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n altro inverno è passato. La terra, con i sensi attutiti
Another winter has passed. The earth, with its senses dulled by cold and dark months, explodes in the old carousel of sounds, scents and colours. ee explores Romagna again; in search of dusty fragments, forgotten stories (stories should never be forgotten) and drowsy flavours. A challenge that is always profitable, in a territory that continues to hide more treasures than those shining in the sunlight. ee tries to do that: rolling new glances along daily furrows. Spaces to be explored in a slowly consumed time, where it is still possible to know oneself with imagination and freshness, humility and courage. You are free to choose the next step. The editorial staff of ee
dai mesi freddi e bui, esplode nell’antica giostra di suoni, profumi e colori. Anche ee torna a scandagliare
la Romagna; alla ricerca di frammenti impolverati, storie dimenticate (non si dovrebbe mai dimenticare una storia) e sapori sopiti. Una sfida sempre fruttuosa, in un territorio che continua a celare più tesori di quanti ne faccia scintillare alla luce del sole. Questo cerca di fare
ee:
roto-
lare sguardi nuovi lungo solchi quotidiani. Spazi da esplorare in un tempo consumato piano, dove con immaginazione e freschezza, umiltà mista ad un po’ di coraggio, sia ancora possibile puntare al conoscimento di sé stessi. A voi la libertà del prossimo passo. La Redazione di ee E d ito ria le
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A le s s a n dro An t on e l l i
Cervia e il suo entroterra
a pa sse ggio tra sto ria e n at u ra
Pensiamo all’ambito di Cervia come alla zona compresa fra i tre siti che la città ha occupato nel corso della sua storia.
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nizialmente sorgeva alcuni chilometri a Nord Ovest dall’attuale posizione ed era un insediamento greco conosciuto con il nome di Ficocle, dopo il 709 venne distrutta e ricostruita all’interno della Salina e infine, intorno al 1700, si cominciò la costruzione dell’o-
dierna Cervia. Sull’origine del nome si sono scapricciati gli studiosi. Secondo una versione che tiene conto dell’iconografia dello stemma municipale, prenderebbe il nome da una cerva dorata scappata dal parco del vescovato che si sarebbe inginocchiata davanti al vescovo di Lodi, abituale frequentatore di quei boschi. Nel medioevo, Cesena, Forlì, Ravenna, Bologna e Venezia si disputarono la sovranità della cittadina; uno dei segni più tangibili della passata dominazione Veneziana è la cerimonia dello Sposalizio del Mare che a Cervia si celebra dal 1440. La leggenda narra che l’allora vescovo del circondario Pietro Barbo, tornando da Venezia, si imbatté in una furiosa tempesta e, temendo per la propria vita, egli
fece voto di portare in quelle acque la tradizione veneziana dello Sposalizio del Mare. In pegno di questa promessa si levò dal dito l’anello episcopale gettandolo tra le onde. Secondo le cronache del tempo, in seguito a questo suo gesto le onde miracolosamente si placarono; certo è che tuttora a Cervia nel giorno dell’Ascensione si ripropone l’antico rito. Nel canto XXVII dell’Inferno, Dante scrive: “Ravenna sta, come stata è molti anni; l’aquila da Polenta la si cova, Si che Cervia ricopre coi suoi vanni”. La ragione per cui Cervia viene citata è legata all’importanza che la città ricopriva in epoca medioevale grazie alla
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produzione e al commercio del sale (che veniva addirittura definito l’oro bianco). Oggi le antiche saline hanno perso il loro ruolo economico e sono diventate un’oasi naturale particolarmente importante dal punto di vista avifaunistico. La zona costituisce, infatti, una delle rare tappe migratorie per i palmipedi ed i trampolieri: l’ultimo specchio d’acqua, dopo le lagune venete e le valli salmastre del ravennate, incontrato dagli uccelli durante la loro migrazione annuale verso Sud e la prima importante area di sosta dopo la salina di Margherita di Savoia ed i laghi di Lesina e Varano in Puglia, durante il ripasso primaverile verso Nord. Per addentrarsi nell’ecosistema delle saline senza contaminarlo, un modo è di percorrerne in canoa la rete di canali. Nel punto in cui confluiscono esiste un piccolo bacino artificiale chiamato sinistramente “camera della morte” poiché una volta all’anno i salinari, mediante un sistema di chiuse, vi incanalavano un’incredibile quantità di pesci e anguille che lì restavano intrappolati in attesa di essere tirati in secca, come in una mattanza di palude. L’ultimo regalo fatto dalle saline ai cervesi sono i fanghi curativi che si formano attraverso la sedimentazione spontanea delle sostanze organiche contenute dall’acqua di mare nel manto algoso. Le virtù curative di questi fanghi, un tempo note solo ai salinari e alle loro famiglie, cominciarono a conoscersi più diffusamente solo dopo la seconda guerra mondiale quando furono paragonati per proprietà terapeutiche ai fanghi del Mar Nero e, per accontentare la crescente affluenza di coloro che venivano a farne la cura, nel 1960 venne realizzato in loco un importante stabilimento termale. La cornice paesaggistica di Cervia è completata dalla pineta: ultimo lembo rimasto della famosa pineta ravennate, tanto cara a Dante, che un tempo dall’entroterra arrivava fino al mare. La parte meglio conservata è oggi protetta da norme speciali e, normalmente, ne è vietato l’accesso. Il modo migliore di apprezzarla è, ottenuto un permesso della guardia forestale, di attraversarla a cavallo. Seguendo il rumore della risacca marina potreste ritrovarvi nell’ultimo tratto romagnolo di battigia con dune e arbusti di sabbia che si spingono fin quasi al bagnasciuga; un colpo d’occhio rimasto invariato nei secoli, ben diverso da quello che offrono le spiagge turistiche addomesticate negli anni da un rastrello.
ph. d’archivio ph. d’archivio
Yamamoto Tsunetomo
ottiene senza sforzi.
La purezza non si
CERVIA AND ITS HINTERLAND A WALK THROUGH HISTORY AND NATURE We consider Cervia as the area comprising the three sites the town has occupied in the course of its history. Originally it stood several kilometres northwest of its present location and was a Greek settlement known as Ficocle. After 709 it was destroyed and rebuilt within the Saline; and lastly, around 1700, building of modern day Cervia was begun. Writers have indulged themselves about the origin of the name. One version puts forward a reference to the iconography of the town coat-of-arms which features a golden deer (cervo) that escaped from the bishopric park and knelt before the bishop of Lodi who often frequented these woodlands. In the middle ages, sovereignty of the town was disputed among Cesena, Forlì, Ravenna, Bologna and Venice. One of the most tangible signs of former Venetian rule is the “Marriage of the Sea” ceremony which has been celebrated in Cervia since 1440. Legend has it that the bishop of the administrative district, Pietro Barbo, was caught out in a terrible storm while retuning from Venice. Fearing for his life he made a votive offering to bring the Venetian “Marriage of the Sea” tradition to these waters. In pledge of this vow he took the episcopal ring from his finger and threw it into the waves. Contemporary records say that as a result of his gesture the waves miraculously calmed. What is certain is that on Ascension Day the ancient rite still takes place in Cervia. In Canto XXVII of the Inferno Dante writes: “Ravenna hath maintain’d this many a year, / Is stedfast. There Polenta’s eagle broods; / And in his broad circumference of plume / O’ershadows Cervia.” Cervia is mentioned because in the middle ages it was important for salt production and trade. Salt was known as white gold. Today the ancient salines no longer play an economic role but have become a nature reserve, particularly important for its bird and animal life. In fact the zone is a significant migratory stopping off point for palmipeds and wading birds. It is the last stretch of water they find after the Venetian lagoons and the brackish inlets of the Ravenna area on their migration south, and the first important resting place after the Margherita di Savoia saline and the lakes of Lesina and Varano in Apulia when they return northwards in spring. One way to explore the salines without contaminating them is by canoe. The network of canals converge in a small artificial basin with the sinister name “the death chamber”, so called because once a year the salt workers, by means of a system of locks, used to trap an incredible number of fish and eels there to be hauled out at will, as in a marshland tuna massacre.. The salines’ last gift to the people of Cervia consists of curative muds, formed by the spontaneous sedimentation of organic substances in the sea algae. Knowledge of the curative powers of these muds, once possessed by the salt workers and their families alone, began to spread only after the second world war when their therapeutic properties were compared with those of the Black Sea. In 1960 an important spa centre was built on the site to meet the increasing demand of people wishing to take the cure.. Cervia’s landscape is completed by the pinewood, the last remaining edge of the famous Ravenna pinewood, so dear to Dante, which once stretched from the hinterland right to the sea. The best preserved part is now protected by special regulations and entry is normally prohibited. The best way to appreciate the pinewood is to get a permit from the Forestry Commission to cross it on horseback. Following the sound of the sea’s undertow you come to the final stretch of Romagna beach, with dunes and sand shrubs spreading almost to the shoreline: a sight that has remained unchanged down through the centuries, and quite unlike the tourist beaches which have been raked and domesticated over the years. Te rrito rio
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Be ppe S a n gi orgi
Il giardino di Casola Valsenio la r ise r v a de lle erb e o f f ic in ali
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THE CASOLA VALSENIO GARDEN OF MEDICINAL PLANTS
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“A book on nature, open at the medicinal plants page”. This is one of the hundred definitions of the “A. Rinaldi Ceroni” Plant Garden, situated downstream of Casola Valsenio. To get there, follow a short stretch of the Lavender Road (so named because it is flanked by lavender beds) that that runs from State Highway 306 to the ridge between the river Senio and river Santerno valleys. Lavender is the symbol of the Garden, which contains about fifteen varieties. One of these is “R.C.”, a hybrid created by the teacher and botanist Augusto Rinaldi Ceroni, a native of Casola Valsenio. In 1975 he created the Garden of Medicinal Plants, which today bears his name, on behalf of the Emilia Romagna Regional Administration. With the Garden, Rinaldi Ceroni gave concrete form to his background as researcher, populariser and leading figure on the Italian herbalist scene, a story that began in 1938 with a small medicinal herb garden annexed to the training school he ran. This garden was gradually enriched by species that were to become the “historical nucleus” of the Garden plants. Today there are about 400, distributed over seven wide terraces, with collections of the main medicinal plants: aromatic plants for cooking and liqueur making, plants of melliferous interest and plants for cultivation, experimentation and research. Plants, therefore, used for teaching purposes, scientific research and above all for spreading information about their use in cooking, medicine and cosmetics, following a path set down by Rinaldi Ceroni and continued today by director Sauro Biffi. The Plant Garden is managed by the Casola Valsenio Commune Administration which delegated running of the entire complex to the Cooperativa Montana Valle Senio. A large complex which over and above the plant terraces includes a greenhouse, laboratories, a documentation centre, a library, warehouses and drying equipment. There is also an eight-position olfactory centre, where you can learn to recognise the aromas of medicinal plants, and a tourist shop selling small plants and herbal products. A complex that has favoured the establishment and success of initiatives like the Medicinal Plant Street Market, held every Friday evening in July and August in the centre of Casola Valsenio, and the use of aromatic herbs in cooking, a practice that has been adopted by most restaurants in the Senio Valley.
“Un libro sulla natura aperto alle pagina delle piante officinali”.
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uesta è una delle cento definizioni del Giardino delle Erbe “A. Rinaldi Ceroni”, che si raggiunge poco dopo aver imboccato, a valle di Casola Valsenio, il tratto di Strada della Lavanda che dalla Statale 306 sale fino al crinale tra le valli del Senio e del Santerno,
fiancheggiata da aiuole di lavanda. E proprio questa pianta è il simbolo del Giardino dove è presente in una quindicina di varietà. Tra le quali la “R.C.”, un ibrido creato dal professor Augusto Rinaldi Ceroni, botanico casolano che nel 1975 realizzò, per conto della Regione Emilia Romagna, il Giardino delle Erbe Officinali che oggi porta il suo nome. Rinaldi Ceroni concretizzò nel Giardino la sua storia di ricercatore, divulgatore e personaggio di spicco dell’erboristeria italiana; storia iniziata nel 1938 con un piccolo orto officinale annesso alla scuola di avviamento che dirigeva. Un orto che via via si arricchì di specie che hanno poi rappresentato il “nucleo storico” delle piante del Giardino. Oggi sono circa 400, distribuite in sette ampi gradoni dove troviamo la collezione delle principali piante officinali, le piante aromatiche destinate all’alimentazione e alla liquoristica, le piante di interesse mellifero e quelle destinate alla coltivazione, alla sperimentazione e alla ricerca. Piante destinate, dunque, alla didattica, alla ricerca scientifica e soprattutto alla divulgazione del loro uso in cucina, nella medicina e nella cosmesi. Secondo una strada indicata dal professor Rinaldi Ceroni e che oggi continua a percorrere Sauro Biffi, direttore del
Giardino delle Erbe, gestito dal Comune di Casola Valsenio che ha affidato alla Cooperativa Montana Valle Senio la conduzione di tutto il complesso. Complesso ampio che, oltre ai gradoni destinati alle piante, comprende una serra, laboratori, un centro di documentazione, una biblioteca e poi magazzini ed essiccatoi. Ed anche una olfattoteca con otto postazioni utili per riconoscere gli aromi delle piante officinali ed un tourist shop dove acquistare piantine e prodotti erboristici. Un complesso che ha favorito la nascita e il successo di iniziative come il Mercatino delle Erbe Officinali che si svolge tutti i venerdì sera di luglio ed agosto nel centro storico di Casola Valsenio e l’affermarsi della cucina alle erbe aromatiche proposta da gran parte dei ristoranti della valle del Senio. Te rrito rio
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M a rc e l l o Ci c ogn a n i
Percorrendo la Valle del Savio itine rar i o n at u ralist ic o
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Romagna. Nasce dal gruppo del Monte Fumaiolo ed il suo bacino, nella parte alta, è adiacente a quelli dell’Arno e del Tevere.
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Si dice che il Savio sia uno dei più bei fiumi di
THROUGH THE SAVIO VALLEY NATURALISTIC ITINERARY
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ui, i confini di Romagna e Toscana si sovrappongono all’ultimo scampolo meridionale del nobile e storico Parco delle Foreste Casentinesi che, per la
The Savio is said to be one of the finest rivers in Romagna. Its source is in the Monte Fumaiolo group and its basin, in the upper part, is next to those of the Arno and the Tiber. Here where the boundaries of Romagna and Tuscany overlap at the southernmost tip of the noble and historic Casentinesi Forests Park, a remarkable part of Italian flora and fauna heritage, thanks to the wisdom and farsightedness of monks and administrators. An actual paradise, to which may be added the mystical evocation of saints like St. Francis and poets such as Dante Alighieri, Gabriele D’Annunzio and Dino Campana. From the Mandrioli Pass, gorge of the Apennines and regional boundary, you can reach the Lama Forest, the kingdom of the Apennine “mixed woodland”. The area is part of the Park and includes the Sassino Fratino Nature Reserve which may be visited only by scholars or by obtaining a special permit. Here in fact the only inhabitant is nature with its own times and inexorable characteristics. Trees as far as the eye can see: white spruce, columnar beech, maple, elm and cherry protect an dense undergrowth containing more than a thousand floral species. Trees that conceal the howling of a wolf or the belling of a deer; forests so dense they block the sun. Descending the hairpin bends of the state highway you immediately come to Bagno di Romagna which lies in a valley surrounded by peaks over 1000 metres high. It has been a holiday resort since ancient times due to its hot springs (45°C) rich in carbonates, sodium chloride and silica. At this point it is worth making a detour south-west to the Vene del Tevere (Tiber Water Veins), the sources of the river of the same name. From the summit of the nearby Fumaiolo you can enjoy a panorama that includes Romagna, Montefeltro and the Val Tiberina. A little farther on, at S. Piero in Bagno, the massive ruins of Corzan Castle stand on the rock that dominates the village. It belonged to the Camaldoli Monastery and was destroyed by Charles of Bourbon in 1527. On the left bank of the Savio, where the road follows a wide loop, Sarsina is one of the oldest centres in Romagna. The remains of the Roman town that have been found, in particular several 1st century BC pyramid cusp mausoleums, are in the small local museum. The town is also linked with Plautus, the merriest comic dramatist in the whole of ancient literature, who was born here around 254 BC. More mediaeval views also in Mercato Saraceno, which takes its name from Saraceno, son of Alberico, perhaps Alberico degli Onesti who owned the place in the mid 12th century. A centre of intense trade, it is odd that the name does not appear before the 13th century, Flavio Biondo calling it Emporium Saracenum. From here the Savio heads straight for Cesena, “bathing its flank” before slipping over the plain and into the sea. But that’s another journey.
saggia e lungimirante opera di monaci e amministratori, rappresenta una porzione ragguardevole del patrimonio floro-faunistico della penisola. Un vero e proprio paradiso, cui si aggiungono le evocazioni mistiche di santi come San Francesco o l’ispirazione di poeti come Dante Alighieri, Gabriele D’Annunzio e Dino Campana. Dal Passo dei Mandrioli, gocciolatoio dell’Appennino e del confine di regione, si può raggiungere la Foresta della Lama, regno del “bosco misto” appenninico. L’area fa parte del Parco e comprende la Riserva Naturale Integrale di Sasso Fratino, visitabile esclusivamente da studiosi o previo rilascio di uno specifico permesso. Qui, infatti, l’unico abitante resterà la natura, con i suoi tempi e la sua inesorabilità. Alberi, dunque, sin dove arriva lo sguardo: abeti bianchi, faggi colonnari, aceri, olmi e frassini a proteggere un foltissimo sottobosco in cui si contano più di mille specie floreali. Alberi che velano l’ululato di un lupo o il bramire di un cervo; foreste così fitte da occultare la luce del sole. Scendendo lungo i tornanti della statale, subito s’incontra Bagno di Romagna. Posto in una conca circondata da vette superiori ai 1000 metri, è un luogo di villeggiatura famoso sin dai tempi antichi per le acque, che qui scaturiscono a temperatura elevata (43°C), ricche di carbonati, cloruro di sodio e silice. Da qua, il viaggio merita una deviazione a sud-est per le Vene del Tevere, sorgenti del fiume omonimo: dalla vicina sommità del Fumaiolo, infatti, si può godere di un panorama che spazia tra la Romagna, il Montefeltro e la Val Tiberina. Poco oltre, a S. Piero in Bagno, innestati sulla roccia che domina il borgo, si stagliano i massicci ruderi del Castello di Corzan, appartenuto al Monastero di Camaldoli e distrutto nel 1527 da Carlo di Borbone. Situata a sinistra del Savio, là dove la strada fa una larga ansa, Sarsina è uno dei centri più antichi della Romagna. I resti della città romana venuti alla luce, in particolare alcuni mausolei a cuspide piramidale del I sec. a.C., sono raccolti nel piccolo museo locale. Il borgo è, inoltre, legato al commediografo Plauto, il comico più allegro di tutte le letterature antiche, che qui nacque intorno al 254 a.C. Scorci medievali anche a Mercato Saraceno, che prende il nome da un Saraceno di Alberico, forse degli Onesti, proprietario del luogo alla metà del XII sec. Punto d’intenso commercio, è singolare come il nome non compaia prima del XIII sec., per attestazione di Flavio Biondo che lo chiama Emporium Saracenum. Da qui, il Savio punta dritto su Cesena, di cui “bagna il fianco”, prima di scivolare in pianura e da lì uscire in mare. foto d’archivio
Ma questo, è un altro viaggio.
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La magica notte di San Giovanni piccole gocce d i t rad iz io n e
La notte tra il 23 e il 24 giugno - San Giovanni - era considerata un tempo la notte delle magie.
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icordando che San Giovanni battezzava con l'immersione nelle acque del Giordano, si credeva che durante quella notte l'acqua assumesse particolari
virtù. Prima di tutto la guazza, che si riteneva guarisse ogni male - la guaza d'San Zvan la guarès ogni malan - ed in particolare le malattie della pelle. Così nel primo mattino del 24 giugno non era raro vedere bambini piroettare nei
foto d’archivio
foto d’archivio
campi di erba medica per risanare le scorticature che martoriavano le gambe. Nella stessa mattinata si raccoglieva anche lo spigo, come viene chiamata la lavanda in Romagna, con il quale si componevano mazzetti da riporre nei cassettoni per profumare la biancheria e tenere lontane le tarme. Sempre alle prime luci dell'alba, le ragazze che cercavano marito ne potevano scoprire in anticipo le fattezze in un boccale riempito con l'acqua attinta da sette fontane e lasciato sul davanzale per tutta la notte.
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foto Circolo Fotografico Casolano
THE MAGICAL NIGHT OF ST. JOHN LITTLE DROPS OF TRADITION The night between 23rd and 24th June – St. John’s – was once believed to be a night of magic. John the Baptist immersed believers in the river Jordan, so water was thought to have special properties during that night. Especially a heavy dew, held to be a cure for all ailments, skin diseases in particular. As the saying in Romagnol dialect has it: la guaza d'San Zvan la guarès ogni malan (the dew of St John’s night puts all your ills right). So in the early morning of 24th June it wasn’t uncommon to see children pirouetting among the lucerne fields to heal the scratches that tormented their legs. On the same morning people picked lavender – spigo, as it was called in Romagna – and made bunches to place in drawers to perfume the linen and keep clothes-moths at bay. At first light of dawn, girls in search of a husband could discover in advance what he looked like: his features would appear in a jug of water filled from seven fountains and left out all night on the windowsill. St. John’s night was also called the night of the witches. The origins of this belief are found in the correspondence of the date with the summer solstice which once fell on 24th June. It was a sort of split in the flow of time through which the dead came back to earth and, disguised as witches and riding black sheep, passed into the dimension of the living. To see them all you had to do was wait at a crossroads with your chin resting in a forked stick.. Crossroads like the one at Settefonti in the Faenza hills where no less than seven roads still meet. Between two of them there is a small country cemetery. Popular culture in Romagna however warned against telling anyone you had seen witches: there was a risk of very serious mishap and even death. This is why no mention of sighting them has ever been made. But in the Romagna countryside of those days everyone was convinced of their existence and of the magic space of crossroads. So much so that even today it is not rare to see, at the Settefonti crossroads, the remains of small rituals like burning the feathers of a pillow where the evil eye is believed to nest.
La notte di San Giovanni era detta anche la notte delle streghe. L'origine di questa credenza va ricercata nella corrispondenza con il solstizio d'estate che un tempo si faceva cadere il 24 giugno. Era una sorta di fenditura del fluire del tempo attraverso la quale i morti tornavano sulla terra e sotto le spoglie di streghe in viaggio a cavallo di pecore nere passavano attraverso la dimensione dei vivi. Per vederle era sufficiente piazzarsi ai margini di un crocicchio la notte di San Giovanni con il mento appoggiato ad una forca di legno. Crocicchi come quello di Settefonti,
foto d’archivio
nella collina faentina, dove ancora si incrociano ben sette strade e tra due di que-
streghe, altrimenti si rischiavano gravissime sventure ed addirittura la morte. Per questo nessuno ha mai riferito di aver visto passare le streghe, ma nella campagna romagnola di un tempo tutti erano convinti della loro esistenza e dello spazio magico dei crocicchi. Tanto che ancor oggi non è raro trovare nel crocicchio di Settefonti i resti di piccoli rituali, come la bruciatura delle piume del cuscino dove si ritiene si annidi il malocchio.
E’ al buio che la realtà si illumina.
La cultura popolare romagnola però ammoniva di non fare cenno di aver visto le
E’ nel silenzio che le voci si sentono.
ste si trova un piccolo cimitero di campagna.
M. Antonioni, W. Wenders S to ria
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M a rc e l l o Ci c ogn ani
La Torre d’Oriolo
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La Romagna, punto di contatto fra Nord
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J.W. Goethe
orgoglioso volere.
secondo il proprio
e Sud, ha sempre giocato, fino all’età
la volontà del vicino,
tanto più volentieri governa
il suo proprio intimo io,
Chi non sa governare
ne lla Romagna de i Caste lli
moderna, un ruolo fondamentale nello scacchiere politico italiano.
F
u a tal ragione che, sin dall’Alto Medioevo, tutta l’area prese a punteggiarsi di rocche e castelli,
baluardi (e simboli) necessari per la conquista ed il mantenimento del potere d’Imperatori, Papi e Signori. A quel tempo Oriolo era un fortilizio molto importante, posto, com’era, in posizione dominante, vicino alla Via Emilia e al confine tra Faenza e Forlì. Castrum Aureoli viene ricordato per la prima volta nel 678, quand’era soggetto a Dioniso d’Oriolo. Poi, nel
1017, l’Imperatore Enrico II concesse la zona a suo fratello Arnaldo, Arcivescovo di Ravenna, che, nel 1057, fece costruire un castello (di cui nulla è rimasto), subito assediato da faentini e forlivesi. Questi si contesero più volte il borgo finché, nel 1474, la Rocca fu acquistata da Carlo II Manfredi, Signore di Faenza che, nell’arco di un paio d’anni, ricostruì la Torre, danneggiata da secoli d’assedi e saccheggi, che ancora oggi possiamo ammirare. Fu,
infatti,
nella
seconda
metà
del
Quattrocento che la Romagna ricoprì un ruolo fondamentale per l’architettura fortificata italiana, tanto da essere denominata come “terra di castelli”. E, senza dubbio, i Manfredi si distinsero fra i più attenti e disposti alla sperimentazione tecnologica ed alle azzardate solufoto d’archivio
zioni architettoniche. N’è prova lampante la Torre di Oriolo, unico esempio in Italia di maschio a doppio puntone, la cui peculiare pianta esagonale aveva lo scopo di opporre una resistenza angolata alle armi da fuoco, tanto da rinforzare l’asse più esposto. Conquistata e saccheggiata dalle truppe di Cesare Borgia nel 1500, fu restaurata nel breve dominio veneziano (1503-1509) per poi tornare, definitivamente, sotto il dominio della Chiesa. In seguito, il potere pontificio si consolidò e la stabilità politica rese i castelli sempre meno necessari. Contemporaneamente, l’evolversi delle tecniche di guerra e l’aumentata potenza delle armi da fuoco, orientarono ingegneri e strateghi verso nuove forme di difesa. Fu così che il modello della “città-fortezza” munita di massicci baluardi, rampe, cunicoli e
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moderne batterie di cannoni – prese inesorabilmente il sopravvento; mentre le vecchie torri, appollaiate ben in vista in cima ai greppi, ormai troppo fragili e lontane dalla città, divennero, a poco a poco, obsolete. Oggi, nuovamente ristrutturata e curata da un’Associazione che garantisce la cura del parco circostante, la Torre offre un’occasione imperdibile per tornare, anche se per poco, in luoghi e atmosfere che non visitiamo da tempo.
THE ORIOLO TOWER IN ROMAGNA, LAND OF CASTLES Right up to the modern age Romagna, meeting point between north and south, has always played a fundamental role on the chessboard of Italian politics. This is why, from the early middle ages, the whole area began to be dotted with fortresses and castles, bulwarks (and symbols) necessary for conquest and for keeping emperors, popes and lords in power. In that period Oriolo was a very important fortress, situated as it was in a dominant position, near the Via Emilia and on the boundary of Faenza and Forlì. Castrum Aureoli is mentioned for the first time in 678 when it was under Dioniso d’Oriolo. Then in 1017 the emperor Enrico II granted the area to his brother Arnaldo, Archbishop of Ravenna, who had a castle built in 1057 (nothing remains of it) which was immediately out under siege by Faenza and Forlì. The two cities often fought for the village until the Fortress was purchased in 1474 by Carlo II Manfredi, Lord of Faenza who, in the space of a couple of years, rebuilt the Tower which had been damaged by centuries of siege and sacking. We can still admire it today. In fact it was in the second half of the 15th century that Romagna played a fundamental part in Italian fortified architecture to the extent that it became known as the “land of castles”. And the Manfredi family was without doubt outstanding for technological experimentation and risky architectonic solutions. Striking proof of this is the Oriolo Tower, the only example in Italy of the double strut keep, whose peculiar hexagonal plan had the purpose of opposing an angular resistance to firearms in such a way as to reinforce the most exposed axis. Conquered and sacked by Caesar Borgia’s troops in 1500, it was restored during the brief period of Venetian rule (1503-1509) before returning definitively to the Church. Subsequently papal power was consolidated and political stability rendered castles increasingly less necessary. At the same time the evolution of warfare and the increased power of firearms led engineers and strategists to seek new forms of defence. Thus the model of the “city-fortress” – with massive bastions, ramps, underground passages and modern cannon batteries – came inexorably into its own while the old towers, set in full view on the summit of embankments, gradually became obsolete. Today, once more rebuilt and supervised by an Association that takes care of the surrounding parkland, the Tower must not be missed if you want to go back, though only for a moment, to places and atmospheres of long ago.
S to ria
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Al e s s a n dro An t on elli
Corti mitteleuropee, America e Romagna
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ba llando fra i due mo n d i
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Alla fine del XIX secolo, con il definirsi della cosiddetta “stagione dei bagni”, la migliore società del Nord Italia si dava appuntamento sulle coste della Romagna.
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ui cominciavano a sorgere i grandi alberghi e le prime stazioni balneari; questo fenomeno non avrebbe inciso solo economicamente sul territorio.
Si moltiplicavano, infatti, le occasioni in cui la cultura popolare poteva sbirciare oltre le vetrate che la separavano dal santa sanctorum dei costumi aristocratico-borghesi: il salone da ballo. In quel periodo la moda del tempo era influenzata dalla musica e dai balli provenienti dalle corti nordeuropee i cui principali ambasciatori erano valzer, polca e mazurca; il favore che incontravano presso i frequentatori delle serate danzanti era dato principalmente dal fatto che, essendo balli di coppia, consentivano una certa intimità tra i ballerini favorendo un eventuale flirt. Gradualmente questo mutamento del costume escluse sia i balli settecenteschi detti balli di figura per i loro complicati e quasi militareschi passi d’esecuzione, sia i balli di origine popolare (tresconi, saltarelli, manfrine, ecc..) che ugualmente non concedevano il contatto fisico con il partner. A Rimini, la più organizzata spiaggia romagnola di inizio Novecento, i luoghi eletti ad ospitare le più eleganti serate di Gala erano l’Hôtel des Baines, il Kursaal, il Pavillon Lido e le sontuose sale dell’ Hôtel Hungaria. Molto frequenti erano i balli a tema e per l’orgoglio dei parrucchieri ogni stagione si teneva un Costumé en tête per dare occasione alle dame di ostentare le più elaborate ed eccentriche acconciature. I nomi dei partecipanti più illustri ai balli venivano pubblicati sulle pagine dei giornali locali, insieme alle cronache più o meno fedeli delle serate più sfarzose.
MIDDLE-EUROPEAN COURTS, AMERICA AND ROMAGNA DANCING BETWEEN TWO WORLDS At the end of the 19th century with the advent of the “bathing season”, as it was called, north Italian high society gathered on the Romagna coast. The great hotels and the first resorts began to spring up, and the effect on the territory was not only economic. There was in fact an increase in occasions when popular culture could catch a glimpse through the windows that separated it from the sanctum sanctorum of aristocratic-bourgeois customs: the dance hall. In those days fashion was influenced by the music and dances of northern European courts, the main ambassadors being the waltz, polka and mazurka. These were especially appreciated by dancehall enthusiasts, chiefly because they were danced in couples and permitted a certain intimacy that might lead to something else. Little by little this change in customs excluded both 18th century dances, known as figure dances due to their complicated and almost military steps, and dances of folk origin (square dance, saltarello, manfrina, etc..), none of which involved physical contact with your partner.
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In un’atmosfera sofisticata e mondana tra signore e signorine che sfoggiavano eleganti toilettes e cavalieri in frac-parè nasce la caricaturale figura del “dongiovanni” romagnolo: non campione di eleganza e sobrietà ma galante con tutte e infaticabile ballerino. Dai primi anni Dieci la fin fleaur della società danzante comincia ad escludere i movimenti esagerati e gli aspetti grotteschi di certi balli aprendosi anche all’influenza sud-americana di un tango ripulito dagli iniziali movimenti troppo aperti. Nonostante i tentativi della chiesa di sostituire a queste contaminazioni culturali, considerate sconvenienti, danze più tradizionali come la furlana, il fattore che determinava il successo di un nuovo tipo di danza rimaneva la possibilità di ballarla abbracciati in coppia; lo dimostra la poca attenzione riscossa dal dancing e dal cake-walk, che pur possedendo il fascino esotico delle mode importate non avevano questa prerogativa. Passata la Grande guerra giunge dall’America una nuova ondata di influenze ed i saloni da ballo perdono il loro appannaggio: il fox-trot si balla ovunque, il nuovo verbo si chiama jazz e oltre a diffondersi si insinua nei precedenti stili
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Chi s’aspetta che nel mondo i diavoli vadano in giro con le corna e i buffoni coi sonagli sarà sempre loro preda. A. Shopenauer
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foto d’archivio
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In Rimini, which had the best organised beach in early 20th century Romagna, the places chosen for the most elegant gala evenings were the Hôtel des Bains, the Kursaal, the Pavillon Lido and the sumptuous halls of the Hôtel Hungaria. Theme balls were very frequent and, the hairdressers’ pride, a Costumé en tête was held each season to give the ladies the chance to show off the most elaborate and eccentric hairdos. The names of the most illustrious participants at these balls were published in the local papers together with reports, some more accurate than others, of the more splendid evenings. In a sophisticated and worldly atmosphere, amid elegantly dressed ladies and girls with their escorts in frac-paré, the caricature figure of the Romagnol “Don Giovanni” stepped forth: no paragon of elegance and sobriety, but gallant with all females and a tireless dancer. In the early 1910’s the fine fleur of dancing society began to get rid of the overstated movements and grotesque aspects of certain dances, also opening up to the South American influence of a tango that had been cleansed of its original too obvious motions. In spite of the Church’s attempts to replace these cultural contaminations, considered unseemly, with more traditional dances such as the furlana, what determined the success of a new dance remained the possibility of dancing it in your partner’s arms. This is borne out by the fact that little attention was paid to
Sempre più spesso la musica di moda viene stampata per essere eseguita da orchestre ed orchestrine. Soprattutto queste ultime sono costrette a tenere un repertorio misto di brani ormai considerati “tipici romagnoli” oltre ai successi d’Oltreoceano e ad affiancare a strumenti tipici della tradizione come gli archi e il clarinetto in Do, strumenti figli di altre culture come il saxofono, il banjo e la batteria che in Romagna è stata addirittura chiamata per lungo tempo informalmente: “il jazz”. Tutti gli elementi principali di un cinquantennio di influenze musicali, compenetrandosi, hanno dato origine a quello che caparbiamente viene definito “folk romagnolo”. L’esempio forse più rappresentativo di questa contaminazione culturale è il valzer che, attraversando più di mezzo secolo di mode, è entrato a far parte dell’immaginario collettivo popolare. Provate ad “attaccare bottone” con uno di quegli splendidi vecchietti eternamente seduti su una panchina del lungomare e probabilmente sarà pronto a giurarvi, vero come l’oro, che il valzer è nato qui: sulle aie romagnole.
American dances like the cakewalk which, though they had the fascination of imported fashions, did not include this possibility. After the Great War a new wave of influences arrived from America and dancehalls lost their privileged status: the fox-trot was danced everywhere, the new word was jazz and it not only spread but also infiltrated earlier musical styles and altere them. Fashionable music was increasingly printed so it could be played by orchestras and bands who were expected to have a repertoire of pieces considered “typically Romagnol” mixed with hits from overseas, and to augment their traditional lineup of strings and C-clarinet with instruments from other cultures such as saxophone, banjo and drums. For a long time in Romagna the drum-kit was informally known as “the jazz”. All the main elements of fifty or so years of interpenetrating musical influences have led to what is obstinately defined as “Romagnol Folk”. Perhaps the most representative example of this cultural mixing is the waltz which, after more than half a century of fashions, has come to be a part of the popular collective imagination. Try buttonholing one of those splendid old men you find sitting eternally on a bench on the seafront: he will very likely be ready to swear, true as you’re born, that the waltz was invented on the threshing yards of Romagna.
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musicali modificandone l’aspetto.
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I u ppi Pa gl i e r i
Vino di terza generazione
la qua lità d ella p assio n e
“La Berta” non è una donna. “La Berta” è un luogo. THIRD GENERATION WINE THE QUALITY OF ENTHUSIASM “La Berta” isn’t a woman. “La Berta” is a place. More precisely, it’s a farm in Brisighella, about three hundred metres above sea level and laid out over 30 hectares of those splendid and luxuriant hills that produce unique and universally envied fruit. Certainly the most privileged fruit is the grape, because it gives us the best appreciated nectar: wine. And so La Berta, not a woman but the Giovannini family farm, produces several special wines, the result of careful and rigorous work begun some seven years ago by Marcello and now carried on by his son Costantino, the latest heir of the third generation of “vinaioli” (winemakers), and oenologist Stefano Chioccioli. Work aimed at a constant improvement in product quality, increasingly exploiting the grapes to the best, in particular Sangiovese. This rigorous care and attention has come to fruition in the Controlled Denomination of Origin (DOC) wines “Solano”, “Olmatello” and “Ca’ di Berta”.
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iù precisamente un’azienda agricola posta a Brisighella, a circa trecento metri sul livello del mare, dislocata su 30 ettari di quelle splendide e rigo-
gliose colline capaci di dare frutti unici ed invidiati da tutti. Fra questi frutti sicuramente l’uva ricopre un ruolo privilegiato perché da essa prende vita il più apprezzato dei nettari: il vino. E così La Berta, che non è una donna ma è l’azienda agricola della famiglia Giovannini, dà vita ad alcuni prelibati vini, frutto di un attento e rigoroso lavoro avviato circa sette anni fa da Marcello ed ora portato avanti dal figlio Costantino, ultimo erede della terza generazione di “vinaioli”, e dall’enologo Stefano Chioccioli. Un lavoro indirizzato ad un costante miglioramento qualitativo del prodotto, per una sempre maggiore valorizzazione delle uve, Sangiovese in particolare. Da questa attenzione rigorosa sono nati i DOC: “Solano”, “Olmatello” e “Ca’ di Berta”.
SOLANO, Sangiovese Superiore di Romagna. Dopo una tradizionale fermentazione volta all’estrazione dei profumi e della sostanza colorante, la vinificazione segue la fermentazione malolattica. Dopo cinque mesi trascorsi in tonneaux del Massiccio Centrale francese, passa ad un affinamento di almeno tre mesi in bottiglia. Dal colore rosso rubino intenso, il Solano si caratterizza per un profumo complesso, fruttato ed un sapore morbido, armonico e corposo. OLMATELLO, Sangiovese di Romagna Superiore Riserva. Dopo una vinificazione tradizionale, trascorre ben dodici mesi in tonneaux del Massiccio Centrale francese e minimo sei mesi di affinamento in bottiglia prima di essere immesso sul mercato. Il suo colore è rosso rubino con tonalità violacea coperta; il suo profumo è fine, ampio, con sentori di frutta matura e spezie. Alla bocca si presenta con una struttura armonica e corposa, con un retrogusto persistente. CA’ DI BERTA, Colli di Faenza Rosso. Nasce dall’unione dei vitigni Cabernet Sauvignon e Sangiovese. Dopo la vinificazione in tanks di acciaio, trascorre diciotto mesi in barriques e sei di affinamento in bottiglia. Rosso rubino con riflessi violacei è il suo colore. Fine, ampio ed elegante con sentori di frutta rossa è il suo profumo speziato. Armonico e corposo, dal retrogusto caldo, persistente e fruttato è il suo sapore. SOLANO, Sangiovese Superiore di Romagna. After traditional fermentation to extract perfumes and colouring substance, vinification proceeds with malolactic fermentation. After five months in tonneaux from the Massif Central in France it is refined with at least three months in the bottle. Of an intense ruby red colour, Solano is characterised by a complex, fruity bouquet and a soft, harmonious full-bodied taste. OLMATELLO, Sangiovese di Romagna Superiore Riserva. After traditional vinification it is kept for no less than twelve months in tonneaux from the Massif Central in France and a minimum of six months refining in the bottle before being put on the market. The colour is ruby red with concealed hints of violet. The bouquet is fine and broad with the odour of spices and ripe fruit. In the mouth it has a harmonious and full bodied structure with a persistent aftertaste.
L’aforisma non coincide mai con la verità; o è una mezza verità, o è una verità e mezzo.
CA’ DI BERTA, Colli di Faenza Red. Created from a blending of Cabernet Sauvignon and Sangiovese vine species. After vinification in steel tanks it is kept for eighteen months in barriques with six months refining in the bottle. Ruby red with violet reflections. Its spicy bouquet is fine, broad and elegant with the perfume of red fruit. Harmonious and full bodied, with a warm aftertaste, the flavour is persistent and fruity.
L’aforisma non coincide mai con la verità; o è una mezza verità, o è una verità e mezzo.
foto archivio La Berta
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foto d’archivio
K. Kraus
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L’aforisma non coincide mai con la verità; o è una mezza verità, o è una verità e mezzo.
K. Kraus
En o g a stro n o mia
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Al e s s a n dro An t on elli
L’Artusi da Forlimpopoli
il ma e stro d ella c u c in a
Doveva essere una terra come la Romagna, la cui gente è da sempre provvista di un’autentica vocazione per il palato, a dare i natali all’indiscusso padre della gastronomia italiana.
U
nico maschio fra sette sorelle, Pellegrino Artusi nasce, infatti, il quattro di agosto del 1820 da una famiglia agiata di Forlimpopoli. Il padre può permettersi di farlo studiare ed il ragazzo frequenterà il Seminario vescovile di Bertinoro e in seguito la facoltà di
Lettere presso l’Università di Bologna. La notte del 25 gennaio 1851 segnerà una tappa traumatica della sua vita: la ghenga del brigante Stefano Pelloni, detto il Passatore, compie la memorabile irruzione nel teatro di Forlimpopoli, imprigiona i gendarmi e saccheggia l’intero paese. Toccherà anche a casa Artusi essere spogliata e sarà lo stesso Pellegrino a dover accompagnare il Passatore nel repulisti che fece di denaro e preziosi, mentre una delle sorelle rimaneva a tal punto terrorizzata da dover essere successivamente ricoverata in manicomio. Questo evento porta la famiglia Artusi alla decisione di trasferirsi a Firenze ma non attenua l’attaccamento alla sua terra in Pellegrino che fino all’ultimo si sentì profondamente romagnolo. In Toscana egli incrementa il patrimonio paterno fino a fondare un Banco da lui stesso diretto e potersi così ritirare a vita privata per dedicarsi all’universo letterario.
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Le sue prime due opere: una sulla vita del Foscolo e “Appendice a trenta lettere del Giusti”, pubblicate a proprie spese, non convinsero la critica e il grande pubblico ma la sua vera ispirazione fu di compilare un libro di ricette che riassumessero venti secoli dell’arte gastronomica di questo paese. Nel periodo in cui si accingeva a redigerlo, le uniche pubblicazioni reperibili di argomento culinario erano traduzioni dal francese o compilazioni sgangherate, certamente inadatte all’uso popolare cui si prestava invece l’opera di Artusi, come egli stesso amava sottolineare con la sua celebre frase: ”Basta che si sappia tenere un mestolo in mano e qualche cosa si annaspa”. La prima edizione de “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, questo il nome scelto da Artusi per il suo ricettario, fece comunque fatica a trovare chi la pubblicasse e fu edita anch’essa a spese dell’autore. Inizialmente in sole mille copie, poi, in seguito anche al riconoscimento che gli tributarono alcuni letterati dell’epoca, si decise una seconda edizione dell’opera e così via fino a che le ricette contenute nel libro passarono dalle 475 della prima alle 790 della quattordicesima edizione che Artusi ebbe il tempo di curare prima della morte. In uno stile che a tratti ricorda quello di un romanzo, le ricette si susseguono rivelando tra le righe la filosofia dell’autore: un senso di amore per la vita e di passione per i prodotti della terra che diventavano gli ingredienti delle sue opere. Non a caso l’autore ebbe la soddisfazione di apprendere che il suo libro, invece che per titolo, era universalmente conosciuto come “l’Artusi”: gloria questa che capita a ben pochi scrittori. Per celebrare degnamente il suo più illustre concittadino ogni anno, dall’ultimo sabato di giugno alla prima domenica di luglio, Forlimpopoli è sede della festa Artusiana. La città diventa un dedalo di itinerari della degustazione punteggiati di stand che offrono le specialità del territorio. Tutti i ristoranti che tradizionalmente si ispirano alle ricette di Artusi offrono un menù alla carta a prezzi contenuti e, in un’atmosfera animata da continui spettacoli ed animazioni, si assegna ogni anno il prestigioso “Premio Artusi” ad un cuoco di fama internazionale ed a chiunque si sia distinto per l’originale contributo dato alla riflessione fra l’uomo e il cibo. Il tutto con la volontà di tramandare lo spirito di Pellegrino Artusi e quei valori del ben vivere che inevitabilmente si mescolano al profumo delle sue pietanze. Come ebbe a dire Piero Camporesi una quarantina d’anni fa: “Ha fatto l’Artusi per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi Sposi… Ciò si capisce anche in quanto non tutti leggono mentre tutti, al contra-
foto d’archivio
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rio, mangiano”.
Ecco donca la rizeta. Se la pasta l’è parfeta, E e batù cundì cum va, Ch’ bon turtel, tott quent dirà! Detto romagnolo
ARTUSI OF FORLIMPOPOLI THE MAESTRO OF THE KITCHEN Only a place like Romagna, whose people have always had a special bent towards things of the palate, could have given birth to the indisputable father of Italian gastronomy. Pellegrino Artusi was born on 4th August 1820 to a well-off family in Forlimpopoli. He had seven sisters. His father could afford to let him study and the boy attended the bishopric Seminary in Bertinoro and afterwards the Faculty of Literature at Bologna University. The night of 25th January 1851 marked a traumatic moment in his life: the brigand Stefano Pelloni (known as Il Passatore) and his band made their memorable raid on the Forlimpopoli Theatre, imprisoned the police and sacked the whole village. Artusi’s house was also involved and Pellegrino himself had to accompany Il Passatore in his cleaning up of valuables and cash. One of his sisters was so terrified she had to be sent to mental hospital afterwards. This event led the Artusi family to a decision to move to Florence, but this did not affect Pellegrino’s attachment to his homeland. He always felt deeply Romagnol. In Tuscany he increased the family wealth by establishing a Bank of which he himself was the director. He was therefore able to retire to private life and devote himself to the world of literature. His first two works, one on the life of Foscolo and the other entitled “Appendix to Thirty of Giusti’s Letters”, were published at his own expense and were not well received by critics or the public at large, but his true inspiration was to compile a recipe book summarising twenty centuries of the art of cookery in his homeland. When he began writing it the only available publications on the subject were translations from the French and disjointed compilations that were clearly unsuitable for the widespread use Artusi intended for his work. He liked to say, in a celebrated phrase, “As long as you can hold a ladle and flounder about”. The first edition of “Science in the Kitchen and the Art of Eating Well”, as Artusi chose to call his recipe book, had trouble finding a publisher and was also published at the author’s expense. At first only a thousand copies were printed but subsequently, following acknowledgement from several literary men of the period, a second edition came out. And so on until the 475 recipes of the first edition became 790 in the fourteenth, which Artusi managed to edit before his death. In a style sometimes reminiscent of a novel the recipes follow one after the other and the author’s philosophy is glilmpsed between the lines: a feeling of love for life and a passion for the products of the land that became the ingredients of his works. Not for nothing did the author feel satisfaction in learning that his book was universally known as “The Artusi”, a glory enjoyed by very few writers. Every year, to celebrate its most famous citizen in an appropriate manner, Forlimpopoli holds the Artusi Festival from the last Saturday in June to the first Sunday in July. The town becomes a maze of tasting itineraries, dotted with stands offering regional specialities. All the restaurants traditionally inspired by Artusi’s recipes offer an à la carte menu at special prices and, in an atmosphere of continual shows and entertainment, the prestigious “Artusi Prize” is awarded each year to an internationally famous cook and to anyone who has distinguished himself with an original contribution to reflections on man and food. All of this with the idea of handing on the spirit of Pellegrino Artusi and his values of living well, which inevitably blend with the aroma of his dishes. As Piero Camporesi said forty odd years ago: “Artusi did more for Italian unification than Manzoni’s The Betrothed … You can see this from the fact that not everybody reads, whereas everybody eats”.
Ecco dunque la ricetta. Se la pasta è perfetta, E il battuto condito come si deve, Che buoni tortelli, tutti quanti diranno!
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foto archivio Bottega Gatti
S t e f a n i a M a z z ot t i
Bottega Ceramica Gatti
r ifle ssi d’ au t o re
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foto archivio Bottega Gatti
E’ una grande abilità saper nascondere la nostra abilità
F. de La Rochefoucauld
La luce incide la superficie dei corpi e si frantuma in riflessi dorati, verdastri e color rame ad impreziosire e smaterializzare la semplice terracotta.
“D
ecorazione a riflessi" così è stata definita la tecnica che Riccardo Gatti, fin dagli anni venti, studiò per smaltare le sue terrecotte. Una tecnica antichissima che risale all'antico Egitto e al Medio Oriente e che
fu portata in Occidente attraverso gli Arabi spagnoli. Figlia delle sue origini, dove la raffigurazione non era contemplata, la decorazione a riflessi era frutto di una cultura fatta di astrazione e di una sensibilità volta al meraviglioso. Un gusto per il prezioso e per i giochi di luce, che durante il Rinascimento ebbe tangenze con gli studi alchemici, che poi fu dimenticato per secoli, ma che agli inizi del Novecento fu recuperato dai ceramisti faentini Pietro Melandri e, appunto, da Gatti. Correvano gli anni Venti. Riccardo Gatti, ceramista onnivoro di novità e sperimentazioni, volle rompere con la tradizione decorativa faentina. Dopo varie prove fatte con diversi ossidi di metallo cotti a temperature molto alte, arrivò alla realizzazione dei suoi "riflessi", convinto che si dovessero valorizzare soprattutto le forme più che le superfici decorate. Aggiornato sulla cultura artistica del tempo, le sue opere mostrano come in un percorso l'influenza dei gusti dell'epoca, dai generi classici del pannello religioso e del gruppo scultoreo, alle forme di derivazione decò, a quelle più arcaiche. Sono quest'ultime degli anni Cinquanta e Sessanta ad essere particolarmente suggestive. Di gusto primitivo, come statuette antropomorfe, coppe o vasi asimmetrici impreziositi e allo stesso tempo resi usurati dagli smalti metallici verdastri, ricordano le origini della ceramica, quelle funzionali e rituali tipiche delle società antiche. Le sue opere ebbero da subito molto successo. I riflessi ottennero una croce al merito ed una medaglia d'oro per la ceramica artistica nell'Esposizione di Bologna del 1932. In quel periodo Riccardo Gatti partecipò alle mostre più importanti del tempo sia in Italia sia all'Estero, tra cui l'Esposizione Internazionale di Parigi del 1937 e quella di Berlino del 1938, dove vinse il primo premio. Da allora i riconoscimenti si moltiplicarono e la tecnica dei riflessi fu conosciuta e identificata in Europa come lo stile Gatti, tanto che, ancora oggi, le ceramiche riflessate contraddistinguono buona parte della produzione della Bottega. Nel 1972, alla morte di Riccardo Gatti, la Bottega fu ereditata dai nipoti Dante e Davide Servadei. Come il loro maestro, i due hanno mantenuto i legami con le novità e l'arte contemporanea. Oggi la Bottega Gatti, oltre a continuare la tradizione dei riflessi, mette a disposizione la propria sapienza per realizzare opere d'arte in ceramica su disegno di autori contemporanei, come Giosetta Fioroni, Luigi Ontani e Pablo Echaurren, portando così la ceramica "made in Faenza" ancora una volta nelle gallerie di tutto il mondo.
Arte
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Il problema, non la teoria, non lo stile, determina la soluzione.
GATTI CERAMICS WORKSHOP ARTIST’S REFLECTIONS Light engraves the surface of bodies and breaks up into golden, greenish and copper coloured reflections, embellishing and dematerialising the plain terracotta. "Reflection decoration" is the definition given to Riccardo Gatti’s technique. He had been studying glazes for his terracotta works since the 1920’s. The technique dates to ancient Egypt and the Middle East and was brought to the west by the Spanish Arabs. Child of its origins, where representation was not envisaged, reflection decoration was the fruit of a culture made of abstraction and a sensibility oriented towards the marvellous. A taste for the precious, for play of light, which during the Renaissance spread into alchemical studies, later forgotten for centuries but then recovered by the Faenza ceramicists Pietro Melandri and Gatti himself. We are in the 1920’s. Riccardo Gatti, ceramicist with an omnivorous appetite for the new and for experimentation, wanted to break with the Faenza decorative tradition. After various trials with metal oxides fired at very high temperatures he managed to create his “reflections”, convinced that they should above all make the most of forms rather than decorated surfaces. He was well up on the artistic culture of the day and his works show how an artist’s progress is influenced by the tastes of the age, from the classical genres of religious panels and sculptural groups to Art Deco and more archaically derived forms. The latter, dating to the 50’s and 60’s, are especially evocative. In primitive style, like anthropomorphic statuettes, these asymmetrical bowls and vases, embellished yet at the same time given an aged look by the greenish metallic glaze, recall the origins of pottery, the functional and ritual origins typical of ancient societies. His work was at once highly successful. The reflections won the cross of merit and the gold medal for artistic pottery at the 1932 Bologna Exhibition. In that period Riccardo Gatti took part in the most important exhibitions of the day both in Italy and abroad, including the 1937 International Exhibition in Paris and that of 1938 in Berlin where he won first prize. From then on the acknowledgments multiplied, and the reflection technique was recognised and identified as the Gatti style, so much so that even today it distinguishes most of the Workshop’s production. When Riccardo Gatti died in 1972 the Workshop passed on to his grandsons Dante and Davide Servadei. Like their maestro, they have both maintained links with the new and with contemporary art. The Gatti Workshop today, over and above continuing the reflection tradition, makes its know-how available for the creation of ceramic art works to the design of contemporary artists such as Giosetta Fioroni, Luigi Ontani and Pablo Echaurren, once more taking "made in Faenza" ceramics to galleries worldwide.
foto archivio Bottega Gatti
foto archivio Bottega Gatti
K. Gerstner
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La ceramica
Riccardo Gatti, anima della produzione ceramica faen-
tina del Novecento, fu uomo sempre aperto al nuovo e al confronto con il sistema delle arti figurative contemporaneo, in un città che a quel tempo, invece, era
ancora legata alle decorazioni tradizionali. Durante la sua carriera, accolse influenze decò, inventò gli stili del
melograno e della rondine, ma l'esperienza più importante fu quella che lo portò ad avvicinarsi al movi-
mento futurista negli anni che vanno dal 1928 al 1930. Fu proprio grazie a Gatti, che nell’ottobre-novembre del 1928 si realizzò a Faenza la prima mostra italiana della ceramica futurista. La mostra ospitava ventisei pezzi del pittore Dal Monte e le ceramiche futuriste realizzate da Gatti su disegno di Balla e Dal Monte. Erano piatti e vasellame decorati con disegni stilizzati ad arabesco, vicini ai manichini di Depero, ed eseguiti con colori a tinta piatta. L'incontro fruttuoso fu curato dal giornalista Giuseppe Fabbri. Fabbri titolava i suoi articoli "Faenza Futurista" e fu lui a suggerire a Gatti di utilizzare i "motivi decorativi" proposti da Balla, Benedetta Marinetti, Remo Fabbri. L'iniziativa di produrre e commercializzare le ceramiche futuriste aveva il fine di divulgare ad un largo pubblico questo tipo di arte e s'inseriva nel più
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foto archivio Bottega Gatti foto d’archivio
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ampio programma dell'arte applicata che voleva allargare lo stile ai ferri battuti, ai mobili e ai marmi. Il Corriere Padano del 6 ottobre del 1928 scriveva: "Il ceramista Gatti afferra l'idea. Forse ha trovato quello che desiderava. Al corrente di tutta la pittura futurista, attraverso le esposizioni e le riviste d'arte, intuisce che il motivo futurista, applicato alla ceramica, può avere sviluppi straordinari e può portare questa arte del fuoco alla conquista di uno stile che sia nostro, solamente italiano e che abbia le caratteristiche della nostra stirpe eternamente giovine". Dopo la mostra faentina Gatti fu ceramista autonomo e partecipò con sue ceramiche futuriste alla mostra "Trentatrè futuristi" di Milano, che si svolse nell'ottobre del 1929. Ma ben presto il sodalizio si esaurì: sempre più fascismo e futurismo si identificavano e Gatti non volle allinearsi. Il progetto di una ceramica futurista fu un breve episodio. Come molte delle idee del movimento d'avanguardia italiano, le teorie, più che la pratica, furono particolarmente innovative. L'idea anticipava il concetto moderno di design applicato alla ceramica, l'alter ego del prodotto artigianale su cui ancora oggi la ceramica faentina sta cercando di investire.
FUTURIST CERAMICS Riccardo Gatti, prime mover of 20th century Faenza ceramics, was always open to the new and to comparisons with the contemporary figurative arts system in a town which in that period however was still bound to traditional decoration. He was influenced by Art Deco and he invented the pomegranate and swallow styles, but the most important experience of his career was his approach to the Futurist movement between 1928 and 1930. It was thanks to Gatti himself that the first Italian exhibition of Futurist ceramics took place in Faenza in October-November 1928. There were twenty-six pieces by the painter Dal Monte and Futurist ceramics by Gatti to designs by Balla and Dal Monte. These were plates and vases decorated with stylised arabesque designs, similar to Depero’s mannequins and done in flat colours. The fruitful encounter was covered by the journalist Giuseppe Fabbri. Fabbri called his article “Futurist Faenza” and suggested that Gatti use the “decorative motifs” proposed by Balla, Benedetta Martinetti and Remo Fabbri. The enterprise of producing and marketing Futurist ceramics had the aim of spreading this type of art among a wide public and was part of a broader programme of applied art which was to be extended to wrought iron, furniture and marble. The Corriere Padano of 6th October 1928 reported: "The ceramicist Gatti has grasped the idea. Perhaps he has found what he sought. Aware of the whole of Futurist painting through exhibitions and art magazines he has intuited that the Futurist motif applied to ceramics may have extraordinary developments and may lead this art of fire to the conquest of a style that is ours, exclusively Italian, and that has the features of our eternally young race ". After the Faenza exhibition Gatti was an independent ceramic artist and took part with his Futurist works in the Milan exhibition “Thirty-three Futurists” in October 1929. But the association soon wore thin: Fascism and Futurism were increasingly identified with each other and Gatti did not want anything to do with it. The futurist ceramics project was a brief episode. Like many ideas of the Italian avant-garde moverment, the theories rather than the practices were especially innovative. The idea anticipated the modern concept of design applied to ceramics, the alter ego of the craft product in which the Faenza ceramics sector is still seeking to invest today. Arte
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Territorio Cervia e il suo entroterra_ A passeggio tra storia e natura Cervia and his hinterland_ A walk through history and nature
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Storia
Il giardino di Casola Valsenio_ La riserva delle erbe officinali
La magica notte di San Giovanni_ Piccole gocce di tradizione
The Casola Valsenio Garden_ Of medicinal plants
The magical night of St. John_ Little drops of tradition
Percorrendo la Valle del Savio_ Itinerario naturalistico
La Torre d’Oriolo_ Nella Romagna dei castelli
Through the Savio Valley_ Naturalistic itinerary
The Oriolo Tower_ In Romagna, land of castles
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Passioni Corti mitteleuropee, America e Romagna_ Ballando tra i due mondi Middle-European Courts, America and Romagna_ Dancing between two worlds
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Enogastronomia Vino di terza generazione_ La qualità della passione Third generation wine_ The quality of enthusiasm L’Artusi da Forlimpopoli_ Il maestro della cucina Artusi of Forlimpopoli_ The Maestro of the Kitchen
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Arte Bottega Ceramica Gatti_ Riflessi d’autore Gatti Ceramics Workshop_ Artist’s Reflections La ceramica futurista_ Futurist Ceramics_
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I Sens i di Rom agn a
I Sensi di Romagna numero 1.
giugno 2002
Periodico edito da CERDOMUS Ceramiche S.p.A. 48014 Castelbolognese (RA) ITALY via Emilia Ponente, 1000 www.cerdomus.com Direttore responsabile Luca Biancini Progetto Carlo Zauli Grafica e impaginazione Jan Guerrini/Cambiamenti per Divisione immagine Cerdomus Coordinamento editoriale Pierluigi Papi Redazione Alessandro Antonelli Marcello Cicognani Stefania Mazzotti Iuppi Paglieri Giuseppe Sangiorgi Foto Archivio Bottega Ceramica Gatti Archivio Cerdomus Archivio La Berta Circolo Fotografico Casolano Jan Guerrini si ringrazia il Giardino delle Erbe di Casola Valsenio
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