 2008 Il copione personale I ruoli empirici di Michael F. Hardy. 2008 Dinamiche di Coppia di Michael F. Hardy 2009 Il Codice yin di Michael F. Hardy2010 Il Codice Yang di Michael F. Hardy2010

• • •

La Grammatica dell’essere Vol. 4 La Grammatica dell’essere Vol. 5 La Grammatica dell’essere Vol. 6

Nulla succede per caso di Robert H- Hopcke- Oscar Mondadori

Il cavaliere nell’armatura arrugginita, di Robert Fisher

La principessa che credeva nelle favole, di Marcia Grad- Piemme

Lo psicodramma di Raffaella Massagrandi – Xenia

The shadow effect, di Deepak Chopra, Debbie Ford, Marianne Williamson

Messaggio per un’aquila che si crede un pollo, di Anthony De Mello- Piemme

Uno, nessuno, centomila di Luigi Pirandello

Pensare col corpo di Jader Tolja e Francesca Speciali- Zelig editore 2003

Bourbeau L. (1987). Ascolta il tuo corpo. Edizioni “Amrita”, Torino

• •

Astromagazine

“ Un uomo, una donna, la coppia “ Micol Ferrea

• • •

Corpo, anima e cervello: emozioni di Linda Scotti

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Emozioni e corpo nelle dinamiche relazionali Reggello 7 marzo 2010 Elisabetta Zamarchi Progetti per il teatro di Roberto Cajafa


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