Magazine EE nr 06

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itroviamo l’inverno, che inibisce la nostra fisicità esaltando il bisogno di sviluppare le emozioni interiori.

All’indolenza instillata dal freddo,

ee risponde dedicando

più spazio alle passioni, raccontando il sentimento dell’azzardo, vissuto al volante o con le carte in mano. Tratteggiando i caratteri opposti (dunque complementari) di Caterina Sforza e Grazia Deledda. Suggerendone forse un fantasioso punto d’incontro nella dimensione magica. Il carattere marcatamente anticonvenzionale della prima con i suoi studi alchimistici in odore di stregoneria da un lato, confrontato all’anticonformismo deleddiano, sviluppato su una tinta più tenue ed intimista propria delle favole: ospiti elettive delle streghe; come d’altro canto le interminabili notti invernali. La Redazione di

ee

Winter once again, which inhibits our physicality and highlights the need to develop interior emotions. To the indolence induced by cold weather ee responds by giving more space to the passions, telling of the feeling of risk, be it behind the wheel or at the card table, and sketching out the opposite (and therefore complementary) characters of Caterina Sforza and Grazia Deledda. Perhaps suggesting an imaginative encounter in the magical dimension. The markedly unconventional character of the former with her alchemical studies bordering on witchcraft, compared with Deledda’s non-conformism, developed in a more tenuous and intimist shade proper to fairytale: elective hostesses of witches, like from another viewpoint the interminable winter nights. The editorial staff of ee

E d ito ria le

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acqua_terra_fuoco_aria


Ma rc e l l o Ci c ogn a n i

A spasso nel tempo fra colli e d uliv i

foto d’archivio

Un velo di nebbia avvolge le origini di Brisighella. foto d’archivio

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onti la fanno risalire al 1178 per mano dei conti Belmonti delle Caminate, ma fu Maghinardo Pagani da Susinana che nel 1290, per meglio assediare il finitimo Castello

di Baccagnano, fece costruire, su uno dei tre scogli di selenite dominanti la conca, una torre divenuta in breve la roccaforte più importante dell’intera vallata. Castrum Brisichellae, infatti, in virtù della sua ubicazione a cavallo tra Romagna e Toscana e per il suo essere cinta da inaccessibili creste gessose, si distinse subito per la sua importanza strategica e commerciale. Scomparso Maghinardo il nido fortificato passò alle dipendenze di Francesco Manfredi signore di Faenza il quale, secondo la tradizione del suo casato, lo trasformò in rocca secondo i più moderni dettami dell’epoca. Continue migliorie e nuovi bastioni si susseguirono negli anni finché Galeazzo Manfredi eresse un nuovo e più possente fortilizio (1394) sul contrafforte retrostante. Poi, con la fine dei Manfredi (1500), il castello passò ai Veneziani che gli diedero la sua veste definitiva dotandolo di un imponente mastio, prima di passare definitivamente sotto il controllo dello Stato del Vaticano. Poco distante – appollaiato sul terzo pinnacolo prospiciente il centro abitato e un tempo

Il ricordo di

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una pratica ancestrale, quella della camminata,


A JOURNEY TROUGH TIME_ AMID HILLS AND OLIVE GROVES A veil of mist shrouds the origins of Brisighella. Sources date it to 1178, founded by the counts Belmonti delle Caminate. But it was Maghinardo Pagani da Susinana who in 1290, to better lay siege to the neighbouring Castle of Baccagnano, built a tower on one of the three selenite crags that dominate the valley. The Castrum Brisichellae shortly became the most important fortress in the area. Its location between Romagna and Tuscany, surrounded by unassailable chalk ridges, at once made it of outstanding strategic and commercial importance. When Maghinardo died the fortified eyrie passed into the hands of Francesco Manfredi, lord of Faenza. In the family tradition he transformed it in accordance with the most modern dictates of the age. Continual improvements were made and new bastions added over the years, then in 1394 Galeazzo Manfredi built a new and more imposing fort on the buttress behind. With the fall of the Manfredi family in 1500 the castle passed on to the Venetians who gave it its definitive aspect by adding an impressive keep. It then came definitively under the control of the Vatican State. Not far away – perched on the third pinnacle overlooking the built-up area and once known as “Cozzolo” or “Calvary” – the 18th century Marian Sanctuary of Monticino offers breathtaking views of the valley right to the boundary with Tuscany. All that remains of the walls are two large towers near the Bonfante Gate, on the road that led to the castle: this gate was linked lower down to the Gabalo Gate by means of a raised, covered thoroughfare called Via del Borgo which served as a defensive shield. This road would become a centre for families of carters who earned their living from the nearby chalk quarries, and it came to be known as “Donkey Road” for the shelter it gave to the beasts of burden. This singular and historic thoroughfare, now restored to its ancient splendour and bathed by the light that filters through half-arches of different sizes, offers the visitor one of the most evocative and scenic glimpses of the built-up area. Lastly, the most distinctive religious building is the parish church of San Giovanni Battista in Ottavo, also called the Tho church because it stands at the eighth mile of the road that linked Faenza and Etruria. Built in the early 10th century with Roman and Barbarian materials, it is one of the area’s oldest Romanesque works. In the tradition of that style the exterior is soberly decorated with pilaster strips and blind arches. The nave and two aisles that divide the basilica plan interior are punctuated by Roman columns and capitals. The frontage and the presbytery have 15th century frescoes and in the apse there is a 1516 painting by C. Mergari and S. Scaletti. The place has a rarefied atmosphere and is almost a “time machine” capable of inspiring unknown or simply forgotten emotions. The same we feel when walking through the alleyways or lingering over the views of this corner of History.

foto d’archivio

foto d’archivio

noto come “Cozzolo” o “Calvario” – il Santuario mariano del Monticino, risalente al XVIII secolo, offre panorami mozzafiato della valle sino ai confini della Toscana. Della cerchia restano solo due torrioni nei pressi di Porta Bonfante, sul tragitto che giungeva al maniero: tale porta era allacciata più in basso alla Porta del Gabalo mediante un camminamento sopraelevato, riparato e fungente da scudo difensivo chiamato Via del Borgo. Questa diverrà centro di famiglie di birocciai, traenti il loro sostentamento dalle vicine cave di gesso, e appellata “degli Asini” per il ricovero offerto alle bestie da soma. Oggi, questo singolare e storico transito, riportato ad antico splendore e bagnato dalla luce filtrata da mezzi archi di dissimile ampiezza, regala al visitatore uno degli scorci più suggestivi e scenografici dell’abitato. Su tutte le costruzioni sacre, infine, spicca la Pieve di S.Giovanni Battista in Ottavo o di Tho, così appellata poiché situata all’ottavo miglio della strada che univa Faenza all’Etruria. Edificata agli inizi del X secolo con materiali romani e barbarici, è una delle più remote opere romaniche di questa terra. L’esterno, com’è nella tradizione di quello stile, è sobriamente ornato da lesene e archetti ciechi; all’interno, le tre navate che dividono la pianta basilicale sono punteggiate da colonne e capitelli romani, la fronte e il presbiterio recano affreschi del ‘400 e nell’abside si trova una tavola di C.Mergari e S.Scaletti (1516). Si tratta di un luogo dall’atmosfera rarefatta, quasi una “macchina del tempo”, capace d’ispirare emozioni ignote o, semplicemente, dimenticate. Le stesse che si provano nel passeggiare fra i vicoli o indugiare lungo le prospettive di quest’angolo di Storia.

della penetrazione lenta e come ritmata del paesaggio. Roland Barthes

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foto d’archivio

Val e n t i n a Ba r u z z i

Centro Etnografico della Civiltà Palustre l’ e comuse o di Villa nov a di Ba gnacav a llo

Quando si attraversa “la bassa” si percepisce immediatamente che l’aria ha un altro odore, e le forme, i colori si scoprono pian piano tra la bruma invernale.

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ono colori antichi e profumi che esistono da sempre, fin da quando, prima delle grandi bonifiche d’inizio ‘900, l’ambiente era disseminato d’acquitrini e zone umide. Non si conosce il periodo a cui risalgono i primi insediamenti di questa civiltà palustre, sap-

piamo soltanto che il primo censimento dell’antica “Villanova delle capanne” risale alla seconda metà del XIII secolo. I villanovesi sfruttarono appieno l’abbondanza d’erbe palustri, inizialmente per costruire i capanni, poi per realizzare utensili d’uso domestico. Questa produzione si fece sempre più intensa e importante, tanto che portò allo sviluppo di un vastissimo mercato che si protrasse fino agli anni ’70 del secolo scorso. In particolare è da ricordare “la sportla de’ pes”, manufatto simile ad una sporta dalla trama rada, in cui venivano raccolti e lavati i pesci. “La sportla de’ pes”, o “sportla lesa”, e moltissimi altri oggetti realizzati con le erbe di valle, si possono ammirare oggi presso il centro etnografico della civiltà palustre di Villanova di Bagnacavallo, un vero ecomuseo nato dal disagio della perdita di identità del territorio. Il centro fu fondato nel 1985 per recuperare una cultura andata perduta, ma parlare di museo è riduttivo poiché attorno ad esso, grazie ad attività ed eventi diversificati e interessanti, ruotano sempre progetti dinamici. I manufatti raccolti sono realizzati con le cinque varietà di erbe palustri (canna, stiancia, carice, giunco, giunco pungente) presenti nell’ambiente circostante, e con i legnami locali come il pioppo e il salice. Durante le visite guidate è possibile assistere alla creazione di questi oggetti ad opera di anziane signore; i manufatti nascono da movimenti esperti delle mani che sanno trasmettere ancora oggi la poesia della tradizione. L’esempio più originale di questa lontana maestria lo abbiamo con lo splendido giacchetto di fine Ottocento realizzato in occasione di un’importante esposizione parigina, ma l’abilità e soprattutto l’importanza di questi materiali e di tali tecniche è stata riscoperta nel 2002, quando fu avviato il progetto di ricostruzione di una nave risalente a più di 2000 anni fa in Oman. Nella messa in opera d’una replica di dimensioni reali fu interpellato il centro etnografico di Villanova perchè mettesse a disposizione “le necessarie competenze per quanto riguarda i materiali e in parte anche le tecnologie da utilizzare durante la ricostruzione della nave.” Il museo riveste una grande rilevanza per il nostro territorio poiché rappresenta una realtà ormai lontana, ma ancora viva in quanto parte integrante delle nostre tradizioni e delle nostre origini.

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ETHNOGRAPHIC CENTRE OF MARSHLAND CIVILISATION_ THE ECOMUSEUM IN VILLANOVA DI BAGNACAVALLO

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When you cross “lower” Romagna you immediately notice that the air has a different smell and that shapes and colours emerge gradually from the winter mist. The colours are ancient, the perfumes have always existed since the time, before the great land reclamation works of the early 20th century, when the land was dotted with swamps and humid zones. The period of the first marshland civilisation settlements is unknown, but we do know that the first census of the ancient “Villanova of the Huts” dates to the second half of the 13th century. The people of Villanova fully exploited the abundance of palustrine plants, initially to build huts and later to make household utensils. This production grew increasingly to the point of developing a huge market which lasted into the 1970’s. Special mention should go to the sportla de’ pes, a sort of loosely-woven basket used for landing and washing fish. The sportla de’ pes or sportla lesa can be seen today, together with many other items made with palustrine plants, at the Ethnographic Centre of Marshland Civilisation in Villanova di Bagnacavallo, an actual ecomuseum created to preserve the identity of the territory. The centre was set up in 1985 to recover a lost culture, but to call it a museum is reductive since there are always dynamic projects going on around it, with diversified activities and events. The items on exhibition were made with five varieties of palustrine plant found in the surrounding environment (reed, cattail, sedge, rush and bulrush) and with local wood such as poplar and willow. On guided visits you can see these items being made by elderly ladies whose expert hands transmit the poetry of tradition. The most original example of this ancient craft is a splendid late 19th century bolero created for an important exhibition in Paris. But these skills, and above all the importance of these materials and techniques, were rediscovered in 2002 when a project was begun in Oman to reconstruct a ship dating to 2000 years ago. For the building of a full scale replica the Villanova ethnographic centre was called in to supply “the necessary abilities with regard to materials and, in part, also the technologies to be employed in reconstruction of the ship.” The museum plays an important role on our territory because it represents a past that is now far off but still alive inasmuch as it is an integral part of our traditions and origins.

Il paese che conserva... avrà. Antico detto popolare foto d’archivio

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Ste f a n i a M a z z ot t i

Caterina Sforza le one ssa di Roma gna

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L'inferno non è mai tanto scatenato quanto una donna offesa. Shakespeare

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CATERINA SFORZA_ LIONESS OF ROMAGNA Who hasn’t heard of Caterina Sforza? Her name and legend as Lioness of Romagna have certainly gone round the world, from Japan to the United States. History has painted Caterina Sforza, duchess of Imola and Forlì from 1477 to 1500, as a stately figure rather like the priestesses Medea and Norma. A woman of unparalleled beauty, a virago, a ferocious heroine with indomitable spirit, a warrior and insatiable seeker of lovers. After five hundred years of chronicles and portrayals her biography lies between legend and reality, on a par with that of Lucrezia Borgia, the other celebrated woman of the Renaissance. With time she has been taken as an ante litteram example of female emancipation. Caterina Sforza had a tormented life full of excesses. Of highly aristocratic origins, daughter of Galeazzo Maria Sforza, duke of Milan, she was given in marriage to Girolamo Riario and lived in Rome at the luxurious court of pope Sixtus IV. As a ruler she set up political and diplomatic relations with the most important historical personages of the day such as her uncle Ludovico il Moro, Lorenzo the Magnificent of Florence, Machiavelli and Girolamo Savonarola. She then moved to Romagna in 1481 and governed it from 1488, after her husband had been assassinated in a political plot. When Valentinus’ armies arrived in 1499 Caterina defended her territory with all her might, but it was in vain. She was taken prisoner and, in 1501, forced to sign away her states. She was praised by Machiavelli for her political determination. In the “Discourses on the first ten books of Titus Livius” she is remembered as the one who stood up to Cesare Borgia "whom others did not have the courage to face". Machiavelli was in fact the first to sketch out her lioness character when he recounted the legendary episode of the fortress. On her husband’s death Caterina and her children were captured by the conspirators. Meanwhile the commander of the castle, Feo, had managed to defend the fortress. Caterina got permission to go to Feo and persuade him to surrender, leaving her children as hostages. As soon as she crossed the threshold she barricaded herself inside and, on being threatened with her children’s death, “she displayed her genitals to show she didn’t care about her children, saying that she was still able to have others”. With this gesture Caterina passed into the popular imagination as a virago, showing her female attributes to an army of males, to the detriment of her role as mother. Jadranka Bentini writes that in these stories, in these anecdotes, Caterina defends her own realm and her own life “with the fury and supremacy that lie at the heart of female Romagna, a supremacy of the skirt which becomes armour that jostles the powerful, such as husbands, out of position”; not to mention, we may add, the most popular feminine quality: that of mother.

Chi non ha sentito parlare di Caterina Sforza?

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l suo nome e la sua leggenda come Leonessa di Romagna hanno sicuramente fatto il giro del mondo, dal Giappone agli Stati Uniti. La storia ha dipinto Caterina Sforza, signora di Imola e Forlì dal 1477 al 1500, come una figura altera vicina alle sacerdotesse Medea

e Norma. Una donna dalla bellezza ineguagliabile, virago, eroina feroce e di animo indomito; guerriera e insaziabile di amanti. In cinquecento anni di cronache e ritratti, la sua biografia si è definita tra leggenda e realtà al pari di quella di Lucrezia Borgia, l’altra celebre del Rinascimento. Nel tempo la sua figura è stata presa ad esempio ante litteram di emancipazione femminile. Caterina Sforza ebbe una vita tormentata e piena di eccessi. Di origini nobilissime, figlia di Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, andò in moglie a Girolamo Riario ed abitò a Roma, alla lussuosa corte di Papa Sisto IV. Durante il suo governo instaurò relazioni politiche e diplomatiche con i più importanti personaggi storici del tempo: dallo zio Ludovico il Moro a Lorenzo il Magnifico di Firenze, a Machiavelli

fino a Girolamo Savonarola. Poi si trasferì in Romagna nel 1481 e fu lei a governare il regno dal 1488, dopo che il marito fu assassinato in una congiura politica. Al momento della discesa degli eserciti del Valentino nel 1499 Caterina difese con tutte le forze i suoi territori, ma invano. Fu fatta prigioniera e, nel 1501, costretta a firmare la rinuncia ai suoi stati. Fu lodata da Machiavelli per le sua determinazione politica. Nei “Discorsi sopra la prima decade di Tito Livio” la ricorda come colei che attese quel Cesare Borgia “che altri non ebbero il coraggio di aspettare". E’ proprio Machiavelli ad avere tratteggiato per primo il suo carattere di leonessa quando racconta il leggendario episodio della rocca. Alla morte del marito, Caterina fu catturata dai cospiratori insieme ai suoi figli. Nel frattempo il castellano Feo era riuscito a difendere la rocca. Caterina ottenne il permesso di raggiungere il Feo per convincerlo ad arrendersi. Lasciò in cambio i figli in ostaggio. Appena varcato il portone, si barricò dentro alla fortezza e al ricatto dell’uccisione dei figli “per mostrare che dei suoi figlioli non si curava, mostrò loro le membra genitali, dicendo che aveva ancora il modo di rifarli". Con questo gesto Caterina è passata all’immaginario popolare come la virago, proponendo le proprie virtù femminili ad un esercito di maschi a discapito del ruolo di madre. Scrive Jadranka Bentini come in queste storie, in questi aneddoti, Caterina difenda il proprio regno e la propria vita “con un accanimento e una supremazia che risiedono nel segno della Romagna al femminile, in una supremazia della gonnella fatta corazza che spiazza i potenti come i mariti” e, aggiungiamo, la qualità femminile più popolare: quella di madre. S to ria

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Stregoneria, superstizione... . . . ne lla Romagna di fi n e M ed io evo

foto d’archivio

WITCHCRAFT AND SUPERSTITION… … IN LATE MEDIAEVAL ROMAGNA Who or what stood before the pointed index finger of those Romagnol people who, towards the end of the dark ages, confabulated about malefactors and made accusations of connivance with the devil? Wizards, witches, enchanters and necromancers included, as categories, a multiform universe of types and cases: people afflicted with certain mental pathologies, individuals with nonconformist behaviour, eccentric intellectuals, mysterymongers and maybe some genuine sorcerers. It is surprising to learn from the chronicles that in Romagna the persecution of witches wasn’t excessively savage. Those found guilty of mortal evildoing were however handed over to the secular authorities, meaning they were put to death. With the approach of the Enlightenment however the most widely applied punishment for the crime of witchcraft consisted of tying the victims onto a donkey, their heads facing the tail, and having their nude torsos thrashed by the hangman. A mild punishment all in all if we except the cases in which these unfortunate people, exposed to public derision, were lynched by the crowd. There were various skills that could result in burning at the stake. The witch’s ABC consisted of sorcery, the most common form in Romagna being pedica which involved collecting some soil where the victim had walked and sprinkling it on a leafy branch to attract evil, or on the chain above the fireplace to cause death. There were many practices aimed at influencing love life, such as the aghetto to prevent consummation of a marriage. To win someone’s love there was a “baptised” magnet or alternatively some beans picked during St. John’s night. Ingredients for filtres and potions more often included a markedly macabre element: what was called “hanged man’s sauce” (the soil beneath the gallows) was considered a universal panacea, the same properties also being attributed to a liquor made with the flesh and fat of the drowned. This bears out the thesis according to which popular medicine attributed extraordinary powers to those who died without the last rites. From a Rimini synod of 1600 we learn that images of Solomon’s seal and the pentacle were widespread in Romagna, and bishop Paleotti of Imola warned against people who kept demons entrapped in rings, mirrors and ampoules. The overlapping of religion and magic always occurred in connection with crucial moments in the life cycle: birth, baptism, marriage and death. The end of this intermingling of popular semiotics, pagan obsession and superstition was, in theory, ratified with the publication of a 19th century treatise entitled “Nocturnal Congress of the She-Demons” which made fairytale figures out of those who, also in the Romagna of long ago, risked death by worshipping the “Diavolo dal naso torto che spezza le banche e rompe le porte” (Devil with the crooked nose who smashes benches and breaks down doors).

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Chi o cosa, stava di fronte all’indice puntato di quei romagnoli che, lungo il tramonto dei secoli bui, confabulavano di malefici e accusavano di connivenza con il diavolo? immagine d’archivio

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aghi, streghe, incantatori e negromanti raccoglievano, come categorie, un universo multiforme di tipi e casi: persone affette da certe

patologie mentali, individui dal comportamento anticonformista, intellettuali eccentrici, mistificatori e forse qualche vera fattucchiera. Sorprende apprendere dalle cronache che in Romagna i toni della persecuzione alle streghe non furono oltremodo efferati. Le colpevoli di malefizio mortale venivano, comunque, assegnate al braccio secolare, vale a dire messe a morte. Man mano che si avvicina il periodo illuminista, tuttavia, la pena più applicata per il reato di stregoneria finisce per consistere nel trascinare le colpevoli a dorso d’asino con le spalle rivolte al muso dell’animale e il torso nudo fustigato dal boia; una pena tutto sommato mite se si eccettuano i casi in cui le malcapitate esposte al pubblico ludibrio venivano linciate dalla folla. Varie erano le abilità che rischiavano di far loro guadagnare il rogo. L’ABC della maga consisteva nella fattura, la più comune delle quali, in

Nel tempo fuori dal tempo la fattucchiera chiama gli uomini al ballo. La strega balla il ballo degli alberi e l’uomo sente fra i suoi rami il morso del vento. Frammento medioevale di autore ignoto

Romagna, era la pedica, che consisteva nel distribuire un po’ di terreno, ove abbia camminato la vittima, su una frasca per attirargli il male o sulla catena del fuoco per causarne la morte. Molte erano le pratiche destinate ad influenzare la vita amorosa, come nel caso dell’aghetto, atto ad impedire la consumazione del matrimonio. Per ottenere l’amore di qualcuno veniva invece utilizzata una calamita “battezzata” o si usavano le fave raccolte durante la notte di San Giovanni. Gli ingredienti di filtri e pozioni avevano più spesso una marcata componente macabra: al cosiddetto “sughetto d’impiccato” (il terriccio sottostante il patibolo dell’impiccagione) veniva attribuita la proprietà di panacea universale, stessa facoltà ascritta al liquore fatto con carni e grassi di annegato; il che avvalora la tesi secondo cui la medicina popolare attribuiva virtù straordinarie ai morti di mala morte. Da un sinodo riminese del 1600 apprendiamo la diffusione in Romagna di immagini recanti il nodo di Salomone o il pentacolo, il vescovo imolese Paleotti metteva poi in guardia da coloro che tengono demoni costretti in anelli, specchi ed ampolle. La sovrapposizione di religioso e magico interveniva immancabilmente nei momenti cruciali del ciclo vitale: la nascita, il battesimo, il matrimonio e la morte. La fine di questa mescolanza di semiotica popolare, invasamento pagano e superstizione è idealmente sancita dalla pubblicazione del trattato ottocentesco: “Congresso notturno delle Lammie”, che esilia al ruolo di personaggi favoleschi anche coloro che nella Romagna remota veneravano, rischiando la morte, il “Diavolo dal naso torto che spezza le banche e rompe le porte”.

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B e p pe S a n gi orgi

La domestica di Grazia Deledda un r itratto cur ioso e d uma no de lla gran d e sc rit t ric e

...il demone che divora gli uomini per la sola fame del loro dolore; era pur esso il mare, un essere stravolto da una forza superiore, e che a sua volta travolgeva senza saperlo. Grazia Deledda

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Non c’è grande uomo o gran donna che sia tale per i suoi domestici.

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ia perché li vedono nella dimensione domestica, dove ognuno è quello che è, sia perché le differenze culturali permettono di cogliere solo gli aspetti più immediati. Aspetti che, filtrati da

una visione popolare, ci consegnano infine ritratti umani sorprendenti e di grande realismo. Ne è un esempio il ricordo di Grazia Deledda che Rosa Gentilini, scomparsa lo scorso anno a Casola Valsenio, amava rievocare ai suoi nipoti. Era il mese di giugno del 1931 quando Rosa, allora domestica ventenne, prese servizio presso Grazia Deledda, al tempo sessantenne, la quale, come faceva da una decina d’anni, soggiornava a Cervia in una casa sul mare insieme al marito. “Mi avevano detto – ricordava la Gentilini - che la nuova padrona era la più grande scrittrice d’Italia, conosciuta in tutto il mondo per aver vinto il premio Nobel e quindi mi aspettavo di vedere una signora di bell’aspetto. Invece mi venne incontro una donna di statura bassa, di pelle scura,

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con mani molto piccole e l’aria dimessa. Col tempo ebbi la conferma che Grazia Deledda era diversa dalle altre signore che avevo conosciuto: eleganti, allegre, con la casa piena di ospiti. Invece la Deledda, benché avesse un guardaroba con begli abiti, vestiva in modo semplice; non usciva quasi mai e raramente riceveva persone. Dopo cena se ne andava in terrazza, guardava il mare e lì, da sola, sembrava parlasse o ragionasse a bocca chiusa con ospiti invisibili. Muoveva la testa e le mani e vedendola mi veniva in mente quanto mi dicevano i miei vecchi: le persone intelligenti hanno dei comportamenti strani”. Parimente strano appariva alla giovane domestica proveniente dall’Appennino tosco romagnolo il modo di lavorare dell’autrice di Canne al vento: “Aveva orari uguali tutti i giorni. Si alzava alle sette, si preparava la colazione e quindi andava in terrazza fino alle undici. Da sola o con il marito passeggiava poi in riva al mare fino a poco dopo mezzogiorno. Pranzava e quindi andava a riposare. Poi, alle quattro, si ritirava nel suo studio a leggere e scrivere fino alle sette; cenava e

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dopo tornava nella terrazza affacciata sul mare, quasi sempre da sola”. In ottobre Rosa Gentilini seguì la Deledda a Roma dove rimase fino alla primavera successiva.

GRAZIA DELEDDA’S MAID_ A CURIOUS AND HUMAN PORTRAIT OF THE GREAT WRITER

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The great never seem so to their servants because they are seen in the domestic sphere, where we are all what we are, and because cultural differences mean that only the most immediate aspects are grasped. Aspects which, filtered through a simpler vision, give us human portraits that are surprising and highly realistic. An example is the memory of Grazia Deledda which Rosa Gentilini, who died last year in Casola Valsenio, liked to recount to her grandchildren. It was June 1931 when Rosa, twenty years old, went to work for Grazia Deledda, then sixty, who for about ten years had always spent the summer with her husband in a house by the sea in Cervia. “They’d told me,” Gentilini remembered, “that my new employer was the greatest writer in Italy, known all over the world as a Nobel prize-winner. So I expected to find a beautiful lady. But the person I met was short and dark-skinned, with tiny hands and a neglected look. With time I had confirmation that Grazia Deledda was different from the other ladies I had known who were elegant, merry and with their houses always full of guests. Though Deledda had a wardrobe of lovely clothes she dressed quite simply: she hardly ever went out and rarely had people in. After dinner she’d go out on the terrace to look at the sea. On her own, with her mouth closed, she seemed to talk or to discuss things with invisible guests. She moved her head and hands. Seeing her I recalled what the old folk had told me: intelligent people behave strangely”. Equally strange to the young maid from the Tuscany-Romagna Apennines was the way the author of Reeds in the Wind went about her work: “She had fixed hours every day. She got up at seven, made her breakfast and went out onto the terrace until eleven. Then, by herself or with her husband, she would walk along the seashore until shortly after midday. She had lunch and then took a siesta. At four in the afternoon she withdrew into her study to read and write until seven. Then she had dinner and went back onto the terrace overlooking the sea, almost always on her own.” Every October Rosa Gentilini went with Deledda to Rome where she remained until the following spring.

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Romagna biscazziera la ma nia de ll’ azzardo ne i se coli

La febbre del gioco è una malattia endemica in terra di Romagna, si trasmette frequentemente per via ereditaria e non è facile risalire all’origine primigenia di questa patologia.

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i perderebbe nei millenni a giudicare dal ritrovamento di un dado d’argilla (rinvenuto nel 1968 a Faenza) risalente all’età del ferro, e

di numerosi resti di astragalo (ossicino del tarso di forma cuboide, di solito estratto dal tallone degli ovini), lavorato e votato alla stessa funzione nel Medio Evo. I primi giochi di carte: i naibi, si diffusero invece durante il Rinascimento, giunti fin qui dalla Spagna o forse tramite i Saraceni, trovando quel che si suole dire un “terreno fertile”. Fin dai primi documenti scritti riguardanti il gioco d’azzardo risulta che i governanti, forse per frenare i vizi dei loro sottoposti, certamente per trarne vantaggio economico crearono l’istituto della pubblica bisca, che veniva ceduta in appalto al miglior offerente. Per scoraggiare ritrovi clandestini gli statuti includevano pene severissime: sia a coloro che tentavano la sorte di nascosto, sia a chi offriva loro ospitalità o prestiti, arrivando a punire anche chi si limitava ad assistere. Oltre a salatissime ammende in molti casi erano previste pene quali la prigione, l’esilio e, per i bari, la barbara punizione del taglio della mano. Come ben si sa, tuttavia, lo spirito romagnolo è storicamente refrattario all’adesione incondizionata alle leggi e, nonostante il rischio di incorrere in queste sanzioni, la pratica illegale del gioco d’azzardo si è, nei secoli, costantemente diffusa e radicata come dimostrano i documenti notarili e gli elenchi dei beni impegnati presso gli strozzini per saldare debiti di gioco. La smania dell’azzardo univa tutti gli strati sociali: nobili e possidenti perdevano fortune al tavolo verde, ricchi proprietari terrieri si ritrovavano a lavorare la terra per conto di chi gliel’aveva vinta, mentre i poveri si limitavano a giocarsi la proverbiale camicia. Persino il clero non era affatto estraneo a questa realtà come dimostrano il caso occorso al cappellano Gianagostino Marchi, che arrivò ad impegnare il tabernacolo d’argento della chiesa di S. Giovanni Battista per saldare un debito di carte, e le ripetute invettive dei fustigatori del malcostume contro il lassismo e la passione per il gioco dei preti e prelati romagnoli. Ironia della sorte, proprio una di queste prediche rappresenta il primo documento in cui si descrivono con esattezza le figure e i semi delle carte, quali sono giunte fino a noi, unitamente al significato diabolico loro attribuito: i denari per l’avarizia, i bastoni per la stoltezza, le coppe per l’ubriachezza, le spade per l’odio e le guerre… In effetti gli archivi giudiziari di Ravenna e di Forlì abbondano di processi relativi a reati compiuti per cause di gioco e il fenomeno del banditismo, che in queste zone assunse proporzioni rilevanti, fu in un certo senso ispirato dall’azzardo. Come risulta da molte confessioni, lo stesso capobanda: Stefano Pelloni, meglio conosciuto come il “Passatore”, si sarebbe dato inizialmente alla macchia per rifarsi delle perdite subite al gioco della “tagliata”. L’esempio forse più eclatante della sfegatata propensione al gioco dei romagnoli e della loro incuranza (per non dire strafottenza) davanti alle leggi è occorso però a Riolo Terme all’inizio del secolo scorso, quando nella sede del Grand

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Ci vorrebbe qualcuno che l’accompagnasse, signore, quando il suo giudizio va a zonzo. Charles Dickens

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Hôtel du Parc venne istituita, ad opera di tali fratelli Sparvieri, una casa da gioco stagionale aperta al pubblico, palesemente illegale, con l’inequivocabile nome di Casinò. Quando le dimensioni raggiunte dal suo giro di soldi e habitué impedirono alle autorità locali di continuare a fingere d’ignorarne l’esistenza, la questura di Ravenna intervenne con un’imponente irruzione ma, nel miglior stile “proibizionismo”, furono trovati solo tavoli puliti e persone tranquille. Avvertiti da una talpa i giocatori avevano fatto sparire ogni indizio compromettente; si seppe in seguito di come, solo in una toilette, vennero rinvenuti oltre duecento biglietti da mille (somma madornale a quei tempi). Neanche le guerre mondiali sono riuscite a smorzare in questo popolo il vizio per la scommessa: c’era chi giocava tra le rovine e nei rifugi; nelle caserme o al fronte, ove militavano romagnoli, non tardava ad avviarsi una piccola bisca e nei campi di prigionia, non circolando denaro, i perdenti rilasciavano dei “pagherò” da saldare al rientro in patria. Cambiano gli scenari ma le costanti tracciano un filo di cui non è difficile trovare il capo che versa ai giorni nostri. Impossibile quantificare il numero delle bische clandestine operanti in Romagna, impossibile stimarne il giro d’affari, ma è sufficiente sbirciare dentro un bar di paese, dopo che il sole è tramontato, per capire che la gente di queste parti tende a sottrarre al termine “gioco” la sua componente puramente ludica. Non è, però, da credere che tutti i romagnoli siano una razza di scellerati pronti ad ipotecare per un nonnulla il futuro loro e dei propri cari. Vero è invece che non è insolito scorgere in fondo al loro sguardo quella scintilla, quella pulsione, che li porta in tutti gli ambiti a sfidare così spesso la sorte (non di rado avversa) armati solo di abbondante coraggio, una certa qual dose di follia e senza il lusso di una certezza. immagine d’archivio

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GAMBLING ROMAGNA_ BETTING MANIA OVER THE CENTURIES Gambling fever is an endemic disease in Romagna, frequently hereditary, and it isn’t easy to pinpoint the origins of the pathology. You would get lost in the millennia: a clay die found in Faenza in 1968 was dated to the iron age, and numerous remains of astragalus have come to light (a small cuboid bone of the tarsus, usually taken from sheep or goats’ heels) which were used as dice in the middle ages. The first playing cards arrived during the Renaissance from Spain, or perhaps by way of the Saracens, and found what is usually called “fertile soil”. The earliest documents regarding games of chance show that governments, maybe to restrain their subjects’ vice but certainly to make money out of it, created the institution of the public gambling house which was granted under licence to the highest bidder. To discourage clandestine dens the by-laws included very severe penalties not only for gamblers frequenting them but also owners, moneylenders and even onlookers. Over and above very high fines, in many cases prison and exile were envisaged and, for cheats, the barbarous punishment of amputating the hand. Nonetheless, as is well known, the Romagnol spirit is traditionally refractory with regard to unconditional adherence to the law and, in spite of the risks run, illegal gambling constantly spread and put down roots over the centuries. This is borne out by notarial documents and lists of goods pawned to moneylenders in order to pay gambling debts. The gambling craze united all social classes: aristocrats and men of property lost fortunes on the green baize, wealthy landowners found themselves tilling the soil they had gambled away, while the poor were limited to betting the proverbial shirt. The clergy too were in no way extraneous to this state of affairs, as may be seen from the case of chaplain Gianagostino Marchi who went so far as to pawn the silver tabernacle of the church of San Giovanni Battista to pay what he had lost at cards, and the continual invective by critics of immorality against the lassitude and gambling passion of Romagnol priests and prelates. The ironic thing is that precisely one of those sermons is the first document in which the figures and spots on the cards (the ones we use today) are described with exactness, together with the diabolical meaning attributed to them: denari (coins) for avarice, bastoni (clubs) for foolishness, coppe (cups) for drunkenness and spade (swords) for hatred and war… In fact the judiciary archives of Ravenna and Forlì abound with trials for crimes connected with gambling, and the phenomenon of banditry – rife in this area – in a certain derived from it, as borne out by many confessions. Stefano Pelloni himself, the bandit leader better known as Il Passatore (The Ferryman) is said to have taken to crime initially to recoup the money he’d lost playing tagliata. Perhaps the most striking example of the Romagnols’ keen propensity towards gaming and their heedlessness (not to say insolence) with regard to the law took place in Riolo Terme at the beginning of the last century when the Sparvieri brothers set up a seasonal gaming house, also open to the public, in the Gran Hôtel du Parc. Clearly illegal, it bore the unequivocal name of Casino (see photo). When the turnover of money and habitués became so great that the local authorities could no longer go on pretending to ignore its existence, the Ravenna police intervened with an impressive raid. But in the best ”Prohibition” style they found only empty tables and tranquil people. Tipped off by a mole the gamblers had got rid of all compromising evidence. It later emerged that more than two hundred thousand lire (a huge sum then) was found in a toilet. Not even the world wars managed to dampen this people’s vice of betting: they played among the ruins and in shelters; in barracks and at the front, where there were Romagnol soldiers it wasn’t long before a game was set up; and in the prison camps, where no money circulated, the losers issued IOU’s to be honoured on their return to Italy. The scenarios changed but the constants traced a line that is easily followed down to our own days. It is impossible to quantify the number of clandestine gambling dens in Romagna and impossible to estimate the turnover, but you need only glance into the village café after sundown to understand how people around these parts tend to subtract the play aspect from the term “game”. It should not be believed that all Romagnol people belong to a race of villains ready to mortgage their own and their families’ future for a trifle. But what is true is that it is not unusual to glimpse in the depth of their eyes that spark, that impulse which leads them so often to challenge fate (often adverse) in all contexts, armed only with abundant courage, a certain touch of madness and without the luxury of certainty. immagine d’archivio

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foto d’archivio

M a rc e l l o Ci c ogn a n i

La fulgida parabola di una ste lla chia mata Lore nzo

Seppur divenuto uno dei piloti piĂš acclamati della sua epoca, la vita non era stata facile per Lorenzo Bandini; anzi, a ben guardare, essa fu tortuosa e imprevedibile esattamente come la pista in cui, ineluttabilmente, si compĂŹ.

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ato alcuni giorni prima di Natale dell’anno 1935 ad Al-marj (Arbe) – nell’allora colonia italica di Cirenaica dove i genitori erano emigrati in cerca di

miglior fortuna – già tre anni più tardi, messi a frutto i (pochi) risparmi accumulati, la sua famiglia fece ritorno a S.Cassiano di Romagna e, rispettata e benvoluta, prese a gestire una locanda con ristoro. Ma l’idillio fu freddamente interrotto dall’arrivo della Guerra che, inesorabile, portò via l’albergo e, soprattutto, Giovanni, il babbo. Tempi duri. Lorenzo manifestò subito allergia ai bansu quelli grassi di lubrificante delle autofficine. Così, giunto a Milano nel ‘51, la sua perizia gli procurò ben presto un impiego presso il garage REX di quel Goliardo Freddi, grande appassionato, che – oltre ad essere il padre della sua futura ed amatissima moglie, Margherita – scorgerà il fuoco divampare dietro a quei lineamenti delicati e ne fomenterà, per quanto possibile, le spire. Ma sarà Bandini, fra un’accanita brama da nutrire ed un crudo pagherò da firmare, ad essere l’unico padrone della propria stella. Filava l’anno 1956 quando la sua parabola iniziò. Esibendo sempre tenacia, ardimento nonché spigliate doti di pilotaggio abbinate ad una sensibilità nella messa a punto derivante dal suo passato di meccanico, egli prese parte a competizioni in categorie diverse e con

Ora che più forte sento stridere il freno, vi lascio davvero, amici. Addio. Di questo, sono certo: io son giunto alla disperazione calma, senza sgomento. Scendo. Buon proseguimento. Giorgio Caproni

chi sporchi d’inchiostro, trovando, invece, la propria dimensione armeggiando

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Ecco, è l’ora di andare: io a morire, e voi a vivere. Chi di noi due vada verso il meglio è oscuro a tutti fuorché a Dio. Socrate

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le più disparate autovetture, alternando ottime prestazioni ad altre più opache o, spesso, sfortunate. Sinché, com’è nel sogno di qualsiasi pilota, alla fine del ‘61 Enzo Ferrari s’accorse di lui mettendogli a disposizione uno dei propri bolidi. Il rapporto fra i due vivrà d’alti e bassi, fra la tensione del nostro a mettersi in mostra e l’abilità del costruttore modenese nel tenere sempre sulla corda i propri driver. Lorenzo, ormai simbolo mondiale dell’Italia dello sport, non aveva, però, smarrito la prospettiva delle cose e con i suoi guadagni aveva acquistato un piccolo casale sulle colline di Brisighella (dove dal 1994, in occasione del Gran Premio di San Marino, viene consegnato un trofeo in sua memoria al miglior esordiente del Campionato di Formula1); era là, al podere «Piolo Pioletto», che passava il poco tempo libero innestando piante, annaffiando rose o potando viti per sedare le pressioni accumulate nell’attendere al suo logorante mestiere e ricaricarsi in vista degl’impegni venturi. Ed il 1967 pareva essere il suo anno. La nuova Ferrari 312 era una saetta e Bandini, ad onta di una guida sempre rispettosa del mezzo meccanico, ben s’attagliava all’infernale toboga di Montecarlo – costretto fra marciapiedi, grattacieli e hotel di lusso – dove aveva sempre conseguito eccellenti risultati; inoltre, finalmente forte di un meritato ruolo di prima guida in seno alla Scuderia si sentiva pronto per il titolo iridato. Ecco, fu probabilmente un tal mulinare d’emozioni e responsabilità, unito alla coscienza d’essere comunque lui la somma di tutti i singoli avvenimenti passati, a fremere nell’animo di Lorenzo schierato in prima fila al via del Grand Prix. Una consapevolezza che, sicuramente, l’accompagnò sino all’ottantaduesimo giro, quando la sua rossa n.18 uscì dal tunnel del circuito e fu, per l’ultima volta, inondata dal sole. Il Vecchio, anni dopo, vergherà nelle sue memorie: «Ricordo quel giorno di maggio del 1967. Ero nel mio studio di Maranello, davanti al televisore che trasmetteva le fasi conclusive del Gran Premio di Monaco. Quando vidi il grosso fungo nero di fumo che deturpava sinistramente la baia di Montecarlo, ancor prima che Piero Casucci, l’indimenticato telecronista di quei tempi, commentasse la catastrofica immagine, sentii che quella macchina in fiamme era una delle mie. Ora non so dire perché, ma intuii Bandini nel rogo e fui sicuro che non lo avrei più rivisto».

THE BRILLIANT PARABOLA_ OF A STAR CALLED LORENZO Though he became one of the most acclaimed racing drivers of his time, life had not been easy for Lorenzo Bandini; indeed it was every bit as tortuous and unpredictable as the track on which, ineluctably, it ended. He was born a few days before Christmas 1935 in Al-marj (Arbe), in the then Italian colony of Cyrenaica where his parents had emigrated in search of fortune. Just three years later the family returned, with the little money they had saved, to San Cassiano di Romagna where, respected and well liked, they ran an inn. But the idyll was brutally interrupted by the war which, inexorably, deprived them of both the inn and, worst of all, his father Giovanni. Hard times. Lorenzo immediately showed himself allergic to ink-stained school desks, finding himself more at home with the oil and grease of a car mechanic’s workshop. So when he arrived in Milan in ’51 his skills soon got him a job at Goliardo Freddi’s REX garage. This great enthusiast – also the father of Lorenzo’s future and beloved wife Margherita – was to note the fire blazing up behind those delicate features, and he encouraged it as much as possible. But Bandini, with a motivating dream and a crude IOU to sign, was the sole captain of his star. His parabola began in 1956. Always demonstrating tenacity, boldness and outstanding driving skills, linked to his sensitivity, from his mechanic’s past, in tuning an engine, he took part in races in various categories and with the most disparate kinds of vehicle, alternating top performances with others less noteworthy and often unlucky. Until, like in every racing driver’s dream, Enzo Ferrari took notice of him at the end of ’61 and offered him one of his thoroughbreds. There were high and low points in the relationship between the two, what with our man’s tension about putting himself on show and the Modena manufacturer’s ability to always keep his drivers on tenterhooks. Lorenzo, by that time a world symbol of Italian sport, had not however lost his perspective on things: with his earnings he had bought a small farmhouse in the hills of Brisighella (where since 1994, on the occasion of the San Marino Grand Prix, a trophy is awarded in his memory to the best debutant in the Formula One Championship). There, on the “Piolo Pioletto” smallholding, he spent what little free time he had in grafting plants, watering his roses and pruning vines in order to soothe the pressures accumulated in his wearying profession and to recharge his batteries for future commitments. And 1967 seemed to be his year. The new Ferrari 312 was a thunderbolt and Bandini, despite a way of driving that always respected the mechanical means, was well suited to the toboggan ride of Monte Carlo – squeezed between pavements, skyscrapers and luxury hotels – where he’d always had excellent results. Moreover, strengthened at last by his well deserved role as the Stable’s top driver, he felt ready for the title. So it was probably just such a whirl of emotions and responsibilities, together with the awareness of his being the sum total of each individual past event, that throbbed in Lorenzo’s soul as he was lined up in the first row at the start of the Grand Prix. An awareness which surely accompanied him up to the 82nd lap when his rossa N° 18 came out of the circuit tunnel and was bathed in sunlight for the last time. The Old Man, years later, would write in his memoirs: “I remember that day in May 1967. I was in my study in Maranello, watching the last phases of the Monaco Grand Prix on TV. When I saw the great black mushroom of smoke that eerily disfigured the Bay of Monte Carlo I felt, even before the well remembered commentator of the day Piero Casucci had said anything about the catastrophic image, that the car in flames was one of mine. I don’t know why but I intuited that it was Bandini and was sure I’d never see him again.”

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C ar l o Z a u l i

La storia di un vino foto d’archivio

il v ino de l Ba r ba rossa

La Fattoria Paradiso, già Castello Urgate Lovarelli, si eleva su di un poggio solare che affianca il borgo medioevale di Bertinoro, ha una estensione di 80 ettari di vigneto su terreno calcareo e sassoso con elementi tufacei di grande vocazione viticola.

U

bicata in altitudine media, sul primo gradino dell’Appennino tosco-romagnolo, è assistita oltre che da un congeniale microclima, dall’amore che Mario Pezzi ha sempre nutrito per la vite, valori che hanno dato

vita ai vini cru della regione. In particolare il Barbarossa rappresenta il vero fiore all’occhiello aziendale. Scoperto nel 1955, in una vecchia vigna di oltre 150 anni non più produttiva e destinata alla ruspa, il Barbarossa è vitigno esclusiva mondiale della Fattoria Paradiso. Il nome che porta trae spunto storico dal fulvo Imperatore alemanno Federico che soggiornò a lungo nella Rocca di Bertinoro, detta appunto del Barbarossa.

HISTORY IN A WINE_ THE WINE OF BARBAROSSA The Paradiso Estate, formerly Urgate Lovarelli Castle, stands on a sunny hillock looking onto the mediaeval village of Bertinoro. It has 80 hectares of vineyard on a calcareous stony soil, with tufaceous elements, that is particularly suited to winegrowing. The altitude is medium, on the first level of the Tuscany-Romagna Apennines, and the vineyard is aided not only by a congenial microclimate but also by the love Mario Pezzi has always felt for his vines, values that have resulted in the region’s best crus. Barbarossa in particular is the estate’s real flagship. Discovered in 1955 in a more than 150 year old disused vineyard about to be ploughed up, the Barbarossa vine species is exclusive worldwide to the Paradiso. Its name comes from the Alemannian emperor Frederick who was a long time resident at the Fortress of Bertinoro which is, in fact, known as Barbarossa’s Fortress. foto d’archivio

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Le memorie sono le cantine da vino della mente. Timmermans

Barbarossa_ Rosso I.G.T. – Uve: Barbarossa 100% L’invecchiamento avviene in cantina per 18 mesi in grandi botti di rovere di Slavonia, 6 mesi in barrique francesi e 12 mesi di affinamento in bottiglia. Al cliente oltre 10 anni, bottiglia coricata. Il colore è rosso granato carico, tende all’aranciato con l’età. Brillante limpidezza. Profumo austero, intenso e persistente, richiama la rosa appassita e la viola mammola. Il sapore è asciutto, franco e generoso, nerbo sicuro in stoffa ampia di velluto, pieno di carattere. Questo vino si accompagna egregiamente con arrosti di carni bianche e rosse, pollame nobile, cacciagione e carni tartufate, formaggi stagionati. Barbarossa _ Red I.G.T. (Typical Geographical Indication) – Grapes: Barbarossa 100% Aging in the cellar continues for 18 months in large Slavonian oak barrels and for 6 months in French barriques, followed by 12 months of maturation in the bottle. For wine to be sold after more than 10 years, the bottles are laid down. A deep garnet red, it tends towards orange with ageing. Bright limpidity. Austere, intense and persistent bouquet that recalls withered roses and sweet violets. The taste is dry, frank and of pronounced vigour and velvety substance, full of character. This wine is an admirable accompaniment to white and red meat roasts, breeding poultry, game, seasoned cheeses and meat with truffles.

Mito_ Rosso I.G.T. – Uve: Merlot 50%, Cabernet Sauvignon 50% L’invecchiamento avviene in barrique di rovere francese per 20 mesi e un anno almeno di affinamento in bottiglia. Vino di grande longevità. Il profumo è ricco e consistente, con note di frutti di bosco, viola e vaniglia. Il sapore è asciutto, morbido e vellutato, stoffa aristocratica, carattere e razza di sublime eleganza. Si sposa ottimamente con arrosti di carni rosse, pollame nobile, cacciagione, selvaggina, formaggi stagionati e piccanti, cioccolato fondente. Mito _ Red I.G.T. – Grapes: Merlot 50%, Cabernet Sauvignon 50% Ageing is in French oak barriques for 20 months with at least one year of maturation in the bottle. A wine of great longevity, the bouquet is rich and consistent with notes of wild fruit, violets and vanilla. The taste is dry, soft and velvety, an aristocratic wine with a character and cultivation of sublime elegance. It is the perfect accompaniment to red meat roasts, breeding poultry, all kinds of game, seasoned and spicy cheeses and plain chocolate.

Jacopo_ Chardonnay di Romagna I.G.T. – Uve: Chardonnay 80% e Sauvignon 20% Dopo la fermentazione resta circa sei mesi in barrique, su fecce; batonnage periodico a scalare. L’affinamento si ha con numerosi mesi in bottiglia prima di essere immesso sul mercato due anni dopo la vendemmia. Il colore è giallo dorato e il bouquet elegante, molto personale e fruttato, si colgono pesca, banana ananas e vaniglia. E’ un vino dal gusto armonico e

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secco, senza asperità, caratterizzato da una presenza del rovere estremamente discreta. Jacopo _ Chardonnay di Romagna I.G.T. – Grapes: Chardonnay 80% and Sauvignon 20%. After fermentation it remains about six months in barriques on the dregs with periodic graduated batonnages. Maturation in the bottle continues for many months before the wine is put on the market two years after the harvest. A golden yellow colour and an elegant, highly personal and fruity bouquet with hints of peach, banana, pineapple and vanilla. It is a harmonious dry wine without sharpness and is characterised by an extremely discreet nuance of oak.

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En o g a stro n o mia

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B e ppe S a n gi orgi

I cappelletti di magro un piatto stor ico de lla cuci n a ro m ag n o la foto d’archivio

Non riesco a sopportare quelli che non prendono seriamente il cibo. O.Wilde

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I Sensi di Romagna


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E’ stata ufficializzata e formalizzata con un atto notarile

“CAPPELLETTI DI MAGRO”_ A HISTORIC DISH IN ROMAGNA COOKERY

la ricetta dei cappelletti di magro, così detti per l’assenza di carne nel ripieno.

The recipe for cappelletti di magro (lean cappelletti, so called because there is no meat in the filling) has been made official and formalised by notary’s deed. This was done at the behest of the Faenza delegation of the Italian Cookery Academy to celebrate the latter’s fiftieth anniversary. The Academy was established with the main aim of safeguarding the traditions of Italian cooking. In mid October, in the Sala dei Cento Pacifici in Faenza, in the presence of municipal authorities and the Faenza delegation of the Academy itself, all members present, the notarial document was drawn up to accompany the recipe for "Cappelletti di magro in the Faenza tradition” and the recipe was then deposited at the Ravenna Chamber of Commerce. “We chose this dish,” explains Faenza delegate Giovanni Zauli, “for its ritual importance linked with Christmas, for its typicality in the Faenza area and above all for its centuries old history.” The first mention of cappelletti in fact dates to the early 19th century when the Napoleonic Administration carried out a survey of peasant customs in Romagna. It emerged that on Christmas Day “they make cappelletti, a dish consisting of a mixture of cheese, eggs, ricotta and flavourings enclosed in a thinly rolled dough known as lasagne pasta". With the improvement in economic conditions the filling was enriched with capon breast or other meats almost everywhere in Romagna. But not in the province of Ravenna, and in particular not in the Faenza area where the filling for cappelletti is still strictly limited to certain types of cheese. "In codifying the recipe,” adds Zauli, “we had to take an average of numerous proposals and customs, which vary even from family to family, and suggest a filling of ricotta, raviggiolo, parmesan, eggs and nutmeg. The filling is then enclosed in roughly 6 centimetre diameter discs of thinly rolled pasta forming fair sized cappelletti (“little hats”) which must be cooked in a particularly rich and tasty broth. Out of respect for tradition we also identified the number of cappelletti per portion as 24, but on this last point exceptions are permissible as long as the number is increased.”

L’

iniziativa si deve alla volontà della delegazione faentina dell'Accademia Italiana della Cucina di celebrare il cinquantesimo anniversario di fondazione

dell’Accademia, le cui finalità statutarie vedono in testa la tutela delle tradizioni della cucina italiana. A metà ottobre, nella Sala dei Cento Pacifici di Faenza, alla presenza delle autorità cittadine e della delegazione faentina dell’AIC al completo, è stato redatto il rogito di accompagnamento della ricetta dei “Cappelletti di magro secondo la tradizione faentina", poi depositata presso la Camera di Commercio di Ravenna nella sezione degli Usi. “Abbiamo scelto questo piatto – spiega il delegato di Faenza Giovanni Zauli - per la sua importanza rituale legata al Natale, per la sua tipicità faentina e soprattutto per la sua storia secolare”. Le prime notizie sui cappelletti risalgono, infatti, all'inizio dell'800, quando l'Amministrazione napoleonica svolse un'indagine sulle usanze dei contadini romagnoli, dalla quale risultò che nel giorno di Natale “si fanno cappelletti, minestra composta di ricotta, formaggio, uova, aromi; il tutto avvolto in pasta, detta spoglia da lasagne". Poi, il miglioramento delle condizioni economiche ha portato all'arricchimento del ripieno con il petto di cappone o altri tipi di carne in quasi tutta la Romagna. Ciò non è accaduto in alcune zone del Ravennate ed in particolare nel Faentino, dove si continua a preparare rigorosamente il ripieno dei cappelletti solo con alcuni tipi di formaggio. “Nel codificare la ricetta – aggiunge Zauli - abbiamo dovuto mediare tra numerose proposte e consuetudini che variano anche da famiglia a famiglia, indicando un ripieno con ricotta, raviggiolo, parmigiano, uova e noce moscata. Il ripieno va poi avvolto in dischetti di sfoglia del diametro di circa sei centimetri, formando dei cappelletti di buone dimensioni che devono essere cotti in un brodo particolarmente ricco e saporito. Nel rispetto della tradizione abbiamo anche individuato in 24 il numero dei cappelletti per ogni

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piatto. Anche se, su quest’ultimo punto, sono ammesse deroghe in aumento”.

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Va l e n t i n a Ba r u z z i

Palazzo San Giacomo a Russi l’ e le fante fe r ito

“Un grande oggetto stratosferico, un pachiderma bianco lungo 84 metri, piombato nella campagna di Russi, presso l’argine destro del fiume Lamone: così appare Palazzo San Giacomo…”

L

a metafora dell’elefante bianco, di Anna Maria Iannucci, descrive perfettamente l’effetto che suscita quest’edificio, così inaspettato e inconsueto per le nostre terre di pianura. Nel palazzo, edificato durante la seconda metà del Seicento per volere dei conti raven-

nati Guido Paolo e Cesare Rasponi, coesistono elementi tipici delle ville-castello romagnole del XVI secolo (le due torri laterali e il basamento a scarpa), insieme a componenti che anticipano le ville residenziali (il porticato ed il finto loggiato). La passione di Cesare Rasponi (investito della carica di cardinale nel 1666) per i giardini si manifestò con la realizzazione di un giardino all’italiana e un bosco detto “delicioso”, caratterizzati da elementi ornamentali e sentieri labirintici di gusto barocco. Il palazzo fu

sia sede di corte, sia fattoria produttiva; coesistevano, pertanto, stalle, cucine, pozzi, legnaie, insieme a luoghi funzionali all’accoglienza di numerosi ospiti, come la pasticceria, la peschiera e le conserve del ghiaccio. Il complesso nel 1774 fu arricchito dalla realizzazione della chiesa di San Giacomo, progettata da Cosimo Morelli, che diede il nome all’intero edificio. Crebbe un gran fermento attorno al palazzo, soprattutto tra il XVII e il XVIII secolo, come conferma il testamento datato 1756 del marchese Cesare Rasponi, il quale dispose che i vescovi e i cardinali legati vi potessero villeggiare liberamente. Gli arrivi dei Rasponi e dei loro invitati erano sempre trionfali, sia che provenissero dal fiume Lamone con il bucintoro, imbarcazione tipica di queste zone, sia che arrivassero in carrozza, percorrendo lo splendido viale di pioppi cipressini; i ricevimenti tenuti dai conti finivano per mobilitare tutti

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I Sensi di Romagna


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“A great stratospheric object, a white pachyderm 84 metres long dropped into the Russi countryside near the right bank of the river Lamone: that’s what Palazzo San Giacomo looks like…” Anna Maria Iannucci’s metaphor of the white elephant perfectly describes the effect aroused by this building, so unexpected and unusual in our flatlands. Built in the second half of the 17th century for the Ravenna counts Guido Paolo and Cesare Rasponi, the palazzo features typical elements of 16th century castle-villas in Romagna (the two side towers and the inclined base) together with components that anticipate those of residential villas (the colonnade and the false open gallery). Cesare Rasponi (made cardinal in 1666) had a passion for gardens which was manifested in the creation of a classic garden and a wood known as ‘delicious’, characterised by ornamental elements and labyrinthine pathways in baroque taste. The palazzo was both seat of the court and a working farmhouse, so there were byres, kitchens, wells and woodsheds that coexisted with places functional to entertaining large numbers of guests, such as a confectioner’s, a fishpond and ice stores. In 1774 the complex was enriched by the addition of the church of San Giacomo, designed by Cosimo Morelli, which gave its name to the entire building. Great activity sprang up around the palace, especially between the 17th and 18th centuries, as confirmed by the 1756 will of marquis Cesare Rasponi which decreed that bishops and cardinal legates might holiday there freely. The arrival of the Rasponi family with their guests was always triumphal, whether from the river Lamone by bucintoro, a typical local vessel, or by carriage down the splendid avenue lined with Lombardy poplars. The counts’ receptions ended up by mobilising all the inhabitants of the village. From the early 19th century the magnificence and celebrations abated and it seems that the villa became a meeting place for revolutionaries during the years of the Risorgimento, when Tullio Rasponi was directly involved in those political activities. With the extinction of the family their estate was divided up and the building fell into the most total abandon. Some parts were demolished and others damaged during the war. It was Mattia Moreni in the 1960’s who brought the villa of ancient splendours back to life. While lodging at the Morelli hotel in Russi he used to do his painting in the splendid frescoed rooms of Palazzo San Giacomo where he also spent time in the company of his numerous lovers. Legend has it that he would travel from room to room by bicycle. And even if this is not true we like all the same to imagine it because, with irony, it helps us to conceive of the size of this stone pachyderm.

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PALAZZO SAN GIACOMO IN RUSSI_ THE WOUNDED ELEPHANT

gli abitanti del paese. Dai primi dell’Ottocento gli sfarzi e le celebrazioni andarono scemando e sembra che la villa divenisse teatro d’adu-

Una casa non è solo un edificio, un edificio non è solo un palazzo, un palazzo non è solo una casa. Vittorio Marchis

tanza con la partecipazione diretta di Tullio Rasponi a queste vicende politiche. Con l’estinzione della famiglia, il patrimonio fu smembrato e l’edificio cadde nel più totale abbandono. Alcune parti furono demo-

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nanze rivoluzionarie negli anni dei moti risorgimentali, in concomi-

lite, altre pregiudicate a causa della guerra. Fu Mattia Moreni, negli anni Settanta, a far rivivere la villa degli antichi fasti. Nel periodo in cui alloggiava presso l’albergo Morelli di Russi, usava, infatti, dipingere i suoi quadri proprio nelle splendide sale affrescate di Palazzo San Giacomo ed era solito trascorrervi qualche tempo in compagnia delle numerose amanti. La leggenda narra che l’artista si spostasse da una stanza all’altra in bicicletta; anche se ciò non corrispondesse a verità ci piace lo stesso immaginarlo, poiché, con ironia, di nuovo ci aiuta a figurarci la mole di questo pachiderma di pietra. Arte

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V i ol a E m aldi

Cartelli e angurie ne lla Romagna di Mattia More ni

“Se riuscissi a trovarmi un buco per lavorare nel Comune di Ravenna, chiedendo a Zaccarini, o al sindaco o altri. Qui un casino. Ti racconterò. Finisco due piccole tele per Larcade e Edith e poi tornerò.” foto d’archivio

A

scrivere queste righe fu Mattia Moreni, esponente in vista di quella corrente detta Informale, che alla metà degli anni ’50, godeva pienamente della pro-

pria affermazione. Sull’onda del successo, molti suoi compagni di viaggio si lasciarono trasportare comodamente mentre Moreni, da “battitore libero” qual’era, aveva ben chiaro il limite tra autonomia dell’arte e partecipazione al mondo dei viventi. Già proiettato oltre il normale ordine, ma coerente alla sua appartenenza all’Informale, portò avanti la propria ricerca artistica a prescindere da commenti ed aspettative. Attraverso una pennellata spessa, seducente e carica di

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I Sensi di Romagna


L’arte è un’amante gelosa. R. W. Emerson

POSTERS AND WATERMELONS_ IN MATTIA MORENI’S ROMAGNA

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“If you could manage to find me a little place to work in the Commune of Ravenna, asking Zaccarini or the mayor or somebody. A mess here. I’ll tell you about it. I’m going to finish two little canvases for Larcade and Edith then I’m coming back.” These words were written by Mattia Moreni, a leading light of the Non-representational movement which in the mid 1950’s was enjoying its greatest acclaim. Many of his fellow travellers let themselves be carried along comfortably on the wave of success while Moreni, the “free explorer”, was quite clear about the boundary between autonomy in art and participation in the land of the living. Already projected beyond the normal order but coherently with his belonging to the Non-representational school he went ahead with his artistic research quite aside from comments and expectations. By means of a thick, seductive brushstroke charged with matter he sought the direction for overcoming, which is to say resolving his problems of autonomy and detachment from reality, from the social aspect and from every other reference in the search for a highly personal relationship with the natural image. The places he preferred as opportunities congenial to his poetics were in Romagna, “a land of posters and watermelons” which, in spite of the artist’s wanderings, would remain a constant point of reference as well as a privileged corner of existential and symbolic acknowledgements. So in ’57 he started to spend his summers in Russi: “Russi, little Paris of my summers or of the visceral and roaring years of my life and of culture. Strangely the two situations coincided.” At the end of spring he closed down his Paris studio, in the building that formerly housed the legendary Moulin Rouge, and took over the bombed remains of the impressive Palazzo San Giacomo. “I spent the whole summer in Russi, four marvellous months of African days with my skin the colour of copper-faced mahogany – with my sea, salt and sun hair the colour of Marilyn Monroe’s – a white T-shirt and the finest wide Swedish braces – I was almost handsome – maybe fascinating – why not?. I seemed to be always on my own, but actually there were girls and I made love with some of them. But nobody ever knew about it, or will ever know, and this amuses me – quite apart from my gentlemanly tradition.” As a “careful and mistrustful spectator with a continual maybe in my mind”, Moreni took a road towards a solitary, apparently objective vision of individual elements of the natural and human landscape of “lower” Romagna in search of a totality enclosed in the symbol. So there spurted forth posters and trees, huts and landscapes, suns and fields, lightning and clouds right down to the famous “Watermelons” of 1964. His was painting as synthesis where the subject-pretext, passing through the mind, became sign-object, symbolic form of everything and nothing. Romagna, the artist’s secret presence, remains concealed inasmuch as it is already powerful in being a place of the spirit. Here Moreni put down roots in ’66, establishing himself in voluntary isolation at the “Calbane Vecchie”, a smallholding in the erosion furrows of Brisighella; a hermitage that soon became an autarchic, stoical and provocative outpost from which to challenge order and conventions. At that altitude, where he remained to the end, Mattia Moreni lived as a happy man beneath “the great sky of Romagna”.

materia cercò l’indicazione del superamento; risolvere, cioè, i suoi problemi d’autonomia e sganciamento dalla realtà, dal sociale e da ogni altro referente alla ricerca di un personalissimo rapporto con l’immagine naturale. I luoghi eletti come pretesto congeniale alla sua poetica furono quelli di Romagna; “terra di cartelli e di angurie” che, nonostante gli spostamenti dell’artista, resterà un punto di riferimento costante nonché angolo privilegiato di riconoscimenti esistenziali e simbolici. Iniziò, così, nel ’57 a trascorrere in quel di Russi il periodo estivo: “Russi piccola Parigi delle mie estati o gli anni viscerali e ruggenti della mia vita e della cultura- stranamente le situazioni coincidevano”. Sul calare della primavera chiudeva lo studio parigino, antica sede del leggendario Moulin Rouge, per invadere i resti bombardati dell’imponente Palazzo S.Giacomo. “Ero a Russi tutta l’estate quattro mesi meravigliosi di giorni africani, con la pelle color mogano rivestita di rame – i capelli di sole di sale di mare erano color Marilyn Monroe – la maglia bianca e le più belle larghe bretelle svedesi – ero quasi bello – forse affascinante – perché no? Infatti sembravo sempre solo ed invece c’erano le ragazze e con alcune ci facevo anche all’amore, ma nessuno lo ha mai saputo e non lo saprà mai e questo mi diverte – a parte la mia tradizione di gentiluomo”. Da “spettatore attento e diffidente con il forse continuo nella mente”, Moreni intraprese un cammino verso una visione solitaria, apparentemente oggettiva, di singoli elementi del paesaggio naturale ed umano della “bassa” alla ricerca di una totalità racchiusa nel simbolo. Sgorgarono, così, cartelli ed alberi, capanne e paesaggi, soli e campi, fulmini e nuvole fino alle famose “Angurie” del 1964; una pittura come sintesi, la sua, dove il soggetto-pretesto, passando per la mente, diventa il segno-oggetto, forma simbolica del tutto e niente. La Romagna, presenza segreta dell’artista, resta celata in quanto già forte del suo esserci come luogo dello spirito. In essa Moreni affondò le radici nel ’66 stabilendosi definitivamente, in volontario isolamento, alle “Calbane Vecchie”, podere sui calanchi di Brisighella; romitorio che presto divenne un avamposto autarchico, stoico e provocatorio per sfidare l’ordine e le convenzioni. In quell’altitudine, conservata sino all’ultimo, visse Mattia Moreni da uomo felice sotto “il gran cielo della Romagna”.

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Territorio A spasso nel tempo_ fra colli ed ulivi A journey through time_ Amid hills and olive groves Centro Etnografico della Civiltà Palustre_ l’ecomuseo di Villanova di Bagnacavallo Ethnographic Centre of Marshland Civilisation_ The Ecomuseum in Villanova di Bagnacavallo

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Storia Caterina Sforza_ leonessa di Romagna Caterina Sforza_ Lioness of Romagna Stregoneria, superstizione... ... nella Romagna di fine Medioevo Witchcraft and superstition… … in late mediaeval Romagna

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Passioni Romagna biscazziera_ la mania dell’azzardo nei secoli

La domestica di Grazia Deledda_ un ritratto curioso ed umano della grande scrittrice Grazia Deledda’s maid_ A curious and human portrait of the great writer

Gambling Romagna_ Betting mania over the centuries La fulgida parabola_ di una stella chiamata Lorenzo The brilliant parabola_ Of a star called Lorenzo

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Enogastronomia La storia di un vino_ il vino del Barbarossa History in a Wine_ The Wine of Barbarossa I cappelletti di magro_ un piatto storico della cucina romagnola “Cappelletti di magro”_ A historic dish in Romagna cookery

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Arte Palazzo San Giacomo a Russi_ l’elefante ferito Palazzo San Giacomo in Russi_ The Wounded Elephant Cartelli e angurie_ nella Romagna di Mattia Moreni Posters and Watermelons_ In Mattia Moreni’s Romagna

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I Sens i di Rom agn a



I Sensi di Romagna numero 6.

febbraio 2004

Periodico edito da CERDOMUS Ceramiche S.p.A. 48014 Castelbolognese (RA) ITALY via Emilia Ponente, 1000 www.cerdomus.com Direttore responsabile Luca Biancini Progetto Carlo Zauli Luca Biancini Grafica e impaginazione Jan Guerrini/Cambiamenti per Divisione immagine Cerdomus Coordinamento editoriale Alessandro Antonelli Valentina Baruzzi Redazione Alessandro Antonelli Valentina Baruzzi Marcello Cicognani Viola Emaldi Stefania Mazzotti Giuseppe Sangiorgi Carlo Zauli Foto Archivio Cerdomus Archivio Centro Etnografico della CiviltĂ Palustre Archivio Fattoria Paradiso Valentina Baruzzi Jan Guerrini Danilo Tozzi

si ringrazia per la preziosa collaborazione Maddalena Becca/Divisione immagine Cerdomus Traduzioni Omnitrad, Riolo Terme Stampa Litographicgroup ŠCERDOMUS Ceramiche SpA tutti i diritti riservati Autorizzazione del Tribunale di Ravenna nr. 1173 del 19.12.2001


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