Magazine EE nr 12

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I

nverno. Freddo e foschia conferiscono una sorta di trasparenza alle prospettive dei paesaggi

romagnoli, dando vita ad un'atmosfera quasi espressionista ed accentuando l'alone magico di certi angoli segreti che a

ee piace esplorare. Il gelo, però, non riesce a mitigare il sangue

caldo degli abitanti di questa terra, famosa per plasmare uomini dai molteplici ingegni. Allo scopo di raccontarli, nei loro pregi e difetti, in questo numero

ee dedica più spazio

alle passioni, narra poi di artisti radicali, di grandi innovatori e visita tempi nostalgici in cui i suonatori ambulanti sfidavano il freddo e gli stenti. Oggi, l'inverno che incede forse non fa più paura, lo si contrasta ancora con un calice di vino robusto ma non si guarda più con la coda dell'occhio alla dispensa come unico viatico per la bella stagione. Eppure, con un misto di curiosità ed umiltà, ancora molti occhi, in questa terra legata alla propria memoria, vedendolo calare si augurano in cuor loro che non riservi i rigori della stagione polare che strinse nella sua morsa la Romagna del 1929. La Redazione di

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Winter. Cold and mist lend a sort of transparency to the perspectives of the Romagna landscapes, giving life to an almost expressionist atmosphere and emphasising the magic aura of certain secret corners that ee likes to explore. However, the intense cold is not able to mitigate the warm blood of the inhabitants of this land, famous for shaping men and women of multiple talents. In order to tell you about them in their merits and defects, in this issue ee dedicates more space to the passions, then tells about radical artists, great innovators and visits nostalgic times in which the street-musicians challenged the cold and hardships. Today, perhaps, the approaching winter no longer scares us, we still resist it with a glass of robust wine, but we no longer look out of the corner of our eye at the storeroom as the only viaticum for the springtime. And yet, with a mixture of curiosity and humility, many eyes, in this land tied to its own memory, seeing winter descend, still hope in their heart of hearts that it will not bring with it the hardships of the polar season that gripped Romagna in its vice in 1929. The editorial staff of ee

E di t or i a l e

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I t a l o e Va n n a G ra z i a n i

Il crocicchio delle “apparizioni”

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ma gie a Se tte fon ti

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I Sensi di Romagna


Andando a visitare Settefonti ho rivisto il mio mondo di bambino, dove “regali di parole” degli anziani facevano le funzioni di un cordone ombelicale con il passato e le regole per la sopravvivenza erano rigorose.

M

i piace ricordare l'esistenza, nella nostra vita infantile, di una coperta azzurra, “la coperta dello spirito”, che non aveva padroni e si usava solo di giorno, arcaico angelo custode di una cultura con-

tadina con radici profonde. Sconfinare nell'universo delle credenze è un modo per alimentare una necessaria e umile riflessione sull'importanza del legame naturale con la terra in cui si è nati e a cui, in un certo senso, si appartiene. Poi molte ragioni si intrecciano, e diluiscono, ma non cancellano, simboli e definizioni; restano tracce indelebili di scelte fatte secoli fa, con la presenza di misteri ancora palpabili. I racconti di apparizioni in luoghi particolari - i luoghi nei quali, appunto, “ci si vede” - erano nella mia educazione un deterrente, accrescendo quell'incredulità irrisa da molti. Sono andato a Settefonti una domenica mattina, accompagnato da una curiosità che la tranquilla certezza del giorno aveva privato di qualsiasi ombra d'inquietudine. Non riuscendo a contattare la mia “guida”, una signora del posto, ho iniziato a cercare da solo l'incrocio con sette strade dove “ci si vede”. Trovato, con qualche difficoltà, questo insolito crocevia, sono sceso dall'auto e un uomo, giunto subito dopo a bordo di una jeep, mi ha domandato: - Buongiorno! Sa che in questo posto ci si vede? - Senza nemmeno aspettare risposta ha continuato: - Sono passato di qui una notte. Un coniglio era fermo sulla strada ed io sul trattore sono rimasto paralizzato dal fascino e dalla paura -. Non ho chiesto il suo nome e abbiamo parlato: iniziando a camminare, mi ha raccontato della sua infanzia trascorsa in una casa nelle immediate vicinanze. Delle sette strade che originano dall'incrocio, una conduce alla scuola, due alla chiesa, una a Casola Valsenio, una a Zattaglia, una è una mulattiera e l'ultima porta al cimitero. Proprio lì ci siamo diretti: dentro, alcune croci in ferro senza nome destinate ad infanti morti prima del

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battesimo e, come mi ha indicato l'uomo, la lapide di Onorino, padre dell'ultimo parroco. Notevoli i ven-

Il sentimento più forte e più antico dell'animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell'ignoto. H.P. Lovecraft

Ter r i t or i o

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THE CROSSROAD OF “APPARITIONS”_ MAGIC IN SETTEFONTI

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J. Sabbioni

Ascolto senza guardare, così vedo.

Going to visit Settefonti I saw the world of my childhood again, where the senior citizens’ “gifts of words” acted as an umbilical cord with the past and the rules for survival were strict. I like recalling the existence in our childhood of a blue blanket, “the blanket of the spirit”, which had no owners and was only used during the daytime, archaic guardian angle of a deep-rooted country culture. Crossing the frontier into the universe of beliefs is a way of nourishing a necessary and humble reflection on the importance of the natural tie with the land in which we are born and to which, in a certain sense, we belong. Then many reasons intersect, and dilute, but do not cancel, symbols and definitions; indelible traces of choices made centuries earlier remain, with the presence of still palpable mysteries. The stories of apparitions in particular places – the places in which, precisely, “one can meet” – were a deterrent in my education, increasing that incredulity made fun of by many. I went to Settefonti on a Sunday morning, accompanied by a curiosity that the tranquil certainty of the day had deprived of any shadow of uneasiness. Not being able to contact my “guide”, a local woman, I started looking for the intersection with seven roads where “one can meet” by myself. Having found this unusual crossroads with some difficulty, I got out of the car and a man, who arrived right afterwards in a jeep, asked me: - Good morning! Do you know that one can meet in this place? – Without even waiting for an answer, he continued: - I came by here one night. A rabbit stood still on the road and I remained paralysed on my tractor by fascination and by fear -. I didn’t ask him his name and we spoke: starting to walk, he told me about his childhood spent in a nearby house. Of the seven original roads starting from the intersection, one leads to the school, two to the church, one to Casola Valsenio, one to Zattaglia, one is a mule track and the last one leads to the cemetery. That’s where we went: inside, a few nameless iron crosses for infants who died before being baptised and, as the man showed me, the tombstone of Onorino, father of the last parish priest. The cemetery’s twenty-one cypresses are remarkable; a friend with whom I returned at a later time pointed out a fascinating detail: there are vertical cracks in their bark, wound around the trunk in a spiral, clockwise and counterclockwise, on alternate trees. The rest of the walk was also worthy of attention, leading us in front of the restored school in which the teacher settled during the school year, and to the church, sold to private individuals and almost completely restored. Santa Margherita was the name of the Settefonti parish, which had 280 parishioners 120 years ago. Churches, cemeteries, and towers: they are nothing more than indelible traces that our ancestors left all over the area with unwitting and marvellous farsightedness; with this their life had a meaning, which has lasted up to our times. I would have liked to take photos but didn’t want to do so in front of my companion; I didn’t want to steal memories. This is one of the reasons for my return to Settefonti; I have the impression that that “feeling” which sometimes by pure chance guides occasional choices served as the invisible thread for a dozen photos that I took that have a strange religious harmony. When I returned that Sunday morning, I told my “real” guide about the meeting and: you know – she said after having identified the person – he is going through a moment of great confusion because of a daughter... an accident -. The magic of this intersection has been repeated even in broad daylight, where a stranger whom I didn’t ask anything left words in my memory, even if he only said them once. - Right after the war we were a group of forty boys and girls and on Sunday afternoons we used to go to the parish church to play “le meraviglie” (the marvels) -. That’s what games were called in Settefonti, while in any other place in Romagna “al maravej” only meant caprices.


tuno cipressi del camposanto; un amico con cui sono tornato in seguito mi ha fatto osservare un particolare affascinante: la loro corteccia presenta screpolature verticali, avvolte intorno al tronco a spirale, in senso orario e antiorario, a piante alterne. Anche il resto della passeggiata è stato degno di attenzione, conducendoci dinnanzi alla scuola, ora restaurata, nella quale la maestra si stabiliva durante la stagione scolastica, e alla chiesa, venduta a privati e quasi completamente rimessa a nuovo. Santa Margherita era il nome della parrocchia di Settefonti, che contava 280 parrocchiani 120 anni fa. Chiese, cimiteri, torri, non sono che orme giganti, che i nostri avi hanno, con inconsapevole e meravigliosa lungimiranza, lasciato in tutto il territorio; con questo la loro vita aveva un senso, che è giunto fino ai nostri giorni. Mi sarebbe piaciuto scattare fotografie, ma non volevo farlo in presenza del mio accompagnatore; non volevo rubare ricordi. Questa è una delle ragioni che in seguito mi ha riportato a Settefonti, ho l'impressione che quel “sentire” che a volte per pura casualità guida scelte occasionali, mi sia valso da filo invisibile per una decina di foto che possiedono una strana armonia religiosa. Al ritorno, quella domenica mattina, ho raccontato l'incontro alla mia “vera” guida e: sai - mi dice dopo aver identificato la persona - sta attraversando un momento di grande smarrimento per una figlia… un incidente -. Anche in pieno giorno si è rinnovata la magia di questo incrocio, dove uno sconosciuto al quale non ho chiesto nulla mi ha lasciato parole nella memoria, anche se dette una volta sola. - Subito dopo la guerra eravamo quaranta bambini e bambine, e la domenica pomeriggio andavamo in parrocchia a fare “le meraviglie” -. Così erano chiamati i giochi a Settefonti, mentre in qualunque altro

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luogo in Romagna “al maravej” non erano altro che capricci.

Ter r i t or i o

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Va l e n t i n a B a r u zz i

voca z ion e cu ltu ra le

Gente cordiale, viuzze labirintiche nel borgo antico, colline accoglienti che declinano fin verso il mare; tutto conduce ad un mondo piccolo e remoto che pare aver mantenuto intatto nel tempo il suo aspetto e carattere.

Le persone viaggiano per stupirsi delle montagne, dei mari, dei fiumi, delle stelle; e passano accanto a se stessi senza meravigliarsi. S. Agostino

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I Sensi di Romagna

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Longiano


LONGIANO_ CULTURAL VOCATION

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Cordial people, maze-like lanes in the old town, welcoming hills that descend towards the sea; all leads to a small, ancient world that appears to have kept its appearance and character intact over time. Certainly the theatre is the most interesting artistic fulcrum. Named after the composer from Palermo, Errico Petrella, the building was built in the second half of the 19th century and, after having alternated moments of splendour with periods of tragic and forced decline, like when it was bombed during the Second World War, since 1986 the Petrella Theatre has been perfectly renovated and returned to its original use. Since then and still today, pieces and concerts of national and international artists, which give this small village the status of symbolic point of passage for contemporary theatre, are put together and performed in this splendid intellectual forge. Another institution of considerable importance is the Foundation located inside the ancient Malatestian Castle. A collection of double cultural value, offered by both the container and by the contents; an example of perfect integration between ancient and modern. This Foundation, linked to the name of Tito Balestra, 20th century poet from Longiano, develops inside the fortress located at the top of the village, which overlooks the plains below and seems to look at the nearby Adriatic. After having been the theatre of the ancient battles between the people of Rimini and those of Cesena, today the building is a living monument because of what it houses: an important collection of contemporary art which groups works of 20th century artists such as Guttuso, Mafai, De Pisis and Sironi. The Museum of Sacred Art is located in the Oratory of San Giuseppe Nuovo, also in the historical centre of Longiano. The ecclesiastic building, still consecrated, dates back to the end of the 18th century; its interior was decorated by Antonio Trentanove from Rimini with wonderful plastic decorations, which today make up the background for an important collection of religious mementos tied to the Longiano territory, set up thanks to the collaboration between religious and lay agencies, with support from numerous private citizens. Finally, we mention four other small museums located in the Longiano area: the Museum of the Old Record and Music, the District Museum, the Comedy of Art Masks - Permanent Sculpture Fund (with 31 bronze statues by Domenico Neri) and finally the Museum of Cast Iron. We should not be surprised that a small town with just over 6,000 inhabitants has so many places appointed to history and the arts; in Longiano, the tie with its district is firm and the desire for continuity with the past is deep; these are presuppositions that lead spontaneously to the development of cultural places and activities always worthy of attention.

ertamente il teatro rappresenta il fulcro artistico più interessante. Intitolato al compositore palermitano Errico Petrella, l’edificio fu costruito nella seconda metà dell’Ottocento e dopo aver alternato momenti di splendore a periodi di tragico e forzato declino, come

quando fu bombardato durante la seconda guerra mondiale, dal 1986 il Teatro Petrella ha ritrovato l’originaria destinazione d’uso in una cornice perfettamente ristrutturata. Da allora e ancora oggi in questa splendida fucina intellettuale prendono corpo e vengono rappresentate piece e concerti di artisti nazionali e internazionali, che conferiscono a questo piccolo paese lo status di rappresentativo punto di passaggio per il teatro contemporaneo. Un’altra istituzione di notevole rilevanza è la Fondazione che si trova all’interno dell’antico castello malatestiano. Una collezione dal duplice valore culturale, offerto sia dal contenitore sia dal contenuto; esempio di perfetta integrazione fra antico e moderno. Tale Fondazione legata al nome di Tito Balestra, poeta longianese del Novecento, si sviluppa all’interno della rocca situata sulla vetta del paese, che domina le pianure sottostanti e sembra mirare il vicino Adriatico. Dopo essere stato teatro degli antichi scontri fra riminesi e cesenati, oggi l’edificio rappresenta un monumento vivo per ciò che raccoglie: una rilevante collezione d’arte contemporanea che raggruppa opere di artisti del secolo appena trascorso come Guttuso, Mafai, De Pisis e Sironi. Sempre all’interno del centro storico di Longiano, presso l’Oratorio di San Giuseppe Nuovo, troviamo il Museo d’Arte Sacra. L’edificio ecclesiastico, tuttora consacrato, risale alla fine del Settecento, il suo interno fu decorato dal riminese Antonio Trentanove con mirabili artifici plastici, che oggi fanno da sfondo ad un’importante raccolta di testimonianze religiose legate al territorio longianese, nata grazie alla collaborazione fra enti religiosi e laici, con l’apporto fornito da numerosi privati cittadini. Ricordiamo infine altri quattro piccoli musei presenti sul suolo di Longiano: il Museo del Disco d’Epoca e della Musica, il Museo del Territorio, le Maschere della Commedia dell’Arte - Fondo Permanente di Scultura (che raccoglie 31 statue bronzee di Domenico Neri) ed infine il Museo della Ghisa. Non deve stupire che una cittadina con poco più di 6.000 abitanti possieda così tanti luoghi deputati alla storia e alle arti, a Longiano il legame con il proprio territorio è ben saldo, come profondo è il desiderio di continuità col passato; presupposti, questi, che conducono spontaneamente alla valorizzazione di luoghi e attività culturali sempre degni di attenzione. Ter r i t or i o

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Gli uomini comuni guardano le cose nuove con occhio vecchio.

“Inventore” del metano Angel o Amadori , scie n z ia to pe r n e ce s s ità “INVENTOR” OF METHANE_ ANGELO AMADORI, SCIENTIST BY NEED The December 1937 issue of “L'Angelo”, the monthly bulletin of the parish of Sant'Alberto, includes a piece of news that is not at all Christmassy . It was written by the prior, Monsignor Zalambani: «All newspapers in Italy have spoken about and praised our fellow townsman Mr. Angelo Amadori in his effort, crowned by full and unconditional success, to replace gasoline with methane». During the '30s of the past decade, Amadori, Class of 1895, ran a coach line, so that when in 1935, with the sanctions of the ItaloAbyssinian war, gasoline started becoming scare, he remembered what his driving school instructor always used to say: methane is a hydrocarbon and can theoretically be used as fuel. And the Paduan Plain literally sits on a bed of methane... Moving from theory to practice cost Amadori much effort and a few picaresque episodes. The autarchic effort began immediately in '36, among general astonishment, he managed to separate methane from water and put it in cylinders. All of this thanks to a “gas separator” composed of a box for preserves, a rubber tube and an old submarine compressor. Thus Amadori's coaches began to travel on the Sant'Alberto-Ravenna stretch fuelled by methane. But under fascism that which wasn't expressly allowed was absolutely forbidden: his coaches were confiscated because there was no law regarding methane for the automotive sector. To plead his cause, Amadori drove to Rome in his methane driven Balilla. He expected to be arrested so, once he arrived in Piazza Venezia, he summoned the journalists to illustrate his invention. The next day, Sunday 15 November 1937, a bored ministry official gave Amadori the permits needed to continue his research. Research which he continued, with the enthusiasm of the self-taught man, until his death in 1967. With his enterprise, Sant'Alberto's son had started a process that brought the territory of Ravenna, which had always been dedicated to agriculture, to be the capital of the Italian chemical industry in the last fifty years of the 20th century.

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Pa o l o M a r t i n i


L'uomo creativo osserva le cose vecchie con occhio nuovo. Gian Piero Bona

Il numero di dicembre 1937 de “L’Angelo”, bollettino mensile della parrocchia di Sant’Alberto, ospita una notizia affatto natalizia. A scriverne è lo stesso priore, Monsignor Zalambani: «Tutti i giornali d’Italia hanno parlato ed elogiato il nostro concittadino Sig. Angelo Amadori, nello sforzo suo, coronato da pieno e incondizionato successo, di sostituire il metano alla benzina.»

A

madori, classe 1895, negli anni ’30 del secolo scorso era il gestore di una linea di corriere, cosicché quando nel 1935 con le sanzioni di guerra italo-abissina cominciò a scar-

seggiare la benzina, gli tornò alla mente quello che diceva sempre l’istruttore di scuola guida: il metano è un idrocarburo, e, in teoria, si può usare come carburante. E la pianura padana è adagiata letteralmente su un letto di metano… Passare dalla teoria alla pratica costò all’Amadori molto impegno e qualche episodio picaresco. Lo sforzo autarchico comincia immediatamente. Nel ’36 riesce, fra lo stupore generale, a separare il metano dall’acqua e ad immetterlo nelle bombole. Tutto ciò grazie ad un “separatore di gas” composto da una scatola per conserve, un tubo di gomma ed un vecchio compressore di un sommergibile. Così le corriere dell’Amadori viaggiano sulla tratta Sant’Alberto-Ravenna alimentate a metano. Ma sotto il fascismo ciò che non è espressamente consentito è assolutamente vietato: al Nostro vengono sequestrate le corriere perché non esiste una legge sul metano per autotrazione. Per perorare la propria causa, Amadori si

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reca a Roma con la sua Balilla a metano. Si aspetta di essere arrestato, così, arrivato in Piazza Venezia, convoca i giornalisti per illustrare la sua invenzione. Il giorno seguente, domenica 15 novembre 1937, un annoiato funzionario del ministero concede ad Amadori i permessi necessari per proseguire le proprie ricerche. Ricerche che proseguì, con furore da autodidatta, fino alla sua morte, avvenuta nel 1967. Con la sua impresa, il figlio di Sant’Alberto, aveva avviato un processo che portò il territorio di Ravenna, da sempre vocato all’agricoltura, ad essere la capitale dell’industria chimica italiana negli ultimi cinquant’anni del XX secolo.

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St or i a

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G i u l i a n o B et t ol i

Il “Nevone”

Chi descrive il proprio dolore, anche se piange è sul punto di consolarsi. Ojetti, Ugo

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I Sensi di Romagna

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la f ami gerat a neve del Ve n tin ove


“La név de Vintnôv... la neve del Ventinove”. Io, che sono del ’31, non sono riuscito a vederla. Però è come se l’avessi vista, tante sono le volte foto d’archivio

che i miei genitori, i miei nonni, i miei vicini mi hanno descritto quei tre terribili mesi – gennaio, febbraio, marzo – del 1929.

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uando arrivava l’inverno ecco il ritornello: “La név de Vintnôv... la neve del Ventinove: sai, qui era alta due metri, là arrivò anche ai tre metri, e

il freddo... in febbraio, poi...”. La raccontavano come si racconta una vecchia, mirabolante favola. Ma sentite queste parole che sembrano uscite da una pagina di un biblico profeta arrabbiato: “È passato finalmente questo mese scellerato (febbraio 1929) fra gli unanimi improperi di ogni ceto di persone senza distinzione di classe o di sesso! È passato finalmente dopo averci tormentato in mille modi con freddi, venti, geli e nevi che nessuno mai ricorda gli uguali. Dovunque è passato, dovunque portava i segni malefici della sua cattiveria! Entrava nella casa vi portava il gelo, nello studio vi gelava l’inchiostro, nella cantina vi congelava il vino e vi spaccava le botti e le damigiane, nelle chiese consolidava l’acqua lustrale o quella del battesimo. Ci sarebbe da piangere se volessimo contare tutti i danni recati da lui alla povera umanità. Città isolate dalla neve, porti paralizzati dal gelo, disastri marittimi, disastri per terra, treni bloccati, case distrutte dalle valanghe, poi malattie, poi cadute...” Non sono Isaia o Geremia a maledire il povero febbraio del 1929, no! È un giornale di Faenza, “Il Piccolo”, e per giunta un mite giornale cattolico. Ma quella volta l’inverno aveva proprio esagerato con il freddo e con la neve. Sentite ancora: dopo un dicembre del 1929 duro, dopo un gennaio altrettanto duro, ma ancora entro la norma di allora, febbraio esordì con 10 gradi sotto zero, poi, dopo tre giorni di tale temperatura, il gelo giunse a 14 gradi, sempre sotto zero; a metà febbraio toccò i 18 gradi e neve, neve! “Quando mai si era vista la neve cadere con un freddo di 10 gradi, mentre ognun sa che nelle nostre regioni non è mai caduta con una temperatura superiore o inferiore ai due gradi dallo zero?”. Il fatto è che anche in marzo il freddo raggiunse i 10 gradi sotto zero, e ancora neve. L’ultima nevicata ai primi di aprile. Poi si poté finalmente respirare, anzi smettere di alitare sulle dita ghiacciate. A Faenza, l’11 febbraio del 1929 c’era stato il funerale di Mons. Antonio Lanzoni, studioso di fama mondiale. Ebbene il lunghissimo trasporto funebre dovette passare tra due muri di neve alti quasi un metro. Nelle campagne, però, tutta quella neve, obbligando i contadini a stare fermi nelle proprie case significò anche un’inaspettata vacanza. E i ragazzi si divertirono un mondo a tuffarsi negli enormi mucchi di neve e a giocare per ore e ore in furibondi combattimenti: le munizioni non finivano mai! In tutte le cose, anche nelle peggiori, c’è sempre un aspetto positivo.

THE “BIG SNOWSTORM”_ THE NOTORIOUS SNOWSTORM OF '29 “La név de Vintnôv... the snowstorm of '29”. I was not able to see it, having been born in 1931. But it is as if I had seen it because my parents, grandparents and neighbours described those three terrible months - January, February and March - of 1929 to me an endless number of times. Here is the refrain when winter arrived: “La név de Vintnôv... the snowstorm of '29: you know, the snow was two meters high here, there it reached three meters, and the cold... in February, then...”. They told it like you tell an old, amazing tale. But listen to these words that seem to come from a page of an angry biblical prophet: “This wicked month (February 1929) has finally passed among the unanimous abuses of all ranks of people without distinctions of class or sex! It has finally passed after having tormented us in a thousand ways with cold, wind, frost and snow which no one remembers the likes of. Wherever it passed it brought the evil signs of its wickedness! It entered the house, bringing intense cold with it, in the study it froze the ink, in the cellar it froze the wine and broke the barrels and demijohns, in the churches it froze the holy water and the baptismal water. It would make us cry if we were to count all of the damage it caused poor humanity. Cities isolated by the snow, ports paralysed by the frost, maritime disasters, land disasters, blocked trains, houses destroyed by the avalanches, illnesses, falls...” It is not Isaiah or Jeremiah who curse the poor February of 1929, no! It is a Faenza newspaper, “Il Piccolo”, which is a mild Catholic newspaper. But that time the winter had exaggerated with the cold and snow. Listen some more: after a rigid December in 1929, after a just as rigid January, but still within the norm for that time, February began with 10 degrees below zero, then, after three days of such temperature, the cold reached 14 degrees, still below zero; in mid February it reached 18 degrees and snow, snow, snow! “When have we ever seen snow fall when the temperature is 10 degrees, when everybody knows that in our regions it has never snowed with a temperature higher or lower than two degrees from zero? ”. The fact is that even in March the cold reached 10 degrees below zero, and still more snow. The last snowfall was in early April. Then we were finally able to breathe, to stop blowing on our frozen fingers. The funeral for Mons. Antonio Lanzoni, world famous scholar, was held in Faenza on 11 February 1929. Well, the long funeral procession had to pass between two walls of snow that were almost a meter high. However, in the countryside, all of that snow, forcing the farmers to stay indoors, also meant an unexpected vacation. And the children had lots of fun diving into the enormous piles of snow and having furious snowball fights for hours on end: the ammunition never ran out! There is always a positive side to everything, even to the worst things.

St or i a

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M a rc el l o C i c o g na n i

Renzo Pasolini e la moto

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u n a vita in s ta ccata

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I Sensi di Romagna


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Lancia il tuo cuore davanti a te, e corri a raggiungerlo. Proverbio Arabo

Per processi chimici reali ancorché difficili da decifrare, rare volte, nella storia del motorismo da corsa, i piloti più vincenti sono stati anche i più amati dalle folle. E Renzo Pasolini, pur non avendo vinto tanto quanto il suo spavaldo talento gli avrebbe consentito – o, forse, proprio a causa di questo –, appartiene indubitabilmente alla seconda categoria.

N

ato a Rimini nel 1938, figlio d’arte di Massimo, il «Paso» iniziò la carriera nel motocross, disciplina tosta che ne temprò il carattere arrembante e lo stile di guida furioso. Il suo pilotaggio – alla strenua ricerca di

un precario equilibrio oscillante tra l’abisso della rovinosa caduta e la vetta della manovra spettacolare – era tutto fatto d’istinto, di repentini movimenti del corpo a correggere derapate all’apparenza catastrofiche e di una sensibilità quasi ultramondana nel pelare la manopola del gas durante la percorrenza di curva. Era questa generosità, questo non risparmiarsi mai qualunque fosse la posta in gioco, questo essere sempre al limite, e spesso oltre, delle proprie capacità e delle possibilità del mezzo meccanico ad incendiare – prima di lui e ancora oggi – gli animi e l’immaginario degli appassionati che s’accalcavano a bordo pista. «Io corro per cor-

rere. Dopo, se vinco tanto meglio» erano dichiarazioni genuine che nulla concedevano alla posa e alle convenzioni. Ma il Paso era così, prendere o lasciare. Unitamente a questo temperamento bonariamente guascone, tuttavia, albergava in lui anche un aspetto più intimo, ma non meno soverchiante, che difficilmente filtrava dalle lenti dei suoi occhialetti da vista. Non era infrequente, infatti, vederlo accovacciato dappresso alla moto o seduto su di un muretto del box mentre – l’espressione a metà fra l’assorto e l’incantato – spaziava fitto con la mente oltre l’orizzonte, la stratosfera e il sistema solare; probabilmente perso in quella lontanissima porzione d’universo localizzata dietro all’osso prefrontale. Ebbe la ventura, in quegli anni a cavallo fra i ’60 e i ’70, d’incrociare le ruote con colui che sarebbe poi divenuto il pilota più vittorioso di sempre; quel Giacomo Agostini con cui ingaggiò leggendari duelli in pista e memorabili scontri dialettici al di fuori. Nacquero due fazioni contrapposte, i «pasoliniani» da una parte e gli «agostiniani» dall’altra, così accanitamente convinte della superiorità del proprio beniamino che, addirittura, si arrivò ad imbastire una singolar competizione a parità di macchina – prima entrambi in sella alla meno competitiva Benelli di Pasolini, indi sulla più performante MV Agusta di «Ago» – per sancire, una per tutte, chi

Pa s s i on i

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v i v e r

c h ’ è

u n

c o r r e r e

a

l a

m o r t e .

D a n t e

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D e l

RENZO PASOLINI AND THE MOTORCYCLE_ A LIFE LIVED ON THE EDGE Due to chemical processes which are real though difficult to decipher, once in a great while, in the history of motorcycle racing, the most winning drivers have also been those most loved by the crowd. And Renzo Pasolini, though not having won as often as his bold talent would have allowed him - or, perhaps, precisely because of this - undoubtedly belongs to the second category. Born in Rimini in 1938, son of the motorcycle pilot Massimo, “il Paso” began his career in cross-country motorcycle racing, a tough discipline that hardened his assailing character and wild driving style. His driving - in the brave search for a precarious balance oscillating between the abyss of the disastrous fall and the summit of the spectacular manoeuvre - was made up of instinct, of sudden body movements to correct catastrophic appearing skids and of an almost ultra-worldly sensitivity when he used his feather light touch on the accelerator grip on the bends. It was this generosity, this never holding himself back no matter how high the stakes, this always putting himself at the limit, and often beyond, of his own capabilities and of the possibilities of the mechanical means to fire - before him and still today - the hearts and imagination of the fans that thronged the edges of the racetrack. «I race for the sake of racing. Afterwards, if I win, more's the better» were genuine declarations that conceded nothing to the pose and to conventions. But “il Paso” was like that, take it or leave it. Nevertheless, together with this good-naturedly braggart temperament, there was a more intimate, but no less overwhelming, aspect to him which seldom filtered through the lenses of his glasses. It was not uncommon, in fact, to see him crouched down near his motorcycle or seated on a wall of the box while - his expression somewhere between absorbed and spellbound his mind sweeping towards the horizon, the stratosphere and the solar system; probably lost in that far away portion of the universe located behind the prefrontal bone. In those years between the '60s and '70s he had the fortune to cross wheels with the person who would subsequently become the most winning driver of all times: Giacomo Agostini, with whom he engaged in legendary duels on the racetrack and memorable dialectic

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fosse il più veloce. «Posso battere Pasolini anche con una Benelli», abbaiava uno, «Io non ho bisogno della MV per battere Agostini…», canzonava l’altro; solo l’intervento delle due Case costruttrici e della Federazione Motociclistica impedì lo svolgersi di quella ch’è, purtroppo, rimasta l’utopia di tutti i bar dalla Vetta d’Italia a Lampedusa. Da buon romagnolo verace – smessi casco e tuta di pelle – il Paso amava mangiare, bere, fumare e tirar tardi la notte con gli amici pure nei giorni precedenti alle gare. Aveva un carattere brillante, gli piaceva raccontare barzellette ed era sempre pronto alla battuta, anche piccante, mai banale; una “faccia da schiaffi”, ecco, però simpatica e con un cuore grande così. Basti pensare alla volta in cui a Monza, il giorno prima di morire, prestò la moto al collega Gianfranco Bonera – ch’era rimasto in panne con la sua – affinché riuscisse a qualificarsi per la corsa dell’indomani. Gesti perduti di un mondo che, ahimé, non è più. Riguardo, poi, alla vita e alla morte, al coraggio e alla paura – piani cartesiani su cui disegnare le parabole di qualsiasi corridore e, per riflesso, d’ognuno di noi –, la sua via era quantomeno impeccabile: «Quando corro in moto non ho assolutamente paura, sennò non correrei. Ma forse», aggiungeva schietto come un bicchiere di sangiovese, «non è nemmeno vero che la paura sia l’opposto del coraggio, perché uno che non ha paura non può nemmeno dimostrare di aver coraggio». Quindi, con quella voce da cartone animato condita da una risatina pervasa d’inveterato fatalismo, sibilava: «E comunque, quand’è ora è ora». Così, ammutoliti i motori, quanto accadde al «Curvone» di Monza in quella domenica di maggio del 1973 è solo uno degl’infiniti episodi da ascrivere tra le pagine di una passione che, da sempre avvinta alla tragedia, somi-

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glia sfacciatamente alla vita.

clashes off it. Two opposing factions were born, the “pasoliniani” on the one hand and the “agostiniani” on the other, so doggedly convinced of the superiority of their own favourite that an unusual competition was set up, using the same motorcycle - first both on Pasolini's less competitive Benelli, and then on “Ago”'s better performing MV Agusta - to confirm, once and for all, who was the fastest. «I can beat Pasolini even with a Benelli», insulted one, «I don't need the MV to beat Agostini…», teased the other; only the intervention of the two manufacturers and of the Federation of Motorcyclists prevented carrying out that which, unfortunately, remained the utopia of all of the bars from the Vetta d'Italia (Italy's most northern borders) to Lampedusa. Like a true person from Romagna - once he had cast-off his helmet and leather racing suit - “il Paso” loved to eat, drink, smoke and stay up late with his friends even on the days before races. He had a wonderful personality, he liked to tell jokes and he always had a ready reply, even cutting, never banal; brazen and cheeky, but nice and with a big heart. It is sufficient to recall the time in Monza, the day before he died, when he lent his motorcycle to his colleague Gianfranco Bonera - whose motorcycle had broken down - so that he could qualify for the race on the following day. Lost gestures of a world that, sadly, is no more. As regards life and death, courage and fear - Cartesian planes on which to draw the rise and fall of any racer and, indirectly, of each one of us -, his way was, to say the least, impeccable: «When I am racing on my motorcycle I am not afraid at all, otherwise I wouldn't race. But maybe», he added, genuine as a glass of Sangiovese, «it is not even true that fear is the opposite of courage, because one who is not afraid cannot even prove that he is courageous». Thus, with that cartoon voice seasoned with a laugh pervaded with ingrained fatalism, he would hiss: «And anyhow, when it's time, it's time». Thus, the motors fallen silent, what happened at the “Big Curve” of Monza on that Sunday in May of 1973 is just one of the infinite episodes to be written on the pages of a passion that, linked with tragedy from the very beginning, impudently resembles life.

Pa s s i on i

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Manlio Rastoni

La Romagna errante della musica meccanica mem ori e anal ogich e mu s ica li Era il miraggio di un guadagno, benché non esorbitante, ottenuto evitando la campagna e la fabbrica? Oppure la voglia di visitare una porzione di mondo? Forse appariva solo un lavoro come un altro, ma è più confortante pensare che fosse una vera vocazione che spingeva uomini di tanto tempo fa a (parafrasando le parole di Marino Marini) tirare sui ciotoli delle strade polverose un carretto con sopra un organino meccanico per allietare la gente.

D

alla Romagna di inizio ‘800 partivano in molti per girare, come suonatori ambulanti, città e paesi di tutto lo Stivale, in compagnia di quel che rappresentava l’investimento di e per tutta una vita: il portentoso

organo meccanico che azionato da sapienti mani, macinava perpetuamente il suo repertorio musicale con una ricchezza ed un volume di suono che lascia tuttora esterrefatti. In quei tempi uscire anche solo dalla propria regione, per la gente comune significava aver viaggiato, ben raminga doveva dunque sembrare l’esistenza dei suonatori ambulanti che, oltre a percorrere i confini italiani, non di rado si spingevano verso

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Senza musica la vita sarebbe un errore. Friedrick Nietzche foto d’archivio

paesi stranieri limitrofi come Francia ed Inghilterra. Portavano con sé musiche di ogni tipo, dai brani di musica “colta”, come gli atti della Boheme, alle più ballabili polke, fino alla canzone popolare, come quella napoletana che, a giudicare dall’abbondanza di supporti prodotti, sembrerebbe essere stata molto congeniale al pubblico di allora. Il repertorio di ogni singolo suonatore ambulante era spesso limitato, il motivo principale era dato dal costo dei supporti musicali. La principale scuola sviluppata in Italia era quella dei cosiddetti piani a cilindro, che utilizzavano appunto un cilindro di legno su cui erano infissi, mediante un sistema ideato dal religioso P. J. Engramelle, decine di migliaia di chiodini, i quali a loro volta azionavano martelletti simili a quelli del più comune pianoforte. La musica prodotta era sì figlia di un meccanismo automatico, ma ciò non significa che la riproduzione fosse sempre uguale in tutto e per tutto. La mano che azionava l’organetto era fondamentale per l’esecuzione del brano e tramite una o più leve che regolavano il volume (detto espressione), il ritmo ed altri parametri del meccanismo, arrivava ad imprimere un’interpretazione in certi casi decisiva per la resa sonora. Questi singolari “macchinisti artistici” suonavano nelle piazze, a qualche festa, a casa di privati o nei cinema accompagnando le pelPa s s i on i

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THE ERRANT ROMAGNA OF MECHANICAL MUSIC_ ANALOGIC MUSICAL MEMORIES

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Was it the mirage of profits, although not an excessive amount, obtained by avoiding the country and the factory? Or the desire to visit part of the world? Perhaps it just seemed to be a job like any other, but it is more comforting to think that it was a true vocation that pushed men of so long ago (paraphrasing the words of Marino Marini) to pull a cart holding a mechanical organ over the pebbles of the dusty roads to cheer up the people. Many left Romagna at the beginning of the 19th century to go round cities and towns all over the peninsula as street-musicians, carrying with them that which represented the investment of their entire life’s savings, which had to guarantee their survival for the rest of their life: the marvellous mechanical organ which, operated by knowing hands, perpetually ground out its musical repertoire with a richness and volume of sound that still amazes us. In those days, for the common people, even just leaving one’s region meant having travelled, thus the life of the street-musicians who, besides travelling within Italy’s borders, often went to bordering countries like France and England, must have seemed a very roving one. They took all kinds of music with them, from “cultivated” music, like the acts of the Bohème, to the more danceable polkas, up to popular music, like Neapolitan which, judging by the abundance of devices produced, would appear to have been very congenial to the public of the time. The repertoire of each individual street-musician was often limited, the main reason thought to be the cost of the musical devices. The main school developed in Italy was that of the so-called cylinder pianos, which used a wooden cylinder on which tens of thousands of small nails were fastened, using a system conceived by the monk P.J. Engramelle, which in their turn activated hammers similar to those of the more common piano. The music produced was in fact the product of an automatic mechanism, but this does not mean that the reproduction was always absolutely identical. The hand that operated the barrel organ was fundamental for the execution of the piece and through one or more levers that regulated the volume (called expression), the rhythm and other parameters of the mechanism, it ended up imparting an interpretation in certain cases decisive for the sound. These peculiar “artistic engineers” played in the squares, at parties, in private homes or in cinemas accompanying silent films (see ee N° 7). They stopped along the street, upon request, bringing an interlude of pleasure and astonishment and asking for a few coins or the use of a stall in which to spend the night in exchange; often in places where occasions and moments for relaxation and entertainment were the exception and the passage of the street-musician would have been remembered and talked about for weeks. Although at the beginning of the last century mechanical barrel organs were only found on the shoulders of street-musicians or in a few patrician homes, as in the case of the famous melodious pianos of the engineer Racca (the Queen Mother, Margaret of Savoy, had a magnificent one, a copy of which is preserved in Romagna by her lady companion, belonging to the noble family of the Urtollers), a period arrived in which no bar or open-air dance-hall in Italy was without a mechanical organ (often called Jazz Band in that period), perhaps with a slot to put money in to start the mechanism, practically speaking the true forerunner of the juke box. Progress, aided by two world wars, brought the epic deeds of the mechanical music street-musicians, whose survivors by now remain a revival curiosity, to its natural end. In Italy it also marked the disappearance of the majority of an immense patrimony of cylinder pianos. Forgotten, put up for auction, orphans of a vital contraption or, worse, completely gutted of their intricate mechanisms, for a long time they did not manage to become part of the circle of valuable antique pieces. However, the most important Italian collection of perfectly restored barrel organs survives precisely in Romagna, collected by Marino Marini, and the Italian Association of Mechanical Music (AMMI), besides having set up a festival dedicated to it in the congenial setting of Longiano (see page 8), has fought for a long time to set up an institutional museum there, which would become the first and only one in Italy, while there are dozens of them in other European countries like Germany. An act certainly due to the ancient ambassadors of “music without musicians”. To at least pass down a property of sound which, in today’s digital era, appears to have been stripped of its primitive value: depth.


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La musica crea un passato della cui esistenza eravamo all'oscuro. O. Wilde

licole del muto (vedi ee n° 7). Si fermavano lungo la strada, a richiesta, portando una parentesi di diletto e stupore e chiedendo in cambio qualche moneta o l’uso della stalla per la notte; spesso in luoghi dove occasioni e momenti per lo svago avevano il sapore dell’eccezionalità ed il passaggio del suonatore ambulante sarebbe stato ricordato e raccontato per settimane. Se all’inizio del secolo scorso gli organetti meccanici trovavano spazio solo sulle spalle degli ambulanti o in poche case patrizie, come nel caso dei celebri piani melodici dell’ingegner Racca, (la Regina madre Margherita di Savoia ne possedeva un magnifico esemplare, una copia del quale è conservato in Romagna dalla sua dama di compagnia, appartenente alla nobile famiglia degli Urtoller), arrivò un’epoca in cui non ci fu bar o balera in Italia dove non comparisse un organetto meccanico (spesso definito in quel periodo Jazz Band), magari con una feritoia atta ad accogliere la moneta che ne avrebbe azionato il meccanismo, in pratica il vero antesignano del juke box. Il progresso, aiutato da due guerre mondiali, ha portato al naturale epilogo l’epopea dei suonatori ambulanti di musica meccanica, i cui superstiti rimangono oramai una curiosità da revival. In Italia ha segnato anche la scomparsa della più parte di un immenso patrimonio di piani a cilindro. Scordati, incantati, orfani di un marchingegno vitale o peggio sventrati completamente dei loro intricati meccanismi, per lungo tempo non sono riusciti ad entrare nel novero dei pezzi d’antiquariato pregiato. Proprio in Romagna sopravvive però la più importante collezione italiana di organetti perfettamente restaurati, raccolta da Marino Marini, e l’Associazione Italiana Musica Meccanica (AMMI), oltre ad aver creato nella congeniale cornice di Longiano (vedi pag. 8) un festival dedicato, lotta da tempo per fondarvi un museo istituzionale, che verrebbe ad essere il primo ed unico in Italia, mentre se ne contano a decine in altri stati europei come la Germania. Un atto certamente dovuto agli antichi ambasciatori della “musica senza musicisti”. Per tramandare, almeno, una proprietà del suono che, nell’odierna epoca digitale, pare essere stata spogliata del suo valore primigenio: la profondità. Pa s s i on i

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I benefici di un microclima favorevole tras mess i ai vi ni di C alon ga La tenuta Calonga, si estende sulle prime colline che sorgono tra Forlì e Faenza, in località Castiglione, un’incantevole posizione, gratificata, per di più, da un microclima estremamente propizio; elementi che ne fanno una terra naturalmente vocata alla coltivazione della vite.

L’

imponente Torre d’Oriolo domina il colpo d’occhio sui filari e, proprio il podere da cui nasce il Castellione (uno dei vini di punta di Calonga) si trova sul confine tra i resti dell’antico castello (da cui prende il nome)

e la torre stessa. Dal 1977, anno della sua fondazione, l’azienda, che si sviluppa su un totale di 7,5 ettari coltivati a vite, di cui 2,5 in affitto, viene portata avanti seguendo la filosofia propria della più classica conduzione familiare. L’attuale proprietario, Maurizio Baravelli, ha abbandonato la carriera impiegatizia quando il padre ha acquistato il podere, da allora dedica anima e corpo, con eccellenti risultati, alla conduzione dell’azienda ed al costante miglioramento qualitativo dei vini che produce. Nel 1999 sono stati ultimati i lavori necessari all’approntamento della nuova cantina ed è iniziata la collaborazione con Fabrizio Monlard, enologo ed agronomo. Un’ulteriore testimonianza dell’impegno profuso da Calonga alla “causa” enologica è data dalla sua adesione (insieme a Drei Donà, Fattoria Zerbina, San Patrignano, Stefano Ferrucci, Tre Monti e San Valentino) all’associazione Convito di Romagna, il cui scopo principale è la valorizzazione della collina romagnola, quella delle basse produzioni, e del suo vitigno più conosciuto: il sangiovese.

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Carlo Zauli


Michelangiòlo_ Sangiovese di Romagna Doc Riserva 2000 elevato in barrique - Uve: 100% Sangiovese Di colore rosso granato deciso, di buona concentrazione. Al naso si percepiscono eleganti aromi secondari e terziari di frutta e spezie, su finale balsamico. Al gusto è ricco e importante, avvolgente con un tannino modulato e ben espresso. Abbinamento consigliato: lombatina di maiale al tartufo e funghi. Temperatura di servizio: 18 °C. Michelangiòlo_ Sangiovese di Romagna Doc Riserva 2000 aged in barrique - Grapes: 100% Sangiovese With a distinctive garnet red colour and good concentration. We perceive the elegant secondary and tertiary aromas of fruit and spices, with a balsamic finish. It has a rich and intense flavour with a well-modulated tannin. Recommended to be served with: pork loin with truffle and mushrooms. Serving temperature: 18 °C.

Castellione_ Forlì Igt Cabernet Sauvignon 2000 elevato in barrique - Uve: 100% Cabernet Sauvignon Il colore è rosso rubino intenso e limpido. All’olfatto il vino si presenta complesso, con note speziate su uno sfondo di frutta matura. Al palato è di buona struttura, caldo e morbido con un tannino incisivo ma gradevole e abbastanza sapido. Abbinamento consigliato: costolette di capriolo al ginepro. Temperatura di servizio: 18 °C. Castellione_ Forlì Igt Cabernet Sauvignon 2000 aged in barrique - Grapes: 100% Cabernet Sauvignon It has an intense and clear ruby red colour. The wine has a complex aroma with spiced notes on a ripe fruit background. On the palate it has good structure, is warm and soft with an incisive but pleasant and quite tasty tannin. Recommended to be served with: venison cutlets with juniper. Serving temperature 18 °C.

Kiria_ Albana di Romagna Passito Docg 2000 elevato in barrique - Uve: 100% Albana Il bellissimo colore, dorato con sfumature ambrate, è luminoso. Al naso è intenso ed elegantemente persistente, con profumi che spaziano dal fruttato candito di albicocche, pesche, buccia di mandarino e cedro, al floreale, con erbe aromatiche, miele d’acacia, fino ad una nota iodata e di tostato che avvolge tutto. In bocca è gradevolissimo, equilibrato, dolce e morbido, ben sostenuto da una vena fresca. Il ritorno alle note olfattive è perfetto: sfiora l’eccellenza. Le uve vengono raccolte nella prima settimana di novembre. Vinificazione in acciaio e maturazione in barrique di rovere Allier per otto mesi. Segue affinamento in bottiglia per ulteriori otto mesi. Temperatura di servizio: 12 °C. Kiria_ Albana di Romagna Passito Docg 2000 aged in barrique - Grapes: 100% Albana The beautiful colour, golden with amber-coloured tones, is luminous. It has an intense and elegantly persistent aroma, with fragrances that go from the candied fruit of apricots, peaches, tangerine and citron peel, to floral, with aromatic herbs and acacia honey, up to an iodised and toasty note that envelops everything. In the mouth it is pleasing, balanced, sweet and soft, well supported by a fresh streak. The return to the olfactory notes is perfect: it verges on excellence. The grapes are harvested the first week of November. Vinification in steel tanks and maturation in Allier oak barriques for eight months. Followed by refinement in the bottle for another eight months. Serving temperature 12 °C.

La vita e' troppo breve, per bere del vino cattivo. Antico

detto

contadino

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THE BENEFITS OF A FAVOURABLE MICROCLIMATE_ TRANSMITTED TO THE CALONGA WINES The Calonga estate is spread out on the first hills arising between Forlì and Faenza in the locality of Castiglione, a charming location, rewarded by an extremely favourable microclimate, elements that make it a land naturally suited for growing grapevines. The imposing Torre d’Oriolo (Oriolo Tower) dominates the view over the rows of vines and the farm where Castellione (one of the top Calonga wines) originates is located on the border between the remains of the ancient castle (from which it takes its name) and the tower itself. The estate, which extends over a total of 7.5 hectares planted in grapevines, of which 2.5 leased, has been run as a family business since it was established in 1977. The current owner, Maurizio Baravelli, gave up his office job when his father purchased the farm and since then has dedicated heart and soul, with excellent results, to running the business and to the constant improvement in the quality of the wines produced. In 1999 the new cellar was completed and the collaboration with Fabrizio Monlard, oenologist and agronomist, began. Further testimony to the intense commitment on Calonga’s part to the oenological “cause” is given by its joining (together with Drei Donà, Fattoria Zerbina, San Patrignano, Stefano Ferrucci, Tre Monti and San Valentino) the Convito Association of Romagna, whose main goal is the development of the part of the Romagna hillside characterised by low production, and of its most famous species of vine: Sangiovese. E noga s t r on omi a

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Manlio Rastoni

Frutti dimenticati foto d’archivio

perduti da ll’ u omo e cu s toditi da lla te rra

Se vedete la nespola piangete, perch’è l’ultimo frutto dell’estate. Antico detto contadino

SAPORI DIMENTICATI _ FORGOTTEN FLAVORS Azzeruolo _ Azarole Corniola _ Cornelian-cherry Corbezzolo _ Strawberry-tree Cotogna _ Quince Giuggiola _ Jujube Melagrana _ Pomegranate Nespola _ Medlar Pera volpina _ Volpina pear Prugnola _ Wild plum Sorba _ Sorb apple

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I Sensi di Roma gna

piccole bacche rosse o gialle con grossi semi e poca polpa dal sapore di mela small red or yellow berries with large seeds and little pulp, tasting like an apple una sorta di ciliegia allungata a sort of oval shaped cherry frutto di colore rosso vistoso, polpa gialla di sapore dolce e nel contempo acidulo bright red fruit, yellow pulp that has a sweet flavour but is at the same time acidulous (mela e pera) frutto commestibile solo in seguito a cottura gusto asprigno, profumo ed aroma gradevoli (apple and pear) fruit edible only after cooking, rather tart flavour, pleasant fragrance and aroma sorta di "oliva" dolciastra sort of sweetish “olive” frutto tondeggiante diviso in logge, contiene semi commestibili di consistenza carnosa, fondente e succosa di gusto agrodolce round fruit divided into segments, contains edible seeds of succulent, fondant and juicy consistency which have a bittersweet flavour frutto rotondeggiante e carnoso, dolce con un retrogusto asprigno round, pulpy fruit, sweet with a rather tart aftertaste frutto rotondo e croccante, piccolo e saporito, di polpa dura e granulosa round and crisp fruit, small and tasty, with hard and grainy pulp drupa piccola e sferica, bluastra, il gusto, inizialmente astringente, conserva un gradevole retrogusto dolciastro small, round drupe, bluish; the flavour, which is initially astringent, has a pleasant sweetish aftertaste acheni racchiusi in un falso frutto, il sapore della sorba matura è deliziosamente gradevole e dolce, ricorda il vin cotto achenes enclosed in a false fruit; when ripe, the sorb apple has a deliciously pleasant and sweet flavour, tasting a bit like mulled wine


foto d’archivio

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In un tempo che pare fuori dal tempo, ma può essere ancora visitato dalla memoria d’uomo, le donne che andavano in spose in un altro paese, anche solo in una valle vicina, portavano insieme alla dote i semi e le piante delle proprie parti.

I

n questa semplice usanza, oltre al profondo valore culturale intrinseco, si percepisce l’atmosfera di un microcosmo in cui le varietà frutticole non differivano tra loro solo per nome e sapore, ma portavano con sé la fisionomia della pianta cui appartenevano.

Erano molte queste fisionomie che si avvicendavano nei boschi e nelle campagne di un secolo fa e più. Nei testi latini di agricoltura, come quelli di Columella, Varrone e Plinio, troviamo una folta varietà di mandorli, peri, meli, di cui non ci è giunta traccia. Senza sco-

modare gli antichi, scorrendo i trattati di frutticultura del ‘900, scopriamo come si è passati, nell’arco di un solo secolo, da un centinaio ad una cinquantina di varietà di melo, mentre la produzione odierna è impostata per l’80% su tre sole varietà, selezionate in base ai tempi di produzione, alla facilità di trasporto e al sapore, non troppo accentuato per adattarsi a tutti i palati. Ben diverse sono le caratteristiche di tutte quelle produzioni arboree frutticole prevalentemente collinari e perlopiù autunnali che in Romagna sono rappresentate da giuggiole, azzeruole, corbezzoli, avellane, corniole, cotogne, castagne, melograni, mandorli, pere volpine ed altri, raccolti sotto la definizione “frutti dimenticati”. Specie quasi scomparse, legate ad un’economia agricola di sussistenza, che venivano spesso consumate in preparazioni, come la confettura di mele cotogne, la gelatina di azzeruole e la salsa di corniole, messe in mostarda, usate per sciroppi e tisane o distillate, come per il liquore di cotogne o il ratafià di prugnoli. Recentemente l’estro degli chef si è sostituito alla tradizione, utilizzando i frutti dimenticati quali ingredienti di sorbetti, gelati, soufflé ed altre ricette. Segno, questo, di un recupero della cultura legata a questi frutti, testimoniato anche dalla celebre sagra che Casola Valsenio, già nota in ambito botanico per il Giardino delle Erbe, dedica loro annualmente. Negli anni dell’oblio, tuttavia, in Romagna piante come il giuggiolo ed il melograno sono sopravvissute grazie al loro valore estetico. Auguriamoci che, anche in via di questa dote, possano ricomparire nei nostri boschi e parchi queste piante che anticamente coloravano i rilievi collinari, e sul nostro palato il sapore arcaico dei loro frutti. Vissuti oggi come un’esperienza del gusto, ma che un tempo rappresentavano uno strumento di sopravvivenza, anche dal punto di vista psicologico. Permettevano, infatti, di affrontare l’inverno con la consapevolezza che, al peggio, ammucchiati in solaio o nel fruttaio (un altro ambiente rurale perduto), i frutti dimenticati maturavano lentamente offrendo l’alternativa al digiuno forzato. FORGOTTEN FRUITS_ LOST BY MAN AND GUARDED BY THE LAND In an era that seems outside of time but that can still be visited in man’s memory, women who married and went to live in another village, even only in a nearby valley, took the seeds and plants typical of their area with their dowry. In this simple custom, besides the deep intrinsic cultural value, we perceive the atmosphere of a microcosm in which the fruit varieties did not differ from each other only in name and flavour but carried with them the characteristics of the plant to which they belonged. Many of these characteristics alternated in the woods and countryside of a century ago and earlier. In the Latin agriculture texts like those of Columella, Varrone and Plinio we find a numerous variety of almond trees, pear trees, and apple trees of which no trace has remained. Without having to trouble the ancients, by browsing through the twentieth century fruit farming treatises, we discover that in just one century we have gone from about a hundred to around fifty apple tree varieties, while 80% of today’s production revolves around just three varieties, selected based on production times, transportability and flavour, not too accentuated to adapt to all palates. The characteristics of all the autumnal fruit trees mainly grown on the hillsides, which in Romagna include jujubes, azaroles, strawberry-trees, hazelnuts, cornelian cherries, quince, chestnut, pomegranates, almonds, Volpina pears and others, grouped under the definition “forgotten fruit”, are quite different. Species that have all but disappeared, linked to a subsistence agricultural economy, which were often eaten in preparations like quince jams, azarole jellies and cornelian cherry sauce, put in mustards, used for syrups and tisanes or distilled, like for quince or wild plum liqueur. The creativity of chefs has recently replaced tradition, using the forgotten fruits as ingredients of sherbets, ice creams, soufflés and other recipes. This is the sign of a recovery of the culture linked to these fruits, witnessed also by the famous festival that Casola Valsenio, already well-known in botanical circles for the Giardino delle Erbe (Garden of Herbs), dedicates to them each year. Nevertheless, during the forgotten years, plants like the jujube and pomegranate survived in Romagna thanks to their aesthetic value. Let us hope that, also thanks to this quality, these plants, which in ancient times coloured the hilly ridges, will reappear in our woods and parks and the archaic flavour of their fruits on our palate. Lived today as a taste experience but that at one time were a survival tool, also from the psychological point of view. In fact, they made it possible to face the winter with the awareness that, at the worst, stored in the attic or in the fruit larder (another lost rural environment), the forgotten fruits matured slowly, offering an alternative to forced fasting.

E n oga s t r on omi a

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BEYOND SURFACE AU DELA DE LA SURFACE



S e re n a To g n i

La collezione di Giuseppe Verzocchi foto d’archivio

un omagg io “a tu tti coloro ch e la vora n o”

THE GIUSEPPE VERZOCCHI COLLECTION_ A HOMAGE “TO ALL THOSE WHO WORK” “Rarely has a great worker like you had such a brilliant idea and known how to brilliantly carry it out. This time work and art, which often appear together in the traditional symbols in academic diplomas, are joined in an alliance whose meaning and value – ideals, real, structural – can be understood and appreciated by everyone. And we must all be grateful to you”. The words of Marino Moretti join the consensus expressed by influential intellectuals of the first half of the 20th century for Giuseppe Verzocchi’s gallery, presented in June 1950 at the XXV Biennial Exhibition of Modern Art in Venice with the title “Work in Italian painting today”. In order to get the work world to interact with the art world, in 1949 the entrepreneur from Romagna invited seventy-two Italian artists to do a painting, giving them total freedom of aesthetic and poetic expression, but imposing three conditions: the painting had to be about work, comply with the 70x90 cm format and depict a brick bearing the inscription “V & D” (initials of Verzocchi and De Romano, partners of a firm of firebricks). Precisely this last request could lead us to consider the unusual initiative a skilful ante litteram advertising operation, decreasing the high artistic value and banalising Verzocchi’s noble attempt, actually motivated by a disinterested love for art and guided by a benefactor’s, rather than a sponsor’s, sensitivity. Verzocchi’s genius finds expression also in the artistic choices made; in fact, he did not limit himself to contacting already well-known painters belonging to the first generation of the 20th century, like Casorati, De Chirico, Depero, and Rosai, linked to figurative art, but also involved second generation artists, who proposed a new abstractionism, young artists little known at the time, like Afro, Birolli, Capogrossi, Moreni, Morlotti, Santomaso and Turcato, whose subsequent success confirmed Verzocchi’s uncommon critical intuition. Nevertheless, the gallery’s uniqueness is not tied exclusively to the aesthetic meaning, but also to the political and social meaning. “Italy is a democratic republic established on work” the Constitution had confirmed the year before, fully shared by Verzocchi, who in support of the democratic nature of art, invited the visitors to vote on the best work, giving rise to an extraordinary example of “competition” by popular vote. The aesthetic, political and social motivations of the initiative inevitably merge with the personal ones of a man proud of his title of worker and proud to state “I have worked and work with tenacity, with love, with frenzy and it is precisely because of gratitude towards work, which has always been my reason for living, that I have invited some painters to treat this subject in their language”. With this spirit, on 1st May 1961, which is the Italian equivalent of Labour Day, Verzocchi donated his collection to the city of Forlì as a homage “to all those who work”.

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I Sensi di Roma gna


“Raramente un grande lavoratore come lei ha avuto un’idea così geniale e ha saputo genialmente realizzarla. Il lavoro e l’arte, che figurano spesso insieme nei tradizionali simboli in diplomi accademici, questa volta sono uniti in un connubio il cui significato e valore - ideali, reali, strutturali possono essere compresi e apprezzati da tutti. E tutti dobbiamo esserle grati”.

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ueste parole, di Marino Moretti, si uniscono ai consensi espressi da autorevoli intellettuali della prima metà del ‘900 per la galleria di Giuseppe Verzocchi, presentata nel giugno 1950 alla XXV Biennale di Venezia, dal tito-

lo “Il lavoro nella pittura italiana d’oggi”. Allo scopo di far interagire il mondo del lavoro con quello dell’arte, l’impresario romagnolo invitò, nel 1949, settantadue artisti italiani a realizzare un quadro, lasciando completa libertà d’espressione estetica e poetica, ma imponendo tre condizioni: il dipinto doveva essere ispirato al tema del lavoro, rispettare il formato di cm 70x90 e raffigurare un mattoncino recante l’iscrizione “V & D” (iniziali di Verzocchi e De Romano, soci di una ditta di mattoni refrattari). Proprio quest’ultima richiesta potrebbe indurre a considerare l’inedita iniziativa un’abile operazione pubblicitaria ante litteram, sminuendone l’alto valore artistico e banalizzando il nobile tentativo del committente, motivato, in realtà, da un amore disinteressato per l’arte e guidato da una sensibilità da mecenate, piuttosto che da sponsor. La genialità di Verzocchi si esplica anche nelle scelte artistiche effettuate, non si limitò, infatti, a contattare pittori già affermati appartenenti alla prima generazione del ‘900, quali Casorati, De Chirico, Depero, Rosai, legati all’arte figurativa, ma coinvolse anche artisti della seconda generazione, che proponevano un nuovo astrattismo, giovani a quelle date poco noti, come Afro, Birolli, Capogrossi, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato, la cui successiva affermazione ha dato conferma del non comune intuito critico del loro committente. L’unicità della galleria, tuttavia, non è legata esclusivamente al significato estetico, bensì anche a quello politico e sociale. “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” aveva sancito l’anno precedente la Costituzione, pienamente condivisa da Verzocchi, che a sostegno della democraticità dell’arte, invitò i visitatori a votare l’opera più bella, dando vita ad uno straordinario esempio di “concorso” su base popolare. Le motivazioni estetiche, politiche e sociali dell’iniziativa si fondono, inevitabilmente, con quelle personali di un uomo orgoglioso del titolo di lavoratore e fiero di affermare “ho lavorato e lavoro con tenacia, con amore, con frenesia ed è appunto per riconoscenza verso il lavoro, che è sempre stato la mia ragione di vita, che ho invitato alcu-

foto d’archivio

ni pittori a trattare questo argomento nel loro linguaggio”. Con questo spirito il I maggio 1961, giorno della festa dei lavoratori, Verzocchi donò la propria collezione alla città di Forlì quale omaggio “a tutti coloro che lavorano”.

E’ con la cultura che si innesca il progresso, perché senza di essa l’uomo è condannato a vedere nell’altro sempre e solo un nemico. K. F. Allan foto d’archivio

foto d’archivio

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Arte

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Ta t i a n a To m a s e t t a

foto d’archivio

UMBERTO BOCCIONI_ PAINTER, SCULPTOR, FUTURIST, NATIVE OF ROMAGNA

Umberto Boccioni Ognuno vale quanto ciò che ricerca. Marco Aurelio

pittore , scu lt ore, f ut uri s t a, rom agn olo

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I Sensi di Roma gna

It is amusing to see the expression of surprise on people’s faces when I reveal that the famous painter and sculptor, Umberto Boccioni, is originally from Romagna. It is a surprisingly little known fact that often causes a strange feeling of astonishment. And yet the artist’s parents, Raffaele Boccioni and Cecilia Forlani, were born and lived in Morciano, while Umberto, actually born in Reggio Calabria (in 1882) was taken to Forlì when he was just twenty days old, where he lived for his first three years. Following the astonishment, the news transmits that touch of pride that we feel in sharing the trickles of local culture and character with one of the most important interpreters of the twentieth century. Because Boccioni is not only a famous artist but one of those maestros who, when we encounter them during our studies, touch the personal sphere and lend themselves well to becoming model, stimulus, support and comparison. One of the rare personages who through their actions and choices radically changed the reality of their era, historically representing a point from which to start over; in this case, to start over “making art”, embodying the only answer to the question: “What is an artist?”. Boccioni moved to Rome and met Severini in 1901, where they attended Giacomo Balla’s art studio together. In 1905 he exhibited at the “Mostra dei Rifiutati” in Rome and began travelling: Paris, Russia (to follow his friend, Severini), the Academy of Venice, Milan. He never lost the awareness that his was a long search that would lead him to become one of the top exponents of futurism and of “dynamism” and one of the most important artists of modern Italian art, the search of a profound man prone to disillusion, unable to consider himself an artist, a moody man given to sudden laughter as well as to sudden fights (we recall the slaps given to Soffici at the “Giubbe Rosse”, the famous café in Florence, or the fight that he was the protagonist of at the Costanzi theatre in Rome). In 1910 Boccioni met the modern spirit of the dawning futurism: Filippo Tommaso Marinetti, and joins his new writer friend’s movement. Intellectuals, writers and scientists united under the sign of freedom thanks to technology and innovation. Finally Umberto found those new linguistic tools that allowed him to express his artistic vision. He exhibited worldwide as a “futurist painter” and undersigned the “Manifesto of Futurist Painters” with Carrà, Balla and Severini, while in 1912 he published the “Technical Manifesto of Futurist Sculpture” and in 1914 his book “Futurist Painting and Sculpture”. He died in Verona during the war in 1916, voluntarily enlisted, at the age of 34, a brief but intensely-lived life full of artistic and political events but also amorous adventures (resulting in an illegitimate child). In the “Classics of Art” edited by Rizzoli, Aldo Palazzeschi wrote of Boccioni’s origins: «A trueborn native of Romagna, he was volcanic, explosive and, at the same time, incapable of rancour, of nourishing resentment for anybody, no matter what they had done to him».


Fa sorridere l’espressione di sorpresa che si dipinge sul volto delle persone a cui mi capita di palesare le origini romagnole del noto pittore e scultore Umberto Boccioni.

È

un dato incredibilmente poco conosciuto che finisce spesso per suscitare un bizzarro sentimento di stupore. Eppure i genitori dell’artista, Raffaele

Boccioni e Cecilia Forlani, erano nati e risiedevano a Morciano, mentre lo stesso Umberto, venuto alla luce in effetti a Reggio Calabria (nel 1882), dopo soli venti giorni venne portato a Forlì dove visse i primi tre anni della sua vita. In seguito allo stupore, la notizia trasmette quella punta di fierezza che si prova nel condividere con uno dei più grandi interpreti del Novecento i rivoli della cultura e della natura nostrane. Perché Boccioni non è solo un celebre artista, bensì uno di quei maestri che, quando si incontrano lungo un percorso di studio, toccano la sfera personale e ben si prestano a diventare modello, stimolo, sostegno e paragone. Una delle rare personalità che attraverso le proprie azioni e le proprie scelte hanno stravolto la realtà della loro epoca, rappresentando storicamente un punto da cui ricominciare; in questo caso ricominciare a “fare arte”, incarnando l’unica risposta alla domanda: “Cos’è un artista?”.

foto d’archivio

È il 1901 quando Boccioni si trasferisce a Roma ed incontra Severini, insieme frequentano lo studio artistico di Giacomo Balla. Nel 1905 espone alla “Mostra dei Rifiutati” a Roma ed inizia a viaggiare: Parigi, la Russia (per seguire l’amico Severini), l’Accademia di Venezia, Milano. Non perde mai la consapevolezza che la sua è una lunga ricerca che lo porterà a diventare uno dei massimi esponenti del futurismo e del “dinamismo” e fra i più grandi dell’arte moderna italiana, ricerca di un uomo profondo e incline alla delusione, che non riesce a stimare se stesso come artista, un uomo lunatico pronto ad improvvifoto d’archivio

se risate come a risse immediate (memorabili gli schiaffoni appioppati a Soffici al «Giubbe Rosse», il famoso caffè di Firenze o la rissa che lo vede protagonista al Teatro Costanzi di Roma). Nel 1910 Boccioni incontra lo spirito moderno del futurismo nascente: Filippo Tommaso Marinetti e aderisce al movimento del nuovo amico letterato. Intellettuali, scrittori e scienziati uniti sotto il segno della libertà grazie alla tecnologia e all’innovazione. Finalmente Umberto trova quei nuovi strumenti linguistici che gli permetteranno di esprimere la sua visione artistica. Espone in tutto il mondo come “pittore futurista” e sottoscrive insieme a Carrà, Balla e Severini il “Manifesto dei pittori futuri-

foto d’archivio

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sti”, mentre nel 1912 pubblicherà il “Manifesto tecnico della scultura futurista” e nel 1914 il suo libro “Pittura scultura futuriste”. Muore in guerra a Verona nel 1916, arruolato volontario, all’età di 34 anni, una vita breve ma decisamente vissuta a tinte forti, piena d’avvenimenti artistici e politici ma anche d’avventure amorose (da cui un figlio illegittimo). Delle origini di Boccioni, Aldo Palazzeschi nei “Classici d’arte” edito Rizzoli, scrive: «Purosangue romagnolo, era vulcanico, esplosivo e al tempo stesso incapace di rancore, di nutrire risentimento per chicchessia, qualunque cosa gli avesse fatto».

Arte

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Territorio Il crocicchio delle “apparizioni”_ magie a Settefonti The Crossroad of “Apparitions”_ magic in Settefonti Longiano_ vocazione culturale

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Longiano_ cultural vocation

Storia “Inventore” del metano_ Angelo Amadori, scienziato per necessità “Inventor” of Methane_ Angelo Amadori, scientist by need Il “Nevone”_ la famigerata neve del Ventinove

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Passioni

The “Big Snowstorm”_ the notorious snowstorm of '29

Renzo Pasolini e la moto_ una vita in staccata Renzo Pasolini and the Motorcycle_ a life lived on the edge La Romagna errante della musica meccanica_ memorie analogiche musicali The Errant Romagna of Mechanical Music_ analogic musical memories

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Enogastronomia I benefici di un microclima favorevole_ trasmessi ai vini di Calonga The Benefits of a Favourable Microclimate_ Transmitted to the Calonga Wines Frutti dimenticati_ perduti dall’uomo e custoditi dalla terra Forgotten Fruits_ lost by man and guarded by the land

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Arte La collezione di Giuseppe Verzocchi_ un omaggio “a tutti coloro che lavorano” The Giuseppe Verzocchi Collection_ a homage “to all those who work” Umberto Boccioni_ pittore, scultore, futurista, romagnolo Umberto Boccioni_ painter, sculptor, futurist, native of Romagna

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I S en s i d i Ro m a g na




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