C
ome vuole il corso sempiterno delle stagioni, la morsa del freddo ha lasciato la presa cedendo il passo a versanti più gradevoli del termometro.
Simbolo del clima soleggiato e protagonista eccellente di questo numero di
ee è il mare.
Un mare forse stretto e povero di abissi. Ciò nondimeno, anche i fondali del bonario Adriatico possono regalare stupore, sia che si tratti di un semplice relitto colonizzato dal “sottobosco” marino, sia che si parli della leggendaria città sommersa di Concha. Un piccolo mito di costa che avvicina il mare della Romagna alla statura suggestiva di altri suoi più oceanici consimili. Uno dei racconti che potreste farvi narrare dai cocciuti marinai, pescatori e navigatori che hanno imparato ad amare, rispettare e temere questo specchio d’acqua salata. Gente semplice, usa a condividere abitudini, piaceri e tradizioni che compongono il patrimonio e l’immaginario comune dei romagnoli. Tanto degli anonimi, quanto di coloro che sono celebrati sugli annali della storia, dalla scienza o dell’arte. Eredi, comunque, di questa terra, che non riesce a farsi contenere entro le linee di demarcazione segnate sulle carte, poiché la sua radicata identità ha da secoli segnato altri, e più vasti, ideali confini. La Redazione di
ee
As the sempiternal cycle of seasons moves on, the nip of cold has loosened its grip, making way for more pleasant regions of the thermometer. The symbol of sunny weather, and star par excellence of this edition of ee, is the sea. A sea perhaps narrow, lacking great depths. That notwithstanding, the seabeds of the kindly Adriatic can offer astonishing wonder, whether a simple wreck colonized by a marine "underworld", or the legendary sunken city of Concha. A little coastal myth that elevates the sea of Romagna to the picturesque stature of some of its more oceanic cousins. One of the stories you might draw out of the stubborn sailors, fisherman, and seafarers who have learned to love, respect, and fear this stretch of salty water. Simple people, accustomed to sharing habits, pleasures, and traditions, which comprise both the heritage and shared imagination of the inhabitants of Romagna. As many anonymous faces as names celebrated in the annals of history, science, or art. Heirs, then, to this land, which can't stay within the lines shown on the maps, because its deep-rooted identity for centuries has marked other, larger, ideal borders. The editorial staff of ee
E di t or i a l e
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a c q u a t e r r a f u o c o a r i a
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Va l en t i n a B a r u z z i
La nuova vita della piattaforma Paguro s ple n dido reef a rtificia le de ll’A lto Ad riatico La natura non fa nulla di inutile. Aristotele
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I Sensi di Romagna
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La notte del 28 settembre 1965 sarà ricordata per sempre dagli abitanti di Porto Corsini e dai villeggianti di quella fine stagione, poiché in quei momenti si consumò una tragedia di cui ancora oggi il mare conserva i segni.
S
olo tre anni prima l’Agenzia Generale Italiana Petroli (AGIP), su licenza americana, aveva fatto costruire, per l’estrazione di gas metano, due piattaforme mobili: la Perro Negro e la gemella Paguro, ma il nome della seconda piattaforma, lo stesso del crostaceo
che vive all’interno delle conchiglie, si rivelò funesto, vista la vita assai breve e la tragica fine che doveva toccarle in sorte. Dopo essere stata posizionata, a metà del 1965, sul sito PC7 (Porto Corsini 7), a 12 miglia dalla costa, di fronte alla foce dei Fiumi Uniti, prese subito il via l’opera di perforazione fino a quando, nella notte del 28 settembre, un’improvvisa ed inaspettata eruzione di fluido si sprigionò dal suolo. La trivella, raggiunto un giacimento a 2900 metri di profondità, aveva intaccato un secondo deposito sottostante che conteneva gas ad una pressione molto elevata, il quale inevitabilmente fuoriuscì con violenza. La situazione precipitò poco dopo, quando le pareti del pozzo crollarono e l’eruzione di gas diventò ingovernabile; la piattaforma Paguro fu rapidamente avvolta da gas, acqua e fiamme mentre sprofondava in mare. A questo si aggiunse una situazione meteomarina sfavorevole, lingue di fuoco illuminarono le acque e la tragedia si compì con la morte di 3 persone. Il pozzo continuò a bruciare durante i 3 mesi successivi, fino a quando, ad alcune centinaia di metri di distanza, fu perforato un pozzo deviato, grazie al quale fu finalmente possibile cementare il PC7. Da allora il relitto Paguro si trova sul fondale a 33 metri di profondità mentre la parte più alta è collocata a meno 10 metri dalla superficie del mare. La struttura, nel tempo, ha subito una metamorfosi profonda, trasformandosi, da teatro di morte, in luogo di rinascita. Le condizioni si sono rivelate ideali per lo sviluppo della vita marina e così il Paguro è divenuto uno splendido reef artificiale meta di grande interesse per i subacquei. Nella parte più alta del relitto, sulle strutture metalliche, si sono diffusi numerosi mitili, è possibile incontrare anche invertebrati mobili e crostacei come l’astice ed alcune varietà di granchi, mentre i pesci che lo frequentano sono quelli tipici dei fondali rocciosi: Occhiate, Gronchi, Spigole e Scorfani neri. La flora presente sul fondo e sul relitto, infine, è estremamente prosperosa e ravviva con i suoi pigmenti profondità altrimenti piatte e fangose. Il 21 luglio 1995, il relitto venne ufficialmente decretato “zona di tutela biologica” dal Ministero delle Politiche Agricole e, circa un anno dopo, si costituì a Marina di Ravenna l’“Associazione Paguro” quale strumento della sua gestione. A 40 anni dal suo affondamento, è ancora grande la voglia di ricordare e valorizzare quello che il mare ha conservato.
NEW LIFE FOR THE PAGURO PLATFORM_ SPLENDID ARTIFICIAL REEF IN THE UPPER ADRIATIC The night of 28 September 1965 will remain forever in the memories of the inhabitants of Porto Corsini and late-season holiday visitors that year, because that evening witnessed a tragedy whose mark is still evident in the sea. Only three years earlier, the Agenzia Generale Italiana Petroli (AGIP), on American license, had built two mobile platforms for the extraction of methane gas, the Perro Negro and its twin the Paguro, but the name of the second platform, Italian for the hermit crab that lives around shells, proved woeful in view of the terribly short life and tragic end that would befall it. After having been positioned in mid-1965 on site PC7 (Porto Corsini 7), 12 miles from the coast opposite the mouth of the United Rivers, drilling began immediately, and continued until the evening of 28 September, when a sudden and unexpected eruption of fluid exploded from the soil. The drill, having reached a deposit at 2,900 meters underwater, had punctured a second, underlying deposit containing highly-pressurized gas, which inevitably burst forth violently. The situation soon came to a head when the walls of the well collapsed and the eruption of gas became uncontrollable; the Paguro platform was quickly enveloped in gas, water, and flames as it sunk into the sea. To make matters worse, the weather and sea conditions were poor. Tongues of flame lit up the water and the tragedy took the lives of three people. The well continued to burn for the next three months, until a few hundred meters away, a deviated well was drilled, which finally made it possible to cement PC7. Since then the Paguro wreck has lain on the seabed at 33 meters, while the uppermost section lies just 10 meters below the surface. Over time, the structure has undergone a profound metamorphosis, transforming itself from a theater of death into a place of rebirth. Conditions proved ideal for the development of marine life, and thus the Paguro has become a splendid artificial reef and a highly attractive destination for divers. On the upper section of the wreck, numerous mussels are spread over the metallic structures, and divers may also spot mobile invertebrates and crustaceans such as lobster and few varieties of crabs, while the fish are those typical of rocky seabeds: saddled seabream, conger eels, bass and black scorpion fish. Finally, the flora on the seabed and the wreck is prosperous, and its colors enliven otherwise flat and muddy depths. On 21 July 1995, the wreck was officially declared a "biologically protected area" by the Ministry of Agriculture Policies, and approximately one year later, the "Paguro Association" was founded in Marina di Ravenna to manage the area. Forty years after it sank, there is still a great desire to remember and to prize what the sea has preserved.
Ter r i t or i o
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Giuliano Bettoli
I veri confini della Romagna geograf i a di s e n time n ti È sul Sillaro, a Castel San Pietro, che passa il confine tra la Romagna propriamente detta e il bolognese. Una prova che la divisione esiste? Eccola: esci da Bologna lungo la Via Emilia e vai dalla parte di Modena. Entra da un contadino e domandagli da bere. Ti dà un bicchier d’acqua. Esci da Bologna lungo la stessa Via Emilia e vieni verso Imola. Entra da un contadino e fagli la stessa domanda. Ti dà un bicchier di vino. In Romagna il vino non si chiama vino. Si dice: e’ bé, il bere. Luigi Pasquini
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I Sensi di Romagna
Certo che c’è una zona d’Italia da tutti chiamata “Romagna”, anche se dal punto di vista amministrativo, è la seconda parte della regione “Emilia-Romagna”.
C
erto che sulla carta geografica d’Italia la Romagna occupa, pressappoco, un quadrilatero sulla parte destra della suddetta regione.
Certo che “Romagna” deriva dal latino Romandìola o Romània, nomi che, ai tempi dei Longobardi,
indicavano, grosso modo, le terre della futura Romagna (anche se, allora, erano incluse nel cosiddetto Esarcato, con Ravenna come capitale, anche le terre di Bologna, Ferrara e Adria). Certo che ci sono i “romagnoli”, gli abitanti, che ci tengono a chiamarsi così, e guai se qualcuno osasse chiamarli “emiliani”. Certo che la Romagna – fatto che nessuna “regione ufficiale” può vantare – possiede da tempo persino l’“Inno Nazionale Romagnolo”, quella famosissima “Romagna Mia” composta da Secondo Casadei, un brano tra i più eseguiti in tutto il mondo (che anche Papa Woitila – dicono – amava ascoltare e canticchiare). Certo che la Romagna ha sette città – dette anche “le sette sorelle” – di indiscussa romagnolità: Cesena, Faenza, Forlì, Imola, Lugo, Ravenna, Rimini.
THE TRUE BORDERS OF ROMAGNA_ THE GEOGRAPHY OF FEELING There's a certain area of Italy that everyone calls "Romagna", even if from the administrative point of view it's the second part of the region called "Emilia-Romagna". Certainly, on the map of Italy, Romagna occupies roughly a quadrilateral on the right of that region. Certainly, "Romagna" derives from the Latin Romandìola or Romània, a name that at the time of the Lombards indicated more or less the area that would later be Romagna (although at that point the so-called Exarchate, with Ravenna as its capital, also included the lands of Bologna, Ferrara, and Adria). Certainly, the inhabitants are called "romagnoli", and that name is important to them – woe to anyone who dares to call them "emiliani"! Certainly, Romagna – something that no "official region" can claim – has long had even its own "national" anthem, the famous song "Romagna Mia" composed by Secondo Casadei, one of the most-performed pieces in the world (which even Pope John Paul – they say – loved to hear and hum to himself). Certainly, Romagna has seven cities – also called the "seven sisters" – with undisputable Romagna credentials: Cesena, Faenza, Forlì, Imola, Lugo, Ravenna, and Rimini. Certainly, the territory of Romagna includes eight waterways, which working from the west are: the Santerno, the Senio, the Lamone, the Montone, the Ronco, the Savio, the Marecchia, and the Conca. And certainly, Romagna includes the entire area of three provinces: Ravenna, Forlì-Cesena and Rimini. But we must also add to Romagna's territory a few scraps of land belonging to other surrounding provinces, which in terms of language and folklore are intrinsically part of Romagna. This is true for the area around Imola (in the province of Bologna), Romagna Toscana (in the province of Florence and Arezzo), and Montefeltro (in the province of Pesaro-Urbino). What is uncertain, however, has long been the precise perimeter of Romagna – a "dancing" border, as the scholar Roberto Balzani called it – with the exception of the east, where you can't go wrong: the border is the shore of the Adriatic Sea. It was Emilio Rosetti, an engineer from Forlimpopoli, veteran from Argentina, who sketched out these blessed borders 1894, now accepted by all inhabitants of Romagna. Here they are: to the north, the Reno river from Bastia, where the Sillaro river joins it, to the Adriatic. To the north-west, the course of the Sillaro and the ridge of Appennine that flanks the Santerno Valley. To the south-west: from the Futa pass, to approximately Monte Maggiore in the Alpe della Luna. To the south-west, from Alpe della Luna to Gabicce, on the Adriatic. This quadrilateral surrounds a surface area of 6,350 square kilometers: Romagna. In its language and customs, even the Republic of San Marino can consider itself part of Romagna. No one would claim to include it in Romagna though – that would mean war. And as we all know, there are already too many wars raging around the world.
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Certo che la Romagna include nel suo territorio otto corsi d’acqua che, partendo da ovest sono: il Santerno, il Senio, il Lamone, il Montone, il Ronco, il Savio, la Marecchia e il Conca. Certo che la Romagna comprende il territorio integrale di tre province: Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini. Al territorio della Romagna bisogna, però, aggregare anche alcuni scampoli di territori appartenenti ad altre province limitrofe che, per lingua e folklore, risultano intrinsecamente romagnoli. Ciò vale per il circondario di Imola (in provincia di Bologna), la Romagna Toscana (in provincia di Firenze ed Arezzo) e il Montefeltro (in provincia di Pesaro-Urbino). Incerto, perciò, è stato a lungo il perimetro preciso dei confini della Romagna – un confine “ballerino”, così l’ha definito lo studioso Roberto Balzani – eccetto che a est; lì non ci si può sbagliare: il confine coincide con la spiaggia del Mare Adriatico. È stato Emilio Rosetti, un ingegnere di Forlimpopoli, reduce dall’Argentina, che nel 1894 ha tracciato questi benedetti confini, ormai accettati da tutti i romagnoli. Eccoli: a nord il fiume Reno, da Bastia, dove riceve il torrente Sillaro, all’Adriatico. A nord-ovest il corso del Sillaro e la dorsale appenninica che fiancheggia la Valle del Santerno. A sud-ovest: dal passo della Futa, all’incirca fino al Monte Maggiore, nell’Alpe della Luna. A sud-est dall’Alpe della Luna a Gabicce, sull’Adriatico. Dentro a questo quadrilatero è compresa una superficie di 6350 chilometri quadrati: la Romagna. Anche la Repubblica di San Marino può considerarsi, per lingua e costumi, romagnola. Nessuno pretende, però, di inglobarla nella Romagna: scoppierebbe una guerra. E di guerre, si sa, ne imperversano già troppe in giro per il mondo.
Ter r i t or i o
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I t a l o e Va n n a G ra z i a n i
Un desiderio della memoria sc opri re n e l gioco il gu s to de lla vita
Massimo Bontempelli
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Il dovere dell’uomo sarebbe di fare al bambino, di tutto l’anno, una festa.
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I Sensi di Romagna
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Trovarsi al centro di un fantastico labirinto: è questa la prima immagine che sale alla mente pensando di esplorare l’universo del gioco tradizionale, così complesso e fantasioso.
S
i inizia dalla nascita a camminare con il piacere della scoperta infantile, e si arriva fino alle ansie dei passatempi adulti, ma si può restare sorpresi davanti alla vastità delle possibilità ed alla originalità delle variabili.
In questo intricato percorso è sicuramente d’aiuto la selezione di alcuni esempi e la distinzione in due filoni fondamentali: il giocattolo, cioè lo strumento costruito, e il gioco a coppie o in gruppo, con l’ambiente come elemento insostituibile. Denominatore comune è l’appartenenza dei giochi alle tradizioni popolari e usanze di un territorio, con calendari stagionali e cicli naturali durevoli e consolidati. Non a caso per fabbricare “e fabiòl”, una sorta di zufolo di legno di salice o pioppo, bisognava attendere la primavera, quando gli alberi vanno “in succhio” – “andè in sòccia” – cioè la corteccia si stacca facilmente dal legno. Analogamente, per giocare al tiro al
bersaglio, l’arco si costruiva con i vimini mentre le frecce con canna palustre (Arundo Phragmites). E quale momento migliore per far volare l’aquilone se non quando tira il vento di marzo? Ma per i bambini anche le condizioni climatiche più inclementi potevano “far gioco”: con indicibile gioia accoglievano la neve, in prospettiva delle battaglie di palle, d’estate, invece, approfittavano del fiume in secca, ove costruivano circuiti per le biglie. Tutto questo può essere spunto di riflessione sulla necessità di trasmettere valori come la creatività, il senso di appartenenza e soprattutto la pazienza. Oggi, infatti, l’usa e getta così rapido è arrivato a soppiantare il tempo lungo dell’attesa e l’appagamento dei desideri con oggetti acquistati semplifica, omologa e spesso porta ad un rapido esaurimento del gioco. Senza volersi addentrare nell’ennesimo discorso sulla globalizzazione, che è ormai luogo comune, bisogna però sottolineare come tradizioni secolari di diversi territori e popolazioni vengano annullate con incauta superficialità. Forse la costruzione “casalinga” è la perdita più evidente di identità
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St or i a
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La sola abitudine che si deve lasciar prendere al fanciullo è di non contrarne nessuna. J. J. Russeau
A YEARNING FOR MEMORY_ DISCOVER THE FLAVOR OF LIFE IN A GAME Finding yourself at the center of a fantastic maze: this is the first image that comes to mind when you think of exploring the complex and creative world of traditional games. We begin from birth, proceeding with the pleasure of infantile discovery, all the way to the anxiousness of adult pastimes, and yet we can be surprised by the vast range of possibilities and the originality of all the variables. In this intricate search it is undoubtedly helpful to select a few examples and to distinguish two basic threads: toys, meaning something that is made, and play for pairs or groups, with the environment as the irreplaceable element. The common denominator is that games belong to the popular traditions and habits of an area, with calendar seasons and long-lasting and well-established natural cycles. It's no accident that "e fabiòl", a sort of small flute made of willow or poplar, can only be made during the spring, when the trees fill with sap – "andè in sòccia" – and the bark detaches easily from the wood. Similarly, to play at archery, the bow was made of wicker but the arrows were made of reeds (arundo phragmites). And what better time to make a kite than when the March winds blow? But for children, even the most inclement weather conditions could create a game: they welcomed the snow with unspeakable joy, looking forward to snowball fights, while in the summer they make the most of dry river beds to build circuits for their marbles. All of this may lead us to ponder the need to hand down values such as creativity, a sense of belonging, and especially, patience. Today, though, frenetic disposability has begun to supplant those long waits and the gratification of longings with purchased items, simplifying and homogenizing, and often leading players to quickly lose interest in the game. Without wishing to launch into the umpteenth lecture on globalization, which is now commonplace, it is still necessary to stress how centuries of traditions in different places and populations are being erased by careless superficiality. "Homemade" items may be the most obvious loss in cultural identity, at least for people of my generation, born after World War II, witness to unimaginable epochal changes: the shift from a farming economy characterized by self-consumption and non-existent market exchanges, to industrial development, in which purchases are instantaneous and taken for granted, made without the attention and reasoning needed to grow with awareness. After all, games must be seen from this perspective as well: as a way to interact with others and learn what loyalty and rule following mean, as a system for learning and accepting bad luck, and to respect those who don't win, because defeat also helps us to grow. And it can be experienced as a relationship between generations, as a knowledge of the country and its rhythms, as a use of natural or recycled materials; symbolically, it represents the time of passage, the rites of initiation, and giving the best of yourself for others. One game played in the town fairs of Italy has left us a word that I don't believe will fall out of use: “cuccagna”. The basic elements of this spectacular public amusement are well-known: the tree, a smooth, very tall "antenna" covered in soap, with prizes suspended from a wheel at the top. Most of all, contestants need skill, strength, and audacity, demonstrated with great obstinacy. The most famous cuccagna was, and still is, the one on the port-channel in Cesenatico during celebrations for San Lorenzo. Another pastime that required a certain dose of courage and dexterity was the swing set, even if was considered more typically feminine; another child's game requiring similar skills, and which in Italian goes by the same name (altalena), is the seesaw, balancing over a wedge in the center. But these games are hardly exclusive to our area! Along with hopscotch, spinning tops, and jump rope to name just a few, they seem to belong to those natural, instinctive games that are played everywhere, from Europe to South America to Asia, with astonishing similarities. After all, a child who doesn't play is not a child, and that is true the world over.
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I Sensi di Romagna
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culturale, almeno per quelli della mia generazione, nati dopo la Seconda Guerra Mondiale, testimoni di mutamenti epocali inimmaginabili: il passaggio da un’economia contadina, contraddistinta dall’autoconsumo e da scambi di mercato inesistenti, ad uno sviluppo industriale, in cui l’acquisto è spontaneo e scontato, compiuto senza l’attenzione e il ragionamento necessari per portare ad una crescita consapevole. Del resto il gioco deve essere visto anche in quest’ottica: come modo per confrontarsi con gli altri e capire cosa significano la lealtà e il rispetto delle regole, come sistema per imparare ad accettare la sfortuna e a rispettare le persone che non vincono, perché anche la sconfitta aiuta a crescere. E lo si può vivere come rapporto tra le generazioni, come conoscenza del territorio e dei suoi ritmi, come uso dei materiali naturali o riciclati; simbolicamente, rappresenta il momento di passaggio, il rito d’iniziazione e il dare il meglio di sé per gli altri. Da un gioco che si svolgeva nelle feste paesane resterà una parola che credo non smetterà di essere usata in futuro: “cuccagna”. Gli elementi che stavano alla base di questo divertimento pubblico e spettacolare sono noti: l’albero, un’“antenna” liscia, molto alta e insaponata, e i regali, appesi ad una ruota sulla cima; ma soprattutto servivano abilità, forza e audacia, da esibire con grande caparbietà. La cuccagna più famosa era, ed è tuttora, quella sul porto-canale di Cesenatico, in occasione della celebrazione del giorno di San Lorenzo. Un altro passatempo che richiedeva una certa dose di coraggio e destrezza era quello dell’altalena, benché spesso fosse considerato più prettamente femminile; ne esistono due versioni, quella, cioè, legata a due funi e quella dell’asse con un cuneo centrale in equilibrio. Ma l’altalena non è esclusivamente tipica della nostra zona, anzi! Insieme alla campana (o settimana, che dir si voglia), alla trottola, al salto con la corda, tanto per ricordarne alcuni, sembra essere uno di quei giochi naturali, istintivi, che vengono praticati ovunque, dall’Europa al Sud America all’Asia, con analogie sorprendenti. Del resto il bambino che non gioca non è un bambino, e questo in tutto il mondo.
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St or i a
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Carlo Zauli
Atlantide adriatica mito e fon da me n ti de lla città profon da ta di Co ncha L’Atlantico e l’Adriatico, oltre all’assonanza dei loro nomi, possiedono un altro tratto in comune: come al di là delle Colonne d’Ercole sopravvive il mito di Atlantide, nei pressi del Sasso di Gabicce echeggia la
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leggenda di Valbruna.
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I Sensi di Romagna
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ADRIATIC ATLANTIS_ MYTHS AND FOUNDATIONS OF THE SUNKEN CITY OF CONCHA
Qualunque paesaggio è uno stato d'animo. Henri Frederich Amiel
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The Atlantic and the Adriatic, beyond the assonance of their names, share another common trait: just as the myth of Atlantis survives beyond the Columns of Hercules, near the Rock of Gabicce, the legend of Valbruna still reverberates. The only objectively tangible trace of its existence is an ancient map, dating to the late 1300s, showing a portion of the Upper Adriatic coast. On the shore, near the foci of the present-day river Conca (known in antiquity as Crustumium), there is a circle, equidistant from Pisaurum and Ariminum, with the words: "Concha, sunken city". Effectively, in the Bay of Vallugola near this point, a few dark areas are visible on the water from above, which could be interpreted as ancient submerged ruins. According to a long-standing legend, these may belong to a small inhabited area of Greek or Roman origin, cited by Latin authors of the 5th century, and it could also have been called Valbruna or Crustumium. Its existence has been discussed for centuries, and authoritative historians like Biondo Flavio in the 1400s and Raffaele Aldimari in the 1600s both declared they were convinced that it existed. Many claim to have seen it with their own eyes, while others insist it's a sort of popular fable. Modern science refutes its existence; according to many scholars and archaeologists, what appears to be ruins is nothing more than a special sort of reef and geological formations. Yet still today many old fisherman speak of having glimpsed walls on the sea floor, half a meter underwater, on the clearest days when the sea is calm and the tide is low, near the Rock of Gabicce. Some of them claim to have caught their nets more than once on colossal stones, and tell tales of their ancestors discovering curious items: crockery, capitals, and even shards of mosaic. Finally, some divers swear that they found themselves stunned at the sight of an entire city resting on the seabed. Ancient and modern witnesses described it as small but splendid, with mighty walls, towers, and buildings, and decorated with elegant colonnades and statues. Concerning the disastrous events responsible for sinking it below the waves, the most credible is an earthquake caused by tectonic movements and sea currents that would have produced a significant geological change and swallowed up the entire ancient coastal strip. Another hypothesis, inspired by an ancient Eastern legend and supported by the plentiful presence in these waters of eels from the Valli di Comacchio, holds that the cataclysm was involuntarily caused by man, digging upstream to open an outlet channel and thereby causing the sea to advance onto terra firma. Whatever the answer may be, the mysterious charm of this stretch of coast, with its fable slumbering on the bottom of the sea, has for centuries tempted man's curiosity and speaks to the sensibility of artists, for whom the sunken city of Montefeltro has inspired songs, novels, and even a play.
L’
unica traccia oggettivamente tangibile della sua esistenza è rappresentata da un’antica cartina geografica, risalente alla fine del
'300, raffigurante una porzione di costa dell’Alto Adriatico. Sul mare, in prossimità delle foci dell’attuale fiume Conca (anticamente conosciuto come Crustumium) viene riportato un cerchio, equidistante da Pisaurum e Ariminum, con la dicitura: “Concha, città profondata". In effetti nella baia di Vallugola, in prossimità di questo punto, sono visibili dall’alto sull’acqua alcune zone scure che potrebbero essere interpretate come l’ombra di antiche rovine sommerse. Secondo una leggenda assai longeva apparterrebbero ad un piccolo centro abitato di origine greca o romana già citato da autori latini del V secolo, che potrebbe essersi chiamato anche Valbruna o Crustumium. Della sua esistenza si parla e si discute ormai da diversi secoli, storici autorevoli come Biondo Flavio nel ‘400 o Raffaele Aldimari nel ‘600, si dichiararono convinti della sua esistenza. Molti affermano di averla vista con i loro occhi, altri sostengono che si tratterebbe d’una sorta di favola popolare. La scienza moderna ne rifiuta l’esistenza, secondo molti studiosi ed archeologi quelle che paiono rovine altro non sarebbero che particolari specie di scogli e formazioni geologiche. A tutt’oggi, tuttavia, tanti anziani pescatori parlano di mura intraviste sul fondale a mezzo braccio di profondità, nei giorni più limpidi, con il mare calmo e la bassa marea, in corrispondenza del Sasso di Gabicce. Alcuni di loro affermano inoltre di aver più volte agganciato le loro reti in mastodontici macigni e si tramandano racconti dei loro avi che avrebbero recuperato reperti curiosi: stoviglie, capitelli e persino brandelli di mosaici. Alcuni sommozzatori, infine, giurano di essersi trovati, attoniti, al cospetto di un’intera città poggiata sul fondo. Le testimonianze, antiche e moderne, la descrivono piccola ma sfarzosa, dotata di possenti mura, torri e palazzi, ed ornata di eleganti colonnati e statue. Sulle cause disastrose che l’avrebbero sprofondata tra i flutti, la più accreditata è quella di un terremoto dovuto ai movimenti tettonici e alle correnti marine che avrebbe prodotto un significativo mutamento geologico e inabissato l’antica fascia costiera. Esiste anche l’ipotesi, ispirata da una lontana leggenda orientale e avvalorata dalla numerosa presenza in queste acque di anguille giunte dalle Valli di Comacchio, che il cataclisma sarebbe stato involontariamente causato dall'uomo, scavando un monte per aprire un canale di sbocco e provocando l’avanzata del mare sulla terraferma. Sia come sia, il misterioso fascino di questo tratto di costa, con la sua favola addormentata in fondo al mare, da secoli suggerisce suggestioni alla fantasia degli uomini e parla alla sensibilità degli artisti, cui la città sommersa del Montefeltro ha ispirato brani musicali, romanzi e addirittura un testo teatrale.
St or i a
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Un uomo di genio non fa errori. I suoi errori sono voluti e sono portali di scoperta. James Joyce
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S t e f a n o B o rg h e s i
Il padre del barometro: Evangelista Torricelli l ’ uom o ch e a pplicò la ma te ma tica al l a me te re ologia
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I Sensi di Romagna
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Evangelista Torricelli, inventore del barometro, accrebbe la conoscenza in campo fisico e matematico nel solco della nuova scienza sperimentale introdotta da Galileo Galilei. Ne vanno fieri la Romagna e Faenza, che lo vide muovere i primi passi negli studi.
I
l gesuita Daniello Bartoli, in un suo libro pubblicato nel 1677, fa menzione di Evangelista Torricelli a distanza di alcuni decenni dalla morte e dichiara esplicitamente che “Faenza gli fu Patria” così come Firenze gli fu “scuola e
Teatro”. Tuttavia il luogo in cui il grande scienziato nacque il 18 ottobre 1608 risulta documentato non a Faenza, ma a Roma nel libro dei battezzati della Basilica di S. Pietro. La scoperta, compiuta nel 1987 dallo studioso faentino Giuseppe Bertoni, ha decretato infondate le contrastanti opinioni sul luogo natio del Torricelli, di cui si sono appropriate varie località romagnole e, in particolare, Piancaldoli, nel versante imolese della Romagna Toscana. Nessun dubbio, inoltre, sulla faentinità della famiglia d’origine. Evangelista Torricelli nacque a Roma da Gaspare Ruberti, muratore proveniente da Bertinoro e da Giacoma Torricelli, nata a Faenza da famiglia benestante, il cui nome deriva dalla località Torricella presso la Pieve di Pideura, nel territorio faentino. La trasmissione del cognome della madre al figlio non era insolita nel passato soprattutto se il casato di provenienza della genitrice era socialmente più elevato. Evangelista fu mandato giovanissimo presso lo zio materno Jacopo Torricelli, monaco camaldolese e priore del monastero di S. Giovanni a Faenza. In questa città compì la sua prima istruzione sotto la guida dello zio, poi, negli anni 1619-1623, nella scuola di grammatica e di umanità dei Padri Gesuiti. Successivamente si iniziò da solo agli studi matematici che, tornato dai famigliari, approfondì a Roma in un fecondo sodalizio con Padre Benedetto Castelli, seguace del sistema galileiano. Evangelista Torricelli fu grande per gli studi di matematica, sebbene riconosciuti più tardi e per la precisa determinazione della pressione atmosferica con l’invenzione del barometro. In suo onore è detta “torr” un’unità di misura della pressione pari a quella di un millimetro di mercurio. Fu tra i discepoli prediletti che l’Inquisizione permise a Galileo Galilei di tenere presso di sé nell’esilio forzato di Arcetri. Quando Galilei venne a morte nel 1642, il Granduca Ferdinando nominò il Torricelli suo successore per la Lettura di Matematica nello Studio di Firenze. In questa città il Torricelli si spense prematuramente il 25 ottobre 1647. Faenza ne celebrò il III centenario della nascita con una straordinaria Esposizione organizzata nel 1908. I cimeli e le carte del grande fisico, raccolti in quella circostanza, sono confluiti nel museo, arricchito e tuttora gestito dalla Società Torricelliana di Scienze e Lettere, fondata a Faenza nel 1947 per mantenere viva la memoria dell’illustre scienziato con la diffusione della cultura.
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THE FATHER OF THE BAROMETER: EVANGELISTA TORRICELLI_ THE MAN WHO APPLIED MATHEMATICS TO METEOROLOGY Evangelista Torricelli, inventor of the barometer, built his knowledge in the field of physics and mathematics in the wake of the new experimental science introduced by Galileo Galilei. Romagna and Faenza are both proud to say he studied their early in his career. The Jesuit Daniello Bartoli, in a book he published in 1677, mentions Evangelista Torricelli a few decades after his death, and explicitly declared that "Faenza was his home", just as Florence was his "school and theater". Nonetheless, the great scientist born on 18 October 1608 is documented not in Faenza, but in Rome, in the book of baptisms in the Basilica of San Pietro. The discovery, made in 1987 by the scholar Giuseppe Bertoni from Faenza, declared unfounded the contrasting opinions on Torricelli's birthplace, which various locales in Romagna had appropriated, and in particular Piancaldoli on the Imola side of Tuscan Romagna. Further, there is no doubt about his family's origins in Faenza. Evangelista Torricelli was born in Rome to Gaspare Ruberti, a mason from Bertinoro, and Giacoma Torricelli, born in Faenza into a well-to-do family whose name derives from the town of Torricella in the parish of Pideuro in the Faenza area. A son being given his mother's name was not uncommon in the past, especially if her family had higher social status. Evangelista was sent at a very young age to his maternal uncle Jacopo Torricelli, a Camaldolese monk and prior of the S. Giovanni a Faenza monastery. In this city he received his earliest training under the guidance of his uncle, and then from 1619-1623 at the grammar and humanities school of the Jesuit Fathers. He later began his mathematical studies on his own, and returning to his relatives, in Rome he deepened a fertile brotherhood with Father Benedetto Castelli, a follower of the Galilean system. Evangelista Torricelli was significant for the study of mathematics, although he was only recognized later, for the precise determination of atmospheric pressure by inventing the barometer. In his honor, the unit of measure for pressure equal to one millimeter of mercury is called a "torr". He was one of the favorite disciples that the Inquisition allowed Galileo Galilei to keep with him in his forced exile in Arcetri. When Galilei met his death in 1642, Grand Duke Ferdinand named Torricelli as his successor to the Lecture of Mathematics in the Florence Studio. It was in Florence that Torricelli died prematurely on 25 October 1647. Faenza celebrated the III centennial of his birth with a special exhibition organized in 1908. The great physicist's mementos and papers, collected for the occasion, were sent to the museum that was stocked and is still managed by the Torricelliana Society of Sciences and Letters, founded in Faenza in 1947 to keep alive the memory of the illustrious scientist by spreading culture.
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St or i a
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La passione per la navigazione sulle coste della Romagna è ben viva, pur se oggi l’Adriatico non fa più paura e a volte sorge spontanea la considerazione che sia anche per questo che si tende a rispettarlo sempre meno.
Il mestiere del mare ce le bra to da l M u s e o de lla M a rin e ria di Cesenatico
THE WORK OF THE SEA_ CELEBRATED BY THE CESENATICO MARINE MUSEUM The passion for sailing is alive and well along the coasts of Romagna, even though these days the Adriatic no longer instills fear, and sometimes the thought occurs spontaneously that this may be part of the reason people tend to respect it less and less. More than half a century ago, dusk fell on a long period in which, on these waters, the sailor's coexistence with the sea was marked by a lively and deep-seated lovehate relationship. It's instinctive to equate this "change of tack" with the adoption of combustion engines by watercraft, around the period at the end of World War II, when, as the fisher-poet Carlo Nava recounts, the last fishing boats with sails crossed off the coast of Romagna, running the risk of their nets hooking mines left behind by the conflict. Before this "handover", most seafarers and fishermen were illiterate and did not know how to use complex nautical tools. The ability to master the techniques of navigation and successfully manage a sea-going career derived from experience earned on the job, with a training period that began very early, at nine or ten years old as a ship boy, watching and listening to the older members of the crew, who, tenaciously rooted to the deck, suggested masterful maneuvers in the midst of the gale and sang ancient propitiatory songs. At that time, sailing was the exclusive prerogative of only a few; people went to sea largely to fish or for medium/short range transport of goods. Both of these activities also offered the opportunity to supplement proceeds with the widespread practice of contraband, which, despite the checks and seals of the tax police, allowed crafty sailors to earn themselves a measure of advantage over the utter misery that then reigned supreme. Alongside seafaring civilizations, professions developed such as sail makers, caulkers (experts in waterproofing hulls), and masters of the adze, still found in small numbers along the Adriatic coasts, who select wood with the precision of a violin maker and knew the secrets of a ship's skeleton. Details that have arduously survived through the ages bear witness to the common belief that held boats to be "living" objects. The bow ornament of the trabàccoli (typical craft in these waters): two apotropaic eyes sculpted in wood were supposed to give the boat's spirit a way to spot the dangers of the sea. When the boat advanced over the short waves of the Adriatic, the play of light and shadow over the bow gave the impression that the eyes were changing expression depending on
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Manlio Rastoni
D
a più di mezzo secolo è tramontato un tempo lungo il quale, su queste acque, la convivenza del marinaio con il mare era segnata da un vivo e radicato sentimento di amore-odio. Viene spontaneo far corrispondere questo “giro di boa” con l’adozione da parte dei
natanti del motore a scoppio, localizzabile nel tempo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando, come narra il poeta pescatore Carlo Nava, gli ultimi pescherecci a vela incrociavano al largo della costa romagnola rischiando di incocciare con le loro reti nelle mine lasciate in eredità dal conflitto. Prima di questo “passaggio di consegne” la gran parte dei navigatori e dei pescatori erano analfabeti e non sapevano padroneggiare strumenti nautici complessi. La capacità di far proprie le tecniche di navigazione e riuscire a destreggiarsi nel mestiere del mare derivava dall’esperienza acquisita sul campo, con un apprendistato che iniziava molto presto, a nove/dieci anni, in qualità di mozzo, osservando e ascoltando i membri anziani dell’equipaggio che, tenacemente abbarbicati al ponte, durante le burrasche, consigliavano sapienti manovre e cantavano antiche canzoni propiziatorie. Il diporto era, al tempo, appannaggio esclusivo di pochi; si andava per mare principalmente per dedicarsi alla pesca o al trasporto delle merci a medio/breve raggio. Entrambe queste attività offrivano poi l’occasione di arrotondare attraverso la diffusa pratica del contrabbando, che, nonostante i controlli ed i sigilli della Finanza permetteva agli ingegnosi marinai di guadagnare un’incollatura di vantaggio sulla miseria più completa che imperava allora. Accanto alla civiltà marinara si sviluppavano poi professioni come quelle dei velai, dei calafatai (esperti nell’impermeabilizzazione degli scafi) e dei maestri d’ascia, ancora presenti in piccolo numero sulle rive dell’Adriatico, che sceglievano i legni con la cura di un liutaio e conoscevano i segreti dell’ossatura degli scafi. Particolari faticosamente sopravvissuti al passaggio delle epoche testimoniano la credenza comune che interpretava la barca come un oggetto “vivo”. L’ornamento di prua dei trabàccoli (tipiche imbarcazioni di queste acque): due occhi apotropaici scolpiti in legno, doveva conferire allo spirito della barca i mezzi per scorgere i pericoli del mare. Quando il battello avanzava sulle onde corte dell’Adriatico gli effetti di luce ed ombre davano l’impressione che cambiassero espressione a seconda delle condizioni climatiche. Il pulsare al vento delle vele completava poi l’impressione del natante quale entità vivente. Le ultime ad essere issate sugli alberi delle barche storiche dell’Adriatico furono quelle dette “al terzo” (trapezoidali) che, a partire dal XVIII secolo sostituirono le antiche vele “latine” (triangolari). La forma del velame era decisiva nel determinare il tipo di andatura e la spinta che l’imbarcazione poteva raggiungere, ma, oltre ad assicurare la propulsione, alle vele era affidata anche una funzione comunicativa. Colorazioni e decorazioni avevano infatti il compito
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Un refolo di vento. La vela di fortuna, i terzaroli, i sacrifici per dar da mangiare ai figli. La nostalgia di un tempo che non tornerà guardando quelle vele senza vento nascoste di qua e di là fra due ponti e le case.
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Mino Casali
Pa s s i on i
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Line Renaud
the weather. The pulse of the wind in the sails completed the impression of the craft as a living being. The last sails to be hoisted on the masts of the historic ships of the Adriatic were those called "al terzo" (meaning trapezoidal), which in the XVIII century replaced the ancient "Latin" sails (triangular). The shape of the sail was decisive in determining the type of pace and thrust the boat could achieve, but as well as ensuring propulsion, the sails also played a role in communications. Indeed, colors and decorations served the purpose of making the ships recognizable from a distance. The most common colors for this purpose were yellow and various shades of red. The sails bore a large collection of emblems inspired by a sort of family heraldry, religious, patriotic, or political themes, or in certain circumstances, related to a specific economic activity, as in the case of the dolphin hunters from Cesenatico who raised the effigy of the cetacean on the sails of their ships. It sounds strange today that anyone could have practiced such a profession, but dolphins were once extraordinarily numerous in the Adriatic, to the degree that they posed a threat to fishing, since the intelligent mammals used to tear down the nets and plunder the fish they contained. This image, so far distant from today's imagination, may perhaps help place us within the framework of sea life at the time, found in historical documents, photographs, and tales of individual events, also witnessed by the large number of ex-voto (small painted tablets depicting sailors fleeing the fury of the sea) from sanctuaries located along the coast. The most evident tribute to the ethics and aesthetics of Romagna's marine traditions is nonetheless the Marine Museum, born from an idea by Lucio Gambi and built in Cesenatico in 1983. The area Land Section includes ancient instruments, teaching aids, and two perfectly equipped boats that can be inspected in every detail from the suspended gangways. The Floating Section offers a stunning view of an ancient port of Romagna. Anchored side by side, flaunting their multicolored sails, float the boats that for centuries ploughed the depths of this sea. We find the bragozzi (sturdy, flat-bottomed boats with two masts, of Venetian origin, used for fishing), the trabaccoli (small ships of the Adriatic, also known as barchetti), the topo (from which the fishermen dropped the parangali (a sort of trawl) with their endless procession of fishhooks into the water), the paranze (with their bows shaped like duck-breasts used for drag fishing, which according to Grazia Deledda "returned two by two, like couples after a pleasant jaunt..."), the swift lancers, and the little flat-bottomed pinnaces called "battana" (in Italian for the noise they made when striking the trough of a wave in choppy seas). In addition to the restored remains of time past, the most valuable testimony we have is from the few who still live on to tell the stories and with their experience hand down a precious key for interpreting the sea. While streamlined hulls, surging forward on increasingly powerful motors, little by little make distances seem shorter, and today's instruments instantaneously provide all the information needed for navigation, they make it simpler and allow us to take for granted travel over a sea that we understand less and less.
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L'uomo non prende il mare è il mare che prende l'uomo
di rendere riconoscibili a distanza le barche. Le tinte più usate a questo scopo erano il giallo ed il rosso in varie gradazioni. Sulle vele campeggiava un largo campionario di emblemi ispirati ad una sorta di araldica familiare, a soggetti religiosi, patriottici e politici o, in certi frangenti, legati ad un’attività economica specifica, come nel caso dei cacciatori di delfini di Cesenatico che riportavano l’effige del cetaceo sulla vela delle loro imbarcazioni. Suona strano oggi che potesse venir esercitato un tale mestiere ma un tempo i delfini erano straordinariamente numerosi in Adriatico, tanto da costituire una minaccia per la pesca, dato che gli intelligenti mammiferi erano soliti sfondare le reti e razziare il pesce in esse contenuto. Questa immagine, così lontana dall’immaginario odierno aiuta forse a calarsi nel quadro non certo idilliaco della vita di mare del tempo che si ricava peraltro dai documenti storici, fotografici e dalla narrazione di vicende individuali, testimoniato anche dal gran numero di ex-voto (tavolette dipinte che raffiguravano i marinai scampati alla furia del mare) giunti fino a noi dai santuari situati sulla costa. Il più evidente tributo all’etica ed all’estetica della tradizione marinara romagnola è in ogni caso rappresentato dal Museo della Marineria, nato da un’intuizione di Lucio Gambi e sorto a Cesenatico nel 1983. Nella Sezione a Terra sono contenuti antichi strumenti, sussidi didattici e due imbarcazioni perfettamente attrezzate osservabili in ogni particolare dalle plancette sospese. La Sezione Galleggiante, invece, ci restituisce sorprendentemente il colpo d’occhio di un antico porto romagnolo. Ancorate fianco a fianco, ostentando le loro variopinte vele, beccheggiano i “legni” che per secoli hanno solcato questo mare. Troviamo i bragozzi (solide imbarcazioni a fondo piatto e due alberi di origine veneziana, votate alla pesca), i trabàccoli (le piccole navi dell’Adriatico dette anche barchetti), il topo (da cui i pescatori filavano in acqua i parangali, con le loro infinite teorie di ami), le paranze (con la prora a petto d’anatra, che praticavano la pesca a strascico e, nella descrizione che ne riportò Grazia Deledda: “tornavano a due a due, come coppie di sposi dopo una felice passeggiata…”), le veloci lance e la piccola battana (così chiamata per il fragore con cui batteva sull’acqua cadendo nel cavo dell’onda in caso di maretta). Oltre ai resti restaurati del tempo che fu, la più preziosa testimonianza ci giunge però dai pochi che vivono ancora per raccontarlo e trasmettere con la loro esperienza una preziosa chiave di interpretazione del mare. Mentre gli scafi filanti, portati da motori ogni giorno più potenti, fanno sembrare via via più brevi le distanze e le strumentazioni odierne forniscono istantaneamente ogni informazione utile
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alla navigazione, rendendo sempre più semplice e scontato muoversi su di un mare che si conosce sempre meno.
Pa s s i on i
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Pa o l o M a r t i n i
E’ Mazapegul pr im o at t ore del l a f ant as ia popola re roma gn ola E' MAZAPEGUL_ THE STAR OF ROMAGNA'S POPULAR IMAGINATION
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Fairy tales from around the world are always inhabited by sprites who frolic behind the backs of their favorite victims: human beings. The list of imps is as long as it is varied: it runs all the way from Irish Elves to the Dibbukim of Yiddish culture. Elements of folklore remain in popular stories - those that the old people tell after a few glass of their favorite drink. All stories, agreed, but the ones you can file under "it's not true, but I believe it". The tales from Romagna are no exception. It is well-known that in terms of loosening one's tongue after a few drinks, the people of Romagna are second to none. Whether they're myths or fakes, around here it's nearly the same thing. And this is where E' Mazapegul comes in. A treatise could be written on the soul of Romagna working from the name alone. Here's how it works: every steeple, every country parish, has its own sprite. The story stays the same, but the name changes: Mazapegul, Mazapedar, Mazapigur, Calcarel, Cheicatrèpp, Cheicabìgul, Cheicarëll. An anthology of names that amply illustrates the concept of local pride in Romagna. Be that as it may, the sprite is described in the popular imagination as "a tiny little animal, which looks a bit like a cat and a bit like a monkey. It has grey fur and walks on its hind legs." And to further polish a highly reassuring appearance, ours wears a charming little red beret. Nothing particularly original, but this imp has another characteristic that sets him apart as a bon vivant of Romagna. By day he's nowhere to be seen: the night is his kingdom. He inhabits the dark, overcome by an inexhaustible amorous passion. He steals into his lover's room, and, light as a feather, he launches onto the bed, clasping the victim, suffocating her until she wakes with a start. The legend claims that he is especially attracted by raven eyes and hair. Should the maiden refuse him, he flies into a rage. He reproaches the woman, shouting, "Coward! Coward!" to report only the most polite of his name-calling. He then becomes spiteful, hiding flour, needles, and fabric from the unlucky girl. He has even been known to move furniture, in order to make life impossible for the lady of the house. But if he is welcomed, Mazapegul becomes meek and mild as a lamb, and even pitches in with the chores... It's not unusual for our sprite, overcome with amorous passion, to turn his attentions to animals, with a particular preference for horses. Popular imagination has developed a lengthy theory about remedies against this imp. They range from the canonical holy water, to the use of hemp ropes tied in special knots, to eating cacio cheese and bread astride a window, all the way to the most extreme gesture: tossing the red beret of E' Mazapegul down the well. At this, he'll launch into a terrible string of curses in Romagnolo (Brota troja, porca vaca, t’megn et pess et fé la caca) and will return to nature, where he'll dream up other ways to satisfy his amatorial passion. He'll sink back into legend, where he'll enjoy the company of the hunchback of San Potito, the one with two humps, and the knight Leonzio who invited a dead person's head to his house! They'll find lodging in the Fairies' Cave. Along with other legends. That are nice to believe in.
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Le fole di ogni popolo sono abitate da spiritelli che vivono divertendosi alle spalle delle loro vittime preferite: gli esseri umani.
L’
elenco dei folletti è lungo e alquanto variegato: si parte dall’Elfo irlandese per arrivare al Dibbuk della cultura yiddish. Elementi del folklore rimasti nei racconti popolari, quelli che raccontano i vecchi dopo qualche bicchiere particolarmente gradito. Tutte
storie, d’accordo, ma di quelle da catalogare alla voce: non è vero, ma ci credo. Non fa quindi eccezione la Romagna, anzi. È noto che il romagnolo, quando c’è da far andare la lingua dopo un paio di bicchieri, non è secondo a nessuno. Si tratti di miti o patacche che sono poi, da queste parti, quasi la stessa cosa. E qui compare E’ Mazapegul. Che già sul nome si potrebbe scrivere un saggio sull’anima romagnola. Funziona così: ogni campanile, ogni parrocchia di campagna, ha il suo folletto. La storia è identica, ma il nome cambia: Mazapegul, Mazapedar, Mazapigur, Calcarel, Cheicatrèpp, Cheicabìgul, Cheicarëll. Un florilegio di nomi che ben illustra il concet-
to di campanilismo romagnolo. Sia come sia, il folletto viene descritto dalla fantasia popolare come “un animaletto piccino, che assomiglia un po’ a un gatto e un po’ a una piccola scimmia. Ha il pelo grigio e cammina sulle zampette posteriori”. Ad ingentilire un aspetto affatto rassicurante, il Nostro calza un vezzoso berrettino rosso. Nulla di particolarmente originale, ma il folletto ha un’altra caratteristica che lo bolla come bon vivant romagnolo. Di giorno è introvabile: il suo regno è la notte. Abita il buio, travolto da un’inesauribile passione amorosa. Entra di soppiatto nella stanza dell’amata e, leggero come una piuma, si catapulta nel letto, stringendo e soffocando la vittima fino a svegliarla di soprassalto. La leggenda afferma che è attratto soprattutto dagli occhi e dai capelli corvini. Se la fanciulla lo rifiuta, l’esserino diventa una furia. Apostrofa la donna al grido di: “Vigliacca! Vigliacca!”, per riferire gli epiteti più gentili. Diventa allora dispettoso, e nasconde alla sventurata farina, aghi e stoffe. Giunge anche a spostarle i mobili, pur di rendere impossibile la vita all’azdora romagnola. Se viene ben accolto, il Mazapegul diventa mansueto come un agnellino e dà una mano nei lavori di casa… Non di rado, travolto dalla passione amorosa, il Nostro dedica le sue attenzioni agli animali, con particolare predilezione per i cavalli. La fantasia popolare ha elaborato una lunga teoria di rimedi contro il folletto. Si va dalla canonica acqua santa, all’utilizzo di corde di canapa con particolari nodi, al mangiare cacio e pane a cavalcioni di una finestra, per arrivare al gesto estremo: gettare il berrettino rosso de E’ Mazapegul nel pozzo. Allora il folletto lancerà un terribile anatema (Brota troja, porca vaca, t’megn et pess et fé la caca) e tornerà alla natura, dove escogiterà altri modi per soddisfare la sua furia amatoria. Tornerà nella leggenda dove troverà buona compagnia nel gobbo di San Potito, quello con due gobbe, nel cavaliere Leonzio che invitò a casa propria una testa di morto.
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Albergheranno nella Grotta delle Fate. Insieme ad altre leggende. A cui è bello credere.
Niente è più bello che il vero; d'accordo, come chiunque io lo chiedo alla storia. Soltanto, e sottovoce, io mi dico: credo anche nella semplice leggenda. Hippolyte Violeau
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F ra n c o D e P i s i s
Terra di probi e papesse i vin i di Vi l l a Papi ano
Le Papesse Di Papiano_ Sangiovese di Romagna DOC - Uve: Sangiovese 85%, Merlot, Negretto e Balsamèna Prodotto giovane, frutto di ottimizzazioni agronomiche e tecnologiche tese ad esaltare carattere e profumi. Fermentazione in acciaio con lunga macerazione, breve passaggio in barriques ed affinamento in bottiglia per 4 mesi. Gradazione alcolica superiore ai 13 vol. Sangiovese di Romagna DOC – Grapes: Sangiovese 85%, Merlot, Negretto and Balsamena A young product, the result of agronomic optimization and technologies developed to celebrate character and aromas. Fermentation in steel with long steeping, brief period in barriques, bottle-aged for 4 months. Alcohol content greater than 13 vol.
I Probi Di Papiano_ Sangiovese di Romagna DOC – Uve: Sangiovese 85%, Syrah e Merlot Prodotto classico, ottenuto da biotipi di Sangiovese a grappolo spargolo ed acino ellittico. Vinificazioni distinte dalle uve dei diversi vigneti, poi assemblaggio e maturazione per 12 mesi in piccoli fusti di rovere francese ed affinamento in bottiglia per 5 mesi. Gradazione alcolica superiore ai 13 vol. Sangiovese di Romagna DOC – Grapes: Sangiovese 85%, Syrah and Merlot Classic product, obtained from Sangiovese biotypes with straggly cluster and oval berries. Distinguished wines from the grapes of various vineyards, assembled and matured for 12 months in small French oak casks and bottle-aged for 5 months. Alcohol content greater than 13 vol.
Papiano Di Papiano_ IGT Rosso di Forlì – Uve: Merlot 65%, Sauvignon rosso (Alicante) e Papiano (Anonimo) Inizio di un originale studio, volto al recupero di biotipi con caratteristiche di unicità individuati in un vecchio vigneto aziendale costituito in prevalenza da vitigno Merlot. Ottenuto attraverso piccole vinificazioni volte ad ottimizzare i caratteri delle uve, segue una permanenza di 12 mesi in piccoli fusti di rovere francese e affinamento in bottiglia per 6 mesi. Gradazione alcolica superiore ai 13,5 vol. IGT Rosso di Forlì – Grapes: Merlot 65%, red Sauvignon (Alicante) and Papiano (Anonymous) This is beginning of original research aiming to recover unique characteristic biotypes found in an old company vineyard, consisting largely of Merlot grapes. Produced in small batches in order to optimize the characteristics of the grapes, it spends 12 months in small French oak casks and is then bottle aged for 6 months. Alcohol content greater than 13.5 vol. foto d’archivio
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È passato poco più di un lustro da quando Francesco Bordini, agronomo di professione, svolgendo una consulenza, capitò nella tenuta di Villa Papiano, nei pressi di Modigliana sull’Appennino Tosco Romagnolo, e rimase rapito dalla particolarità dei suoi vigneti, che qui si aprono in mezzo ai boschi.
V
enne colpito dalla fertilità della terra, dalla posizione geografica e dalla singolare atmosfera che si respira in questo antico insediamento di frontiera, che si estende intorno ad un castelletto in pietra del 1300 costruito da un luogotenente di
Lorenzo de Medici. Decise quindi di riunire una società e rilevò queste terre site sul versante Sud del Monte Chioda ad un’altitudine di 450 metri sul livello del mare, da monte a fondo valle. Da allora, otto giovani soci, quattro donne e quattro uomini provenienti da Romagna, Toscana e Lombardia e legati tra loro da vincoli familiari oltre che da profonda amicizia, sono legati anche da un fine comune: un ambizioso progetto vitivinicolo e di recupero ambientale. Il primo passo è consistito in un forte lavoro in campo agronomico, coordinato da Remigio e Francesco Bordini, che ha portato ad un reinvestimento e ad una selezione dei vitigni. Oggi la superficie totale della tenuta consiste in circa 50 ettari suddivisi tra oliveto, seminativi e boschi oltre, naturalmente, a 10 di vigneto di cui 8 attualmente in produzione. Le viti più vecchie superano i 40 anni di età e vengono tenute ad alberello mentre gli altri vigneti sono coltivati a cordone speronato. Tutte le vinificazioni avvengono in purezza con la consulenza enologica di Lorenzo Landi che, coerentemente con la filosofia dell’azienda, imposta il suo lavoro su criteri di ricerca e innovazione. L’impegno continua con la costruzione e l’ampliamento delle strutture: è stata adibita una saletta alle degustazioni, le antiche stalle sono state trasformate in deposito del vino ed è stata recentemente fabbricata una moderna cantina. Nota curiosa, i nomi dei vini si riferiscono nel caso del “Probi di Papiano” alla componente maschile della società, mentre nel caso de “Le Papesse di Papiano” alla compagine femminile. Il nome del vino “Papiano di Papiano” è invece dedicato ad un vigneto autoctono costituito in prevalenza da vitigno Merlot. Appena prodotto, quest’ultimo, è arrivato in finale per i tre bicchieri del Gambero Rosso, regalando certamente una notevole soddisfazione ai “probi” e alle “papesse” di Papiano. Et vinum laetificet cor hominibus. Salmi 103, 15
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LAND OF PROBI AND PAPESSE_ THE WINES OF VILLA PAPIANO It was just over five years ago that Francesco Bordini, an agronomist by trade, was out on a consultation and happened upon the estates of Villa Papiano, near Modigliana on the Tosco Romagnolo stretch of Apennines, and was captivated by its special vineyards that unfold in the midst of the forest. He was struck by the fertility of the land, its geographic position, and the unique atmosphere that pervades this ancient frontier settlement, which stretches around a small stone castle from the 1300s, built by a lieutenant of Lorenzo de Medici. So, he decided to assemble a company, and found these lands on the southern face of Monte Chioda at an altitude of 450 meters above sea level, from the mountain to the valley floor. Since then, eight young partners, four women and four men from Romagna, Tuscany, and Lombardy, connected by family ties as well as by a deep friendship, were also brought together by a common goal: an ambitious wine-growing and environmental recovery project. The first step consisted of extensive work in the field of agronomy, coordinated by Remigio and Francesco Bordini, which led to reinvestment and to selecting the grapes. Today, the total surface area of the estate covers approximately 50 hectares, divided between olive groves, sowable land, and forests, in addition to the 10 vineyards, of which 8 are currently in production. The oldest vines will exceed 40 years of age, and are goblet-pruned, while the other vineyards are cordon-trained. All the wine-making is done purely, with oenological consultation from Lorenzo Landi who, in accordance with the company philosophy, guides his work by the criteria of research and innovation. Their commitment extends to the construction and expansion of the facilities: a small tasting room has been created, the ancient stalls were transformed into a wine storage area, and a modern cellar was built recently. An interesting note: the names of the wines refer, in the case of "Probi di Papiano", to the male contingent of the company, while the "Le Papesse di Papiano" refers to the women. The name "Papiano di Papiano" however is dedicated to an indigenous vineyard consisting largely of Merlot grapes. As soon as it was produced, this wine reached the finals for the three glass rating in the prestigious Gambero Rosso guide, undoubtedly pleasing the "probi" and "papesse" of Papiano.
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E noga s t r on omi a
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S e re n a To g n i
I testi sacri di Romagna l ’ ant i c a tra diz ion e de i ma e s tri te ggia i di M on te tiffi
“Liscia come un foglio, e grande come la luna” nei versi di Giovanni Pascoli, la piada, o pièda, pida, piè, è il simbolo per antonomasia della Romagna e un tempo distingueva le tavole degli indigenti da quelle dei benestanti, che potevano concedersi il privilegio del pane.
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l segreto di questa semplice pietanza, ottenuta da ingredienti poveri, quali acqua, farina, sale e strutto, era nella personale ricetta dell’azdora, consapevole che anche il sudore delle mani
che impastavano avrebbe influito sul risultato finale. Ma un altro determinante elemento poteva pregiudicarne il buon esito: il testo, ossia la teglia di terracotta (il termine latino testu indicava un oggetto generico di questo materiale), che grazie alla sua porosità assorbiva l’umidità della piadina assicurandole sapore e fragranza unici, inarrivabili dalla moderna piastra di cottura, che ormai ovunque ha sostituito l’antico utensile. Da sempre i testi migliori di Romagna sono quelli realizzati a Montetiffi, a tal punto che secondo la tradizione la vera piadina romagnola può essere considerata tale solo se cotta su queste
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prodigiose teglie. Ancora oggi nel piccolo borgo medioevale del comune di Sogliano sopravvi-
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vono due botteghe artigianali che li producono secondo l’arcaico sistema tramandato dai maestri teggiai, lì documentati dal XVI secolo.
THE SACRED TEXTS OF ROMAGNA_ THE ANCIENT TRADITION OF THE MASTER GRIDDLE-MAKERS OF MONTETIFFI
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"As smooth as a page, and large as the moon" in the verses by Giovanni Pascoli, "piada" (unleavened flat bread), also called pièda, pida, or piè, is the symbol par excellence of Romagna, and once distinguished the tables of the needy from those of the well-off, who could permit themselves the privilege of bread. The secret of this simple dish, made with basic ingredients such as water, flour, salt, and lard, was in the personal recipe collection of the azdora, or lady of the house, who understood that even sweat on her hands as she kneaded the dough would affect the end results. But another decisive element could determine good results: the "testo", meaning the terracotta griddle (the Latin word testu indicated a generic object made of this material), which thanks to its porosity absorbed the humidity of the piadina, promising singular flavor and aroma that cannot be achieved with the modern cooking surfaces that have now universally replaced the old tool. The best "testi" in Romagna have always been those from Montetiffi, to the point that according to tradition, a piadina can only be considered true Romagna piadina if it is cooked on one of these prestigious griddles. Still today in the small Medieval hamlet of the city of Sogliano, two artisanal workshops survive that produce these special pans using the ancient system handed down by the masters, who have been documented here since the XVI century. The long and laborious procedure requires various steps. The sourcing of raw materials is crucial, and they are selected very carefully: red clay and blue earth, which once collected are left to dry in the sun, and marbleized calcite stone, which is baked. After hammering and crushing these materials, the mixture is prepared, blending the powders with water. Modeling is the next step: the mixture is placed on a rotating surface moved with the feet and is shaped into disks 35-40 centimeters in diameter. A rope of the same mixture is placed along the perimeter in order to create a low edge. The next steps are seasoning, in which the product is left to dry for a few weeks, and firing, which takes a few hours in the oven or in special holes outside. After having cooled the testo there is ancient but infallible way to assess its quality: tapping it with the fingers should make it "ring" like a bell. It is precisely the authenticity of these atavistic gestures that make the Montetiffi griddles magical, and today they still evoke the odors and flavors of another age, of a popular conviviality in perfect harmony with the rhythms of nature, reviving that daily ritual that in its simplicity must have had something thaumaturgic about it: the griddle was warmed over an open fire and piadina was placed upon it and pricked with a fork, waiting for the aroma to pervade the entire house, a comforting signal for those inside that it would be on the table again today.
Fosse andato pur là dove è maestra gente in far teglie, sotto cui bel bello scoppietti il pungitopo e la ginestra.. Giovanni Pascoli
Il lungo e laborioso procedimento prevede varie fasi. Fondamentale è il reperimento delle materie prime, attentamente selezionate: argilla rossa e terra blu, che una volta raccolte vengono fatte seccare al sole, e sasso marmorizzato di calcite, che viene cotto. Dopo aver battuto e sminuzzato questi materiali si procede alla preparazione dell’impasto amalgamando le polveri ottenute con acqua. L’operazione successiva è la modellazione: si pone l’impasto su un piano ruotante azionato con i piedi e lo si sagoma in dischi dal diametro di 35-40 centimetri, lungo il cui perimetro viene aggiunto un cordone dello stesso impasto per creare un basso bordo. Seguono la stagionatura, durante la quale si lascia essiccare il prodotto per alcune settimane, e la cottura, protratta per diverse ore in forno o in apposite buche all’aperto. Dopo aver atteso il raffreddamento del testo è possibile valutarne la qualità ricorrendo ad un antico, ma infallibile metodo: battendolo con le dita deve “suonare” come una campana. E’ proprio la genuinità di questi atavici gesti a rendere magiche le teglie di Montetiffi che ancora oggi evocano odori e sapori di altri tempi, di una convivialità popolare perfettamente in simbiosi con i ritmi della natura, facendo rivivere quel rituale quotidiano che nella sua semplicità doveva avere qualcosa di taumaturgico: si surriscaldava il testo sul fuoco vivo, vi si adagiava la piadina e la si incideva con la forchetta, attendendo che il profumo invadesse tutta la casa, confortante segnale per chi l’abitava che anche quel giorno sarebbe stata in tavola. E n oga s t r on omi a
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BEYOND SURFACE AU DELA DE LA SURFACE
Ta t i a n a To m a s et t a
Cèzanne come Cesena la pa tria primige n ia de l pittore
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CÉZANNE AS FOR CESENA_ THE PAINTER'S PRIMITIVE HOMELAND The discovery is galvanizing: Paul Cézanne has roots in Cesena. With convincing new evidence that his father came from Cesena, all Italians necessarily feel a little closer to this artist, whose is famed for being the most singular and enigmatic exponent of all of French painting, both Impressionism and beyond. This hint by itself must have raised the suspicion that the blood running through his veins was from Romagna! It all arises from a linguistic study that Romano Pieri, a researcher and historian, conducted on the painter's last name, which sounds similar to the dialect pronunciation and gallicization of the place name "Cesena". The next step was the discovery that this was the family's original surname. But it was in the archives of the Cézanne Museum that Pieri found an actual self-certification issued to the gallery director Vollard, who included Cézanne's personal information in the brochure for personal exhibit in Paris: "Paul Cézanne's father was a native of Cesena, in Romagna." Luigi Augusto Cesena (Auguste Cézanne) was an emigrated hat maker who learned the art in Italy (there were a good four ateliers in Cesena), and who, having moved to Aix en Provence, made his fortune selling hats, fell in love with a worker, and fathered a son (born 19 January 1839) named Paolo Cesena. He then bought out a failing local bank (Banca Cézanne), becoming a rich banker. Rich enough to support Paul in his artistic studies, which he took up after leaving the law school that he so detested, just as he had left his post as a banker in his father's bank. Pieri, on the verge of the centennial of the master's death, decided a book was called for: "Cézanne genio cesenate" recounts the details of his research, but Pieri also permits himself an analysis of the master's work. Cézanne (1839-1906) was a genius. His wealthy life as painter who didn't need to sell his painting, moved between Aix and Paris, and followed the rhythms of a fundamental period of ferment in the world of art. In the late 1800s in France, the official exhibition was the "Salon", which enjoyed unparalleled prestige and lavished generous rewards on the artists. The unforgiving selection process rejected Cézanne a good five times. The same was true of Manet, Courbet, Pissarro, etc. The protests were so severe that they convinced Napoleon III to display the rejected works in the so-called "Salon des Refusés" (Salon of the Rejected), a place where Parisians laughed, yet it ended up becoming a true collection of the greatest artists of the last century, and perhaps of all time. These were times when these artists shared literary cafés, vacation sites, sympathies and antipathies, and friendships both healthy and unhealthy, like that between Cézanne and Pissarro (treated by the same psychiatrist as Van Gogh, Dr. Gachet), demonstrating their own restlessness and dissatisfaction with the results of nineteenth-century art and challenging academic strictures. Cézanne went beyond impressionism. Retaining its achievements, by dissolving outlines and using light and shadow and achieving an ordered contortion of space, depth, and perspective, Cézanne – an artist that Cesena can be proud of – opened the path to cubism.
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La scoperta è galvanizzante: Paul Cézanne ha origini cesenati.
C
onvincentemente accertata la provenienza di suo padre dalla città malatestiana, ci sentiamo tutti necessariamente più vicini a quell’artista la cui fama è di essere l’esponente più singolare ed enigmatico di tutta la pittura francese, impressionista e post. Già que-
sto indizio avrebbe dovuto creare in noi tutti il sospetto che fosse romagnolo il sangue che gli scorreva nelle vene! Tutto ha origine da una ricerca linguistica che Romano Pieri, ricercatore e storico, eseguì sul cognome del pittore, affine alla pronuncia dialettale e francesizzazione del toponimo di Cesena. Il passo successivo fu la scoperta che si trattasse del cognome originale della famiglia. Ma è nell’archivio del Museo Cézanne che Pieri trova una vera e propria autocertificazione rilasciata al gallerista Vollard che inserì i dati anagrafici di Cézanne sulla brochure di una sua personale a Parigi: “Il padre di Paul Cézanne era originario di Cesena, in Romagna”. Luigi Augusto Cesena (Auguste Cézanne) era un cappellaio emigrato che apprese l’arte in Italia (a Cesena esistevano ben quattro atelier) e, trasferitosi ad Aix en Provence, fece fortuna vendendo cappelli, si innamorò di un’operaia, mise al mondo (il 19 gennaio del 1839) un figlio di nome Paolo Cesena e rilevò la banca locale in fallimento (Banca Cézanne), divenendo un ricco banchiere. Così ricco da mantenere Paul agli studi d’arte, scelti dopo aver lasciato l’odiata facoltà di giurisprudenza, come del resto l’incarico di bancario nella banca del padre. Pieri, alla vigilia del centenario dalla morte del maestro, decide che un libro è necessario: “Cézanne, genio cesenate” racconta i particolari della ricerca, ma si concede anche all’analisi della pittura del maestro. Cézanne (1839-1906) era un genio.
La sua vita agiata di pittore che non aveva bisogno di vendere i suoi quadri, passata tra Aix e Parigi, era ritmata dal fermento di un momento storico fondamentale dell’arte. Alla fine dell’800, in Francia, l’esposizione ufficiale era il “Salon” che godeva di un prestigio ineguagliato ed elargiva laute ricompense agli artisti. La dura selezione vide Cézanne scartato ben cinque volte. Stesso destino per Manet, Courbet, Pissarro, ecc. Le proteste furono così aspre da convincere Napoleone III ad esporre le opere scartate al cosiddetto “Salon dei Rifiutati”, luogo dove i parigini ridevano ma che finì per diventare un vero e proprio serbatoio di raccolta dei più grandi artisti del secolo scorso e forse di tutti i tempi. Tempi in cui questi artisti condividevano caffè letterari, luoghi di villeggiatura, simpatie e antipatie, amicizie sane e morbose, come quella tra Cézanne e Pissarro (in cura dallo stesso psichiatra di Van Gogh: il medico Gachet), manifestando la propria inquietudine ed insoddisfazione per i risultati dell’arte ottocentesca e sfidando le regole accademiche. Cézanne superò l’impressionismo. Conservandone le conquiste, attraverso la dissoluzione dei contorni e dell’uso di luce e ombre, arrivando allo stravolgimento ordinato dello spazio, della profondità e delle prospettive, il “genio cesenate” aprì la strada al cubismo.
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Quando un'opera sembra in anticipo sul suo tempo, è vero invece che il tempo è in ritardo rispetto all'opera. Jean Cocteau Arte
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M a nl i o R a s t o ni
Ivo Sassi il “ ve tro de lla ce ra mica ”
con gli occhi che con le mani. Anselmo Bucci
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Sassi is the man who, firing after firing, courageously tackles his art, enchanted by the challenge of bringing to it a monumental quality, using an unstable material, which by its very nature is no stranger to the risk of breakage, even for those who mould it under far more modest pretenses. Born in Brisighella in 1937, he revealed his talent early, to the extent that his elementary teacher was prompted to encourage him to take evening courses at the Design School for Arts and Crafts. Again on his teacher's advice, he later enrolled in the Art Institute for Ceramics in Faenza, where he studied under Angelo Biancini, later becoming his friend and collaborator. The artist recognizes him as one of his mentors, along with Francesco Nonni and Angelo Bucci, whose old phrases the artist still echoes. Like his talent, his obstinate nature surfaced abruptly when on the night before his exams, a disagreement with a professor led Sassi to drop out of the school. He would return only years later, then an accomplished ceramicist, as an instructor. But Ivo Sassi's truly formative experience was in the workshops of the ceramic masters of Faenza, and especially the studio of Carlo Zauli, where he worked for a few years, immersing himself entirely in the fecund atmosphere of the artistic scene that circulated there in the Fifties. In '59 he managed to open his own atelier, overcoming initial difficulties thanks to the support of his life-long friends: Angelo Biancini and Francesco Nonni first of all. Success was quick to arrive; after an important public commission, as early as the mid-Sixties Ivo Sassi began to have a presence in the most important national and international exhibitions and was decorated with the most important awards and recognitions. Starting in 1970, he was also part of the "Unesco" International Ceramics Academy in Geneva. Sassi's ceramic sculptures, scattered throughout Romagna and the world, are many in number and monumental in size. Always unique pieces characterized by a rich emphasis on color, the products of half a century of ongoing trials and improvements aiming each time to achieve new shades, hues, and reflections, searching for the effect the artist calls "glass". His informal and sumptuous style moves from naturalistic to anthropic references. In the last decade, the artist has initiated a cross-pollination project, initially mixing elements of two cultures bordering the area he hails from: the ceramics of Faenza, and the vitrified tiles of the mosaics of Ravenna, then moving on to resin, further confirmation of his yearning for continual research. Sassi finds it natural to follow a thread that leads from 15th century Tuscany to the ferment of the early century, up to the fervent scene of the '50s of which he himself was a part; yet if prompted to give his opinion on the near future of the ceramic arts he grows solemn, and behind the presumed self-satisfaction of his peremptory phrase "I am ceramics," it's easy to detect the melancholy and bitterness of a man who considers himself the last exemplar of an extinct species of masters for whom our fickle times have negated the premises of continuity. The last person searching for the "glass of ceramic".
Si
IVO SASSI_ THE "GLASS OF CERAMIC"
foto d’archivio
foto d’archivio
foto d’archivio
Sassi è l’uomo che, cottura dopo cottura, si confronta coraggiosamente con l’opera d’arte, stregato dalla sfida di conferirle la categoria monumentale, utilizzando una materia instabile, che per sua stessa natura non lesina danni di rottura anche a chi la foggia secondo ben più modeste pretese.
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asce a Brisighella nel 1937 e il suo talento si rivela precocemente, tanto da spingere il suo maestro elementare ad incoraggiarlo a seguire i corsi serali della Scuola di Disegno per Arti e Mestieri. Sempre su suo consiglio s'iscrive in segui-
to all'Istituto d'Arte per la Ceramica di Faenza, dove frequenta il corso di Angelo Biancini, del quale diverrà amico e collaboratore. L’artista lo riconosce come uno dei suoi mentori, insieme alle figure di Francesco Nonni e di Angelo Bucci, di cui egli ancora riecheggia le antiche frasi. Parimenti al talento si manifesta repentinamente anche la sua natura ostinata quando, alla vigilia degli esami, uno screzio con un docente porta Sassi ad abbandonare la scuola. Vi sarebbe tornato solo molti anni dopo, già affermato ceramista, in veste di insegnante. La vera esperienza formativa per Ivo Sassi venne però dalle botteghe dei maestri ceramici faentini, in particolar modo dallo studio di Carlo Zauli, dove egli rimase a lavorare per alcuni anni, immergendosi totalmente nella feconda atmosfera della scena artistica che vi circuitava negli anni Cinquanta. Nel ‘59 riuscì infine ad aprire il proprio atelier, superando gli stenti iniziali grazie all’appoggio dagli amici di sempre: Angelo Biancini e Francesco Nonni in primis. Il successo non doveva comunque tardare; dopo un’importante committenza pubblica, Ivo Sassi iniziò fin dalla metà degli anni Sessanta ad essere presente alle più importanti mostre nazionali ed internazionali ed a venir insignito di rilevanti premi e riconoscimenti. Dal 1970 l’artista fa inoltre parte dell’Accademia Internazionale della Ceramica di Ginevra "Unesco". Molte e monumentali sono le opere scultoree ceramiche di Sassi sparse in Romagna e nel mondo. Sempre pezzi unici segnati da una ricchezza cromatica figlia di mezzo secolo di continui esperimenti e perfezionamenti volti ad ottenere ogni volta nuove tinte, sfumature e riflessi, alla ricerca dell’effetto che l’artista definisce “vetro”. Il suo stile informale e fastoso passa dai richiami naturalisti a quelli antropici. Nell’ultima decade l’artista ha poi iniziato un’opera di contaminazione dei materiali, mescolando dapprima elementi di due culture contigue della sua zona d’origine: la ceramica di Faenza e la tessera vetrificata dei mosaici di Ravenna, per poi spingersi alla resina, ad ulteriore testimonianza di un anelito alla continua ricerca. Sassi trova naturale tracciare un filo che dal Quattrocento toscano conduce al fermento di inizio secolo, fino alla fervida scena degli anni ‘50 di cui egli stesso ha fatto parte; se portato ad esprimersi, però, sul futuro prossimo e anteriore dell’arte ceramica si adombra, e dietro il supposto autocompiacimento della sua perentoria frase: “La ceramica sono io” è facile cogliere la malinconia e l’amarezza di un uomo che si sente ultimo esemplare d’una specie estinta di maestri cui la nostra volubile era ha negato i presupposti della continuità. L’ultimo cercatore del “vetro della ceramica”. foto d’archivio
Arte
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Territorio La nuova vita della piattaforma Paguro_ splendido reef artificiale dell’Alto Adriatico New life for the Paguro platform_ splendid artificial reef in the Upper Adriatic I veri confini della Romagna_ geografia di sentimenti The true borders of Romagna_ The geography of feeling
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Storia Un desiderio della memoria_ scoprire nel gioco il gusto della vita A yearning for memory_ discover the flavor of life in a game Atlantide adriatica_ mito e fondamenti della città profondata di Concha
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Passioni Il mestiere del mare_ celebrato dal Museo della Marineria di Cesenatico The work of the sea_ celebrated by the Cesenatico Marine Museum
Adriatic Atlantis_ myths and foundations of the sunken city of Concha Il padre del barometro: Evangelista Torricelli_ l’uomo che applicò la matematica alla metereologia The father of the barometer: Evangelista Torricelli_ the man who applied mathematics to meteorology
E’ Mazapegul_ primo attore della fantasia popolare romagnola E' Mazapegul_ the star of Romagna's popular imagination
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Enogastronomia Terra di probi e papesse_ i vini di Villa Papiano Land of Probi and Papesse_ the wines of Villa Papiano I testi sacri di Romagna_ l’antica tradizione dei maestri teggiai di Montetiffi The sacred texts of Romagna_ the ancient tradition of the master griddle-makers of Montetiffi
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Arte Cèzanne come Cesena_ la patria primigenia del pittore Cézanne as for Cesena_ The painter's primitive homeland Ivo Sassi_ il “vetro della ceramica” Ivo Sassi_ the "glass of ceramic"
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