Magazine EE nr 09

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C

on l’inverno riscopriamo quella particolare sensazione che si prova quando, varcata la soglia di casa dopo una lunga esposizione al gelo,

rimaniamo per qualche momento come in uno stato di sospensione, mentre le nostre membra intirizzite cominciano ad ammorbidirsi e pulsare. Così la copertina di

ee, che sembra voglia iniziare

a sciogliersi con il tepore casalingo. Ma il calore che genera questo effetto potrebbe scaturire anche dal contenuto delle sue pagine. Questo numero ha infatti una vocazione focosa, racconta gesti eroici, caratteri ribelli, intensi fervori artistici, l’enfasi della festa... Sentimenti che a volte pare strano affiorino da una terra apparentemente semplice come la Romagna. Fatta anche di tradizioni schiette e scorci rasserenanti, come quello che può offrire un mulino solitario immerso nel freddo: pacifica sentinella della campagna che giace. La Redazione di

ee

Every winter we rediscover that peculiar sensation we feel when we’ve just arrived home after too long in the gelid air and we remain on the threshold for a few moments, as if in a state of suspended animation, while the circulation revives our numbed limbs. This is the sensation that the cover of this issue of ee seeks to elicit – the pleasure of unwinding in the warmth of our homes. And we hope the articles in this issue – with their tales of flames, heroic feats, hot-headed rebels, artistic fervours and country feasts – will have the same (heart)warming effect. It might seem strange that a region so ostensibly simple as Romagna can stir up this kind of sentiment. But look closer and you’ll feel the charm of traditions untainted by time, of a lonely mill immersed in the cold of winter, like a lone sentinel in the countryside awaiting the renewal of spring. The editorial staff of ee

E d ito ria le

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acqua terra fuoco aria


foto d’archivio

I Cavalieri del Tempio nella Valle del Marecchia trac c e di una l egg e nda fra Ce se na, Rimini e Sarsina

“Armare di fede lo spirito e di ferro il corpo”: con questo motto i Cavalieri Templari combatterono a Gerusalemme per la difesa del Santo Sepolcro, ma dietro a quest’impresa si celano ancora oggi molti enigmi.

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I S e n s i d i R o m ag na

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Ma u ro F e r re t t i e Va l e r ia B ar ber ini


Salomone. Da loro, e con il riconoscimento ufficiale dell’Ordine 10 anni dopo, fu costituita una milizia cri-

stiana forte di uomini, armi, e potere economico. Infatti, esaurito il ruolo di guerrieri con la perdita del Santo

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N

el 1118 otto cavalieri, giunti in Terrasanta, furono accolti da re Baldovino nelle sale ricavate dal Tempio di

Sepolcro, i Templari continuarono ad operare come gestori dei tesori dei pellegrini. Il loro potere crebbe a tal punto che furono migliaia le magioni fondate in tutta Europa. Tra le tante testimonianze ancora riconoscibili nelle nostre terre, tenteremo di tratteggiare lo scenario che offrono quelle lasciate nella Valle del Marecchia. Seguendo le orme del Padre Dante, iniziamo dunque questo percorso raccogliendoci in preghiera dentro l’antica pieve di S. Donato, a Polenta, nell’immediato entroterra cesenate. E’ stata edificata nel X secolo, l’interno basilicale a tre navate, con i suoi interessanti capitelli romanici e croci patenti alle colonne, racchiude una piccola cripta contenente quello che gli iniziati considerano un punto di energia fortissimo, localizzato nella prima colonnina al lato destro dell’altare. Scendiamo nella valle del fiume Savio ed entriamo a Cesena valicando il grande ponte a dorso d’asino detto Ponte Vecchio. Subito a sinistra per via Saffi, nella contrada di Chiesa Nuova, si trovava la Mansio di S. Martino, posizionata a ridosso delle ultime vestigia dell’antico ponte. Era già citata nel 1155. Proseguiamo per la Via Emilia verso il mare, sostando al bivio per Gambettola sul torrente Marecchia ove è posizionata la Mansio Templare dei S.S. Simone e Giuda, detta Magiona, antecedente al 1200. Poco più avanti, prima di entrare in Marecchia sul Rubicone, luogo della fatale decisione di Giulio Cesare (sancita dalla celeberrima frase “Alea iacta est”) in seguito alla quale egli diventò dittatore di Roma, ci fermiamo all’antica pieve di S. Giovanni in Compito, già esistente nel 633 e rifatta nell’XI secolo, ove si trova un bellissimo capitello del VI secolo utilizzato come acquasantiera.

Non nobis,

Pochi chilometri più a est troviamo il borgo fortificato medievale di S. Arcangelo di Romagna, sulle pendici

Domine,

del Monte Giove: collina arenacea tra i fiumi Usco e Marecchia costellata di grotte artificiali, rifugio dei mona-

sed nomine Tuo

ci basiliani in età bizantina. Molte di queste sarebbero divenute luoghi di cerimonie religiose celtiche poi riuti-

da gloriam.

lizzati dai cristiani devoti a S. Michele, il cui culto è spesso associato ad ipogei naturali.

Non a noi,

Notevolissima ed un po’ decentrata, verso il greto del Marecchia, è la pieve paleocristiana di S. Michele del VI

o Signore,

secolo, con il suo particolarissimo portale d’ingresso ricavato alla base del campanile fortificato.

ma al Tuo nome

La stessa dedicazione ha la Mansio Templare di Rimini, scoperta di recente in via San Michelino, vicino al

dà gloria. motto templare

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Tempio Malatestiano.

Te rrito rio

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THE KNIGHTS TEMPLAR IN VALLE DEL MARECCHIA_ ON THE TRAIL OF A LEGENDARY ORDER IN CESENA, RIMINI AND SARSINA

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“To equip the spirit with faith and the body with iron”: it was this motto which took the Knights Templar to Jerusalem to defend the Holy Sepulchre. Even today, many enigmas surround the history of the order. In 1118 eight crusaders who had remained in the Holy Land were received by Baldwin II on the site of the Temple of Solomon. The vows they took on that day marked the beginning of an order which was to be officially recognized 10 years later and grew into a Christian militia rich in arms, men, and economic power. Even after the loss of the Holy Sepulchre had robbed them of their principal raison d’être, the Templars continued to operate as the guardians of the pilgrims’ treasures. Their power grew to the point that they owned thousands of properties all over Europe. Among the numerous documents of the Templar presence in Romagna are those of the Marecchia valley. Following in the footsteps of Dante, our itinerary begins at the parish church of S. Donato in Polenta, a short distance inland from Cesena. Dating from the 10th century, S. Donato is built on a basilica plan with a nave flanked by aisles. Its columns have some interesting carved crosses and Romanesque capitals, and it includes a small crypt reputed by some to contain an extremely strong energy source, located in the first mullion on the right side of the altar. Next stop is down the river Savio to Cesena, crossing the graceful arches of the Ponte Vecchio. Making a sharp left up via Saffi, we come to contrada di Chiesa Nuova (“quarter of Chiesa Nuova”) and the Mansio di S. Martino, built in the lee of the remains of an (even) older bridge. The existence of this mansio is recorded as early as 1155. We then continue down Via Emilia in the direction of the sea, stopping at the crossroads at Gambettola, above the river Marecchia, where stands the Mansio Templare dei S.S. Simone e Giuda, known locally as the Magiona and built some time before 1200. A little before this, before coming to Marecchia sul Rubicone, the place of Julius Caesar’s historic decision (it was here that Caesar uttered the celebrated “alea iacta est” – the die is cast) which led to his becoming dictator of Rome, is the extremely old church of S. Giovanni in Compito. Already standing as early as 633, S. Giovanni was rebuilt in the 11th century and still retains an exceptionally beautiful 6th century capital now used as a font for holy water. A few kilometres further east we come to the walled medieval town of S. Arcangelo di Romagna on the slopes of Monte Giove, a sandstone massif between the Usco and Marecchia rivers which is constellated with man-made caves inhabited by the Basilian monks during the Byzantine period. Many of these caves are believed to have been used for pre-Christian religious ceremonies before being reused by Christian devouts of St Michael, whose cult is frequently associated with natural caves. One exceptionally interesting monument, a little out of the way in the direction of the banks of the Marecchia, is the Early Christian church S. Michele, built in the 6th century and with a remarkable entrance portal in the base of its fortified belltower. The Templar house of Rimini, recently discovered in the city’s via San Michelino near the Tempio Malatestiano, was dedicated to the same saint. The church of San Michele Arcangelo was known to exist as early as 1061 and came under the control of the Templars in 1184. Recently, under the plasterwork in the apse, a late 13th century fresco of St Clair holding a large loaf was discovered. What makes this house unusual is its “central” location: nearly all Templar establishments were built on arteries of communication and near city walls. In the port of Rimini, the Templars operated a number of passenger ships of considerable size (30 metres long and 8 wide). With twin masts and six sails, these vessels could hold up to 300 people. Like the Venetians, Rimini too had ships called arsilii which looked like the landing craft of the modern epoch, could hold around sixty horses, and were equipped with a kind of mobile ramp-door. Now we push on inland up the broad river bed of the Marecchia, known to the Ancients as the Ariminus, through stretches of unspoilt nature. Opposite the cliffs of Verrucchio rises the lonely Castello di Montebello, which has been perfectly preserved thanks to its remote location. It’s worth visiting for its original and very old furniture, great panoramic views and some creepy legends which have grown up around it. We now make a brief incursion into Montefeltro to visit the Castle of S. Leo, where the adventurer Cagliostro was imprisoned, and the impressive church built by St Leo in the 4th century. Exceptionally beautiful is the crypt, hewn out of bare rock, with a sarcophagus frontal depicting two peacocks drinking from the Holy Grail. The Knights Templar were active in this zone too, as attested by the Mansio di S. Giovanni in Ansa a little way from the village of S. Agata Feltria, dominated by the Fregoso castle. Last stop on our itinerary is the Savio valley and the ancient “Salt Road” which led from Romagna all the way to Rome, via Sarsina, the birthplace of Latin poet and dramatist Plautus. On the village’s main piazza stands its large cathedral, Romanesque in style but Byzantine in origin, dedicated to San Vicinius. It’s long been an important point for those who believed in the powers of exorcism in the struggle against Evil. Even today some priests use the Collar of St Vicinius (a fragment of the chain with which the martyr was bound in Antiquity) to “cure” those considered to be possessed by devils. Officially, the order of the Templars lasted for only two centuries before it was dissolved in 1314; but its dissolution sparked a diaspora and the Templars continued to exert considerable underground influence. Some traces of their rituals can still be found in certain Masonic rites. The Templars continue to exert their arcane fascination today, not only in the values they promote but in the esoteric appeal of the symbols and mysteries that developed around the Templar creed.

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I S e n s i d i R o m ag na


La chiesa di San Michele Arcangelo esistente già nel 1061 passò invece ai Templari nel 1184 e recentemente sotto l’intonaco dell’abside è stato trovato un affresco di fine ‘200 raffigurante Santa Chiara con una pagnotta in mano. E’ sicuramente unica per la sua collocazione “centrale”, al contrario di quasi tutti gli insediamenti Templari sulle vie di comunicazione e nelle immediate adiacenze delle mura cittadine. Nel porto di Rimini i Templari tenevano poi alcune navi passeggeri dalle imponenti dimensioni (30 metri di lunghezza, per 8 di larghezza), a due alberi e sei vele, che potevano imbarcare fino a trecento uomini. Come i Veneziani, avevano poi navi chiamate “Arsilii” che assomigliavano ai moderni mezzi da sbarco, imbarcavano circa sessanta cavalli, ed erano dotati d’una sorta di portellone mobile. Torniamo però a spingerci nell’entroterra e risaliamo il grande letto del fiume Marecchia, l’antico Ariminus, attraversando una natura a tratti incontaminata. Di fronte alla rupe di Verrucchio, si erge isolato il forte Castello di Montebello, perfettamente conservato grazie alla sua impervia posizione. La visita di quest’ultimo può rivelarsi assai interessante per i mobili originali di alta epoca, per i panorami eccezionali e per le strane Sconfiniamo adesso per un breve tratto nel Montefeltro, al fine di visitare la Rocca fortificata di S. Leo, dove fu rinchiuso Cagliostro, e la stupenda pieve edificata da San Leone nel IV secolo d.c. Bellissima la cripta scavata nella roccia con fronte di un sarcofago, che rappresenta due pavoni che si abbeverano al Graal. Anche i

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storie soprannaturali che aleggiano intorno al maniero.

Cavalieri Templari si erano spinti fino in quest’area e furono presenti con la Mansio di S. Giovanni in Ansa poco prima del borgo fortificato di S. Agata Feltria, dominante dalla Rocca dei Fregoso. Terminiamo il nostro itinerario raggiungendo la Valle del Savio e l’antichissima “Via del Sale” che dalla Romagna portava a Roma, passando per l’antico abitato di Sarsina, patria del poeta e commediografo latino Plauto. Sulla piazza centrale del paese sorge la grande cattedrale, di struttura romanica (fondata però dai Bizantini), dedicata a San Vicinio. Attraverso i millenni punto importantissimo per coloro che propugnavano la lotta al Male attraverso gli esorcismi. Alcuni sacerdoti a tutt’oggi “impongono” il Collare di S. Vicinio (frammento della catena con la quale il martire fu legato in antico) a coloro che siano ritenuti “indemoniati”. L’Ordine Templare ebbe ufficialmente solo due secoli di vita, poiché fu sciolto nel 1314, ma in seguito alla diaspora il Templarismo ebbe grande diffusione sommersa. Alcune tracce dei suoi rituali si possono ancora riscontrare in taluni riti massonici. L’arcano fascino dei Templari dunque perdura, non solo attraverso i valori che

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essi promulgarono, bensì anche nella valenza esoterica dei simboli e misteri che avvolgono tale filosofia.

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Val e r i a Ba r be r i n i

La casa dei mugnai ricorda macine che ra cconta no le a ntiche stor ie d ella vallat a

Quando si visitano per la prima volta luoghi come il mulino di Fiumicello, la sensazione iniziale è sempre quella di averli conosciuti troppo tardi, seguita poi dalla gioia della scoperta e dalla rassicurante consapevolezza di vivere vicino a testimonianze così preziose.

F

iumicello si trova a pochi chilometri da Premilcuore, nella valle del Rabbi; è una piccolissima località oggi composta da poche case, un grande ristorante e un antichissimo mulino. Appare strano, soprattutto nei giorni festivi, assistere al serrato viavài di automo-

bili e immaginare il vivace passaggio d’un tempo di cavalli e carrozze; oppure vedere il ristorante brulicante di persone in attesa di un lauto pasto e immaginarlo quand’era una scuola ravvivata dalle voci dei bambini. Ciò che non è cambiato è il mulino che si trova a poche centinaia di metri dal “centro” del paese. Da considerarsi un vero e proprio monumento, la cui presenza è documentata dal XII secolo, l’attività del mulino è proseguita ininterrottamente fino al 1963, anno in cui la famiglia Mengozzi, che ancora possiede l’edificio, lasciò l’attività e l’abitazione. Solo circa dopo 30 anni, nel 1992, i fratelli Sesto e Domenico decisero di restaurare ed aprire il mulino al pubblico per mostrare a scolaresche, visitatori e curiosi l’arte e la tradizione dei mugnai. Le due macine di granito originario delle Alpi, ancora si muovono grazie alla forza delle turbine che girano per la spinta della corrente del fiume, e per ogni macina, a scandire la caduta dei cereali da ridurre in polvere, c’è ancora la bàtla, un piccolo strumento a forma di uncino che, battendo su di

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A RESTORED MILL WHICH BRINGS LOCAL HISTORY BACK TO LIFE_ ANCIENT GRINDSTONES TELL A STORY

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Visit a place like the mill of Fiumicello and you’ll always feel you’re discovering it too late; but only then can you feel a true sense of discovery and a reassuring sense of reunion with precious artefacts of the past. Fiumicello lies in the valley of the Rabbi, just a few kilometres outside Premilcuore; today it’s no more than a handful of houses, a large restaurant and an old mill. It’s a strange feeling, especially on feast days, to watch the traffic coming and going and imagine the age of coach and horse; or to see the restaurant swarming with hungry diners and think that once it was a school whose walls resounded with children’s voices. One thing that hasn’t changed, though, is the mill which stands a few hundred metres outside the “centre” of the village. A monument in the true sense of the word, whose existence is documented as early as the 12th century, the mill was continually in operation until as recently as 1963, when the Mengozzi family, the then owners of the building, moved out, leaving the mill empty and inactive. Nearly 30 years later, in 1992, the Mengozzi brothers Sesto and Domenico decided to restore the mill and open it to the public as a place where schoolchildren, the general public and the curious could witness the art and tradition of the mill. The two millstones, of Alpine granite, still turn on turbines driven by the river’s current, and both millstones still have their bàtla, a small hook-shaped contrivance which loudly strikes a wooden rod as if beating out time for the turning millstone. Hence the term from the Romagnol dialect which has entered standard Italian as designating an exceptionally talkative woman, batlòna. Even today, therefore, the millstones still turn just as they did in the past when grinding maize, oats and wheat for livestock, wheat and dry chestnuts for the inhabitants of the valley. Around forty families took their harvest to the mill and from September until the close of May they worked tirelessly – in spring especially – to ensure a supply of flour all year round. They worked, played, and lived to the rhythm of the seasons: springtime was a particularly busy period and they spent long days in the open air playing and hunting down the nests of birds; winter was a time for tending to the livestock, and when night fell they went home or to the tavern to play cards or eat boiled chestnuts, while the fatigues of the day were soothed away to the tones of an accordion wheezing in festive or serenade mode. Visiting the Fiumicello mill is a step back to a time when hard work was rewarded with good fruit and flour was the symbol of life and well-being.

Il guaio del nostro tempo è che il futuro

una volta. Paul Valéry

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non è più quello di

un legnetto, provoca un forte effetto sonoro. Da qui il nome, che in dialetto romagnolo è stato trasposto nel linguaggio quotidiano, per definire una donna molto chiacchierona, la batlòna. Ancora oggi quindi viene proposto l’antico rito della macinazione proprio come quando le mole lavoravano per triturare granturco, avena e frumento per il bestiame, grano e castagne secche per la gente della vallata. Si contavano circa quaranta famiglie che portavano il loro raccolto ai mugnai e da settembre fino a maggio lavoravano senza sosta, soprattutto prima dell’estate, per assicurarsi la farina anche durante la stagione più secca. Ed erano proprio le stagioni che scandivano le attività, i passatempi e le relazioni: in primavera il lavoro si intensificava e le giornate si passavano all’aria aperta a giocar con le “bucce degli alberi” e a cercar i nidi di uccelli; in inverno si dedicava più tempo alla cura del bestiame e verso sera ci si ritrovava a casa o all’osteria per giocare a carte o cuocere castagne, mentre le fatiche quotidiane erano alleviate dal suono della fisarmonica, che sovente introduceva una festa o intonava una serenata. Tornare al mulino di Fiumicello vuol dire rievocare i tempi in cui i buoni frutti ripagavano il sacrificio e la farina era simbolo di vita e benessere.

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M a n l i o Ra s t oni

La cortigiana che divenne Imperatrice grande zza e dissolute zza di Te odora, sov ra n a d i Bisan z io

THE COURTESAN TURNED EMPRESS_ VICES AND VIRTUES OF THEODORA, SOVEREIGN OF BYZANTIUM

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It’s difficult to say which is the more unlikely story – the bear keeper’s daughter who became empress, or the woman whom history, normally so black and white in its judgements, celebrates not only for her virtues but also for her vices. Both unlikely stories belong to just one woman – the Byzantine empress Theodora. Ravenna, which was the western capital of the Byzantine empire, has the only known portrait of Theodora. A strong bond continues to link the figure of the empress, of Syrian origin, to the collective imagination of the people of Romagna, as attested by the many places here – even a power station! – named after her. Everything we know about Theodora we owe to the historian Procopius of Ceasarea. Procopius writes that she made her debut in the world of prostitution while still an adolescent, describing with abundant detail the scandalous exploits which made her one of the most famous women in Antiquity – including an unlikely number involving geese. The future emperor Justinian, still a virgin at the ripe age of forty, immediately fell prey to the powerful sensuality she exuded. In the opposition of the aristocracy, he resolved to make her his wife, supported only by his father Justin, whose support probably concealed an ulterior motive of enflaming the opinion of the patriciate which was hostile to him. Which he certainly managed to do, if we consider that her rise in status did not prevent Theodora from consolidating her reputation as a debauchee, as attested in accounts that tell how every night she would satisfy thirty different partners. However, Theodora was not content with being a mere figurehead empress. She actively participated in affairs of state too, mobilizing her monophysite sympathies in the support and protection of religious groups then considered heretical, influencing the foreign policy of the empire and, on at least one occasion, saving the throne (for example by persuading Justinian not to flee during the Nika insurrection of 532). She was harsh in her punishment of the enemies of Byzantium. She ruled, in short, with the vigour and pragmatic spirit that her husband, forever absorbed in his legal studies and private speculations, so dangerously lacked. If there is one emblem which sums up the life of Theodora and the ever-changing fortune of humans, that emblem is the Byzantine world’s most allegory-charged icon: the circus at Constantinople. It was into this circus that as a little girl she was led after the death of her father, shuffling on the sand of the arena as a suppliant for the reinstatement in his job of her mother’s new husband; and it was this same circus, many years and twists of fate later, to which she returned to take up her place, to the ovation of the populace, on the throne of honour of the imperial rostrum.

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Suona più irreale la storia della figlia di un ammaestratore di orsi che divenne imperatrice o quella di una donna che dalla Storia, giudice ordinariamente manicheo, fu celebrata sia per i propri vizi, sia per le proprie virtù?

E

bbene, un’unica protagonista fu capace di interpretarle entrambe: Teodora, Imperatrice di Bisanzio. A Ravenna, che fu la capitale d’Occidente dell’Impero Bizantino, campeggia l’unica raffigurazione che ci è pervenuta di lei. Un vin-

colo molto forte lega la figura di questa donna d’origine siriana all’immaginario dei romagnoli, come testimoniano le varie realtà contemporanee che sono state battezzate con il suo nome (persino una centrale elettrica). Dobbiamo a Procopio di Cesarea tutta la documentazione a suo riguardo. Secondo questa fonte ella esordì nel mondo della prostituzione ch’era ancora adolescente. Lo storico descrive con dovizia di particolari le scabrose esibizioni che la resero celebre nell’antichità, incluso un inverosimile numero con oche ammaestrate. Il futuro Imperatore Giustiniano, ancora vergine alla considerevole età di quarant’anni, la incontrò e cadde vittima della prodigiosa sensualità che da lei emanava. Contrariando tutta l’aristocrazia del tempo, decise di farne sua moglie, appoggiato soltanto dal padre Giustino, il quale covava probabilmente il secondo fine d’indispettire così il patriziato che lo ostacolava. Fine che certamente conseguì, considerato che il salto di rango non impedì a Teodora di consolidare la propria fama di dissoluta, come testimoniano i racconti che le attribuirebbero l’abitudine di soddisfare ogni notte trenta differenti compagni. Teodora, tuttavia, non scelse di ricoprire come Imperatrice un semplice ruolo di rappresentanza. Decise bensì di partecipare attivamente alle responsabilità che esso comportava. Fece valere la sua posizione di monofisita, appoggiando e proteggendo movimenti religiosi allora considerati eretici, influenzò positivamente le scelte di politica estera dell’Impero e, in almeno un’occasione, salvò il trono (convincendo ad esempio Giustiniano a non fuggire durante la rivolta della Nika nel 532). Punì inoltre con fermezza i nemici di Bisanzio. Resse insomma il potere con quel polso e quel forte spirito pragmatico di cui il suo consorte, eternamente dedito allo studio del diritto e alle proprie speculazioni, pericolosamente difettava. Nel dipingere un quadro rappresentativo della vita di Teodora, simbolo efficace del paradosso umano, possiamo servirci della cornice più carica di allegorie del mondo bizantino: il circo di Costantinopoli. Quello stesso circo in cui una ragazzina fece il suo primo ingresso dopo la morte del proprio padre, strisciando sulla sabbia dell’arena, supplicando un lavoro per il nuovo marito della madre e, trascorso il tempo che serve al destino, vi tornò per prendere posto, tra le ovazioni del popolo, sul seggio d’onore del palco imperiale. Luogo consacrato al vertice assoluto della società del tempo.

La donna pensa come ama, l’uomo ama come pensa. Paolo Mantegazza

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S to ria

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foto d’archivio foto d’archivio

Mi si credeva morta e sotterrata, ma più bella di prima son tornata sul carro dedicato alla mia gloria motivo di allegrezza e di baldoria, venti dì dopo spento il Carnevale ricorre la mia festa originale (...) Antica poesia romagnola foto d’archivio

Elisa Palma

La Festa d’la Vecia una ce le brazione che continua a r isorge re da lle propr ie ce ne r i

La mia bisnonna raccontava che il giorno della festa, a Cotignola, chi abitava sulle vie principali “affittava” le proprie finestre, dopo averne tolto i vetri, ai ragazzi che volevano partecipare ad uno dei momenti più vivaci della manifestazione: le sassate a suon di arance, caramelle e sacchetti pieni di gesso contro i carri che sfilavano per le vie del centro.

Q

uest’usanza, che terminava in una vera e propria battaglia e coinvolgeva tutti quanti lasciando spesso qualche contuso,

venne proibita durante il fascismo. Ma la tradizione della Segavecchia, che spezza a metà i quaranta giorni di quaresima, ha resistito nei secoli ed è sentitamente festeggiata in diversi paesi della Romagna, in particolare a Cotignola e Forlimpopoli.

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LA FESTA D’LA VECIA_ A TRADITION THAT EVERY YEAR IS REBORN FROM ITS OWN ASHES

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My great grandmother used to tell me how on feast days in Cotignola, people whose houses overlooked the main streets of the town used to “lease” their windows (after removing the windowpanes) to the young men who wanted to contribute to one of the high points of the day’s proceedings: a hail of oranges, boiled sweets and little bags full of plaster on the carriages which made their way through the town centre. This custom always ended in a free-for-all into which the whole population was drawn, and injuries were not uncommon. It was prohibited during the fascist period. But the tradition of the Segavecchia, held every year at the middle of Lent, has resisted through centuries and today is fondly re-enacted in various towns of Romagna, Cotignola and Forlimpopoli especially. The origins of the event are disputed, but are believed to be connected to a legend dating to around 1450. During Lent, Francesco I Sforza, Duke of Milan and Cotignola, learned from the inhabitants of Cotignola of an old hag who had been publicly decapitated after being caught laying curses on the town and on the duke himself. In his gratitude for the averted danger, Sforza ordered that the event should be commemorated every year by the burning of an effigy representing the old woman. The tradition has survived largely intact to this day and remains a major festive attraction in Romagna. At the beginning of the twentieth century the Segavecchia was a huge event in a town whose daily life was as poor in diversions as it was in resources; and it was celebrated in a much simpler fashion. The mothers and grandmothers of the town made a grotesque puppet out of old clothes and sawdust, its features roughly outlined with charcoal. The puppet was festooned with sweets and the children of the town formed spontaneous skirmishing swarms around it. Today, the event starts with a historic parade of young men and women dressed in 16th-century costume, on foot or on horseback. A procession of allegorical floats, some carrying articulated papier-mâché figures, others more simply adorned, is pulled by tractors which have replaced the bulky and stubborn lustral oxen of the past. Today’s floats have little to do with the effigies made of old clothes and hats of earlier periods. Leading the procession is the float of the Vecchia – the old Woman – an imposing figure decked with garlands of carobs, oranges and walnuts which are thrown to the onlookers. The itinerant vendors of sweets and nuts have now been replaced by mobile food stalls offering wines and typically tasty Romagnol food. Crowds of small children in masks stare open-mouthed at the floats as they move through the streets in a riot of colour and music which add to the party atmosphere. The afternoon is already well advanced by the time the event reaches its eagerly-awaited climax. The crowd gathers around the town’s main piazza and the effigy of the old woman is burnt at the stake after the town-crier has pronounced the ritual death sentence.

La sua discussa origine si legherebbe ad una leggenda risalente al 1450 circa. In periodo quaresimale, Francesco I Sforza, Duca di Milano e di Cotignola, venne a sapere dai cotignolesi di una vecchia megera che era stata decapitata sulla pubblica piazza, poiché sorpresa a lanciare malefici ai danni della città e del Duca stesso. Felice dello scampato pericolo, ordinò che ogni anno venisse ricordato questo evento bruciando un fantoccio che la rappresentasse, tradizione giunta ai giorni nostri ancora ricca di sincerità, di grande richiamo per l’animo festaiolo dei romagnoli. All’inizio del secolo scorso e dè d’la Vecia costituiva un vero e proprio evento nella vita quotidiana allora così povera di distrazioni e risorse, ed era festeggiata molto più semplicemente. Mamme e nonne costruivano, con abiti vecchi e segatura, una grottesca bamboccia dai lineamenti grossolanamente abbozzati col carbone, la ornavano con qualche semplice dolciume e i bambini sciamavano in spontanei cortei fingendo scaramucce a colpi di fantoccio. Oggi la sfilata si apre con il corteo storico, che vede giovani a piedi o a cavallo in costumi cinquecenteschi. Trainati dai trattori che hanno sostituito i grossi e indolenti buoi lustrati e infiocchettati per l’occasione, si snoda la fila dei carri allegorici, alcuni realizzati con articolate strutture di cartapesta, altri più semplicemente, che poco hanno a che vedere con quei travestimenti fatti di abiti smessi e vecchi cappelli di una volta. A guidarli svetta il carro della Vecchia, imponente figura, un tempo adorna di collane di carrube, arance e nocciole che venivano lanciate ai partecipanti. Ai venditori ambulanti di dolciumi e frutta secca, che si consumava in famiglia per la gioia di tutti, si sono sostituiti stand gastronomici che rendono “appetitoso” il pomeriggio con piatti tipici della gustosa cucina romagnola e buon vino. Bimbi mascherati e attoniti, in una folla eterogenea non solo per età, ammirano i carri succedersi per le strade immerse in un tripudio di colori e musica, volta ad esaltare il clima di festa. Fintanto che, a pomeriggio inoltrato, arriva l’appuntamento più atteso. La folla si raduna attorno alla piazza principale, mentre la Vecchia viene sistemata per il rogo che avverrà non appena il banditore avrà letto, di rito, l’antica sentenza di condanna. E all’imbrunire, avvolte in un’atmosfera quasi estatica, le fiamme si levano alte, incantando gli occhi degli astanti come solo la magia del fuoco sa fare… una magia senza tempo.

S to ria

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L'uomo non è del tutto colpevole, poiché non ha cominciato la storia;

né del tutto innocente, poiché la continua. Albert Camus

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G i u l i a n o Be t t ol i

Il tempo dei bastioni di Faenza r ima sti inv iola ti dall’ unico a ttacco che sub iro n o

THE WALLS OF FAENZA_ OR HOW THEY REPELLED THE ONE ASSAULT THEY EVER HAD TO ENDURE The walls of Faenza – or rather what’s left of them – are mostly covered by buildings or trees, and are scarcely evident today. And yet it took Faenza’s ruling Manfredi dynasty nearly a century, from around 1376 to 1470, to build the walls, with a circumference of 5,320 metres, complete with a 30-metre wide ditch, gates, towers, and ramparts. The labour and expense involved were enormous, but on only one occasion did the walls prove of any use. In doing so, however, they brought fame and glory to the inhabitants of Faenza. The time was late in the year 1500. Cesare Borgia, il Valentino, son of pope Alexander VI and brother of Lucrezia Borgia, had resolved to carve out a kingdom for himself and, supported by his father, set out to conquer Romagna and the Marche. His army numbered fifteen thousand men and included the cream of the condottieri of the period: Vitellozzo Vitelli, Gian Paolo Baglioni, Onorio Savelli, Ferdinando Farnese, Giulio and Paolo Orsini. Caterina Sforza’s Forlì held out one month; Pesaro, Rimini and Imola surrendered immediately. Faenza, however, chose to resist. Proud and united behind its young ruler – the sixteen year old Astorgio III Manfredi – the town entrusted control of its forces to Bernardino da Marzano and resolved to resist to the end. Maybe, people reasoned, Venice or Florence would come to their assistance. Cesare Borgia began his siege of Faenza on 16 November 1500. The walls and castle, after prolonged artillery bombardment, were furiously assaulted. But Faenza defended itself with equal vigour. Even girls distinguished themselves in the battle – one, Diamante Torelli, wrenched the banner from an enemy standard bearer who had managed to climb onto the ramparts, and threw back the ladders which the invaders were climbing. Il Valentino had probably seen Faenza as an easy conquest. But the days became weeks, and the weeks became months, and every new assault was repelled, accompanied by some courageous sorties by the town’s inhabitants. Faenza was clearly not about to surrender. There were many casualties, including two renowned condottieri, Savelli and Farnese. The siege had lasted five months when on 18 April 1501 Borgia’s artillery again pounded walls and castle. On the following day no less than 1660 missiles were launched. More attempts on the walls ensued, and the death toll rose. Yet, despite the overwhelming superiority of the enemy, it took just one traitor (at Thermopylae, Ephialtes, in Faenza, Germinante) to let the invaders finally pour into the town. Faenza surrendered on honourable terms on 25 April 1501. After Cesare Borgia’s demise, the town passed briefly under the control of Venice before becoming part of the Papal States for the following centuries. Over time, its redoubtable walls were reduced to the humbler station of customs boundary, a source of income (its ramparts and ditches were leased to private entrepreneurs), and a source of building materials. They even became a rather tiresome obstacle to the expansion of the town. Today, only 3,535 metres of the original perimeter remain, partially concealed, as if ashamed to announce their presence. And yet, just as a single day of glory is enough to vindicate a man’s whole existence, Faenza’s walls knew not one day but five months of glory. They’ve earned their rest.

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Le mura di Faenza, o meglio, quel che resta di esse, coperte spesso da costruzioni o da alberi, non si notano molto oggi.

E

ppure i Manfredi, signori della città, impiegarono quasi un secolo per completarle. Pressappoco dal 1376 al 1470: cinque chilometri e 320 metri di

mura, con relativo fossato, largo una trentina di metri, le porte, i torrioni, i terrapieni. Lavoro e costo: enormi. E pensare che, quelle mura, servirono una volta sola. Anche se quella volta servirono sul serio, e fecero fare una bella figura, anzi una gloriosa figura ai faentini. È la fine dell’anno 1500. Cesare Borgia, il “Valentino”, figlio del papa Alessandro VI e fratello di Lucrezia Borgia, è intenzionato a crearsi un dominio personale, aiutato dal padre, muove alla conquista della Romagna e delle Marche. Ha quindicimila uomini e il fior fiore dei condottieri del tempo: Vitellozzo Vitelli, Gian Paolo Baglioni, Onorio Savelli, Ferdinando Farnese, Giulio e Paolo Orsini. La Forlì di Caterina Sforza resiste un mese. Pesaro, Rimini ed Imola si arrendono subito. Faenza no. Stretta orgogliosamente attorno al suo giovanissimo signore – l’appena sedicenne Astorgio III Manfredi – affida il comando delle sue milizie a Bernardino da Marzano e decide di resistere ad oltranza. Chissà che Venezia o Firenze non vengano in suo soccorso. Il Valentino inizia l’assedio di Faenza il 16 novembre 1500. Le mura e la rocca, dopo essere state battute a lungo da fittissimi colpi di artiglieria, vengono assaltate furiosamente. Ma i faentini si difendono con altrettanto impeto. Persino una ragazza, Diamante Torelli, si distingue nella battaglia. Strappa l’in-

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segna ad un alfiere nemico ch’è riuscito a salire sugli spalti e rovescia nel fossato le scale sulle quali si arrampicano gl’invasori. Il Valentino, l’impresa di Faenza, l’aveva giudicata facile. Passano invece i giorni e passano i mesi, tra ripetuti assalti sempre respinti, e coraggiose sortite dei faentini: Faenza non si arrende. Molti i morti. Cadono, uccisi, anche due famosi condottieri: il Savelli e il Farnese. Cinque mesi durerà l’assedio. Il 18 aprile 1501, le artiglierie del Borgia riprendono a martellare mura e rocca. Il giorno dopo vengono sparati ben 1660 colpi. Ancora assalti, ancora morti su morti. Eppure, nonostante la superiorità soverchiante dei nemici, solo un traditore – come alle Termopili (là Efialte, qui Germinante) – permetterà all’invasore di prevalere. Faenza è costretta ad arrendersi, con patti onorevoli, il 25 aprile 1501. Poi, finito subito il potere del Valentino, e dopo un breve dominio di Venezia, rimarrà per secoli a far parte dello Stato Pontificio. Le sue gloriose mura, col tempo, diventeranno, malinconicamente, cinta daziaria, fonte di reddito (con l’affitto ai privati dei terrapieni e dei fossati), cava di materiale edilizio. Diverranno addirittura un fastidioso ostacolo allo sviluppo urbanistico della città. Oggi, del perimetro originario, restano soltanto tre chilometri e 535 metri di mura. Seminascoste, sembrano quasi vergognarsi. E tuttavia, come un uomo degno di questo nome può vantarsi, se nella sua esistenza ha vissuto un giorno da leone, le mura di Faenza, che “da leone” vissero ben cinque mesi, mi pare possano tranquillamente leccarsi i baffi.

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S to ria

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M a n l io R astoni

Un ciabattino che sparò a Napoleone III il ge sto e stre mo di Giov anni Pia nor i

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I romagnoli hanno una propensione per le ciclopiche dichiarazioni d’intenti fatte a voce alta; nulla di anomalo per un ceppo italico, non fosse che in buona parte dei casi tendono a mettere in opera il proposito dichiarato, per quanto folle.

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no dei casi più eclatanti mai occorsi del suddetto fenomeno si è avuto nella Romagna del Risorgimento; è iniziato con la perentoria affermazione: “Par

Dio, ai végh!” (Per Dio ci vado), ed è finita sugli atti del tribunale di Parigi. Il protagonista di questi fatti fu Giovanni Pianori, l’ottavo figlio di una famiglia di piccoli proprietari terrieri residenti in un minuscolo borgo vicino a Brisighella. Gente eccentrica, se si dà credito alle voci secondo cui il neonato Giovanni, una mattina d’inverno, sarebbe stato lanciato dalla madre fuori dalla finestra, a causa dei suoi pianti continui (atterrando per fortuna sulla neve fresca). Quando la famiglia si trasferì a Faenza, Pianori, che si guadagnava la vita con il poco poetico mestiere di calzolaio, acquistò rapidamente la nomea di giovane manesco e temerario. Ancora ragazzo si unisce alla Macchia Grande, una squadra di attivisti repubblicani che non risparmiano l’uso della violenza per contrastare ora il vescovo, ora il governatore di Faenza. È in questo periodo che merita la fama di eccellente tiratore, in grado, si dice, di spegnere una candela con il proiettile di una rivoltella da trenta passi di distanza. Una tradizione orale giunta fino a noi racconta persino che Giovanni un giorno arrivò a puntare la pistola contro l’armaiolo presso il quale l’aveva appena ritirata. Il colpo non partì e, al povero armaiolo quasi morto di paura, Pianori avrebbe riconsegnato l’arma, avvertendolo che non si consegna ad un cliente come lui un’arma guasta.

destinità. La sua esistenza da esule non lo tiene però separato dalla vita sociale e politica di Faenza. Egli rimane costantemente in contatto con l’ambiente repubblicano e, in spregio alle forze dell’ordine si azzarda anche, di tanto in tanto, a recarsi dal barbiere della piazza. Inoltre, venuto a sapere del tradimento della moglie, piomba a Faenza ed assassina il suo amante.

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tro di lui un ordine di cattura che lo costringe alla fuga dall’Italia e alla clan-

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Nell’estate del 1850, in seguito ad un processo per omicidio viene spiccato con-

Con il passare del tempo, un clima di distensione, comincia a diffondersi in Romagna ed il carattere irascibile di Pianori fa si che i suoi stessi simpatizzanti comincino a considerarlo pericoloso. Così, quando nell’ottobre del 1854 egli si fa rivedere a Faenza covando propositi di giustizia sommaria, uno dei suoi compari, preoccupato delle possibili conseguenze dei suoi gesti sconsiderati, gli urla, con intento provocatorio: “Hai voglia di fare qualche cosa? Va a Parigi, e ammazza Napoleone!…”. La risposta che ricevette, già la conosciamo. Un anno dopo la sua perentoria affermazione, il 28 aprile del 1855 a Parigi, Pianori uscì di casa verso le tre del pomeriggio e si diresse di buon passo verso

S to ria

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Popolani vogliosi santamente audaci, pronti a sorgere al primo invito, capaci di

THE COBBLER WHO SHOT AT NAPOLEON III_ OR HOW GIOVANNI PIANORI WAS AS GOOD AS HIS WORD... The people of Romagna are known for their propensity to exaggerate when it comes to stating their intentions – hardly an unusual characteristic for a people of Italic stock, you might think, were it not for the fact that in many cases they’re as good – or as mad – as their word. One of the most impressive cases ever recorded of this phenomenon occurred during the Risorgimento. It began with an oath: “Par Dio, ai végh!” (By God, I’ll go!) and ended in a Parisian courthouse. The protagonist of the story was Giovanni Pianori, eighth son of a family of smallholders from a small village near Brisighella. They were an eccentric lot, if we are to believe the account according to which one winter morning his mother, exasperated at his constant wailing, threw the newborn Giovanni out of the window (fortunately his fall was broken by fresh snow). When the family moved to Faenza, Pianori, who earned his living in the unglamorous occupation of shoemaker, quickly acquired a reputation as a rash youth who was free with his fists. While still a young man he joined the Macchia Grande, a cell of republican activists who did not balk at the use of violence in their struggle against the bishop and governor of Faenza. It was in this period that Pianori gained a reputation as a skilled marksman, capable, it was said, of putting out a candle at a distance of 30 paces with his revolver. The surviving oral tradition even recounts that one day Giovanni went so far as to threaten a gunsmith with the very weapon he had just given him. The shot went wrong, and Pianori returned the weapon to the terrified gunsmith, warning him not to give faulty arms to a man like him. In the summer of 1850, a warrant was issued for Pianori’s arrest in the wake of a murder trial, and he was forced to flee Italy to take up a clandestine existence abroad. His condition as exile failed to sever his links with the social and political life of Faenza, however. He remained in constant contact with the republican circles there, and in blatant disregard of the forces of law and order he even made the occasional visit to the barber on the town’s main square. On another occasion, having learned that his wife had been unfaithful to him, he showed up unexpectedly in Faenza and killed her lover. The new political climate which later established itself in Romagna led to an easing of tension, and Pianori’s irascible character began to alienate him even from his own political allies. So, when in October 1854 he was once again in Faenza holding forth on popular justice, one of his accomplices, concerned about the possible consequences of his rash words, shouted at him by way of provocation: “You want to do something? Go to Paris and kill Napoleon!”. Pianori’s riposte, given above, has since gone down in history. Paris, 28 April 1855 – one year after his peremptory assertion, Pianori left his house around three in the afternoon and set off at a brisk pace for the Champs-Elysées, boulevard of choice for the afternoon promenade of many Parisians, including the emperor himself. As usual, Napoleon III went on horseback - his favourite mode of displacement in public, as height gave a martial bearing to his rather diminutive figure. He was escorted by two officials, his lieutenant Edouard Ney on his right and lieutenant colonel Valabrègue on his left. Pianori approached the kerbside quickly and calmly, but the figure of Valabrègue partly concealed his target; Pianori, though unable to find a better position, took out his gun and fired anyway. Before Ney pounced on him he had time to fire a second shot, the bullet grazing the emperor’s head. Pianori was about to pull out a second revolver when the emperor’s escort and imperial police agents managed to bundle him to the ground and get the better of him. They found a further two pistols on his person, as well as a dagger and a razor blade. They also found he had concealed a beret under his hat, and wore another habit under his cape. This was no suicide assassination attempt, therefore; Pianori had intended to make his getaway. It was also reported that a coach was waiting for him nearby, its door held open by a mysterious woman. What the newspapers of the day did not report was that the first bullet got the emperor full in the chest – his chain mail cuirass saved his life. That evening, the Te Deum rung out from the churches of Paris as a token of gratitude, ordered by the city’s archbishop, for the failure of the assassination attempt. In jail, Pianori maintained an aloof silence; when asked if he had accomplices he answered: “I’ll have emulators”; when offered the services of a priest, he refused curtly. The press played down the event, reporting merely that Pianori “was administered capital punishment at 5 in the morning, in the square used for similar executions”. Giovanni Pianori expended his last death on a cry: “Viva la Repubblica. Viva l’Italia!”, preceded, according to some sources, by an imprecation directed at his executioner: ”Fa prest brôtt vigliach d’un boia!” (Get it over with you ugly lily-livered butcher!). Pianori’s deeds obviously made a deep impression on the inhabitants of his native village, who even today maintain that his ghost stalks the cellars of his family’s farmhouse, holding not his faithful pistol but a candle. Besides their historical interest, the events just narrated can also be read as a cautionary tale, as an illustration of the ease with which the typical Romagnol lets himself be dragged along by the impetus of his own words, and of how once the initial passion has died down, he will go to tremendous, even fatal, lengths in his attempts to match his deeds to his words.

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imbandire coltelli contro cannoni, capaci di osare e morire come Pianori. Giuseppe Mazzini

gli Champs-Élisées, luogo deputato alla passeggiata pomeridiana dei parigini, abitudine comune all’imperatore stesso. Come di consueto Napoleone III giunse a cavallo, la sua maniera preferita di mostrarsi al pubblico, per via dell’aspetto marziale che la cavalcatura conferiva pure alla sua corporatura minuta. È scortato da due ufficiali: il tenente Edgardo Ney alla sua destra, ed il tenente colonnello Valabrègue a sinistra. Pianori si avvicina, rapido e calmo, fino al limite del marciapiede, la figura del colonnello gli nasconde in parte il bersaglio, non trovando, tuttavia, posizione migliore Pianori estrae l’arma ed esplode un colpo. Prima che Ney gli sia addosso ha il tempo di sparare una seconda volta, la palla sfiora la testa dell’imperatore, e mentre Pianori sta

pugnale ed un rasoio. Indossava, inoltre, un berretto sotto il suo cappello ed un altro abito sotto il suo vestito. Non si trattava dunque di un attentato suicida, Pianori aveva considerato la possibilità di riuscire a fuggire. Si disse anche che nelle vicinanze sostasse una carrozza ad aspettarlo, il cui sportello era tenuto aperto da una misteriosa donna.

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atterrarlo e ad aver ragione di lui. Gli troveranno addosso altre due pistole, oltre ad un

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per estrarre una seconda rivoltella, scorta ed agenti della polizia imperiale riescono ad

Ciò che i giornali non riportarono è che il primo proiettile aveva colpito l’imperatore in pieno petto, fermato dalla corazza di maglia che indossava. A sera, le chiese della capitale risuonarono del Te Deum di ringraziamento ordinato dall’Arcivescovo di Parigi per celebrare il fallimento dell’attentato. In carcere Pianori si trincerò in un dignitoso silenzio; a chi gli chiese se avesse dei complici rispose: “Avrò degli emuli”, a chi gli chiese invece, se volesse un prete, rispose con un secco diniego. La stampa soffocò la notizia scrivendo semplicemente “Pianori ha subìto la pena capitale alle ore 5 nella piazza destinata a simili esecuzioni. Quel giorno Giovanni Pianori il suo ultimo respiro lo spese nel grido: “Viva la Repubblica. Viva l’Italia!”, preceduto secondo alcune fonti dall’imprecazione rivolta al suo giustiziere: “Fa prest brôtt vigliach d’un boia!” (Fa presto brutto vigliacco di un boia!). L’eco delle sue gesta deve aver lasciato una profonda traccia se gli abitanti del suo borgo natio sostengono tuttora che il suo spirito si aggiri nei sotterranei del casolare di famiglia, spegnendo (non più con la sua fedele pistola) le candele che vi vengano lasciate dopo il tramonto. Oltre all’importanza storica che riveste la vicenda narrata, valga essa ad inoppugnabile prova di come, per quanto facilmente il romagnolo rappresentativo si faccia spesso trascinare dall’irruenza delle sue stesse parole, tanto agilmente esso sia disposto ad “arrampicarsi”, una volta passata l’eccitazione, per tentare di raggiungerle con i fatti.

Pa ssio n i

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P i e r l u i gi Pa pi

Il legionario straniero della musica italiana

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Ino S avi ni , di rettore “indipe nde nte ”

THE FOREIGN LEGIONNAIRE OF ITALIAN MUSIC_ INO SAVINI, THE WANDERING CONDUCTOR

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The Romagnol flair for the arts is deeply rooted and finds expression in many fields. Even in so-called “learned” music, thanks to some major artists. One of whom is Ino Savini, whose name has recently come to the attention of a wider public with the opening in his native city of Faenza of a music foundation with an impressive cultural brief (www.fondazionesavini.it). Ino Savini (1904-1995) was born into a family whose livelihood depended in no small part on music: his father was a piano maker, his sister Assunta a concert pianist and teacher. He initially trained as a composer, twice winning the national composition prize of the Neapolitan Scarlatti Society, on whose jury sat the maestri Cilea, Ferrari, Longo. While studying as a composer he discovered a special vocation conducting and began working as an orchestral director; but his new career was almost immediately interrupted when he left to take over the business which his father had founded. Savini began conducting on a regular basis in the late 1930s, only to see the outbreak of the Second World War again force him to break off his career. Once the war was over he dedicated himself on a full time basis to conducting orchestras, in Italy and abroad, concentrating on lyrical and symphonic pieces. His excellent sense of metre, expressive style and exceptional memory allowed him total independence from his score. In 1953 Savini left Italy to take up an appointment as musical director of the symphonic orchestra of Porto, returning to Italy only sporadically. He left in 1956 after having conducted over 200 concerts, many of them world premieres. Savini continued working as an orchestra director after his Portuguese sojourn, mainly abroad, which led the press to label him “the foreign legionnaire of Italian music”. In 1963 he worked as guest director at Royal Theatre in Stockholm, a job he performed with such success that he was immediately offered the post of resident conductor – becoming the only Italian conductor ever to occupy the post in the centuries-old history of so prestigious a theatre. He occupied the post until 1966. From 1967 onwards Savini worked in Czechoslovakia, Spain, France, Germany, and Turkey. He retired in 1974, making only the occasional public appearance and dedicating himself to the completion of a project he had started years earlier on the research, reconstruction and revision of the music of Italian composers whose works had been dispersed. An indefatigable personality with deep ties to his native city and region, his works include “Storia Musicale e Teatrale di Faenza”.

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La vocazione romagnola per le “arti” è forte e radicata in tutte le sue forme.

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on da meno nella musica cosiddetta colta, grazie ad alcuni importanti artisti. Uno fra questi è sicuramente Ino Savini, tornato recentemente alla cronaca di un pubblico più vasto in quanto nella sua città natale, Faenza, gli è stata da pochissimo intitolata una fon-

dazione musicale dagli importanti obiettivi culturali (www.fondazionesavini.it). Ino Savini (1904 - 1995) nasce in una famiglia che “vive” di musica, con il padre costruttore di pianoforti e la sorella Assunta concertista ed insegnante di pianoforte. Si dedica inizialmente all’attività compositiva e vince due volte (1927 e 1928) il Primo Premio del Concorso Nazionale di composizione della Società D. Scarlatti di Napoli, la cui commissione giudicatrice è composta dai maestri Cilea, Ferrari, Longo. È proprio nel dirigere l’esecuzione di tali composizioni che scopre una particolare attrazione per il podio e si avvia all’attività di direttore d’orchestra che deve quasi immediatamente interrompere per condurre l’azienda creata dal padre. Riprende a dirigere con continuità sul finire degli anni Trenta, ma il secondo conflitto mondiale lo costringe ad un’altra pausa forzata. Al termine del conflitto si dedica totalmente alla direzione d’orchestra, in Italia e all’estero, cimentandosi nel repertorio lirico e sinfonico. Dotato di grande “braccio”, chiarissimo gesto direttoriale, eccezionale memoria che gli consentiva una completa indipendenza dalla partitura e temperamento trascinante. Nel 1953 lascia l’Italia, dove tornerà solo sporadicamente, per assumere l’incarico di Direttore Musicale unico dell’Orchestra Sinfonica di Oporto, che lascerà nel 1956 dopo aver diretto più di 200 concerti molti dei quali in prima esecuzione mondiale. Terminato l’impegno in Portogallo, continua a svolgere la propria attività di direttore d’orchestra, prevalentemente all’estero, tanto da essere definito dalla stampa “Il legionario straniero della musica italiana”. Nel 1963 viene invitato a dirigere al Teatro Reale di Stoccoloma: il successo che riscuote è tale che gli viene immediatamente offerta la carica di Direttore Stabile, unico direttore italiano chiamato a ricoprire tale incarico nella centenaria storia del prestigioso teatro. Ruolo che ricoprirà fino al 1966. Dal 1967 concentra la propria presenza in: Cecoslovacchia, Spagna, Francia, Germania, Turchia. Nel 1974 decide, salvo rare eccezioni, di ritirarsi dall’attività pubblica, e si dedica a completare la ricerca, ricostruzione e revisione, da tempo iniziata, delle musiche di alcuni compositori italiani le cui opere erano andate disperse. Instancabilmente attivo e legato profondamente alla sua terra ed alla

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sua città, ha realizzato la “Storia Musicale e Teatrale di Faenza”.

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Il mondo può essere visto come un mezzo di propagazione delle onde sonore. Nicola Tesla

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Carlo Zauli

Terra che accoglie v ino che r iscalda Di tutti i piaceri che conosciamo, già il semplice tentativo di conseguirli è piacevole. L'impresa risente della qualità della cosa a cui mira. Michel de Montaigne

Pur avendo la famiglia Trerè da sempre operato nel settore agricolo, fu Valeriano Trerè, all’inizio degli anni ’60, il primo ad intraprendere l’attività in proprio con l’acquisizione di 14 ettari di terreno sulle colline faentine.

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a sua lungimiranza ne fece un pioniere nella produzione dei primi tre vini DOC della zona: Albana, Trebbiano e Sangiovese. Dal 1976 l’attività viene

seguita dalla figlia Morena, che oggi porta avanti l’azienda affiancata dal figlio Massimiliano. Ad ora la fattoria si estende su una superficie di 35 ettari interamente coltivati a vite e dal 1997 l’azienda comprende un’ala adibita ad agriturismo con un eccellente ristorante. Su tutti i fronti, la famiglia Trerè è costantemente impegnata a promuovere e curare sempre di più qualità ed immagine dei vini romagnoli, in particolare del loro celebrato decano: il Sangiovese.

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A WELCOMING PLACE_ A WINE TO WARM THE SOUL The Trerè family have always been farmers, but not until the early 60s, in the person of Valeriano Trerè, did they also become landowners with the purchase of 14 hectares of land on the hills of Faenza. Valeriano Trerè’s foresight made him a pioneer in the production of the first three DOC wines of the zone: Albana, Trebbiano and Sangiovese. In 1976 Valeriano’s work was taken up by his daughter Morena, who together with her son Massimiliano still runs the firm today. The family estate now extends over 35 hectares fully planted with vines, and since 1997 the estate has also operated a farm holiday business with an excellent restaurant. Whatever activity they’re involved in, the Trerè family is constantly committed to promoting the quality and image of Romagna wines, and its star attraction in particular: Sangiovese.


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Sperone _ Sangiovese di Romagna Superiore DOC Uve: Sangiovese 85%, Merlot 10%, Syràh 5%. Questo vino si ottiene con una lunga macerazione sulle bucce e frequenti follature. Il colore è rosso rubino intenso, il sapore è pieno, morbido e consistente, il profumo è quello caratteristico della viola mammola. Gli abbinamenti gastronomici ideali si hanno insieme ai primi conditi con ragù di carne, alle carni bianche, agli arrosti e ai brasati. Le sue caratteristiche organolettiche migliorano nei due anni successivi alla vendemmia. Sperone_ Sangiovese di Romagna Superiore DOC - Grapes: Sangiovese 85%, Merlot 10%, Syràh 5%. This wine is obtained via extended maceration with frequent pressing. The colour is a deep ruby, the flavour full, soft and consistent, with a pronounced bouquet of violet. Goes particularly well with first courses featuring meat ragù, white meats, roasts and braised meats. Its organoleptic properties improve for two years after vintage.

Amarcord d'un Ross _ Sangiovese di Romagna Riserva DOC Uve: Sangiovese di Romagna 85%, Cabernet Sauvignon 15%. Amarcord d'un Ross significa in dialetto romagnolo: “mi ricordo di un rosso”. Amarcord è inoltre il nome di un famoso film di Federico Fellini che narra il ricordo della sua infanzia. Ottenuto da uve sangiovese ad acino grosso e uve cabernet sauvignon, entrambe vinificate con lunga macerazione sulle bucce, viene successivamente messo ad invecchiare in piccole botti da 225/300 Lt. di rovere francese (barriques). Dopo circa due anni è pronto per il consumo. È un vino è di corpo e struttura, dal colore rosso rubino molto concentrato e consistente con orlo che sfuma verso le tonalità del melograno. Nella successione aromatica sfilano i sentori delle confetture di prugne, more e ciliegie. Il sapore è caldo ed equilibrato. Si abbina eccellentemente a tutti i piatti di carne importanti: arrosti, selvaggina, stracotti, brasati, tartufi. Amarcord d'un Ross_ Sangiovese di Romagna Riserva DOC - Grapes: Sangiovese di Romagna 85%, Cabernet Sauvignon 15%. Amarcord d'un Ross means “I recall a red” in the Romagnol dialect. Amarcord is also the name of a well-known film by Federico Fellini which narrates his childhood. It’s obtained from large Sangiovese grapes and Cabernet Sauvignon grapes, which are left to macerate on skins for long periods before the must is transferred for ageing to small 225/300 litre French oak barrels known as barriques. It’s ready to drink after about two years. A wine with good body and structure, with an even, dense ruby colour verging on pomegranate. To the nose it gives notes of plum, blackberry and cherry jam. The flavour is warm and well-balanced. Goes excellently with all the major meat dishes – roasts, game, stews, braised meats – and with truffles. foto d’archivio

Re Nero _ Colli di Faenza Sangiovese DOC _ Uve: Sangiovese 100% Anche questo prodotto fa parte delle ultime DOC dei colli di Faenza, che impongono

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disciplinari più severi rispetto alle DOC tradizionali. Massimo 90 Ql. di produzione di uva per Ha. Il particolare clone di sangiovese selezionato in azienda matura verso la metà di ottobre, epoca in cui si procede alla raccolta selezionata delle uve in cassette da 20 Kg. La vinificazione è lenta con lunga maturazione sulle bucce. Il vino si affina per 3/4 mesi in botticelle di rovere da 225 Lt. per essere imbottigliato verso la fine di marzo. Il Re Nero è un vino dai ricchi estratti con fascinose tinte violacee e piacevoli note di frutta rossa. È ideale a tutto pasto in particolar modo con i piatti di carne. Re Nero_ Colli di Faenza Sangiovese DOC – Grape: Sangiovese 100% Another of the more recent DOC wines from the hills of Faenza, whose standards are more severe than those for traditional DOC wines. Each hectare yields a maximum of 90 ql. of grapes. The special Sangiovese clone cultivated on the estate ripens around mid-October, with the grapes selectively harvested and collected in 20 Kg crates. Prolonged vinification includes extended maceration on skins. The wine is refined for 3-4 months in 225-litre oak barrels before bottling in late March. Re Nero is a wine with a rich essence, attractive violet tones and agreeable notes of red fruits. It’s an ideal accompaniment for all meals but with meat dishes in particular.

En o g a stro n o mia

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I ta l o e Va n n a Gra z i a ni

Lunario e sapori

I èlbar i éra biènch ad bróina e al strèdi e la campagna al pareva quarti ‘d lenzul. Pu l’è avnù fura e’ sòul ch’l’a sughè l’univèrs e sultènt agli òmbri agli è rèsti bagnédi.

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la s t a g i o n e è quel tempo i n c ui l e cose sono ne lla loro pe r fe zione

REASONS FOR THE SEASON_ THE PERFECTION OF A TIME GONE BY Memories come back with a clarity and lucidity that’s almost surprising – a backward glance through the eating habits of fifty years ago. We find ourselves in the countryside of lower Romagna, where the ravages of war made their mark even on the most deeply-rooted traditions. Little by little we see changes in the habits and customs that oral tradition had protected and perpetuated, assisted in no small degree by the almost total illiteracy of the rural population. The appearance, flavour and smell of food comes back to us. Freshly-picked walnuts, their kernels still tender, which we ate with salt and the morning’s bread. Boiled cannellini beans with “Saba” sauce, a staple of winter dinners. In spring there were fresh peas combined with cuttlefish, always at their best before they had reproduced; the result was a dish which embodied all the rising vigour of the season. Boiled chickpeas (cicer arietinum, a yellow variety) went magically with olive oil: the type of condiment used always depended on the season, and each combination could only be used at certain times of the year. Fifty years on, food of every kind is available in abundance and ubiquity all year round. We have lost the sense of that happiness of “waiting without anxiety” for an approaching festa or for a fruit to come into season. The old “alphabet of taste” seems to have fallen into disuse, and we often ignore the principles which used to underpin our elementary eating habits. A Chinese proverb says the best way to preserve tradition is by adding a pinch of innovation, that way the new generation will want to follow it. Maybe it’s still possible to make today’s children appreciate the flavours and habits of earlier times – like the watermelon which, in mid-July or a little later, my uncle used to cut with an almost religious zeal. Maybe they’d be just as fascinated as I was at the quick movement of the knife, the noise the rind made as the blade split it into perfect segments.

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I Sensi di Romagna


Quando arrivano i ricordi, con precisione e lucidità quasi sorprendenti, si può ricostruire camminando a ritroso un’educazione alimentare di mezzo secolo fa.

E

ci ritroviamo nella campagna della Bassa Romagna, dove gli sconvolgimenti dati dal passaggio della guerra hanno inciso anche sulle tradizioni più radicate. Vediamo mutare, a poco a poco, usanze e norme che la cultura orale aveva protetto e perpetuato, com-

plice un analfabetismo quasi totale tra i contadini. Tornano alla memoria l’aspetto dei cibi, i sapori, i profumi. Noci appena raccolte, col gheriglio ancora fresco, mangiate toccando il sale con pane di giornata. Fagioli cannellini lessi e, aggiunta come condimento, la “saba”, che era parte razionata di una cena invernale. In primavera, invece, si univano i piselli freschi alla seppia, nel suo momento migliore prima della riproduzione; il risultato era un piatto che racchiudeva la forza di uno stadio obbligato del ciclo stagionale. Raffinato e magico era il rapporto tra cece (cicer arietinum, varietà cece del Fucino a semi gialli) lessato e olio d’oliva: la qualità di un condimento si legava sempre al procedere delle stagioni e questi abbinamenti avevano un rigoroso periodo d’uso a tavola. Cinquant’anni dopo, non ci sorprende più l’onnipresenza e l’abbondanza di prodotti, sempre e comunque. Abbiamo perso quella felicità che precedeva “l’attesa non ansiosa” di un frutto o di una festa che arrivava. Sembra caduto in dimenticanza l’antico “alfabeto del gusto” e spesso trascuriamo i principi che stavano alla base di quegli abbinamenti elementari. Recita un detto cinese: la tradizione può continuare se i maestri del tempo la sanno rinnovare per un quarto, dando alla nuova generazione la voglia di viverla. Forse è possibile emozionare un’infanzia di oggi con gesti e sapori d’una volta, come quello di un cocomero che a metà luglio, o poco dopo, lo zio tagliava con rituale quasi religioso. E probabilmente si resterebbe ancora affascinati dalla rapidità del movimento e dal

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rumore della buccia croccante che si spaccava perfettamente, precedendo sempre, per legge naturale, la lama del coltello.

Gli alberi erano bianchi di brina e le strade e la campagna parevano coperte di lenzuoli. Poi è venuto fuori il sole che ha asciugato l’universo e soltanto le ombre sono rimaste bagnate. Tonino Guerra

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En o g a stro n o mia

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Sa n dro Ba s s i

Io son nato sol per star coi pennelli in mano geni o ed ec c es si di Romolo Liv e ra ni

“Romolo Liverani (...)

uomo onoratissimo, poeta estemporaneo,

compagno gioviale, ed anche buon bevitore

al cospetto degli uomini e di Dio”.

Antonio Zecchini, Il cenacolo Marabini immagine d’archivio

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I Sensi di Romagna

BORN TO HOLD A PAINTBRUSH_ THE WAYWARD GENIUS OF ROMOLO LIVERANI Romolo Liverani (Faenza, 1809 - 1872) was the personification of the romantic cliché of the gifted but doomed artist, a type which prefigured that of the Parisian bohemians whose febrile existence was consumed by alcohol and sleepless nights, between wretched garrets and bistrot tables. It’s only a cliché of course, a stereotype mythologized by a vast literature. But for Liverani it was reality, and one for which he paid a high price. While the details may differ - Sangiovese instead of absinthe, sawdust tavern instead of bistrot, dank cubbyhole instead of freezing garret – the misery was the same. Romolo Liverani was, and still is, the greatest scene painter in the history of theatre in Faenza, as well as the most gifted vedutista or view painter of mid-19th century Romagna. He left thousands of drawings, all of them characterized by a quick and nervous stroke and a consummate handling of chiaroscuro rendered by the thousand gradations of tone of diluted India ink. Today, the consensus is that Liverani was neither a vedutista nor a painter in the stricter sense of the terms, as his drawings were always made as studies for theatre backdrops. Even if in many instances these drawings are now the only records of places or things which no longer exist, such as the ruined castles of the Apennines or the many urban views since changed beyond recognition, and are therefore priceless as historical documents, they must still be regarded as the work of a scene painter, not a history artist. The son of Gaspare Liverani, a stage hand in the local theatre, Romolo Liverani worked with his father from the age of six. Among costumes, wings, curtains, he mixed paints for his older brother Antonio, a painter who was found work sprucing up backdrops in the theatre. At the age of ten Romolo entered the local art school, an impressive achievement for one so young, but even more astonishing is that by fifteen he was already working as a professional scene painter in Faenza, Lugo, Ravenna and Senigallia. He went on to receive commission after commission, all of them discharged with rigour and passion and all of them badly paid – a fact to which Liverani’s own character probably contributed. “He had little business sense and took his pay in praise more than in money ... he was an affable man, sociable by nature, and everyone exploited his goodness a little.” By 1860, economic crisis was pushing many artists into hardship, and those already enduring hardship found themselves closer to the brink of destruction. Liverani scraped a living whichever way he could, his only commission in this period coming from the Franciscans, for whom he painted frescoes in the niches and altarpieces of several of their churches. His fee was his supper. His last works are dated 1869; but then “his hand grew heavy and tremulous” and he was forced to leave his house in Corso Mazzini for a fetid lodging at the bottom of Via Monaldina, now via Pascoli. He lived here with his wife, herself ill, until his death from poverty at sunset on 9 October 1872. He was 63.


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Romolo Liverani (Faenza 1809 - 1872) incarna in maniera emblematica il cliché, squisitamente ottocentesco, dell'artista geniale ma sfortunato, precursore dei bohémien parigini che brucieranno le tappe di un'esistenza febbrile consumata fra alcol e notti insonni, soffitte miserrime e tavolini di bistrot.

S

i tratta appunto di un cliché, per sua natura stereotipato e mitizzato da una vasta letteratura. Per Liverani, tuttavia, fu questa la realtà, tragica

e pagata di persona con un prezzo altissimo. Il paragone con i bohemién con il Sangiovese al posto dell'assenzio, le osterie della piazza al posto dei bistrot e un bugigattolo umido in vece delle soffitte da «gelida manina», ma con la stessa identica miseria - finisce qui. Romolo Liverani resta il maggior scenografo nella storia del teatro faentino, nonché il più fecondo vedutista del romanticismo romagnolo di metà ottocento. Ci ha lasciato migliaia di disegni, tutti caratterizzati da un tratto veloce e nervoso e soprattutto da un abile gioco di chiaroscuri ottenuti dalle mille gradazioni del nero di china diluito. Oggi si riconosce peraltro che Liverani non fu pittore né vedutista in senso stretto: i suoi disegni sono sempre finalizzati a ricavare idee per scenografie teatrali: anche se in molti casi restano le uniche testimonianze di realtà non più esistenti (è il caso dei ruderi di rocche dell'Appennino, oppure di molti scorci urbanistici oggi del tutto trasformati) e quindi con un valore testimoniale preziosissimo, vanno considerati opere di uno scenografo, non di un cronista descrittivo. Figlio di Gaspare, «macchinista del teatro comunale», Romolo segue il padre nel lavoro fin dall'età di sei anni. Vede costumi, quinte, sipari, mescola i colori per il fratello maggiore Antonio che è pittore e che vien

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chiamato sul palco quando c'è qualche fondale da ritoccare. A dieci anni viene iscritto alla Scuola Comunale di Disegno, ma il dato stupefacente è che a quindici fa le prime esperienze professionali come scenografo, a Faenza, Lugo, Ravenna e Senigallia. Verrà poi una lunghissima serie di commissioni, soddisfatte con rigore e passione, ma sempre malpagate, complice anche il carattere di Romolo «poco incline al mercimonio e più pago della lode che del denaro... fu uomo amabile, di spirito socievole, e della sua bontà un po' tutti approfittarono». Dopo il 1860, con la crisi economica che si ripercuote sugli artigiani e segnatamente su quelli operanti nel superfluo la sua situazione, già grave, precipita. Si adatta a lavori di ripiego, e solo i Francescani, per un piatto di

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minestra, gli fanno affrescare alcune nicchie delle loro chiese e qualche fondale d'altare. Le sue ultime opere datate sono del 1869; poi «la mano gli si fa pesante e tremula», è costretto a lasciare la casa di Corso Mazzini per una stanza malsana in fondo a Via Monaldina (oggi via Pascoli) dove si ritira con la moglie, anch'essa ammalata, e dove muore di stenti al tramonto del 9 ottobre 1872. Ha solo 63 anni. Arte

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La bellezza risplende nel cuore di colui che ad essa aspira

più che negli occhi di colui che la vede. Kahalil Gibran

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V i ol a E m a l d i

La Belle Epoque in Romagna e spre ssioni, luoghi, ambie nti e pe rsona lit à

In Italia si chiamò Liberty quella corrente di gusto sviluppatasi, tra gli ultimi decenni del sec. XIX ed i primi del XX, nel campo dell’architettura e delle arti decorative; fu il primo stile dell’Italia unita e, come tale, segnale dei tempi e di precisi mutamenti storici, economici e culturali in atto. immagine d’archivio

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I Sensi di Romagna


E

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ra quello un momento in cui l’opportunità economica si sposava con la richiesta di un diverso “decoro” da parte della

nuova borghesia: una committenza alla ricerca di una diversa immagine della città, luogo in cui le presenze architettoniche erano rappresentative di “ricchezza”. Benché affermatosi in ritardo rispetto ad altri paesi europei (come il Modern Style in Inghilterra, l’Art Nouveau in Francia o lo

Jugendstil in Germania), il Liberty segnò profondamente le nuove architetture urbane italiane, investendo anche l’edilizia popolare di un linearismo ispirato ora alla natura ora alla geometria. In Romagna si delineò un indirizzo estetico a sfondo naturalistico, a tendenza “floreale”, simbolo di un ritorno ad una società più semplice e bucolica. Quest’atteggiamento anticonsumistico divenne poi, con le debite differenze, comune a qualche cenacolo di artisti e pensatori come quello fondato da Domenico Baccarini a Faenza. Attorno a questa “mente aperta” si raccolsero, nel volgere di una breve stagione, giovani pittori, scultori e incisori che lasciarono profonde radici in Romagna influenzando un’intera generazione di artisti. Tra i più noti citiamo gli scultori Ercole Drei e Domenico Rambelli (vedi ee n°7), i disegnatori e incisori Giovanni Guerrini, Giuseppe Ugonia, Francesco Nonni e Giovanni Chiarini e il ceramista Pietro Melandri (vedi ee n°8). Si delineò, attorno al Circolo, un deciso orientamento verso la grafica simbolista e il disegno purista inglese che si innestò sul progredito artigianato faentino oltrepassando i limiti della provincia. Di minore rilievo artistico, ma di grande importanza per la diffusione dello stile, furono le tante manifatture locali quali la Ditta Matteucci di Faenza, produttrice di ferri battuti (sparsi un po’ ovunque, segnalano oggi l’utilizzo decorativo dello stile nei cancelli, nelle inferriate e sulle balconate), la Ditta Giunchi di Rimini, dai mobili noti per l’estrema semplicità e praticità, le ditte vetraie che lavorarono per le moltissime ville emiliane e romagnole e, ancora, le numerose legatorie e i laboratori d’oreficeria. Il Liberty si consolidò, così, in Romagna come espressione di una cultura comune in tutta Europa: poco omogenea sul piano delle problematiche sociali e ad un livello analogo di progresso tecnico. Successivamente il regime fascista, nella sua ascesa, cercherà di costruire un’immagine del paese in linea con i nuovi assetti di

ART NOUVEAU IN ROMAGNA_ STYLES, PLACES, ATMOSPHERES, PEOPLE Stile Liberty is the name given in Italy to new a current in the architecture and the decorative arts which emerged in the late 19th century and lasted into the opening decades of the 20th century. As unified Italy’s first new style, Liberty offers interesting testimony to the historic, economic and cultural changes the country was undergoing at the time. Liberty was the result of the combination of economic wealth and the demand among the emergent middle classes for a new decorative aesthetic: their attempt to imprint on their environment the symbols of new wealth. Although later to emerge in Italy than in other European countries (where it was variously known as Modern Style in the UK, Art Nouveau in France and Jugendstil in Germany), Liberty had a profound impact on new urban architecture in Italy, while its influence extended too to more vernacular idioms too, whose lines drew inspiration both from nature and from geometry. In Romagna, the Liberty aesthetic was strongly informed by naturalism, its “floral” character embodying a desire to return to a simpler, more bucolic way of life. This “anticonsumerist” spirit was shared, in various degrees, by the various groups of artists and thinkers in the region, such as the circle founded by Domenico Baccarini in Faenza. In the course of its short existence Baccarini’s circle was frequented by many young painters, sculptors and engravers who left deep roots in Romagna, their influence extending across an entire generation of artists. Among the most notable of these we can cite the sculptors Ercole Drei and Domenico Rambelli (see ee issue 7), artists and engravers Giovanni Guerrini, Giuseppe Ugonia, Francesco Nonni and Giovanni Chiarini, and ceramist Pietro Melandri (see ee issue 8). Their common denominator was a strong orientation towards symbolism and the back-to-basics approach of contemporary English design, which was taken up by the more progressive artisans of Faenza and soon spread beyond the confines of the province. Of minor artistic stature in themselves but of major importance in the diffusion of the style were countless local manufactures such as Faenza’s Ditta Matteucci, which produced wrought iron (found all over the region and still a testimony to the decorative application of the style in gates, fences and balconies), Rimini’s Ditta Giunchi, whose furniture was remarkable for its extreme simplicity and practicality, the glassmaking firms whose produce found its way to countless towns in Emilia and Romagna, as well as numerous bookbinding firms and jewellers. In this way Liberty established itself in Romagna as the expression of a trend common to the whole of Europe: there was little homogeneity in terms of approaches to social issues and on the analogous level of technical progress. Afterwards came the fascist regime, which in its early years sought to build an image of the country in keeping with the new power base. The government was a generous and open-handed patron, funding countless murals and sculptures in its attempts to consummate a break with the past. Soon, the new wave would consider the Liberty period’s applied arts, sculpture and narrative painting based on literary references as old hat.

potere. Il governo diventerà committente generoso e munifico, finanziando pitture murali e sculture, a patto di rompere col passato. In breve, le arti applicate, la scultura e la pittura del racconto basata su simboli e rimandi letterari finirono così per essere considerate anticaglie dai rinnovatori.

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Arte

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Territorio I Cavalieri del Tempio nella Valle del Marecchia_ tracce di una leggenda fra Cesena, Rimini e Sarsina The Knights Templar in Valle del Marecchia_ On the trail of a legendary order in Cesena, Rimini and Sarsina La casa dei mugnai ricorda_ macine che raccontano le antiche storie della vallata A restored mill which brings local history back to life_ Ancient grindstones tell a story

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Storia La cortigiana che divenne Imperatrice_ grandezza e dissolutezza di Teodora, sovrana di Bisanzio The courtesan turned Empress_ Vices and virtues of Theodora, sovereign of Byzantium La Festa d’la Vecia_ una celebrazione che continua a risorgere dalle proprie ceneri La Festa d’la Vecia_ A tradition that every year is reborn from its own ashes

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Passioni

Il tempo dei bastioni di Faenza_ rimasti inviolati dall’unico attacco che subirono

Un ciabattino che sparò a Napoleone III_ il gesto estremo di Giovanni Pianori

The walls of Faenza_ Or how they repelled the one assault they ever had to endure

The cobbler who shot at Napoleon III_ or how Giovanni Pianori was as good as his word... Il legionario straniero della musica italiana_ Ino Savini, direttore “indipendente” The foreign legionnaire of Italian music_ Ino Savini, the wandering conductor

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Enogastronomia Terra che accoglie_ vino che riscalda A welcoming place_ A wine to warm the soul Lunario e sapori_ la stagione è quel tempo in cui le cose sono nella loro perfezione Reasons for the season_ The perfection of a time gone by

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Arte Io son nato sol per star coi pennelli in mano_ genio ed eccessi di Romolo Liverani Born to hold a paintbrush_ The wayward genius of Romolo Liverani La Belle Epoque in Romagna_ espressioni, luoghi, ambienti e personalità Art Nouveau in Romagna_ Styles, places, atmospheres, people

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I Sens i di Rom agn a




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