N
onostante una largamente condivisa opinione voglia che non vi siano più stagioni, il calendario solare suggerisce
l’ingresso dell’autunno.
ee rimane legato all’immaginario classico
proprio di questa fase del ciclo stagionale, la sua livrea vira verso tonalità pastello, mentre se ne vela delicatamente la lucentezza. Quello autunnale è poi un periodo caro agli animi malinconici; a loro
ee narra dei luoghi che incorniciarono l’incontro tra il Poeta e Beatrice,
mostra i solchi dei sentieri percorsi dagli antichi cavalieri templari… Se poi la vostra indole è di spirito contemplativo, accettate il confidenziale invito di
ee: sistematevi comodamente,
magari nel ventre di una veranda, ad osservare il freddo che inizia a violare l’aria, accompagnando questa vista con un calice di vino, nel quale magari affogare un fragrante brazadéll. La Redazione di
ee
Though it's often said the seasons don't exist any more, autumn is in the air once again. With this edition of ee we've remained faithful to the classical canon of autumnal imagery, with a predominance of pastel tones to capture the thickening lustres of fall. Autumn is especially dear to those with a melancholy disposition; it's to these people that ee dedicates this edition, with some particularly evocative articles on the place that formed the backdrop for the trysts of Dante and Beatrice, exploits of the Knights Templar of old, and more… If you're contemplative by temperament, therefore, accept our kind invitation: sit yourself down (on your veranda if you have one) and feel the cold that's beginning to crisp the air, pour yourself a glass of wine and (if you have any), dip some freshly-baked brazadéll in it as you leaf through our pages. The editorial staff of ee
E d ito ria le
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acqua terra fuoco aria
Ma u ro F e r re t t i
Testimonianze Templari nel l a Val l e del L am one , fra For lì, Fa e nza e Rav e nna
Maghinardo dé Pagani fondò una torre che dominava l’alta Valle del Lamone, detta da Plinio Anemo, attorno al 1200.
D
iede origine al Castrum Brasichellae (Brisighella) nel luogo in cui cento anni prima fu edificata la pieve di S. Giovanni in Ottavo detta del Tho. Stupendo monumento romanico a otto miglia da Faenza sull’antica
strada che univa l’Emilia Romagna all’Etruria, racchiude vestigia romane, paleocristiane e alto medievali. Da vedere la cripta che evidenzia le strutture di edifici sacri preesistenti. Scendendo lungo il Lamone entriamo a Faenza da Porta Montanara percorrendo l’attuale Viale Marconi, dove
è situato il rifacimento ottocentesco della prima mansio Templare: S. Sigismondo, fondata prima del 1180. Esiste ancora un agglomerato medievale di antiche case che facevano parte dell’area Templare a ridosso della cinta muraria. Nel quartiere medievale di Borgo Durbecco si trova la chiesa della Commenda, S. Maria Maddalena del 1137 che fu gestita a lungo come ospitale per pellegrini da diversi Ordini tra cui Templari e Giovanniti. E’ molto interessante perché praticamente intatta, ad aula unica, campanile coevo ed elegante chiostrino a doppio ordine di colonne con terrecotte e ornato da stemmi nobiliari e cavallereschi. Proseguiamo sull’antica Via Emilia verso Forlì per incontrare circa tre chilometri prima del Rio Cosina, antico confine tra i due comuni medievali, l’Ospedale Templare di S. Giacomo e Cristoforo del Cerro in angolo con la via del Cerro e vicino a via Cavaliera, all’altezza del Castello di Basiago.
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I S e n s i d i R o m ag na
foto d’archivio
foto d’archivio
“Sono leoni in guerra e agnelli pieni di dolcezza nelle loro case. Sono rudi cavalieri nel corso delle spedizioni militari ma simili a eremiti nelle chiese. Sono duri e feroci contro i nemici di Dio e
foto d’archivio
prodighi di carità verso gli uomini pii e timorati di Cristo [...] e tutte le volte che i cavalieri erano chiamati alla battaglia, essi domandavano non quanti fossero i nemici, ma in che luogo si trovassero [...]” Jacques de Vitry
Entriamo quindi a Forlì, città particolarmente ricca di insediamenti Templari tuttora esistenti: San Bartolomeo, S. Maria da Scofano e San Giovanni in Via. Per quanto riguarda la prima è stata opportunamente restaurata e trasformata in un ottimo ristorante: “La Casa Rusticale dei Cavalieri Templari” che propone oltretutto antiche ricette medievali continuando la tradizione di ospitalità Templare. E’ stata fondata prima del 1200 e comprendeva la chiesetta, con casa rusticale e portico, aia, pozzo, forno, macine da spalto, stalle e fienile. S. Maria de Scofano o de Scossalis fu fondata nel 1256 ed era la principale mansio di Forlì, ne rimane solamente la casa conventuale in Viale Bologna, 120 presso il fiume Montone. San Giovanni in Via è invece localizzata presso la casa chiamata “Magione” situata in contrada Schiavonia all’angolo tra corso Garibaldi e vicolo Farabattolo. L’antico pellegrino poteva aggirare da destra la cinta muraria di Forlì, avviarsi verso S. Martino in Strada, attraversare il fondo Templare del Ponte delle Rose e quindi raggiungere la Mansio di Meldola chiamata S. Maria Biaque, oggi S. Giovanni Battista. Era, questa, posizionata sull’antica via medievale che da Forlì giungeva nel Casentino attraverso il valico della Calle, passando per S. Martino in Strada, Meldola e la Valle del Bidente. A ovest della mansio esiste tuttora un grande edificio rusticale chiamato “Magiona” che ospitava pellegrini, crociati e cavalieri in attesa di valicare gli Appennini. Era posizionato, come spesso accadeva, alla confluenza di due fiumi: il Ronco e il Rio dei Cavalli. All’interno della chiesetta, ora inglobata in un’elegante abitazione privata dai gentili proprietari, si trova, ben celato dietro una tela settecentesca, il più antico affresco di Meldola: S. Giovanni Battista con la Madonna e il Bambino. Anche i Cavalieri, Sergenti, Conversi, di queste mansio periferiche o rustiche applicavano rigorosamente e quotidianamente la Regola in latino dell’Ordine. Mentre la Prima Regola adottata in Terrasanta fu quella di Sant’Agostino, non vi è dubbio che dal 1128 in poi, dopo il Concilio di Troyes, ne sia stata creata una assolutamente originale; soprattutto per la necessità di coniugare per la prima volta due realtà molto diverse tra loro: l’essere Monaci e l’essere Cavalieri. L’antica Regola latina si componeva di settantadue articoli: i primi sette inerenti l’aspetto monacale e religioso dell’Ordine. Gli undici articoli successivi riguardanti i ritmi della vita quotidiana, come e cosa mangiare, quando digiunare, quando fare penitenza. Dall’articolo 20 al 29 si stabilisce il vestiario, il modo ed i tempi di impiego dello stesso. Dal 30 in poi vengono trattati gli aspetti prettamente militari, l’assistenza agli ammalati e le norme contro la lebbra, alcuni divieti tra cui quello di non bere smodatamente e argomenti vari ed indispensabili ad una comunità monastica: la Te rrito rio
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foto d’archivio
disciplina era molto rigida. Negli ultimi tempi di vita dell’Ordine gli articoli divennero addirittura seicentoottantasei. Lasciamo Meldola inerpicandoci sulle dolci colline forlivesi e dopo aver raggiunto la famosa Rocca delle Caminate scendiamo a Predappio ove è il sepolcro di Mussolini, vicino alla stupenda pieve di S. Cassiano in Appennino dell’XI secolo con particolari decorazioni scultoree a temi zoomorfi e vegetali romanici. Raggiungiamo poi il letto del fiume Montone per ammirare il turrito borgo di Castrocaro Terme con i bastioni quattrocenteschi di Terra del Sole che difendeva la via della pianura. Costeggiando sempre il fiume Montone, aggiriamo Forlì e ci avviciniamo alla meta di questo itinerario: la città di Ravenna sede del famoso Arcivescovo Inquisitore Rinaldo da Concorezzo, così importante per le ultime vicende dei Templari italiani negli anni 1303-1321. Mentre in Toscana i Templari furono processati con l’uso della tortura e quindi trovati ovviamente colpevoli, nella provincia ecclesiastica di Ravenna furono assolti con formula piena nel Concilio del 1311, condannando altresì per la prima volta l’uso di ogni forma di tortura e pressione fisica e psicologica come mezzi processuali. Formula tanto moderna, che si dovrà attendere la Rivoluzione Francese e Cesare Beccaria per vedere ripristinata la vera giustizia perlomeno sulla carta. Sicuramente il grande poeta Dante Alighieri, plaudì a questa decisione dell’Arcivescovo, suo contemporaneo ed attiguo in quegli anni, visto che Dante soggiornò a Ravenna dal 1317 al 1321 ospite dei Da Polenta. Anche a Ravenna i Templari tenevano un grande Hospitale, probabilmente fuori Porta Aurea, di cui non rimangono più notizie né vestigia. Fondamentale invece è visitare la città, ed in particolare la Basilica di S. Vitale eretta nel 525 dC miracolo dell’arte paleocristiana bizantina in Italia. Abbinata ad essa è il Mausoleo di Galla Placidia anteriore al 450 dC con gli splendidi mosaici di fattura classica. Da non perdere la chiesa fatta erigere da Teodorico agli inizi del VI secolo per gli Ariani: S. Apollinare Nuovo dall’elegante campanile cilindrico. Altre chiese assai interessanti sono S. Giovanni Evangelista e S. Francesco con la cripta tuttora allagata del IX secolo e vicino il tempietto con la tomba del sommo poeta Dante qui sepolto il 14 settembre 1321. Imponente è poi il Mausoleo di Teodorico fatto erigere nel 520, in stile romanico-barbarico con un enorme blocco di marmo istriano quale copertura, del diametro di undici metri e alto oltre tre; il Re temeva infatti che il cielo sarebbe potuto cadergli in testa anche dopo morto e così si premuniva. Come ultimo spunto ci dirigiamo verso il mare che a quei tempi lambiva la splendida Basilica di S. Apollinare al Porto di Classe, antico punto di partenza della potenza navale bizantina in Italia.
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I S e n s i d i R o m ag na
foto d’archivio foto d’archivio
The tower that dominated the upper Lamone valley, which Pliny calls Anemo, was founded by Maghinardo dé Pagani around 1200. It was the origin of the hill settlement known as Castrum Brasichellae (Brisighella), which occupied the site where, a hundred years earlier, the church of S. Giovanni in Ottavo (known as Pieve del Tho) was built. This remarkable Romanesque temple, eight miles outside Faenza along the old road that linked Emilia Romagna to Etruria, has remains from the Roman, early Christian and protomedieval periods. The crypt, which still preserves the outlines of the earlier structures on the site, is well worth seeing. Following the Lamone downstream we enter Faenza by Porta Montanara and continue along Viale Marconi, with the eighteenth-century reconstruction of the region's first Templar house, S. Sigismondo, founded some time before 1180. Nearby, against the town walls, there also survives a small nucleus of medieval houses which once belonged to the precinct under the control of the Templars. In the medieval quarter of Borgo Durbecco stands the Templar church of S. Maria Maddalena, dedicated in 1137 and for a long period the hospital for pilgrims of various religious orders including, but not limited to, the Knights Templar and the Order of St John. S. Maria Maddalena is extremely interesting as it's practically intact: an aisleless church with contemporary campanile and an elegant cloister with a double order of columns with terracotta decoration and the ensigns of nobles and knights. Further along the old Via Emilia in the direction of Forlì, two miles before Rio Cosina, the ancient frontier between the medieval domains of Forlì and Faenza, on the corner of via del Cerro near via Cavaliere, stands the Templar house of S. Giacomo e Cristoforo del Cerro. Forlì itself is especially rich in Templar treasures, including San Bartolomeo, S. Maria da Scofano and San Giovanni in Via. The first of these churches has been recommissioned as a restaurant, “La Casa Rusticale dei Cavalieri Templari”, whose exceptional menu includes a selection of medieval recipes in continuation of the Templar tradition of hospitality. San Bartolomeo was founded in 1200 and comprised a chapel, rural house and porch, threshing floor, well, oven, millstone, stable and barn. S. Maria de Scofano (or de Scossalis) was founded in 1256 and was Forlì's principal Templar house; all that remains of it today is the monastery at Viale Bologna 120, near the river Montone. San Giovanni in Via stands near the “Magione” house in contrada Schiavonia, on the corner of corso Garibaldi and vicolo Farabattolo. Pilgrims could walk round the walls of Forlì, turn in the direction of S. Martino in Strada, cross the Templar property of Ponte delle Rose and come to the Templar house of S. Maria Biaque, now S. Giovanni Battista, in Meldola. S. Maria Biaque stood on the old medieval road which led from Forlì to the Casentino through the Calle pass via S. Martino in Strada, Meldola and Valle del Bidente. The large building which stands just to the west is the Magiona, which lodged pilgrims, crusaders and knights in transit on their way over the Apennines. It was located, as often occurred with the Templars, at the confluence of two rivers, the Ronco and the Rio dei Cavalli. Inside the church, which is now incorporated into a private residence, well hidden behind an eighteenth-century painting is Meldola's oldest fresco: The Baptist with Madonna and Child. All occupants of this house – knights, serjeants and lay brothers – daily and rigorously observed the order's rule, which was in Latin. Although the rule first adopted by the order in the Holy Land was that of St Augustine, from 1128 onwards – after the Council of Troyes – a new and wholly original rule was created in an attempt to reconcile for the first time two very different modes of incorporation: the monastic and the military. The old Latin rule had comprised seventy-two articles: the first seven addressing the monastic and religious aspects of the order, the next eleven prescribing rules for daily life, such as how and what to eat, when to observe fasts, or when to do penitence. Articles 20 to 29 laid down regulations on what to wear and when; articles 30 onward contained prescriptions on the military aspects of the order and on the obligation to give help to the sick, and also contained instructions on how to combat leprosy, a number of prohibitions including one on heavy drinking, and a host of other provisions essential to the smooth running of a monastic community: discipline was very strict. In the final years of the order its rule numbered 786 articles. Leaving Meldola, we now climb the gentle declivities of the Forlì hills to the fort of Rocca delle Caminate on the summit before descending to Predappio, where the tomb of Mussolini lies near the fabulous 11th-century church of S. Cassiano in Appennino with its unique Romanesque carvings on animal and vegetal themes. Further down, on the banks of the Montone, lies the towered village of Castrocaro Terme where the fifteenth-century Terra del Sole watched over the road through the plain. Following the course of the river we finally come to our last stop, the town of Ravenna, headquarters of the archbishop-inquisitor Rinaldo da Concorezzo, who played so important a role in the fortunes of the Italian Templars in 1303-1321. While in Tuscany the Templars had to endure trial by torture (which meant they would inevitably be found guilty), in the ecclesiastical province of Ravenna they were spared this ordeal by the Council of 1311, which for the first time condemned the use of torture and physical or psychological coercion as a part of legal procedure. These prescriptions were so "modern" that not until the French Revolution and Italian legal reformer Cesare Beccaria would anything similar be set down on paper. Dante Alighieri himself must have applauded the decision of the archbishop, his contemporary and neighbor – Dante lived in Ravenna from 1317 to 1321 as a guest of the Da Polenta family. The hospital of the Templars in Ravenna was known to have been a large one, and was probably located outside the town on via Porta Aurea, but no traces of it now remain. The town itself is essential viewing, especially S. Vitale, the early Christian church which is the masterpiece of Byzantine art in Italy, built in 525 AD. Next to S. Vitale is the Mausoleum Galla Placidia, which dates from before 450 AD and has some splendid classical mosaics. Also not to be missed is S. Apollinare Nuovo, the early 6th-century Arian church built by Theodoric, with its elegant cylindrical campanile. Other churches of interest in Ravenna include S. Giovanni Evangelista and S. Francesco, with its 9th-century crypt (flooded) and nearby the chapel in which lies the tomb of the poet of poets, Dante, buried here on 14 September 1321. Also impressive is the Mausoleum of Theodoric, built in 520 in a debased Roman style with an enormous block of Istrian marble as its roof, eleven meters across and three high; the Gothic king was afraid that the sky might fall in on him (even dead) and took the requisite precautions. One final word goes to the splendid basilica of S. Apollinare al Porto di Classe on the seafront, formerly the main naval base of the Byzantine fleet in Italy.
foto d’archivio
ON THE TRAIL OF THE TEMPLARS_ IN THE LAMONE VALLEY BETWEEN FORLÌ, FAENZA AND RAVENNA
Te rrito rio
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Se re n a Togn i
Portico di Romagna l uogo del l ’i mpossibile incontro tra il Sommo Poe ta e la su a M u sa
foto d’archivio
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“Eppure come non si può, almeno una volta, domandare di Beatrice? Chiedere con garbato sorriso della reale esistenza di questa donna? [...] Accadde che la fanciulla morì in così fresca età, nello splendore, e il suo ricordo si trasfigurò, la sua immagine si intrise di ogni conquista dello spirito, diventò il segno della virtù, della teologia, della filosofia.” Mario Tobino
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I S e n s i d i R o m ag na
L’antico borgo, la natura seducente, le suggestioni letterarie: un inscindibile connubio che rende Portico di Romagna un luogo intriso di singolare fascino, eccezionale frammento di medioevo fra la Romagna e la Toscana, straordinario nella sua unicità.
I
l nome deriva dal latino “porticum", il luogo del mercato, elemento architettonico che predomina ancora nel cuore del paese, e solo
nel XX secolo fu aggiunta al toponimo la dicitura che sottolinea l’appartenenza alla Romagna, alla quale il Comune fu annesso nel 1923 per istanza di Mussolini. Portico conobbe il periodo di massimo splendore in epoca comunale quando, dopo essere stata a lungo contesa fra i conti Guidi, i Visconti di Milano e la Repubblica di Firenze, nel 1386 passò definitivamente sotto quest’ultima, divenendo la capitale della Romagna Toscana. La lunga dominazione fiorentina ha lasciato un’evidente impronta alla città, che mantiene ancora intatta l’originaria struttura urbanistica, tipicamente medioevale, di tre piani distinti collegati tra loro da ripidi passaggi, chiara allusione alla rigida piramide sociale del tempo. Nella parte alta, il nucleo più antico, sorgevano il Castello fortificato dei Conti Guidi, di cui rimane solo una torre, e la Pieve di Santa Maria in Girone, rispettivamente simboli del potere politico-militare e religioso. Il girone più basso, costruito sul fiume, era destinato alle abitazioni di artigiani, servi e popolani ed è caratterizzato dalle pittoresche casette a torre, alte e strette, che costituivano l’antica cinta muraria. E’ proprio qui che il Montone viene attraversato dall’elegante arcata a schiena d’asino del Ponte della Maestà, che conserva perfettamente la sua pavimentazione in pietra. Ma il centro nevralgico del paese è sempre stato il piano intermedio, dove si trovavano i portici del mercato e i palazzi nobiliari, edificati a partire dal XIII secolo da
PORTICO DI ROMAGNA_ THE PLACE WHERE DANTE (NEVER) MET HIS MUSE A charming old village with literary associations: it's a combination which makes Portico di Romagna, an exceptionally beautiful fragment of the Middle Ages between Romagna and Tuscany, a fascinating place with a unique charm. The village's name derives from the Latin porticum, marketplace, which is still the predominant architectural feature in the heart of the village. Not until the twentieth century was "di Romagna" added to underline the fact that the village belongs to Romagna, to which it was annexed in 1923 by order of Mussolini. Portico's golden age was in the Middle Ages when in 1386, after long being disputed among the Guidi counts, the Visconti of Milan and the Florentine Republic, the village passed definitively under the control of Florence as the capital of Tuscan Romagna. The long Florentine domination has left a deep imprint on the village, which still retains its typically-medieval street layout, built on three distinct levels interconnected by steep passageways – a clear allusion to the rigid social hierarchy of the day. In the oldest, uppermost part of the village stood the castle built by the Guidi counts – of which only a single tower now remains – and the church of Santa Maria in Girone, respectively symbols of temporal and religious power. The lowest part of the village, built right over the river, was designed for the houses of artisans, servants and the popular classes and features picturesque tower-like houses, tall and narrow, that were part of the ancient town walls. It's here that the river Montone is forded by the elegant stone hump of Ponte della Maestà, which has preserved its stone paving flags in perfect condition. But the nerve centre of the village has always been on the middle level, home to the market and the palazzi of the local nobility, some dating back as early as the 13th century and built by the powerful Romagnol and Tuscan families who sought refuge in Portico from bloody political conflict elsewhere. Among these distinguished buildings are Palazzo Mazzoni, Palazzo Traversari, and Palazzo Portinari, which according to tradition once belonged to Folco Portinari, father of Dante's Beatrice. Legend relates that it was here in Portico that love first blossomed between the poet, exiled from his native Florence and living in the castle of the Guidi counts, and the young Beatrice, on holiday with her family. Historians shudder at such tales however, and harp on the fact that Beatrice died in 1290 while Dante did not arrive in Portico until around 1302. But the fascination of the village, where time seems to have frozen some centuries back, is highly conducive to flights of historic licence: it's enough just to walk its evocative, tortuous streets for a few minutes to feel yourself transported right back to the Middle Ages; around the next corner, you feel, you might run into Dante, chastely contemplating his muse.
potenti famiglie romagnole e toscane che a Portico cercarono rifugio dalle sanguinose lotte politiche. Tra questi spiccano Palazzo Mazzoni, Palazzo Traversari, ma soprattutto Palazzo Portinari, che secondo la tradizione appartenne a Folco Portinari, padre di Beatrice, la celebre donna cantata da Dante Alighieri. La leggenda narra che proprio a
tura con la famiglia. Gli storici rabbrividiscono a questi racconti e ribattono che Beatrice morì nel 1290 mentre Dante fu a Portico intorno al 1302, ma il fascino del borgo, dove il tempo sembra essersi fermato a quel secolo, pro-
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presso il castello dei conti Guidi, e la giovane fanciulla, in villeggia-
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Portico sbocciò l'amore tra il poeta, esiliato dalla patria e ospitato
voca facili allucinazioni: è sufficiente passeggiare pochi minuti fra le sue tortuose e suggestive stradine del paese per essere catapultati nel pieno Medioevo e sorprendere il Poeta a contemplare castamente la sua musa ispiratrice. Te rrito rio
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M a n l i o Rastoni
Ribelli o masnadieri, additati a briganti s i ngol are a mbiguitĂ di un te r mine e ntro i confini ro m ag n o li
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Sarebbe forse più esatto trasferire l’aspetto ambiguo dal vocabolo in sé al tono con cui esso è stato e viene ancora pronunciato attraverso più di due secoli.
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n realtà si ha notizia dell’imperversare in Romagna di bandacce brigantesche fin dal tardo Medioevo, tuttavia solo lungo
l’ultimo arco del fenomeno comincia ad affiancarsi al significato universalmente negativo del termine un’accezione diversa, condita da un accento che tradisce una malcelata simpatia per i soggetti in questione. E’ innegabile che, tanto la fantasia popolare, quanto la penna di alcuni scrittori dell’epoca in cerca d’ispirazione abbiano travisato, trasformato, quando non inventato di sana pianta episodi riguardanti i più celebri nomi del brigantaggio locale, convertendoli in eroi più simili a quelli che animarono i canoni cavallereschi. Secondo queste fonti ad esempio, Stefano Pelloni, in arte il Passatore si sarebbe reso addirittura protagonista della vendetta contro gli assassini della moglie di Garibaldi, arrivando ad offrire a quest’ultimo il suo aiuto per sfuggire a coloro che lo stavano braccando. La più prosaica versione fornita dalle cronache del tempo racconta un’altra verità, costituita dal furto dei gioielli della deceduta, allo stesso modo la leggenda del brigante che ruba ai ricchi per dare ai poveri va probabilmente riletta attraverso la chiave della furbizia di un criminale che sapeva ben pagare il silenzio di chi avrebbe facilmente potuto denunciarlo per riscuotere la ricca taglia. Insomma, i pretesi eroi della rivolta popolare contro re e papato non si sarebbero mai tirati indietro davanti alle più barbare pratiche di intimidazione, omicidio e mutilazione. Il brigante soprannominato il Sordo era, ad esempio, noto per l’impressionante collezione di macabri trofei spesso provenienti da gesti di ira immotivata, atti che contraddistinguevano notoriamente anche la condotta di numerosi suoi “colleghi” quali il Cherubino, il Macciò il
Lazzarino ed innumerevoli altri. immagine d’archivio
S to ria
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Giovanni Manzoni
riportato da
Verso popolare,
e non avrai angherie.
Dacci il passo
non fare pazzie
Se ci incontri
e doniamo malanni
Noi teniamo le vie
e morte ai tiranni
Morte alle spie immagini d’archivio
The ambiguity, however, perhaps belongs not in the term itself but rather in the way it has been used, and continues to be used, for over two centuries. Although records show that Romagna had been afflicted by banditry since the late Middle Ages, it's only gradually that an alternative acceptance to a term of universally negative connotation has begun to emerge, spiced with an intonation which betrays an ill-concealed sympathy with the character in question. Of course, popular imagination has done as much as the pens of writers hungry for inspiration to embellish, distort or downright invent the exploits of some of the most famous local brigands, turning them into the heroes that populate the tales of chivalry. According to such sources, for example, the brigand Stefano Pelloni, a.k.a. il Passatore, was in fact one of the leading figures in the revenge wreaked upon the killers of Garibaldi's wife, and even offered to help Garibaldi escape his pursuers. A more prosaic contemporary account relates quite another story which includes the theft of the deceased's jewelry. Then there is the legend of the brigand who robs from the rich to give to the poor; this is probably a distillation of quite another reality, the shrewdness of the criminal who was careful to buy the silence of those who could quite easily sell him out for a handsome bounty. It's unlikely, then, that the so-called heroes of popular revolt against crown and papacy would ever have shirked from even the foulest intimidation, murder and mutilation. The bandit nicknamed il Sordo (the deaf one), for example, was known for his remarkable and macabre collection of "trophies", often culled from spontaneous acts of brutality, acts which also characterize the conduct of many of his fellow bandits such as il Cherubino, il Macci, il Lazzarino and countless others. But the chronicles also relate the occasional episode of mutual respect between people and outlaws, such as the events which unfolded near Argenta in January 1851, when a band of brigands on their way back from a heist asked a peasant for something to eat; the peasant ministered to their needs and refused the recompense offered by the leader of the band. Popular sympathy (understandable enough, coming from those who had nothing to lose anyway) was also aroused by the unconventional exploits of the brigand Abilità, who is not known to have murdered or brutalized anyone. Abilità preferred audacious robberies and spectacular escapes from the clutches of the police, whose ineptitude often elicited sottovoce jeers from the populace. Another key player was the brigand Luigi Camerini, known as Umett, who had a reputation for escaping capture in the most daring and improbable ways. Once he disguised himself as a scarecrow, fooling the police who passed right in front of him. On another occasion he concealed himself in a cattle trough while the cows were enjoying their meal; he later gave their owner some money to buy hay, telling him: “From now on the forage of the livestock shall be on my account, otherwise the next time the carabinieri get stuck in a barn they'll have a field day.” The machinations of a robbery can even be funny when someone else is the victim, as in the case of a band of thieves who had managed to get close to their target by rolling up in barrels, or the one where a certain brigand who managed to break into the villa of a country gentleman by coming down the chimney: he introduced himself saying that this time his chimneysweep's rate would be higher than usual. The fear of ugly encounters also kept landowners away from their estates at harvest time, and it's reasonable to say that those who most benefited from the proceeds of raids were not so much the bandits themselves but the dense undergrowth of go-betweens, fences and informers who populated a the well-fed Court of Miracles. As the major landowners saw their power and influence begin to erode by the end of the 18th century, the peasants slowly began to make their way out of their spiral of misery. As marshland and tanglewood were reclaimed and cleared, the roots of the brigand phenomenon found less and less soil to grip; and these roots were finally extirpated with the advent of the first metalled highways. To cut a long story short: it's a sad but true fact that behind the sobriquets which nowadays bring a smile to our faces were men whose atrocities were anything but amusing. And yet, now their dust has mixed with the dust of their victims and their persecutors, such men should perhaps best be remembered as romanticized symbols of revolt rather than as just one more among the many scourges that have lashed the back of Romagna and its people – for the mere historical description of any of these scourges is a well-trodden path.
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THE RIBELLI OF ROMAGNA_ THE AMBIGUITY OF A UNIQUELY ROMAGNOL TERM
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Le cronache riportano però anche qualche episodio di reciproco rispetto tra popolani e fuorilegge, come il caso occorso nei dintorni di Argenta nel gennaio 1851, quando una banda di briganti di ritorno da una razzia chiese di essere sfamata ad un povero contadino che provvide al necessario ed arrivò a rifiutare la consistente ricompensa offerta in cambio dal capobanda. La simpatia popolare (da parte di coloro che non avevano nulla da farsi rubare), veniva anche eccitata da gesta come quelle dell’atipico brigante Abilità, che non risulta abbia commesso omicidi né crudeltà mentre si limitava a compiere ingegnosi furti accompagnati da fragorose beffe ai gendarmi, da loro spesso apostrofati con sberleffi che il popolino poteva solo serbare chiusi a chiave nel cuore. Altro primo attore dei racconti popolari fu il brigante Luigi Camerini detto Umett, noto per essere più volte sfuggito alla cattura in maniera rocambolesca. Una volta camuffandosi estemporaneamente da spaventapasseri riuscì a farla in barba ai gendarmi che pure gli passarono davanti. Un’altra, usò come nascondiglio una mangiatoia ove le bestie stavano consumando il loro pasto, arrivando a consegnare successivamente al padrone degli animali una somma da investire in fieno, poiché, come ebbe a dire: “Da oggi il foraggio per le bestie mettilo sul mio conto altrimenti, se la prossima volta i carabinieri si incantano un po’ nella stalla, o queste o quelli, mi fanno la festa di sicuro.”. Quando è qualcun altro a subirne i danni, la meccanica con cui si è svolta una rapina può anche apparire divertente, come nel caso in cui una banda di ladroni riuscì ad avvicinarsi indisturbata al proprio obiettivo rotolando dentro alcune botti, o quello in cui un brigante, riuscito a penetrare nella villa di un noto signorotto locale attraverso la canna fumaria, gli si presentò annunciandogli che questa volta lo spazzacamino avrebbe preteso un prezzo più alto del solito. La paura di brutti incontri teneva, inoltre, lontani i padroni dai loro poderi nel momento del raccolto e si può dire che coloro i quali più beneficiarono dei proventi delle razzie, non furono tanto quelli che le portarono a termine, bensì il folto sottobosco di lacchè, ricettatori, informatori che ne costituivano la nutrita corte dei miracoli. Alla fine dell’Ottocento iniziano a vacillare i grandi potentati agricoli, i contadini cominciano lentamente a risalire dalla loro spirale di miseria, territori paludosi e boschi intricati cedono il passo alla bonifica e all’ascia, le radici del fenomeno brigantesco si impoveriscono quindi progressivamente, fino a venir recise dall’avvento delle prime strade ferrate. Volendo, ora, a tutti i costi giungere ad una pur forzata considerazione conclusiva: è tristemente certo che dietro a soprannomi che oggi fan sorridere si celavano uomini la cui efferatezza produceva opposti effetti. E tuttavia, ora che la polvere delle loro ossa si è ormai mescolata a quella delle loro vittime, come a quella dei loro carnefici, la memoria di quegli uomini è forse più utile quale romanzato simbolo d’un sentimento di rivalsa; piuttosto che come ricordo dell’ennesimo fra i troppo numerosi flagelli che hanno scanalato la schiena delle genti romagnole. Fino al punto di rendere la pura descrizione cronistorica d’una di queste piaghe ben poco originale.
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Gi u l i a n o Be t t oli
Il “Bisò”
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dal l ’Inghi l te r ra a Fa e nza , pas s ando p e r Ge r ma nia e Fra ncia, l e peregri n azioni di una pa rola
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“Staséra a fasèn e’ bisò!” diceva mio nonno qualche volta, d’inverno.
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ra festa grande per noi, bambini. Sul fuoco del camino, il paiolo pieno di sangiovese (con l’aggiunta di bucce d’arancia, cannella e chiodi di garofano). Il
profumo, impagabile, che si diffondeva dappertutto, quando si alzava il bollore. Poi quel mezzo miracolo qual era, ogni volta, la fantastica fiamma azzurrognola che si accendeva, con l’aiuto di uno zolfanello, e baluginava a lungo sopra il paiolo, a consumare l’alcool che esalava dal vino bollente (talvolta, però, la fiamma non si accendeva: la rabbia!). E che allegria, poi, berlo: il bisò. Nel freddo delle nostre case d’allora, il bisò con-
Già: il “bisò”. Noi di Faenza, quella bevanda, l’abbiamo sempre e solo chiamata così: bisò.
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fortava mente, cuore; e pancia.
Immaginarsi come ci rimasi, anni dopo, quando sentii qualcuno che, in dialetto e in Romagna, il bisò, lo chiamava “brulé”! Fu nei giorni in cui, combinazione, quel vulcanico promoter della Romagna che fu il dottor Alteo Dolcini, con alcuni suoi soci aveva ideato la “Nott dè Bisò”. In due parole: nella piazza, a Faenza, l’ultima notte dell’anno 1964, apparvero gli operosi stands dei cinque Rioni faentini (Rosso, Bianco, Giallo, Nero, Verde) a far bollire paiolate di bisò rosso sui fuochi, pancetta e salsiccia sulla graticola e, a mezzanotte, il rogo di un gran fantoccio vestito con il colore del rione uscito vinFu inoltre messa in vendita una brocca con cinque gotti in ceramica, opera dell’artista Gaeta (la manifestazione prosegue ancor oggi, sebbene trasferita alla notte dell’Epifania).
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citore dall’ultimo Palio del Niballo. E mucchi di gente a bere bisò e a mangiare.
In quell’occasione, la parola “bisò” fu ufficializzata: difatti, per la prima volta, compariva in forma scritta, sui manifesti in tutta la Romagna. Fuor di Faenza, la gente era rimasta interdetta: “Nott dè Bisò”?! Che diavolo era mai il “bisò”? Ci accorgemmo, allora, che quella parola l’adoperavamo solo noi faentini, e che nei dialetti di tutto il resto della Romagna – per non parlare del resto dell’Italia la parola “bisò” era completamente sconosciuta. Da dove era arrivata a Faenza? Quale ne era l’etimologia? Un bello spirito, strizzandosi il cervello, provò ad inventarsi che il termine faentipena. Gli ridemmo in faccia. La soluzione dell’enigma, come sempre, era lì, sotto gli occhi di tutti, ma ci voleva chi, gli occhi, li avesse aperti.
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no “bisò” derivasse dall’espressione dialettale “dbì sò”, cioè “orsù bevete”. Una
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“BISÒ”_ - FROM ENGLAND TO FAENZA VIA GERMANY AND FRANCE - THE STORY OF ONE WORD’S ODYSSEY “Tonight we make bisò!” my grandfather used to say in his dialect, of a winter's evening. This word conjured up magic for us children. In the fireplace, a pot full of Sangiovese wine spiced with orange peel, cinnamon and cloves. The aroma as it came to the boil, priceless, all-pervading. Then, the sense that a minor miracle was taking place every time the fantastic blue flame came to life at the prompting of a lit match, glimmering above the pot as it consumed the alcohol fuming from the boiling wine (when the flame lit, of course; which wasn't always at the first attempt!). And then the delight of drinking it. Bisò. In a cold house as houses were in those days, bisò warmed our hearts and minds as well as our bellies. Bisò – that's what we call it in Faenza, and all we've ever called it. Imagine how I felt, then, when years later I heard someone, in Romagna and in dialect, refer to it as “brulé”! By coincidence, it was back in those same days that the exuberant Romagnophile, Alteo Dolcini, had hatched the idea of the Nott dè Bisò (Night of Bisò) with some of his cronies. What the Nott dè Bisò came down to was this: in the piazza in Faenza on the last night of the year 1964 stood five busy stalls, each decked out in the colors of the five wards of Faenza (red, white, yellow, black, green), each with a bubbling cauldron of red bisò on an open fireplace, pancetta and sausage sizzling on a gridiron – and at midnight, an effigy consigned to a pyre, dressed in the colors of the ward which had won that year's Palio del Niballo. And crowds of people, drinking bisò and eating. Another event of the evening was the sale of a pitcher and five ceramic tumblers by the potter Gaeta (the tradition survives to this day, though it's now been moved to Epiphany). It was in those days that the word bisò gained "official" sanction – for it was then, for the first time, that it appeared in writing, in bills posted all over Romagna. Outside Faenza, however, the bills left people perplexed: “Nott dè bisò?!" they'd ask. And what the hell was bisò? It was then that we realized that the word belonged to Faenza alone, that in all the other dialects of Romagna – not to mention the rest of Italy – the word bisò meant absolutely nothing. So how had it come to Faenza? And where had it come from? One bright spark came up with the idea that bisò derived from the dialect dbì sò, or "come on now and drink". A pitiable effort for which people laughed in his face. The solution to the enigma, as usual, was right there before our eyes – all we had to do was open them. First to do so was Mario Rosetti, an ex-footballer with Faenza's local soccer team and a tireless and diligent citizen. At a bouquiniste's stall one day he came across an old copy of an 18th-century French dictionary, Littré's Dictionnaire de la langue française. Leafing through it, his eyes fell on the word bischof, which was defined as "a hot, spiced wine”. There it was, word for word: Faenza's own bisò! And there was more: the dictionary stated that it was an anglicism. So the word had come into French from English. From there on, things became easier. Rosetti's son, Marcello, helped considerably in unraveling the mystery in his rummagings through the library of the university of Bologna. The gist of the story of how Rosetti father and son eventually succeeded in tracing the long march of the term bisò from England to Faenza via Germany (where it also entered the language) and France is as follows. The word bishop has two further acceptations in English: “one of the pieces in the game of chess” and “mulled wine”. The analogy would seem to derive from the violet color of the drink, since violet is the color worn by bishops. The slightly profanatory nature of the association is clear. In England, instead of saying “I'll drink a nice glass of mulled wine,” an anticleric could have the satisfaction of saying: “I think I'll throw back a bishop”. The first written instance of bishop in its enological acceptance dates from 1738 in a passage by Jonathan Swift, the author of Gulliver's Travels. Two beverages of similar nature are also recorded from Swift's day, "cardinal" and "prelate", again thought to owe their names to their color – cardinal was made from white wine and prelate from burgundy. And once again the clergy found itself embroiled in dangerous liaisons with the demon drink… The alcoholic association of the term is later found in Germany, where the first instance of bischof, meaning a warm spiced wine, dates from 1774. In France, bischof was gallicized as bichof, again meaning mulled red wine – and not "bishop", for which the French made do with their own word, évêque. The first written record of bichof in France dates from 1838. The word must then have come south into Italy, where it gained currency in Faenza alone. And the rest of the story? That's yet to be told.
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I S e n s i d i R o m ag na
Quello fu Mario Rosetti: ex calciatore del Faenza, sempre impegnato in numerose iniziative cittadine. In una rivendita ambulante trovò, casualmente, un vecchio vocabolario francese dell’Ottocento: il Dictionnaire de la langue française del É. Littré. Chissà perché i suoi occhi corsero e si focalizzarono sulla parola bischof, fino alla relativa spiegazione: “Vino caldo e aromatizzato”. Era, pari pari, il faentino bisò! Non solo: lo stesso vocabolario indicava che si trattava di un anglicismo. La parola era, quindi, giunta Di lì, il resto è venuto da solo. A Mario Rosetti ha dato una mano il figlio, Marcello, andando a frugare nella biblioteca dell’Università di Bologna.
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in Francia, provenendo dall’Inghilterra.
Di seguito riporto il succo delle ricerche dei due Rosetti sul lungo peregrinare del termine bisò dall’Inghilterra sino a Faenza, attraverso la Germania (eh sì, anche in terra teutonica) e la Francia. Bishop, che significa “vescovo”, come tutti sapete, se aprite un dizionario inglese-italiano, ha ancora oggi altre due accezioni: “Alfiere del gioco degli scacchi” e “Vino brulé”. L’analogia vescovile è evidentemente legata al color violetto della bevanda, colore caratteristico anche degli abiti del vescovo. E’ evidente il carattere un po’ profanatorio di un simile accostamento. “Mi bevo un bel bicchiere di brulé”, in Inghilterra, ad un anticlericale dava la soddisfazione di dire: “Mi bevo un bel bicchiere di… vescovo!”. La prima citazione scritta del termine bishop, nell’accezione enologica, si ritrova nel 1738 in un passo di Jonathan Swift, il famoso autore de I viaggi di Gulliver. Anzi, in quel periodo si ha notizia di altre due bevande simili, dette cardinal (cardinale) e prelate (prelato), a base, rispettivamente, di vino bianco e di borgogna. Clero e alcool venivano dunque gemellati a viva forza! Dall’Inghilterra, il termine abbinato al suo significato “alcolico” trasmigra in Germania ove, nel 1774, si ha la prima testimonianza scritta di bischof, “vescovo”, col significato di vino aromatizzato e riscaldato. Altra tappa del Tour è la Francia, dove bischof si francesizza in bichof, mantenendo il solo significato di vino rosso caldo e aromatizzato. Per i transalpini si tratta di un vero e proprio anglicismo perché, com’è noto, “vescovo” in francese si dice “évêque”. In Francia appare usato, in forma scritta, nell’anno 1838. Poi, chissà quando, ridotta solo a bisò, la parola si trasferisce in Italia, ma si ferma solo a Faenza. Saprà mai qualcuno spiegarne il perché?
Comunicare l'un l'altro, scambiarsi informazioni è natura; tener conto delle informazioni che ci vengono date è cultura. Johann Wolfgang Goëthe
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E l i s a Palm a
Montale e “Dora Markus” l ’eni gmatica poe sia che ha re so nota Por to Corsin i
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I S e n s i d i R o m ag na
MONTALE AND DORA MARKUS_ THE ENIGMA OF THE POEM THAT PUT PORTO CORSINI ON THE MAP In the early 1920s, Porto Corsini (renamed Marina di Ravenna in 1933) was a nondescript town of fishermen and farm labourers. It was a difficult period, with the surrounding region seeking to break a vicious circle of malaria and poverty by developing its natural assets for tourism. One early visitor who came to the town in a “motionless, unsung spring” later immortalized his visit in words: the Ligurian Nobel Prize-winning poet Eugenio Montale. As Montale himself later recounted, the stimulus for the composition of his poem came from a friend's description of a woman he had recently met – singing the praises of her marvellous legs, he invited Montale to dedicate a poem to her. The unknown lady was Dora Markus. His friend had attached a photo of her in his letter: elegant shoes, a skirt discreetly hiked up to uncover the knees… and nothing more. No face. After the publication of the poem, whenever he was asked about the woman who had inspired it, Montale was careful to stress that he had never met her in person. In fact, he claimed he had written a draft of the first part of the poem in 1926 – while letter and photograph dated from 1928. The second part, in a quite different mood, was added some thirteen years later. And yet even today critics and scholars have their doubts about Montale's claims; some even maintain that Dora Markus was simply a figment of the poet's imagination. Montale himself, with his wilful reserve on the subject, seemed to want the subject to remain shrouded in mystery. What we can affirm beyond doubt is that Dora Markus is certainly alive and breathing in Montale's poem and in the impressions he recorded during his visit to the town – the perfect backdrop against which their never-accomplished encounter could take place. “It was where the wooden pontoon / at Porto Corsini leads out to sea” that Dora pointed out her distant homeland across the water. And as they walk “the canal as far as the dockyard / glistening with soot”, the couple come to Ravenna with its Byzantine heritage, Ravenna “where life is old / and [which] in stippled light longs softly / for the Orient”. For the modern traveller who retraces their steps, some, but not all, of the scene has changed. The "wooden pontoon" – the wooden jetty that overlooked the entrance to the harbour and canal – is now a long concrete wharf where fishermen, now as then, repair their nets under the shadow of the still-surviving lighthouse. The seagulls still fly into it on stormy evenings, just as Montale noted; maybe it was this very image that suggested to the poet the restlessness he ascribed to his muse. Today, Marina di Ravenna has renamed its Piazza dei Mille as Piazza Dora Markus, in honour of the famous poem she inspired. Mosaics based on the poem decorate the piazza.
Prima metà degli anni ’20; Porto Corsini (rinominata poi Marina di Ravenna nel 1933), non è che un piccolo borgo di pescatori e braccianti.
S
ono anni duri, in cui il paese sta cercando di uscire dal faticoso trascorso di malaria e miserie sfruttando le oasi naturali del territorio
per lo sviluppo turistico. A visitarne le bellezze, durante una “primavera inerte e senza memoria”, e ad inciderne per sempre il ricordo con la potenza evocativa delle sue parole, fu il poeta ligure e Premio Nobel, Eugenio Montale. Come raccontò egli stesso, l’occasione per la composizione della lirica gli venne dalle poche righe di un amico, che descrivendo una donna da poco conosciuta, ne lodava le gambe meravigliose e lo invitava a dedicarle una poesia. Il nome della seducente sconosciuta era Dora Markus. Ad accompagnare il biglietto, una fotografia: scarpe eleganti, la gonna delicatamente sollevata a scoprire le ginocchia… e niente più. Un’identità incompleta. A chi gli domandava, dopo la pubblicazione del componimento a lei intitolato, chi fosse questa musa, Montale si premurava di sottolineare di non averla mai conosciuta di persona. Affermò inoltre di aver avviato la stesura della prima parte della lirica nel 1926, eppure il biglietto e la fotografia risalgono al 1928. La seconda parte, di tono così diverso, fu aggiunta ben tredici anni dopo. Pur tuttavia, ancora oggi critici e studiosi sono dubbiosi circa la sua affermazione e alcuni ritengono Dora Markus un personaggio di fantasia. Montale stesso parve, col suo riserbo, volerne celare il mistero. Quel che è certo, realtà o finzione, è che Dora è viva e palpitante nelle pennellate descrittive dei suoi versi e le impressioni che egli raccolse durante quella visita, divennero lo scenario perfetto entro cui far sbocciare l’incanto del loro, mai avvenuto, incontro. “Fu dove il ponte di legno / mette a Porto Corsini, sul mare alto” che Dora additò al poeta la sua patria lontana, oltre le acque azzurre. E proseguendo lungo “il canale fino alla darsena / della città, lucida di fuliggine”, i due raggiunsero Ravenna, “ dove un’antica vita / si screzia in una dolce / ansietà d’Oriente”, antico retaggio della dominazione bizantina. Oggi, allo sguardo del viaggiatore che ripercorre quei luoghi, il paesaggio appare mutato solo in parte. Il “ponte di legno”, ossia la palizzata costruita per proteggere l’ingresso del porto-canale, è un lungo molo di cemento dove i pescatori, come allora, armeggiano assorti con le loro reti,
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La tua irrequietudine mi fa pensare agli uccelli di passo che urtano ai fari nelle sere tempestose: è una tempesta anche la tua dolcezza, turbina e non appare.
sorvegliato dal vecchio faro ancora esistente. Tuttora i gabbiani lo urtano, come notò Montale, nelle sere burrascose; forse proprio quell’immagine gli suggerì il senso d’irrequietezza che attribuì alla sua ispiratrice. Marina di Ravenna ha intitolato l’ex Piazza dei Mille a Dora Markus, in onore della celebre lirica che l’ha immortalata, decorandola con splendidi mosaici d’autore che ne ritraggono alcuni passi.
Eugenio Montale Pa ssio n i
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Va l e r i a Bar ber ini
Una selezione d’involucri narranti l e s c atol e di fi am mife r i ra cconta no il gusto di un’ e poca
Nata come passione di un sarto faentino, diventa una curiosa collezione da preservare entrando a far parte del patrimonio della Biblioteca di Faenza, per poi acquisire il carattere di una vera e propria raccolta museale colorata e sorprendente. Dieci anni prima del suo tempo una moda è indecente; dieci anni dopo, è orrenda; ma un secolo dopo, è romantica.
James Laver
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uando Giuseppe Donati nel 1935 mostrò al direttore della Biblioteca il risultato di molti anni di paziente raccolta, di certo non era consapevole del valore che andava a depositare: quasi 30.000 immagini ritaglia-
te da scatole di fiammiferi, suddivise in 16 album finemente decorati. Tale insieme, a fondo studiato da Anna Rosa Gentilini, autrice di ricerche specifiche, ci aiuta a delineare un tipo di collezionismo definito “minore” ma largamente diffuso tra Ottocento e Novecento fra i ceti popolari; una passione che si estese più del collezionismo di libri e che anticipò quello filatelico. Il facile reperimento e il basso costo di questi preziosi strumenti del quotidiano, frequentemente tra le mani di casalinghe e fumatori, favorì la diffusione di tale collezionismo che si fece sempre più appassionante grazie alle numerose e diverse immagini che le case produttrici, prima dell’avvento del monopolio, inserivano a decoro delle scatole per invogliarne l’acquisto. Molte sono immagini variopinte di grande fascino e valore, fra i primi esempi di quadricromia ottocentesca. Si incontrano pure scatole in bianco e nero, oppure goffrate a rilievo, soluzioni di stampa e cartotecniche che
EVERY PICTURE TELLS A STORY_ HOW MATCHBOXES RELATE THE TASTES OF AN EPOCH
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What began as the private passion of a Faenza tailor is now a unique collection housed in the Biblioteca di Faenza, where it is one of the brightest and most charming collections on show. When in 1935 Giuseppe Donati showed the director of his local library the fruits of many years of patient collection, he would have had no idea of the value of the deposit he was making: almost 30,000 pictures cut from matchboxes, mounted in 16 ornately-decorated albums. The collection, the subject of intensive research by Anna Rosa Gentilini, is representative of the enthusiasm for forming collections of "minor" artifacts so current among the popular classes in the eighteenth and nineteenth centuries; it was a passion that lay somewhere between book collecting and later pursuits such as philately. Matchboxes were cheap and easy to find – every cook and every smoker used them – and this made them easy to collect; and the huge range of images with which matchboxes were decorated before the advent of the monopoly were a further enticement to the collector. Many of these brightly-colored images are valuable as some of the earliest examples of the four-color printing process in the eighteenth-century. Other matchboxes are in black and white or have embossed designs, transforming simple containers into wonderful testimonies of the early days of offset printing. The finest examples are the series of images on selected themes, which range from the fin-de-siècle exhibitions to historic themes, such as the series dedicated to Giuseppe Garibaldi or the House of Savoy. Other themes include science and technology, or literary classics – The Divine Comedy, for example, retold in 32 images, or The Three Musketeers in a series of 40 pictures. In all cases the same format: on one side the illustration and on the other the lines on which the scene is based. By far the greater part of the collection, however, is dedicated to the female form, represented in a multiplicity of styles and idioms: busts or full-length figures, the facial expressions dramatic or alluring. As the changing subjects and pictorial styles reflected changing popular tastes, these pictures allow us to reconstruct female dress fashions of the day to an impressive degree of accuracy. Donati catalogued his collection, dividing the images by subject and classifying them by his own subjective criteria. This non-scientific method makes it possible to "read" the collection in two ways: on the one hand from the perspective of the images offered by the manufacturers, and on the other from the perspective of the common man who selected the images which most appealed to him. Donati presumably bequeathed his collection of matchbox cutouts to the Biblioteca di Faenza with the intention of preventing it from being dispersed or sold. Thanks to his foresight we can still admire his collection today: tiny bright images commonly found in hovel and palace alike, which even today bring to life the tastes and whims of a long-distant epoch.
trasformano semplici contenitori in splendide testimonianze degli albori della litografia. Certo le sorprese maggiori vengono dai soggetti scelti, che spaziano in molteplici campi: dalle esposizioni universali di fine secolo ai soggetti storici, come testimoniano le serie dedicate a Giuseppe Garibaldi o alla casa di Savoia. Dal progresso scientifico ai classici letterari, La Divina Commedia, ad esempio, fu interpretata in 32 scatole, mentre I tre moschettieri in 40 figurazioni grafiche, mantenenti sempre lo stesso modulo: da un lato l’illustrazione e dall’altro i versi ad essa riferiti. Indubbiamente la maggior parte delle immagini fu però dedicata all’universo femminile. Il soggetto femminino fu espresso in molteplici modi e stili: busti o figure intere, espressioni drammatiche o vivaci. Al variare dei temi e dei costumi l’iconografia seguì parallelamente i dettami del gusto popolare, consentendoci di ricostruire con precisione le mode femminili del tempo. Nuovi spunti ci sono forniti dalla catalogazione di Donati che decise di dividere le immagini per argomento e di raccoglierle in personali composizioni. Questo tipo di classificazione non scientifica permette una doppia lettura del materiale assemblato: da una parte riferita alle scelte editoriali delle case produttrici e dall’altra alla scelta dei soggetti ad opera di un rappresentante del popolo. Quando il nostro collezionista donò le sue icone ricavate dalle scatole di fiammiferi alla Biblioteca, certo lo fece per preservare la sua raccolta affinché non fosse smembrata o venduta, solo grazie a questa scelta ancora oggi possiamo ammirare codeste immagini: piccoli testimoni che, avendo frequentato le umili stamberghe come i palazzi principeschi ci hanno saputo restituire il ritratto dei gusti e degli umori di tutta un’epoca ormai lontana.
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Ca r l o Z a u l i
Il precursore del Sangiovese di qualità
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i frutti di una terra as pra ma ge ne rosa
L'Azienda Agricola Castelluccio si trova sulle colline di Modigliana, fra Faenza e Forlì, ad una altitudine che varia tra 250 e 500 metri.
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a una superficie complessiva di circa cinquanta ettari, dei quali circa dodici coltivati a vigneto, due ad oliveto ed il resto suddiviso fra seminativo, boschi ed aree coperte dai fabbricati. Nel 1975 in questi terreni costituiti da calanchi, formati da un
compatto strato di marna e calcare furono individuate delle microzone, dette ronchi particolarmente idonee alla produzione di uve di elevato livello qualitativo. Due sono le varietà coltivate a Castelluccio: il Sangiovese ed il Sauvignon Blanc. Il primo, naturale espressione del carattere di questa terra, è un vitigno di grande generosità e personalità, tanto da riservarsi uno spazio importante fra i grandi vini del mondo. Il secondo, il Sauvignon Blanc, che non è un vitigno originario delle nostre terre, ma proprio qui a Castelluccio ha espresso caratteristiche uniche mai manifestate altrove. Dal 1999 la famiglia Fiore è proprietaria dell’azienda agricola Castelluccio la cui gestione è attualmente affidata a Claudio Fiore, enologo di ormai collaudata esperienza coadiuvato dalla moglie Veruska. Vittorio Fiore, che creò come consulente nei primi anni '80 i vini di Castelluccio e contribuì in prima persona ai successi dell'Azienda oggi di fama internazionale, assicura, grazie alla sua professionalità, un supporto tecnico di notevole importanza.
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Un gran signore regala bottiglie di vino pregiato; un villano regala una botte di vino mediocre. Giuseppe Prezzolini
Ronco del Re 2000 _ Bianco I.G.T. di Forlì _ Uve: Sauvignon Blanc 100% Giallo paglierino intenso e luminoso. Al naso evidenzia sentori di frutta a polpa bianca e agrumi molto maturi, nocciola, tostatura, una nota di vaniglia derivante dalla barrique appena sovrastante su quella erbacea ed in fondo l’impronta tipica del vitigno. In bocca offre calore, morbide sensazioni e piacevole freschezza, chiude proponendo la nota fruttata. Ronco del Re 2000 _ Bianco I.G.T. di Forlì _ Varietal: Sauvignon Blanc 100% An intense straw-yellow wine with a bouquet of white fruits and very ripe citrus, with toasty, hazelnut notes and a hint of vanilla (which comes from its aging in oak casks) which only just prevails over the herby aromas, with the distinctive background of the varietal. Warm, soft yet agreeably fresh on the palate, with a fruity finish.
Ronco delle Ginestre 2000 _ Rosso I.G.T. di Forlì _ Uve: Sangiovese 100% Da un clone unico selezionato negli anni ’70 e coltivato in un piccolo anfiteatro che domina la valle, questo vino presenta un colore rosso rubino molto carico e profondo. All’olfatto è intenso ed esprime nette note dolci, vaniglia, amarena, prugna, tabacco biondo, liquirizia e cioccolato. Al palato, invece, evidenzia struttura, forte tanninicità, notevole estratto, lunga persistenza ed in chiusura si riscontra la nota di cioccolato. Vinificazione in acciaio e maturazione in barrique per 12 mesi. Ronco delle Ginestre 2000 _ Rosso I.G.T. di Forlì _ Varietal: Sangiovese 100% Ronco delle Ginestre was born from a unique clone isolated in the 1970s and grown in a small natural amphitheatre overlooking the valley. A deep ruby red with an intense bouquet laced with sweet notes of vanilla, cherry, plum, virginia tobacco, liquorice and chocolate. Full-bodied and astringent, with good length and a chocolate note in the finish. Vinified in steel vats and matured in barriques for 12 months.
Ronco dei Ciliegi 2000 _ I.G.T. Rosso di Forlì _ Uve: Cabernet Sauvignon 50%, Sangiovese 50% E’ uno dei Ronchi storici di Castelluccio, prodotto da uve sangiovese a grappolo rado e acino piccolo, coltivato a 350 metri nel vigneto da cui prende il nome. Fermenta in acciaio e matura in Tonneau da 350 litri per 10 mesi. Rubino intenso tendente al granato, ampio, ricco, e speziato al palato, con sentori di ciliegia e ginepro. Ronco dei ciliegi 2000 _ I.G.T. Rosso di Forlì _ Varietal: Cabernet Sauvignon 50%, Sangiovese 50% One of the great Ronchi of Castelluccio, made from a thin, small-berried Sangiovese grown at an altitude of 350 meters in the vineyard from which it takes its name. Vinified in steel vats and matured in 350-liter tonneaus for 10 months. A vivid ruby color veering into garnet, full-bodied, rich and spicy on the palate, with notes of cherry and juniper.
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The farm of Castelluccio lies on the Modigliana hills between Faenza and Forlì, at an altitude varying between 250 and 500 meters. The total area of the farm is some fifty hectares, of which twelve are planted with grapevines, two with olive groves and the rest occupied by various cultivated land, woods and buildings. The gully-infested terrain is a composite of clayey earth and limestone, and in 1975 there were discovered pockets locally called ronchi which were found to be particularly suitable for growing grapes of exceptional quality. Two varieties are grown at the Castelluccio estate, Sangiovese and Sauvignon Blanc. The former, an indigenous variety, is a grape of enormous warmth and personality, and is used in making some of the world's great wines. Sauvignon Blanc is a relative newcomer, as its name suggests, but in Castelluccio it has revealed some unique characteristics found nowhere else. Castelluccio has been owned by the Fiore family since 1999, and the running of the estate is currently entrusted to expert oenologist Claudio Fiore and his wife Veruska. Vittorio Fiore, who first created Castelluccio wine in the early 80s while serving in an advisory capacity and who had a hand in the success of this now internationally renowned estate, provides invaluable know-how and experience.
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SANGIOVESE: A TYPICAL LOCAL WINE_ FRUITS OF A HARSH YET GENEROUS EARTH
En o g a stro n o mia
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S t e f a n o Borgh e s i
Ciambelli della croce
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antichi alle a ti de l v ino
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I Sensi di Romagna
BRAZADÈLL DA LA CRÒS_ AN OLD ALLIANCE WITH WINE Brazadéll da la crós are cookies traditionally to be found on the tables of taverns and, in the words of the poet Pascoli, on the “sacred dinner table bright with children's eyes”. These crunchy, ring-shaped cookies are best appreciated dipped in a glass of Albana or Sangiovese. Although formerly found throughout Romagna from Castel Bolognese to Longiano, they are rarer nowadays in the age of supermarkets and industrial snacks with their epic lists of ingredients. The traditional brazadéll were made with good white flour mixed with water and salt and needed no preservatives. Shaping them was a baker's art: simple hand-cut rings braced with two strips of dough in the form of a cross (hence crós), the tips of which were crimped using a rudimentary pierced wooden stamp. There was no great secret to their unmistakable flavour – just good water drawn from a well and a wood-fired oven to bake them in; before being placed in the oven they were dipped first in boiling then in cold water, a procedure which required the patience and savoir faire of bakers not yet forced to work to the imperatives of mass production. The brazadéll were removed from the oven using a long wooden paddle called a panéra and placed in big wicker baskets. Brazadéll were a specialty of Castel Bolognese, but were widely known elsewhere. In Longiano and environs children were given them by their sponsors on the day of their first communion. In remoter times they had votive and augural associations, when they were served with Romagna wine at festivities or as simple snacks. Their form, a combination of circle and cross, was reminiscent of primitive sculpture, the emblem of a Romagna where baking bread was a kind of domestic ritual, a Romagna which was poor and humble but spiritually blessed, and as authentic as its bread.
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I brazadéll da la crós erano sempre ben accolti sulle tavole delle osterie o sul “santo desco fiorito d’occhi di bambini”, di pascoliana memoria.
O
ggi sono diventati più rari i ciambelli croccanti, che da Castel Bolognese a Longiano i romagnoli ammorbidivano lentamente nell’Albana o nel Sangiovese. Le merendi-
ne dei supermercati con i loro più sofisticati ingredienti non erano ancora venute a catturare il palato dei buongustai. I braciadelli di una volta, biscotti di buona farina bianca impastata in acqua e sale, non avevano bisogno di conservanti. Modellarli era un’arte dei fornai, che dall’impasto ritagliavano a mano semplici cerchietti rinsaldati da due raggi incrociati (la crós), alle cui estremità un rudimentale timbro di legno bucherellato lasciava le sue impronte. Alla base del loro inconfondibile gusto non c’erano particolari segreti. Condizioni essenziali della buona riuscita delle bionde crocette erano la qualità dell’acqua attinta dai pozzi e la cottura nel forno a legna, preceduta da passaggi dall’acqua bollente a quella fredda, secondo modalità eseguite con pazienza e sapienza da vecchi fornai non ancora condizionati dalle esigenze della produzione in serie. Dal forno i bracciadelli venivano levati con la panéra, una lunga pala di legno dalla quale venivano infine deposti in ampie ceste di vimini. I brazadéll erano una specialità di Castel Bolognese, ma erano conosciuti anche altrove. A Longiano e zone limitrofe il santolo li regalava ai bambini nel giorno della prima comunione. Nei tempi più lontani ebbero un significato votivo ed augurale, poi furono sempre più apprezzati come prelibati alleati dei vini di Romagna in occasione di incontri festosi o di parche merende. La loro forma tonda e a croce richiamava una primitiva scultura modellata con acqua e farina, emblema di una Romagna dove il prodotto del fornaio stava al centro dei riti casalinghi, una Romagna semplice e povera
Ci vuole un bel po' di storia per spiegare un po' di tradizione. Henry James
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ma spiritualmente eletta, e genuina come il suo pane.
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Lustri e Liberty l e c erami c he di Me landr i v a nno oltre il te mpo
ART NOUVEAU IRIDESCENCE_ THE TIMELESS APPEAL OF MELANDRI CERAMICS Pietro Melandri is perhaps the best-loved and most famous of Faenza's ceramists among Italian collectors. Despite this enviable reputation, however, exhibitions and publications dedicated to the work of the artists have been extremely rare since his death – only eight exhibitions have since been held in fact, although the prolific ceramist and sculptor produced thousands of pieces which are now dispersed among numerous private collectors from Bologna to Milan. Especially prized by Melandri's collectors are his art nouveau and art deco pieces with their distinctive iridescent green and gold decoration. Melandri cultivated a deeply personal style which soon became a hallmark of his work and even today makes his work instantly recognizable. His subjects were those in vogue at the time: anthropomorphic and flowerlike figures, their forms softened by their massiveness to enhance their decorative, graceful appearance. Melandri was also quick to absorb the influences of the artistic trends with which he had contact, however – sometimes even against his will. While still a young man he was a prisoner of war in Hungary during World War I, and here he was exposed to and could absorb the ideas of the Viennese Secession. The Secession's decorative theories, their use of iridescent gold and silver highlights, made a deep impression on him and he fused these precepts with the gracefulness of the art nouveau and art deco. It was this encounter that revolutionized Melandri's whole approach to art and was instrumental in gaining him international renown. In Italy, Melandri first worked with Paolo Zoli, then with Francesco Nonni, a member of the Baccariniano group, expressing the artistic tenets of the group in his majolica creations. Shortly afterwards, as director of the Focaccia works, (formerly the Fratelli Minardi factory), he perfected the iridescence technique obtained through special acids. From this moment on his career took off. Melandri set up business on his own. His first of many successful appearances at the Milan Triennale came in 1933; soon afterwards he was present at the Paris Exhibition with a large panel depicting Perseus; and in 1937 he won first prize for sculpture at the Paris Decorative Arts Exhibition. Melandri took his themes from mythology, religion and nature, and his debt to the art nouveau tradition was always evident. For renowned Milanese architect Giò Ponti, the refinement of his style made Melandri a "great artist", and Ponti drew on his assistance on more than one occasion; though his enthusiasm was at odds with the critical opinion of the day, Ponti's judgement has since proved far-sighted. Melandri never completely abandoned utility, and was Faenza's first sculptor-ceramist to make a name for himself throughout Italy.
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immagine tratta dal volume “Pietro Melandri” di Emanuele Gaudenzi
Ste f a n i a M a z z ot t i
Pietro Melandri è forse il ceramista faentino più conosciuto e amato dai collezionisti italiani.
E
ppure sono pochissime le mostre e le pubblicazioni a lui dedicate dalla sua morte fino ad oggi. Solo
L'arte non deve mai tentare di farsi popolare. Il pubblico deve cercare di diventare artistico. Oscar Wilde
otto, malgrado questo celebre ceramista-scultore, produsse con febbrile attività alcune migliaia di
opere, ora sparse nelle case di molti collezionisti privati, da Bologna a Milano. Ad affascinarli sono state, e continuano ad esserlo, le sue forme eleganti, le influenze Liberty, Déco e i lustri cangianti verdi e oro. Melandri seppe sviluppare uno stile molto personale che divenne presto distintivo e costituisce, ancora oggi, una firma riconoscibile a distanza. Trattò temi in voga a quel tempo, forme antropomorfe e biomorfe, stemperate dalla forza del volume per renderle decorative e aggraziate. La sua arte aveva assorbito i movimenti artistici con cui era entrato in contatto, suo malgrado. La sua giovinezza fu segnata da un periodo di prigionia in Ungheria durante la Prima Guerra Mondiale, in cui gli fu possibile vedere e assorbire la Secessione Viennese. Fu fulminato dalle teorie decorative, dall’uso dei lustri dell’oro e dell’argento che fonderà con le grazie dello stile dell’arte Liberty e Déco. Fu questo l’evento rivoluzionario di tutta la sua vena artistica che lo portò progressivamente a conquistare spazi e riconoscimenti internazionali. In Italia, in principio collaborò con Paolo Zoli, poi con Francesco Nonni, appartenente al cenacolo Baccariniano. Per lui trasportò in maiolica alcune forme plastiche. Fu poco dopo, alla direzione del fabbrica Focaccia, ex fabbrica Fratelli Minardi, che riuscì a maturare la tecnica dei lustri ottenuta attraverso patinature con acidi particolari. Da questo momento la sua carriera decollò. Si mise in proall’Esposizione Universale di Parigi con un grande pannello intitolato a Perseo; nel 1937 vinse poi il Gran Premio Ufficiale per la Scultura alla mostra di Arti Decorative di Parigi. I temi da lui scelti si riallacciavano al mito, alla religione e alla natura, con grosso debito alla tradizione decorativa dell’arte Liberty. Il celebre architetto milanese Giò Ponti lo definì “un grande artista” per il suo stile raffinato e si valse spesso della sua collaborazione; lungimirante, a differenza della critica, riguardo alle qualità di questo ceramista, che pur non abbandonando mai completamente l’oggetto d’uso, fu il primo ceramista-
immagine tratta dal volume “Pietro Melandri” di Emanuele Gaudenzi
immagine tratta dal volume “Pietro Melandri” di Emanuele Gaudenzi
scultore faentino, la cui fama si estese fuori dalla provincia.
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immagine tratta dal volume “Pietro Melandri” di Emanuele Gaudenzi
prio. Dal 1933 partecipò con successo alle varie edizioni della Triennale di Milano e in seguito
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Ogni grande opera d'arte ha due facce, una per il proprio tempo e una per il futuro, per l'eternitĂ . Daniel Barenboim
S e re n a Togn i
La fontana del Masini a Cesena zampilli e giochi d’ acqua a i pie di d el Garam p o
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I Sensi di Romagna
Andrea Malatesta, signore di Cesena, fece spianare all’inizio del Quattrocento il terreno ai piedi del colle Garampo per creare una grande piazza, del Popolo, luogo di mercato e cuore pulsante della città.
P
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simbolo del decoro urbano, l’odierna piazza
roprio al centro di questo importante spazio nella seconda metà del
THE MASINI FOUNTAIN, CESENA_ PLASHING WATER IN THE SHADOW OF THE GARAMPO
Cinquecento venne collocata la Fontana Maggiore, uno dei monu-
menti più interessanti di Cesena, particolarmente caro agli abitanti.
Early in the fifteenth century, Andrea Malatesta, feudal overlord of Cesena, leveled the terrain at the foot of mount Garampo to create a large piazza as a symbol of urban decorum. The square is now piazza del Popolo, the marketplace and thriving heart of modern Cesena. Much later, towards the end of the sixteenth century, one of Cesena's most interesting and best-loved monuments, the Fontana Maggiore, was placed in the center of the piazza. The addition of the fountain was part of a larger project designed to improve the town's water supply, involving the extension of the aqueduct to bring water to strategic points such as the fish market, the Fontana Dei Tre Monti and another fountain, now demolished, in piazza Sant’Agostino. Palermo-born Tomaso Laureti was summoned from Bologna in 1581 as engineer in charge of the hydraulics works, on completion of which, in 1589, the commission for the design of the fountain was given to Francesco Masini (1530-1603), a member of one of Cesena's most illustrious families. Masini was an architect, painter and polymath with great prestige among his fellow citizens but was scarcely known outside his home town. The fountain was working by 1591. Fashioned from Istrian stone by sculptor Domenico da Monte Vecchio, its composition is clearly styled on the Neptune fountain in Bologna's piazza Maggiore by the great Jean de Boulogne of Douai, more commonly known as Giambologna. Three steps raise the large cusped basin, decorated with masks, scrolls, relief figures and polychrome marble intarsia work, above the level of the piazza. From the center rises a thick pillar, decorated on each side with a pair of fluted pilasters which carry a broken segmental pediment in which a coat of arms is inserted. Most interesting of these is the one on the north face, which contains the bearings of Sixtus V above the city emblem. In terms of its waterworks, the fountain is nothing short of a triumph. Between each pair of pilasters two dolphins form the frame for a mask from whose mouth spouts a jet of water into a semicircular bowl; at the corners, water spouts from four richly-voluted herms, surmounted by tritons blowing into conches from whose mouths further jets of water emerge. At the summit of this intricate piece of hydraulics is an enormous pine cone atop a smaller, secondary basin. The elegance and richness of the decoration, the carefully-orchestrated tangle of ornamental motifs and the harmony of forms are typical of the work of Francesco Masini and his fondness for intricate designs. Though the stylistic idiom and the waterplay are still mannerist in inspiration, other elements, such as the broken pediments, already prefigure the style which was to dominate the seventeenth century, making the fountain an interesting testimony to a period of transition from the art of the late Renaissance to that of the Baroque.
La realizzazione del fonte monumentale rientrava all’interno di un più ampio progetto riguardante la rete idrica cittadina, che prevedeva l’ampliamento dell’acquedotto per fornire acqua in punti strategici, come la Pescheria, la Fontana Dei Tre Monti e quella in piazza Sant’Agostino, oggi demolita. A tale scopo nel 1581 venne chiamato da Bologna il palermitano Tomaso Laureti a cui furono affidati i lavori idraulici, al termine dei quali, nel 1589, fu commissionato il progetto e la decorazione della fontana a Francesco Masini (1530-1603), appartenente ad una delle famiglie più illustri di Cesena, uomo di cultura, architetto e pittore, molto apprezzato dai concittadini, ma sconosciuto fuori dalla patria. La fontana, attivata già nel 1591, fu scolpita in pietra d’istria dallo scalpellino Domenico da Monte Vecchio e ricorda evidentemente gli schemi compositivi della Fontana del Nettuno, realizzata nell’omonima piazza a Bologna da Jean de Boulogne di Douai, detto il Giambologna. Tre gradini elevano dalla pavimentazione di piazza del Popolo la grande vasca polilobata, ornata da mascheroni, cartigli, figure in rilievo e tarsie di marmi policromi. Un tozzo pilastro si erge al centro, decorato su ciascun lato da una coppia di lesene scanalate su cui si innesta un timpano curvilineo spezzato, all’interno del quale è inserito uno stemma araldico. Di notevole interesse quello del prospetto settentrionale, blasone di Sisto V, che si sovrappone all’insegna della città. La fontana è un vero e proprio trionfo di giochi d’acqua. Tra le lesene due delfini fungono da cornice a un mascherone dalla cui bocca sgorga acqua che si riversa in un catino semicircolare; agli angoli generano nuove cascate quattro erme a voluta, sormontate da tritoni che soffiano in una tromba marina dalla cui estremità fuoriescono altri zampilli. La sommità dell’intricata macchina idrica è sovrastata da un’enorme pigna che poggia su una seconda vasca di dimensioni inferiori rispetto alla principale. L’eleganza e la ricchezza delle decorazioni, l’ingrovigliarsi dei motivi ornamentali e l’armonia delle forme rivelano le grandi attitudini artistiche di Francesco Masini e la sua forte propensione al disegno. Gli stilemi e i giochi sono ancora quelli manieristi, principe del Seicento, segnalando nella fontana un interessante momento di passaggio dal tardo rinascimento al barocco.
foto d’archivio
ma diversi elementi, come il timpano spezzato, annunciano già lo stile
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Territorio Testimonianze Templari_ nella Valle del Lamone, fra Forlì, Faenza e Ravenna On the trail of the Templars_ in the Lamone valley between Forlì, Faenza and Ravenna
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Portico di Romagna_ luogo dell’impossibile incontro tra il Sommo Poeta e la sua Musa Portico di Romagna_ the place where Dante (never) met his muse
Storia Ribelli o masnadieri, additati a briganti_ singolare ambiguità di un termine entro i confini romagnoli The ribelli of Romagna_ the ambiguity of a uniquely Romagnol term Il “Bisò”_ dall’Inghilterra a Faenza, passando per Germania e Francia, le peregrinazioni di una parola
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“Bisò”_ - from England to Faenza via Germany and France – the story of one word's odyssey
Passioni Montale e “Dora Markus”_ l’enigmatica poesia che ha reso nota Porto Corsini Montale and Dora Markus_ the enigma of the poem that put Porto Corsini on the map Una selezione d’involucri narranti_ le scatole di fiammiferi raccontano il gusto di un’epoca Every picture tells a story_ how matchboxes relate the tastes of an epoch
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Enogastronomia Il precursore del Sangiovese di qualità_ i frutti di una terra aspra ma generosa Sangiovese: a typical local wine_ fruits of a harsh yet generous earth Ciambelli della croce_ antichi alleati del vino Brazadéll da la crós_ an old alliance with wine
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Arte Lustri e Liberty_ le ceramiche di Melandri vanno oltre il tempo Art nouveau iridescence_ The timeless appeal of Melandri ceramics La fontana del Masini a Cesena_ zampilli e giochi d’acqua ai piedi del Garampo The Masini fountain, Cesena_ plashing water in the shadow of the Garampo
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I Sens i di Rom agn a
I Sensi di Romagna numero 8.
ottobre 2004
Periodico edito da CERDOMUS Ceramiche S.p.A. 48014 Castelbolognese (RA) ITALY via Emilia Ponente, 1000 www.cerdomus.com Direttore responsabile Luca Biancini Progetto Carlo Zauli Luca Biancini Grafica e impaginazione Jan Guerrini/Cambiamenti per Divisione immagine Cerdomus Coordinamento editoriale Alessandro Antonelli Valentina Baruzzi Redazione Valeria Barberini Giuliano Bettoli Stefano Borghesi Mauro Ferretti Stefania Mazzotti Elisa Palma Manlio Rastoni Serena Togni Carlo Zauli Foto Archivio Cerdomus Archivio Giuliano Bettoli Archivio Stefano Borghesi Archivio Mauro Ferretti Circolo Fotografico Casolano Gabriella Fabbri Jan Guerrini Omero Rossi / CRAL Ospedaliero “A. Banzola” si ringraziano _ Fondo Giuseppe Donati / Biblioteca Manfrediana di Faenza, nella persona di Anna Rosa Gentilini _ Azienda agricola Castelluccio, nella persona di Claudio Fiore _ Gruppo Editoriale Faenza Editrice per le immagini tratte dal volume “Pietro Melandri” di Emanuele Gaudenzi si ringrazia per la preziosa collaborazione Maddalena Becca/Divisione immagine Cerdomus Traduzioni Traduco, Lugo Stampa Litographicgroup ©CERDOMUS Ceramiche SpA tutti i diritti riservati Autorizzazione del Tribunale di Ravenna nr. 1173 del 19.12.2001