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n ossequio alla natura intrinsecamente romantica dell’autunno, questo numero di
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indossa la sua veste più ispirata e ripercorre i sentieri calcati da Lord Byron nel corso delle
sue passioni e vicissitudini romagnole, visita le commoventi rovine dei piccoli cimiteri abbandonati, annidati entro scenari sognanti, e si ferma ad ascoltare le antiche fiabe popolari che tutti i vecchi romagnoli hanno udito e narrato almeno una volta. Si spinge poi a descrivere certi angoli dove l’acqua dona benessere agli uomini e gli aforismi fioriscono nei giardini. Luoghi che punteggiano i lembi di una provincia apparentemente isolata, ma bizzarramente protagonista di avvenimenti della storia maestra. Una terra che ha visto nascere nazioni, ha dato i natali a tanti artisti geniali, e molti altri li ha a lungo ospitati, forse stregandoli anche con le lusinghe del suo vino e delle sue specialità più preziose. La Redazione di
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Autumn is the most romantic season, and this issue of ee dedicates an article to that most Romantic of poets, Lord Byron, and his adventures and intrigues on Romagnol soil. We also visit the region’s abandoned cemeteries, silent ruins among the stillness of nature, and stop to examine the local folk tale tradition. Then on to the spas of Bagno and a garden whose strangest plants are aphorisms. All hidden attractions of an ostensibly isolated region which has made its own often bizarre contributions to world history – including the birth of a nation. Romagna has given many artists to the world, and has been home to many others – we like to think it enchanted them with its excellent wines and Dovadola truffles. The editorial staff of ee
E di t or i a l e
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a r i a
t e r r a
a c q u a
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Ta t i a n a To m a s e t t a
Bagno di Romagna
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s c ri gno d ’ a cqu e te rma li
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I Sensi di Romagna
Digradanti e assolate montagne, vestite di boschi rigogliosi, disseminate di borghi squisitamente integri e di acque termali benefiche.
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no di quei borghi è Bagno di Romagna, immerso nell’Appennino Tosco-Romagnolo dove la natura si impone rigogliosa. Le sue peculiarità storiche e la presenza delle fonti termali ne fanno un luogo tra i più suggestivi della Romagna, facilmente raggiungi-
bile grazie alla superstrada E45. Lo straordinario paesaggio che sovrasta Bagno, ai piedi dell’Appennino Tosco-Romagnolo, e il largo letto del fiume che lo attraversa, piacevolmente rumoroso, sono la prima cosa che balza agli occhi, mentre ci si ritrova avvolti da una natura che sortisce, già di per sé, un efficace effetto anti-stress. Elementi come questo hanno reso Bagno meta eletta del cosiddetto “turismo del benessere”. L’elemento che ne caratterizza la storia è la sorgente di acqua calda che sgorga tutto l’anno alla temperatura di 45 °C. Cadendo nella zona del monte Còmero, la pioggia penetra nel sottosuolo fino a 1.400 metri e poi risale in superficie impiegando 650 anni, durante i quali si riscalda per effetto geotermico e si carica dei minerali che trae dagli strati rocciosi. Gli abitanti sono soliti dire che oggi ci si bagna con l’acqua che piovve ai tempi di Giotto, le acque utilizzate nei tre famosi stabilimenti termali sono di due tipi: bicarbonato alcaline e sulfuree. Considerato di origine divina e oggetto di culto salutare, Balneum divenne rinomato nell’ambito del “wellness” già nel 266 a.C. quando i romani vi costruirono il primo imponente complesso termale e la strada per unire Ravenna a Roma. Nelle guide duecentesche Bagno è indicato come tappa obbligatoria per i romei, ove pellegrini, poveri e frati avevano accesso gratuito; giudei, marrani ed infedeli pagavano invece doppia tariffa. Nel XV secolo, sono personaggi illustri come Benvenuto Cellini e i De’ Medici a dar lustro alle terme, mentre i veri signori di queste terre, dal XI al XV secolo, furono i Fiorentini. Le testimonianze storiche rappresentano un’ulteriore ricchezza per il paese: ne è un fulgido esempio Palazzo dei Capitani, esternamente ricoperto dagli stemmi dei Capitani di Firenze che, come tessere di un mosaico, narrano gli avvicendamenti politici del territorio (anticamente un Capitanato). Alzando gli occhi, si scorgono, poi, i faggi e gli abeti che abitano maestosamente la Foresta della Lama, altro fiore all’occhiello di Bagno di Romagna, inserita nel parco nazionale di Campigna, del Falterone e delle Foreste Casentinesi, un ambiente boschivo lussureggiante e ancora primitivo che nulla conosce delle ordinate geometrie. Qui la Romagna incontra la Toscana anche a tavola. Bagno è meta di ogni buon palato. Paolo Teverini, ad esempio, tra i migliori ristoranti d’Italia, sposa la succulenta gastronomia romagnola con quella più sobria della tradizione toscana, il tutto rigorosamente in onore dei prodotti del territorio.
La pazienza è ciò che nell'uomo più assomiglia al procedimento che la natura usa nelle sue creazioni. Honoré de Balzac
BAGNO DI ROMAGNA_ A JEWEL BOX OF WELLBEING Sunswept hillsides clad in exuberant greenery, scattered with delightfully well-preserved villages... and hot springs. One of these villages is Bagno di Romagna, nestled in the verdant scenery of the Tuscan Apennines. The village’s unusual history, and the presence of the hot springs which draw so many visitors, make Bagno one of the most charming places in Romagna – and thanks to the E45 superhighway it’s also remarkably easy to get to. The extraordinary landscape of the Tuscan Apennines which looms above Bagno and the broad-bedded river which gurgles agreeably down its hillside are the first things to strike the senses; it’s a natural setting which has a soothing effect in its own right. It’s qualities like these which have made Bagno a favourite destination for what’s now known as wellbeing tourism. But Bagno is best known for its hot springs, which gurgle water at a temperature of 45 °C all year round. The rain which falls in the vicinity of mount Còmero penetrates the earth to a depth of 1400 metres; as it rises to the surface, its temperature rises due to a geothermic effect while it also absorbs minerals as it rises through the different strata of rock. It takes 650 years for the water to reach the surface, and the inhabitants of Bagno are fond of saying that today’s bathwater was Giotto’s rainwater. There are three spas in Bagno, and two kinds of water rise from their springs: alkaline and sulphuric bicarbonates. Known as Balneum to the Romans, who considered the springs to be of divine origin – with the result that a health cult grew up around them – Bagno was a renowned wellness centre as early as 266 BC, when the Romans built the first impressive spa complex and a road linking Ravenna to Rome. 13th-century travellers’ guides list Bagno as an obligatory stop for wayfarers: pilgrims, paupers and friars were given free accommodation, but Jews, converts and infidels had to pay double tariff. In the 15th century, illustrious figures such as Benvenuto Cellini and the De Medici brought added lustre to the spa, this during the period (11th15th centuries) when Bagno was under Florentine domination. Historic sights add further to the village’s prestige: one dazzling example is Palazzo dei Capitani with its arms of the governors of Florence, which, like so many cubes in a mosaic, narrate the political events which shaped the region, formerly a Capitanato. Above the village rise the majestic beech and spruce trees of the forest of Lama, another source of pride for Bagno di Romagna and part of the national park of Campigna, Monte Falterona and Foreste Casentinesi. It’s lush, leafy and chaotic in its geometry like only nature can be. Bagno is a village where Romagna meets Tuscany in another way too – food. Here you’ll find the best of both traditions. At Paolo Teverini, for instance, one of the best restaurants in Italy, succulent Romagnol cooking is exquisitely combined with the more sober Tuscan tradition – though regardless of where the inspiration lies, it’s always done using strictly local produce.
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I t a l o e Va n n a G ra z i a n i
I camposanti perduti
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I Sensi di Romagna
Pier Paolo Pasolini
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La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter essere più compresi.
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lu ogh i di ru mori leg g eri
La morte, il nostro limite della vita, viene al mondo con noi. Ma il suo “essere naturale” certo non la sminuisce, non ne riduce l’importanza ed il mistero. E dal passato ci arrivano echi della grande ed indiscutibile valenza che veniva attribuita ai riti che la celebravano.
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ensando alla trasmissione orale delle usanze legate appunto a questi riti, riaffiora alla mente il ricordo di lunghi “viaggi” al cimitero con mio padre, in occasione della morte di congiunti o vicini, e della sua consolidata abitudine di raccontare del defunto, con
dettagliati riferimenti ad avi e discendenti. Tutto ciò presupponeva l’esatta conoscenza di moltissime famiglie e di complessi legami di parentela; le circostanze richiedevano anche un uso accorto del linguaggio, piccole attenzioni, come quella di far sempre precedere al nome proprio del morto, l’attributo: “è puvrètt” (il povero). E ancora adesso che mio padre ha novantatré anni, quando gli dico di una persona scomparsa, aiutato da mia madre, riesce a ricordare i minimi particolari, a ricostruire una vita: se la persona era sposata, il luogo dove abitavano o dove avevano abitato, qual era la famiglia di appartenenza del coniuge, ovviamente con il relativo soprannome dialettale. Questa capacità dei nostri vecchi faceva sì che si creasse una tessitura di conoscenza della comunità, con radici così profonde da immaginare di essere parte di una solidale e unica famiglia, legata da una lingua, il dialetto. Con tale premessa non voglio idealizzare il passato, ma descrivere antiche usanze che, nonostante avessero una ben fondata ragion d’essere: l’armonia con l’ambiente umano e naturale, sono scomparse con grande rapidità, lasciando solo ruderi in alcune località quasi dimenticate. Oggi, di fronte al progredire stupefacente e inarrestabile della tecnologia a disposizione dell’uomo, non per nostalgia, ma per la necessità di mantenere viva un’identità e una memoria, si dovrebbero elaborare i rapporti con più attenzione ai segni di mil-
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lenni di vita che sono stati prima di noi.
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LOST GRAVEYARDS_ WHERE SILENCE REIGNS
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Death, that thing that puts an end to our lives, comes into the world with us. But the fact that it’s “natural” in no way diminishes the mystery and the gravity which have always been associated with it. And the past reverberates with echoes of the tremendous significance attributed to the rites connected with death. Thinking of how the customs associated with these rites are passed orally from one generation to another, I always remember those long “journeys” to the cemetery with my father on the occasion of the death of a relative or neighbour, and my father’s incorrigible habit of telling the story of the dead person’s life, complete with details of ancestors and descendants. All this required accurate knowledge of countless different families and complex family ties; and it also required a special use of language, little details such as always prefixing the name of the departed with è puvrètt – “the poor man”. Even now that my father is 93, when I mention to him that someone has died he manages, with the help of my mother, to recall the tiniest details, to reconstruct a life story: whether they were married, where they lived and where they lived before that, the husband’s or wife’s family name – complete with the dialect sobriquet, naturally. This ability to recall ends up weaving a whole fabric of recollection of the community, the threads so tightly interwoven that they ended up becoming a single, united fabric connected by the common dialect. My intention here is not to idealize the past, but just to describe customs which, despite having every good reason to exist – such as harmony with the human and natural environment – seem to have vanished overnight, leaving behind only ruins in a few almost forgotten places. Today more than ever, with technology progressing at an astonishing rate, it’s our duty to preserve the traces of the past, respect the memory of the millennia of lives that have gone before us – not for nostalgia’s sake, but for the sake of preserving an identity. Some of these traces can be found in the church cemeteries of small villages which were not affected by the Napoleonic laws, which required cemeteries to be located outside of towns. Many graveyards were simply wiped off the map; others, thanks to the unlikely alliance of creeping time and the stealthy encroachment of vegetation, survive in a surprisingly harmonious fusion of ruins and nature. The few which remain intact still preserve their sacred atmosphere, that instantlyrecognizable stillness so characteristic of silent, tranquil places. People of a more sensitive disposition often choose these small corners of hallowed ground as their place of eternal rest, and in doing so they give them new life and new history. One such person was Giuseppe Dossetti, one of the fathers of the Italian constitution, who is buried in the cemetery of the Monte Sole regional park in Marzabotto; then, a little closer to our own day, there was Alteo Dolcini, a paladin of Romagnol culture in all its aspects – its wine, its pottery, its games and music – who chose the village of Pergola near Faenza. Another place imbued with an exceptional fascination and whose past deserves a future is Rontana, near Brisighella. The old parish church and adjacent cemetery survive as testimony to the beauty of the relationship between man and nature, created by people with the humility required to understand and articulate, with astuteness and vision, the need for equilibrium between the two. As architecture, the whole complex reveals careful planning in the orientation of the buildings, the importance accorded to open spaces, the layout of the plants which are its essential corollaries. This last aspect is more than anything the manifestation of a broad and layered culture which alloys the specific symbolic value of the trees, shrubs, flowers which populate the graveyard with an unmistakable agronomic talent – the result is beauty and harmony. It’s often noted that where there’s human life, there’s plant life; and plants have always been natural travelling companions on our final journey and our final destination, eternal sleep. May the devotion and respect for the magic of that parallel respiration regain its place in our hearts.
I cimiteri delle parrocchie in piccoli borghi sono antiche tracce non toccate dalle leggi napoleoniche, che fecero uscire i luoghi sacri delle sepolture dalle città. Molti camposanti sono stati del tutto cancellati; altri, grazie alla sorprendente alleanza che unisce il lavoro del tempo e il paziente avanzare della vegetazione spontanea, creano un’inaspettata armonia di ruderi accolti dalla natura. Ma i pochi rimasti intatti conservano ancora l’aria sacra e il senso di pace, caratteristici dei luoghi dolci e silenziosi, individuati con accuratezza dalle genti. Vi sono persone dotate di profonda sensibilità che scelgono questi piccoli recinti consacrati per il loro riposo eterno, ed in qualche modo ridanno loro vita e storia. Ne è un esempio don Giuseppe Dossetti, uno dei padri della Costituzione, sepolto nel cimitero del parco regionale di Monte Sole a Marzabotto; più vicino a noi ricordo Alteo Dolcini, paladino della cultura romagnola in tutte le sue forme - vini, ceramiche, giochi, musiche - che ha scelto Pergola, frazione di Faenza. Un altro luogo dotato di un certo fascino, che merita di avere un “posto nel futuro”, è il territorio di Rontana, nei pressi di Brisighella. L’antica pieve e il vicino cimitero sono la testimonianza di un geniale rapporto uomo-natura, creato da persone pervase dall’umiltà di comprendere ed interpretare quella necessità di equilibrio, con accorta e lungimirante visione. Tutto il complesso architettonico rivela un attento studio e scelte precise: l’orientamento degli edifici, l’importanza degli spazi aperti, la disposizione delle piante che ne sono indispensabile corollario. Quest’ultimo aspetto, soprattutto, è il risultato di quella cultura ampia e stratificata che lega la simbologia specifica di tutti gli alberi, cespugli, fiori, ubicati nei luoghi sacri ad una spiccata conoscenza agronomica, che crea bellezza e armonia. La vita degli uomini è legata indissolubilmente alla vita delle piante, recita un detto; da sempre, infatti, le piante sono state scelte come naturali “compagne” nell’ultimo viaggio e poi nel sonno eterno. Possa la devozione ed il rispetto per questo respiro parallelo riprendere posto nel cuore.
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La morte non sarà più morte. E tu, morte, morrai.
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John Donne
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S t e f a n o B o rg h e s i
La Romagna di Lord Byron
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pa s s ion i a moros e e politich e
Dolce ora del crepuscolo nella solitudine Della foresta di pini fino alla silente spiaggia Che cinge Ravenna; bosco antichissimo Radicato dove un tempo l’onda di Adriano vi scorreva sopra là, fin dove si ergeva l’ultima fortezza cesarea. Foresta sempre verde che mi faceva ricordare il folklore Del Boccaccio e le ballate di Dryden. Quanto ho amato te e questa ora del crepuscolo!
Sweet hour of twilight! In the solitude Of the pine forest, and his silent shore Wich bounds Ravenna’s immemorial woods, Rooted where once the Adrian wave flowe’d o’er To where the last cesarean fortress stood, Evergreen forest; wich Boccaccio’s love And Dryden’s lay made hounted ground to me, How have I loved the twilight hour and thee!
Le cicale assordanti abitatrici dei pini Che fanno delle loro vite estive un canto incessante Erano gli unici echi, tranne il mio e Quello del mio destriero. E i rintocchi delle campane del vespro sembravano scorrere lungo i rami. Rivivevano allora nella mia fantasia lo spettro di guido degli Anastagi, i suoi mastini, il loro inseguimento e la folla che imparò da questo esempio a non fuggire da un sincero amante (...)
The shrill cicalas, people of the pine, Making their summer lives one ceaseless song, Where the sole echoes, save my steed’s and mine, And vesper bells that rose the boughs along: The spectre huntsman of Onesti line, His hell-dogs and their chase, and the fair throng, Which learned from this example not to fly From a true lover (...)
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I Sensi di Romagna
G. Byron (da “Don Juan”)
La meravigliosa foresta di pini che circonda Ravenna fu lo sfondo di un amore romantico, sul quale non era destino che cadesse l’oblio.
T
eresa dei conti Gamba conobbe il famoso poeta inglese Giorgio Byron nel salotto veneziano di
Maria Benzon. Era l’aprile 1819. A Venezia la diciottenne Teresa seguiva il marito, l’ultracinquantenne conte Alessandro Guiccioli di Ravenna, in un viaggio d’affari. Lord Byron fu immediatamente preso da un’ardente passione contraccambiata dalla contessa ravennate, che del poeta inglese fu compagna fedele fino alla morte. Il 10 giugno del 1819 Byron arrivò a Ravenna in gran pompa. Si stabilì dapprima in un albergo vicino alla tomba di Dante con la figlia Allegra, natagli in Inghilterra da una relazione con Clare Clermont. Fece poi amicizia con il conte Guiccioli immagine d’archivio
in occasione di feste mondane e non incontrò difficoltà a farsi accogliere nel suo palazzo. Il conte, d’altra parte, non disdegnava il denaro per farsi tacitare. Teresa, conquistata dal fascino dell’amante, non tenne nascosti i suoi sentimenti, tanto più che riuscì ad ottenere dal Papa la separazione dal marito detestato e subìto per l’usanza dei matrimoni combinati. Affinità intellettuali e spirituali indussero i due nobili giovani a legarsi per sempre. Nella relazione
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con la contessa, Byron fece l’esperienza del carattere “infinito” dell’amore romantico, fusione di anima e corpo, di sentimento e di spiritualità, di passione e genialità.
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Teresa incarnava il nuovo ideale di donna, che si emancipa dal paradigma del matrimonio tradizionale, diventa l’amante che ama con la pienezza del proprio essere. Colta e piena di charme, esercitò una forte influenza sulla stessa attività letteraria dell’amico. A lei si ispirano molte opere che Byron scrisse a Ravenna, da “Marin Faliero” a “Don Juan” senza ignorare “La profezia di Dante”, che fu molto apprezzata dai ravennati. Teresa contribuì ad alimentare nel poeta l’amore per le tradizioni della sua città, delle quali sono parte le memorie di Dante Alighieri esule da Firenze. Fu lei stessa, inoltre, a
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The marvellous pine forest that encloses Ravenna was the backdrop to a love affair which continues to exert fascination long after its protagonists’ deaths. Countess Teresa Guiccioli first met the poet Byron in the Venetian salon of Maria Benzon. It was April 1819. Teresa, then aged 18, was in Venice with her husband, the fifty-something count Alessandro Guiccioli of Ravenna, who was in the city on business. Byron immediately conceived an ardent passion for the young countess; she felt the same way about Byron, the two became lovers and remained together until the poet’s death. Byron arrived in Ravenna in great pomp on 10 June 1819. He and his daughter Allegra, born in England from his liaison with Clare Clermont, at first took up residence in a hotel near Dante’s tomb. Byron then struck up a friendship with Guiccioli at a society gathering, and was soon being received in the count’s palace. The count, for his part, was willing to keep quiet about the affair – for a price. By now Teresa was at her lover’s mercy and made no attempt to hide her feelings; she managed to receive the pope’s blessing for the separation from her detested husband, to whom she had been married by arrangement, as the custom was back then. The two young aristocrats had intellectual and spiritual affinities which still bind them even today. In his relationship with the countess, Byron seemed to experience the full infinity of Romantic love, a fusion of body and soul, spirit and sentiment, passion and brilliance. Teresa was the walking ideal of a new kind of woman, one who breaks free from the bonds of traditional matrimony to become a lover who loves with every grain of her being. As cultured as she was charming, she exerted considerable influence on her lover’s literary development. She was the inspiration for much of Byron’s literary output during his sojourn in Ravenna, including Marino Faliero, Don Juan, and The Prophecy of Dante, a poem which was especially warmly received by the city’s inhabitants. Teresa also cultivated in Byron a love for the traditions of her city, including the memoirs of Dante Alighieri, in exile from Florence. And it was also Teresa who first got Byron involved in the cause of the Italian Risorgimento and the activities of the secret societies of Romagna, with their links to the Carbonari and their commitment to the struggle for freedom from the despotism of the Holy Alliance. Teresa belonged to one of Ravenna’s most fervently liberal families and put her brother Pietro in contact with Byron, who then became a member of the secret society known as the “American Hunters”, for it was from America that the society took its model for a free Italy. Byron would ride through the pine forests of Ravenna to rendezvous with the conspirators and train them in the use of firearms. He even provided them, from his own pocket, with arms, ordinance, money, leaflets and refuge in his house, which was under close police surveillance – although Byron’s status a member of the House of Lords afforded him a good deal of immunity and protection. The 1821 uprisings in Romagna failed. The brutal repression which followed did not spare the Gamba family – their assets were confiscated and they were forced to leave Ravenna. Teresa and her family regrouped in Pisa. Byron joined them in their exile, having enrolled little Allegra in the convent school of S. Giovanni Battista in Bagnacavallo. He would never see his daughter again, for she died shortly afterwards, aged only 5. Meanwhile, Byron found a new cause: impassioned by the Romantic myth of Greece and her civilization, he embraced the cause of Greek independence from Turkish domination. In Livorno on 23 July 1823 he and Teresa’s brother boarded a ship bound for Greece. Byron headed to Mesolongion to join a pro-independence expeditionary force, but was struck down by an incurable fever and died at the age of thirty-six. Byron has been depicted as the typical Romantic hero, ailing on his deathbed with a laurel crown, the titles of his main works, an Arcadian landscape in the background. The hero is sublimated in death; Brookes’ “Spirit of Byron” is the sublimation of the poet’s myth, his profile just visible among the clouds and the universal harmony. Teresa Guiccioli, “Byron’s Beatrice”, lived much longer. She died in Florence on 25 March 1873, aged 74. Among the last words Byron ever said to her were: “Not the sea nor anything else can ever separate us”.
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BYRON’S ROMAGNA_ BETWEEN PASSION AND INTRIGUE
coinvolgere Byron nella causa del risorgimento italiano e nell’attività cospirativa delle società segrete di Romagna legate alla Carboneria e impegnate nella lotta per la libertà contro il dispotismo della Santa Alleanza. I Gamba di Ravenna erano ferventi liberali. Teresa mise suo fratello Pietro in contatto con Byron, il quale si affiliò alla setta segreta denominata “Cacciatori americani”, perché dall’America prendeva il modello di un libero ordinamento da dare all’Italia. Nella pineta di Ravenna, Byron si recava a cavallo, per insegnare ai cospiratori a tirare con la pistola. Egli stesso forniva armi, munizioni, denaro, stampati e rifugio nella sua casa, strettamente sorvegliata dalla immagine d’archivio
polizia, con un limite imposto dall’appartenenza del poeta alla Camera dei Lords, che gli permetteva di godere della protezione britannica. I moti del 1821 in Romagna fallirono. Delle dure repressioni che seguirono fecero le spese anche i Gamba, che si videro confiscati i beni e furono costretti a lasciare Ravenna. Teresa raggiunse i famigliari a Pisa e Byron si unì a lei nell’esilio. La piccola Allegra fu affidata all’educantato retto a Bagnacavallo dalle suore di S. Giovanni Battista. Il padre non poté più rivederla, perché poco dopo fu strappata inaspet-
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tatamente alla vita, all’età di cinque anni. Byron, intanto, conquistato dal mito romantico della Grecia e della sua civiltà, abbracciò la causa dell’indipendenza di quel paese dalla dominazione turca. Il 23 luglio 1823 si imbarcò a Livorno per la Grecia con il fratello di Teresa. Si portò a Missolungi al seguito di una spedizione destinata a dar man forte ai greci. A Missolungi si spense all’età di trentasei anni, colpito foto d’archivio
da febbri incurabili. Tipicamente romantica la rappresentazione di Byron sul letto di morte con l’alloro, i titoli delle principali opere, uno squarcio di Grecia, paradiso di serenità: nella morte l’eroe giganteggia. “Lo spirito di Byron” di Brookes è la sublimazione del poeta, il cui profilo si intravede tra le nuvole, nell’universale armonia. Teresa sopravvisse più a lungo. Si spense a Firenze, all’età di 74 anni, il 25 marzo del 1873. Qualcuno ha voluto chiamarla la “Beatrice di Byron”. Tra le ultime parole che il poeta le aveva sussurrato: “Né il mare né altro ci potranno mai separare”.
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G i u l i a n o B et t o l i
La Svizzera è nata a Faenza immagine d’archivio
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fa vorita a n ch e da lla fie re z z a de i faentini
Fu Ermanno Cola, poeta dialettale e commediografo, il primo faentino che, nella Biblioteca Cantonale di Lugano, si trovò per caso a leggere la “Lettera di Faenza”. Non credeva ai suoi occhi: quel documento, stilato sotto le mura della città primo atto d’indipendenza della Confederazione Elvetica.
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manfreda nel 1240, era il
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l vulcanico dottor Alteo Dolcini ne parlò poi in un vivace opuscolo: La Svizzera è nata in Romagna. I fatti si svolgono nel 1240, un anno qualsiasi del lungo e travagliato periodo della lotta tra Papato e Impero per le investiture. I comuni italiani, se ghibellini
parteggiano per l’imperatore, se guelfi per il Papa. Nel dicembre del 1239, a Bologna si riuniscono i podestà di Milano, Brescia, Piacenza, Alessandria, Faenza e, naturalmente, Bologna. Tutte città guelfe. Decidono di strappare Ferrara ai ghibellini per cederla al marchese Azzo d’Este, guelfo. L’imperatore Federico II, che si trova in Italia centrale, venutone a conoscenza, per rivalsa muove con il suo poderoso esercito alla conquista di Bologna, espugnando le città minori che trova lungo la sua strada. Ravenna cede subito. Poi, precisamente il 26 agosto del 1240, Federico II inizia l’assedio di Faenza. L’impresa si fa più dura del previsto: i faentini si difendono accanitamente. L’inverno incalza e l’Imperatore si accinge a svernare costruendo un formidabile accampamento tutto intorno alla città. Eppure Faenza continua a resistere e Federico II stenta, ormai, a raccogliere denari sufficienti per pagare i suoi soldati. Non trovando più metalli disponibili, si rivolge alla vicina Forlì, città ghibellina, e fa perfino coniare monete di cuoio. Un buon nerbo dell’esercito di Federico II è formato da mercenari provenienti dai cantoni di Uri, Scwytz e Unterwalden (che costituiranno poi il nucleo della futura Svizzera). Orbene, proprio in quei giorni, una delegazione di quei “futuri svizzeri” chiede udienza all’Imperatore e gli propone di restare a combattere fedelmente al suo fianco, nonostante le difficoltà che egli incontra a pagarli, in cambio della promessa di nominarli liberi sudditi dell’Impero (anziché continuare ad essere servi dei Conti di Asburgo e di altri signorotti che li considerano alla stregua di schiavi). Lo scopo dei “futuri svizzeri” è chiaro: una volta sudditi dell’Imperatore, essi possiederanno, finalmente, una dignità ed un principio di libertà. Ecco dunque la “Lettera di Faenza”, che reca, in calce: “data durante l’assedio di Faenza, l’anno del Signore 1240, il mese di dicembre”. Con quel documento vergato in latino, l’Imperatore Federico II si rivolge a “tutti gli uomini nella valle di Svitto”, dichiara di voler venire loro incontro e accetta che essi si rifugino sotto le ali dell’Impero “quali uomini liberi” che soltanto all’Impero devono rispondere. Mezzo secolo dopo, nell’agosto del 1291, avverrà la firma del patto solenne e perpetuo tra Uri, Scwytz e Unterwalden: la Confederazione Elvetica comincerà a vivere di fatto. La sua prima cellula si era tuttavia formata allora, nel dicembre
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del 1240, sotto le mura di Faenza. Chi
fa
la
storia
non
ha
tempo
per
scriverla.
Lothar
von
Metternich
SWITZERLAND WAS MADE IN FAENZA_ A STORY THE CITY IS PROUD OF Ermanno Cola, a Faenza-born dialect poet and playwright, found himself reading the Lettera di Faenza in Lugano’s Biblioteca Cantonale one day when he discovered something he could hardly believe: the document, drawn up in Faenza in 1240, constituted the first declaration of independence of the Helvetic Confederation. The story was later taken up by mercurial author Alteo Dolcini in a lively monograph, La Svizzera è nata in Romagna. The events date back to 1240, which was just another year in the long and laboured investiture disputes between Papacy and Empire. Among the Italian communes, the Ghibellines took the side of the Emperor, the Guelphs the side of the Papacy. It was against this backdrop that in Bologna in December 1239 the chief magistrates of Milan, Brescia, Piacenza, Alessandria, Faenza and, naturally, Bologna, convened. All were Guelph towns. The magistrates decided at this meeting to wrench Ferrara from the Ghibellines and give it to the marquis Azzo d’Este, a Guelph. The Emperor Frederick II, who was in central Italy at the time, found out about the scheme and as a reprisal moved with his powerful army to the conquest of Bologna, overcoming the smaller towns he met on his way. Ravenna surrendered immediately. Then, on 26 August 1240, Frederick II began his siege of Faenza. It was a harder undertaking than at first expected, for the city held out doggedly. Winter was approaching and the Emperor made ready to dig in for the season, constructing a formidable encampment all around the city. Yet Faenza continued to hold out and Frederick was by now running short of funds to pay his troops. Supplies of metal were not to be had, and Frederick was forced to turn for help to the nearby Ghibelline city of Forlì, where he went so far as to strike coinage out of leather. A sizable part of Frederick’s army was formed of mercenaries from the cantons of Uri, Schwyz and Unterwalden, which would later constitute the nucleus of the future Switzerland. Now, it so happened that at this point in our account a delegation of these “future Swiss” requested an audience with the Emperor; they would remain fighting faithfully at his side, they said, notwithstanding the difficulties Frederick was encountering in paying them, in return for his promise to make them free subjects of the Empire (instead, that is, of remaining serfs of the counts of Hapsburg and myriad other barons who considered them as little more than slaves). The intention of these proto-Swiss supplicants was clear: as subjects of the Emperor, they would finally be free in principle and in status. The outcome of the negotiations was the Letter of Faenza, which proclaims at its foot “made during the siege of Faenza, this year of our Lord 1240, in the month of December”. In this document, drawn up in Latin, Frederick II addressed “all men in the valley of Svitto” and declared his willingness to meet them halfway, accepting their demands to be free men under the Empire, and accountable only to the Empire. Half a century later, in August 1291, the solemn pact between Uri, Schwyz and Unterwalden was signed: and the Helvetic Confederation became a living reality. Its genesis, however, lay back in December 1240, in the shadow of the walls of Faenza.
St or i a
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Ma n l i o R a s t o n i
Storie di “folari”
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le fia be dia le tta li
STORIES OF THE FOLARI_ FOLK TALES IN DIALECT Think of folk tales and you usually think of children. But as recently as 50 years ago in rural Romagna folk tales had a much wider audience – and many gifted storytellers to relate them. By tradition, the appointed forum for storytelling took the form of the rural trebbi or vigils which would take place any time from late autumn to the end of February, in a house or a barn. These vigils were an opportunity to exchange news and gossip, compare notes on harvests and livestock, and play cards. The younger members of the community devoted their energy to courtship, while the children, as they played, imbibed the culture and values of the community, customs which were often transmitted orally from one generation to another in the form of proverbs, riddles and tall stories – or woven into the fabric of folk tales. And the most eagerly-awaited evenings were those when the folari – storytellers renowned for their ability to tell tales and for the wealth their repertory – came to visit. When the folari told their stories, the women left off their spinning and the children stopped their prattle; only the occasional exclamation manifesting the total rapture of the audience could be heard. The prowess of the storytellers lay not only in their ability to weave a rich plot, but also in the actual way the story was told, an art in which tone of voice, the measure of pauses and gestures played central roles. The stories told by the folari would be comic anecdotes or fairy tales full of knights on horseback, talking animals and hocus-pocus mixed up with rural ingredients taken from everyday life. A protagonist the audience could easily
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Pare ovvio associare l’idea della fiaba ad un pubblico esclusivamente infantile, eppure, fino a mezzo secolo fa, nella Romagna rurale le fiabe avevano un pubblico ben più eterogeneo e molti ispirati interpreti.
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l principale momento deputato alla narrazione delle fiabe era costituito dai “trebbi” (veglie), che potevano aver luogo dall’autunno inoltrato fino alla fine di febbraio, nelle case o nelle stalle. Durante queste veglie ci si scambiavano pettegolezzi e notizie, si
parlava dei raccolti e del bestiame e si giocava a carte. I più giovani si davano ai corteggiamenti, mentre i bambini apprendevano, giocando, la cultura ed i valori della comunità, spesso tramandati oralmente da generazioni sotto forma di proverbi, indovinelli e storielle, o celati nella trama delle fiabe. Le serate più attese erano infatti quelle che vedevano come protagonista il “folaro” (e’ fuler): narratore di fiabe specializzato che veniva riconosciuto come particolarmente abile e custode di un ricco repertorio. Quando i “folari” narravano, le donne interrompevano la filatura, i bambini non fiatavano, e, talvolta, commenti e lacrime manifestavano il completo coinvolgimento degli ascoltatori. La bravura del narratore si esprimeva non solo nella ricchezza della trama, ma nel modo stesso di raccontare, un’arte antica in cui il tono della voce, le pause, la marcata gestualità giocavano ruoli determinanti. Quelle dei “folari” erano spesso novelle comiche o complesse fiabe di magia in cui cavalieri, animali parlanti ed elementi magici si mescolavano a componenti rurali tratte della vita di tutti i giorni. Un protagonista con cui gli ascoltatori potevano facilmente identificarsi, ad esempio un contadino povero ma furbo, diveniva il paladino di quei valori semplici e positivi che avrebbero invariabilmente prevalso sul male e sulla durezza del vivere quotidiano. Non è difficile individuare in questi racconti le funzioni di Propp (elementi ricorrenti in ogni fiaba esistente), ad esempio nell’agnizione finale, spesso rappresentata da mirabolanti immagini di abbondanza, fortuna e felicità, eppure, l’amalgamarsi degli elementi favolistici comuni con la schietta allegoria contadina romagnola conferisce ad ognuno di questi racconti tradizionali il dono dell’unicità. Già nell’Ottocento i compilatori di fiabe orali avevano l’impressione di trovarsi di fronte alle ultime testimonianze esistenti, ciò nondimeno ancora oggi è possibile raccoglierne. Queste fiabe spesso contengono vocaboli ed espressioni non più abitualmente usate neanche dagli ultimi narratori che le hanno tramandate fino ai tempi nostri. Osservando come il dialetto si è trasformato ed impoverito negli ultimi decenni, si possono dunque considerare come una sorta di scialuppa entro cui la lingua dialettale si è protetta dalle erosioni e dall’italianizzazione. Rappresentano pertanto un importante documento linguistico, ed anche per questo motivo, ora che i bambini hanno a disposizione formule d’intrattenimento ben più sofisticate, l’antico repertorio di fiabe ha paradossalmente rivolto il suo fascino anche ad un pubblico di seriosi studiosi.
Una cultura limitata tende all'orpello, mentre una cultura sofisticata tende alla semplicità. Christian Mestole Bove
identify with, such as a poor but wily farmer, would become the paladin of simple and positive values which always prevailed over evil and the asperities of peasant life. It isn’t difficult to identify Propp’s functions in these tales (elements and motifs which recur in every extant tale), such as the final recognition motif, often represented by marvellous images of abundance, fortune and happiness, yet the fusion of common folk tale elements with the most authentic features from the oral tradition of the Romagnol peasantry makes each tale unique. Although the 19th-century compilers of tales from the oral tradition remarked that the storytellers they encountered seemed to be the last survivors of a dying breed, it’s still possible today to find people who know a tale or two. And these tales often contain words and expressions which are no longer in common use, not even in the common speech of the storytellers which have transmitted them to the present times. If we consider how impoverished the Romagnol dialect has become in recent decades, these folk tales can be seen as a kind of linguistic lifeboat in which dialect can find cover from erosion and the onslaught of standard Italian. They have therefore come to represent an important linguistic corpus – and now that children have far more sophisticated forms of entertainment at their disposal, the old repertory of folk tales has, paradoxically, begun to attract the attention of serious scholarship. Pa s s i on i
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F ra n c o D e P i s i s
La dinastia Orfei origin i roma gn ole de lla ce le bre fa miglia circense
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Che all’Italia siano legati i nomi di alcuni dei più famosi circhi al mondo è cosa risaputa. Meno noto è il fatto che al di là della sua origine sinta, il capostipite della più illustre delle famiglie circensi italiane fosse un romagnolo.
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l nome degli Orfei appare, infatti, nell'ambito delle compagnie teatrali itineranti, eredi della commedia dell'arte, già intorno al 1820, data a cui si fa risalire per diffusa convinzione tra gli storici del circo la nascita di Paolo Orfei e, parallelamente, la fondazione del-
l’insigne dinastia circense. La storia, si tinge di leggenda e narra che Paolo, sacerdote di Massalombarda, convintosi che la vocazione alla vita religiosa non era in lui particolarmente ferrea, preferì, dopo una parentesi concertistica, seguire la più emancipata via del saltimbanco. Sposò Pasqua Massari, imparentata con la nobile famiglia dei Massari di Ferrara, dalla quale ebbe un figlio, Ferdinando, che fin da ragazzo si rivelò come prodigioso suonatore di tromba. Oltre all’indiscusso talento musicale (fece persino conoscenza con Giuseppe Verdi in virtù della sua tromba), egli dovette ereditare dal padre anche l’istinto del girovago, poiché, divenuto promettente allievo del famoso Antonelli, maestro della banda cittadina bolognese, piantò tutto per avviare un modestissimo circo, fondando, di fatto, il primo vero e proprio Circo Orfei. Fu dunque Ferdinando, spesso confuso come capostipite della famiglia, il primo circense della dinastia, che operò nel momento storico in cui, ereditando tecnicamente vari aspetti dalle compagnie comiche girovaghe e fondendo in sé molteplici discipline proprie dello spettacolo itinerante, nacque il circo così come lo conosciamo. In quasi due secoli di storia, il Circo Orfei, o meglio i circhi, giacché molti dei successori di Paolo e Ferdinando hanno a loro volta fondato compagnie in proprio, spostandosi in tutta Europa e in ogni parte del mondo hanno fatto conoscere ovunque il nome di questa dinastia circense. Alla fine degli anni ’70, con la crisi generalizzata di questa tipologia di spettacolo, paradossalmente gli Orfei toccarono l’apice della popolarità con la partecipazione di molti degli artisti di famiglia e dei loro animali feroci in qualità di attori nei film della serie italiana dedicata a Maciste, che ebbe per loro un ritorno di immagine ed economico fondamentale. Da allora, la presenza sul grande e piccolo schermo degli Orfei è stata quasi costante, anche in virtù della bellezza che da sempre ha contraddistinto le donne della famiglia, come testi-
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Per mettere alla prova la realtà dobbiamo vederla sulla fune del circo. Quando le verità diventano acrobate, allora le possiamo giudicare. Oscar Wilde
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monia il successo di Liana, Miranda, detta Moira, ed Ambra.
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THE ORFEI DYNASTY_ THE ROMAGNOL ORIGINS OF A FAMOUS CIRCUS FAMILY
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It’s a well-known fact that some of the most famous names in the circus world are Italian. But what many people don’t know is that beyond their Sinte origins, the founder of Italy’s most famous circus family of them all was from Romagna. The Orfei name first appeared as a travelling theatre company – one of the troupes that succeeded the Commedia dell'Arte, as early as 1820, the year generally accepted among circus historians as marked by the birth of Paolo Orfei and the creation of the illustrious circus dynasty of the same name. History is probably tinged with legend, but the story goes that Paolo, a priest in Massalombarda, arrived at the conviction that he had no particular vocation for the religious life and decided, after a spell as a concert performer, to follow a more emancipated career as an acrobat. He married Pasqua Massari, who was related to the aristocratic Massari family of Ferrara, and had a son, Ferdinando, who at an early age revealed himself to be a gifted trumpet player. Besides his unquestionable musical talent (his trumpet playing even earned him an acquaintance with Giuseppe Verdi), Ferdinando must have inherited from his father a penchant for wandering, for he later gave up a promising career under the famous Antonelli, conductor of the Bologna city orchestra, to open a small circus – and in doing so founded the first proper Orfei Circus. This means it was Ferdinando and not his father, with whom he has often been confused, who was the first circus performer in the family. All this happened at a certain moment in history when, as heir to many of the features of the travelling theatre troupes of yore, and in its incorporation of many of the acts associated with travelling shows, the circus as we now know it was born. In almost two centuries of history, Circo Orfei – or more accurately “the circus”, as many of the successors of Paolo and Ferdinando Orfei went on to found circus troupes in their own names – travelled all over Europe and brought the name of this famous circus dynasty to the four corners of the globe. By the late 1970s, the circus was in crisis all over the world – but, paradoxically, right at this time the Orfei family were reaching the peak of their popularity with the participation of many family members and their animals in the hit film series Maciste. For their image as well as their bank accounts, Maciste was a result. Since then the Orfei family have made constant TV and film appearances, not least owing to the beauty which has always distinguished the women of the family, as witness the success of Liana, Miranda, (a.k.a. Moira) and Ambra. The finest hour of the Orfei, however, came with their collaboration with Federico Fellini. Nandino Orfei appears in Fellini’s masterpiece Amarcord, but it was thanks to the cooperation of Liana Orfei’s circus that the great director was able to make The Clowns, Fellini’s examination of the circus seen through the eyes of a boy who watches a circus tent going up. Fellini pays homage in this film to the old clowns, the last representatives of a fast-disappearing world, their sad and wizened faces the withered instruments of an art which in better days made spectators burst with laughter. Today, the family retains its ties with the legacy of Fellini, and Nando Orfei, with his wife Anita and children Paride, Ambra and Gioia, has decided to keep the family tradition alive by creating a show which is at once a return to the origins of the circus and a tribute to their friend, Federico Fellini: the Antico Circo Orfei. The family’s dedication to the circus takes many different forms, such as the Piccolo Circo del Sole, a school of circus devised by Ambra Orfei and now with branches in Italy, elsewhere in Europe and the United States. One clear demonstration of the global fame of the Orfei dynasty was a rather singular phenomenon which first emerged in the 1980s. The “bogus Orfei” (or “orfeini” as they’re commonly known) are distant relatives of the family, or just people with the same name, or even individuals who have changed their name in another country and then apply it to second-rate circus troupes who claim a pedigree which in reality they don’t possess. The real Orfei are not only a success with the public but are held in high esteem in professional circles as a particularly honest family whose members have been known to contract debts in their own name to pay their artists – even in the leaner periods of their centuries-long history. Circus performers are itinerant by nature, and are proud to consider themselves as expatriates and of no fixed abode, as the entry in the birth certificate of Liana Orfei so eloquently illustrates: “Born in San Giovanni in Persiceto (Bologna) in a caravan parked in a field.” Yet perhaps it’s fair to say that if we absolutely had to assign a land of origin to the Orfei family, this land would certainly be Romagna – a place which contains, deep in the genetic heritage of its people, all those qualities which have made artists, acrobats and itinerant performers of so many of them, and lovers of a good show of all of them.
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Il momento più alto e poetico delle loro attività extracircensi è però, senza dubbio, scaturito dalla collaborazione con Federico Fellini. Nandino Orfei compare infatti in Amarcord, capolavoro del maestro, ma soprattutto, fu grazie alla collaborazione con il circo di Liana Orfei che il grande regista romagnolo poté realizzare il film Clowns, in cui Fellini indaga l’idea di Circo come mito dell’infanzia attraverso gli occhi di un bambino che osserva il montaggio di un tendone circense. Nel lungometraggio il regista rintraccia vecchi pagliacci, verso cui Fellini, da appassionato spettatore, si sente debitore; i pochi sopravvissuti di un mondo quasi scomparso, e filma i loro volti ormai invecchiati e tristi, ma capaci un tempo di suscitare risate a crepapelle. Il legame emotivo con il maestro non si è tuttora interrotto, e oggi Nando Orfei, con i tre figli Paride, Ambra, Gioia, oltre alla moglie Anita, nel continuare la tradizione di famiglia, ha deciso di ricreare uno spettacolo che rappresenti una ricerca delle proprie origini e allo stesso tempo un omaggio all’amico Federico Fellini: l'Antico Circo Orfei. La dedizione della famiglia alla causa circense seguita a svilupparsi in tutte le direzioni, come testimonia anche la scuola “il Piccolo Circo del Sole" nata da un’idea di Ambra e sviluppata in Italia, Europa e Stati Uniti. A lampante dimostrazione della loro consolidata fama mondiale, si può citare il deleterio fenomeno, sviluppatosi dopo gli anni ‘80, dei “finti Orfei” (detti in gergo “orfeini”), parenti alla lontana, omonimi o addirittura persone che, una volta cambiato il cognome all'estero, lo affittano a complessi circensi di bassa lega, che riescono così a millantare un credito che in realtà non hanno. Ma oltre al successo di pubblico, gli Orfei sono famosi nell’ambiente professionale per essere una famiglia particolarmente onesta, che per pagare i propri artisti ha puntualmente contratto debiti in prima persona, anche nei periodi più magri della loro secolare storia. Nonostante la natura congenitamente girovaga dei circensi ed il loro considerarsi orgogliosamente senza patria e fissa dimora, come dimostra eloquentemente il certificato ufficiale di nascita di Liana Orfei, che riporta testualmente: “Nata a San Giovanni in Persiceto (Bologna) in un carrozzone posteggiato in un prato”, non è improprio affermare che se si volesse a tutti i costi attribuire agli Orfei una patria d’origine, questa sarebbe senza dubbio la Romagna. Una terra che ha, radicate nel patrimonio genetico della sua etnia, tutte quelle peculiarità che hanno trasformato tanti romagnoli in artisti, girovaghi e saltimbanchi, e tutti gli altri nel loro appassio-
Tom Waits
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nato pubblico.
Un consiglio ai giovani per iniziare il prossimo millennio? Mollate tutto ed unitevi ad un circo.
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Carlo Zauli
Giovanna Madonia
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Dove non è vino non è amore e null’altro diletto havvi ai mortali. Euripide
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s ign ora de l Sa n giove s e
GIOVANNA MADONIA_ SIGNORA SANGIOVESE In a region always consecrated to the Albana grape is an estate which in just a few years has won the respect of wine lovers and wine growers alike. A young but well-established winery, Madonia was founded in the 1990s and occupies an estate covering 11 hectares of the scenic Montemaggio hills, in Bertinoro in the heart of Romagna. The enterprise began in 1992 with an intensive clonal research program in collaboration with agronomist Remigio Bordini (the man behind the Villa Papiano project – see ee issue 13). Next stage was the actual plantation of the vines, which presently cover 8 hectares, plus 3 hectares which are not yet in production. Altitude ranges between 200 and 300 metres above sea level. The plantations are compact – around 7000 vines per hectare – with extremely low yield per vine. Orientation is largely south-west. Besides an enviable climate, the vines also enjoy the advantages of a soil which is exceptionally suited to their cultivation, and a site interspersed with olive groves and coppices whose scents mingle with the zip of the sea air. This serene and idyllic landscape seems to find a microcosm in the grapes, which oenologist Attilio Pagli subjects to an extremely refined fermentation process in the underground cellars of the winery – a converted 18th-century villa in which modern inox technologies rub shoulders with traditional wooden vats. The wines made from indigenous grapes such as Sangiovese and Albana are well structured, fresh and agreeable to the modern palate, elegant, clean and often austere, and have been well received by critics as eminent as the Gambero Rosso’s Vini d’Italia, I Vini di Veronelli and the AIS guide. Another grape, Merlot, has also obtained some very encouraging results. The labels of the bottles are elegant and distinguished, and embellished by original sketches by Francesco Tullio Altan. Giovanna Madonia is proud of her achievements and conscious of the wonderful location of her estate, and lovers of her wines can try them in the farm hotel and restaurant next door to the winery.
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Sulle colline da sempre consacrate all’Albana, trova la sua collocazione una cantina che in pochi anni è stata in grado di guadagnarsi la viva considerazione degli appassionati, come degli esperti cultori del vino.
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iovane, ma già strutturata, azienda d’impronta moderna nata agli inizi degli anni ’90, Madonia
comprende circa 11 ettari che si estendono sulle pendici della splendida collina di Montemaggio, a Bertinoro, nel cuore della Romagna. Qui, a partire dal 1992, dopo un attento studio clonale svolto in collaborazione con l’agronomo Remigio Bordini (l’uomo dietro al progetto di Villa Papiano, vedi ee n° 13), sono stati piantati i vigneti, al momento 8 ettari più 3 ancora non produttivi, ad un'altezza tra 200 e 300 metri s.l.m. Si tratta di impianti ad alta densità, circa 7000 piante per ettaro, con una resa per ceppo estremamente bassa, ed un’ideale esposizione a sud-ovest. Oltre al clima invidiabile le vigne si giovano di un terreno altamente vocato, intervallate come sono da ulivi e da macchie di bosco, i cui profumi si fondono con quelli che giungono dal mare. La dolcezza del paesaggio pare riversarsi interamente nelle uve, che l’enologo Attilio Pagli sottopone ad un processo di vinificazione molto curato nell'antica cantina sotterranea della villa padronale. Una costruzione risalente al '700 che è stata opportunamente ristrutturata, e dove le moderne tecnologie dell'acciaio si accompagnano alle antiche tradizioni del legno. Oltre ai vini tipici della zona, quali Sangiovese ed Albana, strutturati, moderni, fini, puliti e spesso austeri, che hanno ricevuto importanti riconoscimenti da autorità del calibro di “Vini d’Italia” del Gambero Rosso, “I Vini di Veronelli” e la guida dell’A.I.S, sono stati ottenuti risultati molto incoraggianti con il Merlot. Il vestito delle bottiglie si distingue, inoltre, per sobria e curata eleganza, impreziosita dai disegni originali delle etichette schizzati da Francesco Tullio Altan. Orgogliosa e consapevole della posizione incantevole della sua tenuta, Giovanna Madonia offre agli estimatori dei suoi vini la possibilità di degustarli nell'agriturismo con ristorante che sorge di fianco all'azienda.
STERPIGNO_ Forlì Merlot IGT - Annata 2003 – Uve: 100% Merlot Pigiatura e diraspatura soffice. Fermentazione in vasche di acciaio a temperatura max di 30 °C. Breve macerazione sulle bucce e trasferimento in barriques di rovere francese. Maturazione per 12/15 mesi. Affinamento, dopo imbottigliamento senza filtrazione, di almeno 10 mesi. Rosso porpora intenso, con tonalità tendenti al rubino e al violaceo. Al naso stratificazione di frutto e fiore con riconoscimenti di lampone, ribes, spezie e con una leggera tostatura inglobata nel frutto. La bocca è vellutata, con tannini ancora astringenti ma fini. Forlì Merlot IGT - Vintage 2003 - Grapes: 100% Merlot Destalked and soft-pressed. Fermented in inox vats at a maximum temperature of 30 °C. After fermenting on the skins for a short period the wine is transferred to French oak barriques. Matured for 12-15 months. The wine is bottled without filtering and aged for at least 10 months. Sterpigno is deep purplish-red in colour, with tones tending to ruby and violet. On the nose it’s layered into fruit and flowers with notes of raspberry, redcurrant, and spices, with a touch of warmth in the fruity notes. In the mouth it’s velvety with subtly astringent tannins. OMBROSO_ Sangiovese di Romagna DOC Superiore Riserva - Annata 2003 Uve: 100% Sangiovese Pigiatura e diraspatura soffice. Fermentazione in vasche di acciaio a temperatura max di 30 °C. Macerazione sulle bucce per tre settimane. Trasferimento a dicembre-gennaio in barriques di rovere francese e maturazione per 12/15 mesi. Affinamento di almeno 10 mesi in bottiglia. Rosso rubino profondo, ventaglio olfattivo ricco e complesso con note di ciliegia, fragolina di bosco, viola, vaniglia, spezie, cacao, liquirizia, con il frutto in evoluzione. La bocca accompagna una struttura ricca di sapidità, con tannini opulenti ma fini e ricchezza di estratti. Sangiovese di Romagna DOC Superiore Riserva - Vintage 2003 - Grapes: 100% Sangiovese Destalked and soft-pressed. Fermented in inox vats at a maximum temperature of 30 °C. The grapes are fermented on the skins for three weeks before the wine is transferred in December/January to French oak barriques and aged for 12-15 months. It’s then bottleaged for at least 10 months. Deep ruby red, complex and wide on the nose with notes of cherry, wild strawberry, violet, vanilla, spices, cocoa, liquorice, and young fruit. In the mouth Ombroso is well-structured and savoury, with rich yet restrained tannins. CHIMERA_ Albana di Romagna DOCG Passito - Annata 2003 - Uve: 100% Albana Spremitura soffice delle uve. Fermentazione e maturazione in barriques nuove di rovere francese per un tempo variabile di anno in anno, tra i 12 e i 24 mesi. Imbottigliamento dopo microfiltrazione. Commercializzazione preceduta da un anno di affinamento in bottiglia. Chimera viene prodotto solo nelle migliori annate. Giallo dorato con riflessi ramati, quasi viscoso. Il naso è intenso e lungo con sentori di miele, spezie, uvetta sultanina, albicocca sotto spirito e fiori di campo. Al palato si avvertono zuccheri molto equilibrati, buona pastosità, lunga sapidità, un corpo sostenuto ma estremamente elegante. Interminabile la persistenza aromatica intensa. Le uve vengono raccolte a novembre dopo sviluppo in pianta della muffa nobile. Albana di Romagna DOCG Passito - Vintage 2003 - Grapes: 100% Albana The grapes are soft-pressed. Fermentation and ageing is in new French oak barriques for periods ranging between 12 and 24 months, depending on the year. Bottled after microfiltration. Chimera is bottle-aged for one year before being put on sale. Only produced in good vintage years. Golden yellow, almost viscous, with copper highlights. Long and intense on the nose, with notes of honey, spices, sultana, preserved apricot and wild flowers. On the palate, Chimera is mellow and savoury with well-balanced sugars and a long but extremely elegant body. Lingering, intense finish. The grapes are harvested in November after the introduction in the vines of botrytis cinerea.
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S e re n a To g n i
I diamanti sotterranei della Valle del Montone
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il ta r tu fo bi anc o di D ovadol a
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“The great quarrel of White versus Black which took up where the Guelphs and Ghibellines left off and which left Italy so devastated for so long may be about to break out again... because of truffles… For myself I align with the whites, and I say and say again that the black truffle is the poorest of them all; others don’t think like I do, and pronounce the black truffle as more pungent and the white as more delicately flavoured: but they forget that the black ones lose their scent quickly” Pellegrino Artusi. Romagna’s most coveted truffle is nothing special to look at. Its colour is hardly encouraging – somewhere between yellowish and greenish – and its shape can vary from smooth and round to knobbly and warty, depending on the soil, yet tuber magnatum pico, commonly known as the white truffle, is a diamond among delicacies in the Montone valley. Tuber magnatum pico grows in a mucky symbiosis with the roots of trees such as poplar, linden, oak and willow, and is mainly comprised of water, fibre and minerals. It has a distinctively aromatic scent and a highly unusual flavour that make it a unique and delicious food capable of adding personality to even the blandest of dishes. The village of Dovadola celebrates its most precious resource with a famous festival which in late October every year is a mandatory appointment for gourmets from near and far, who come not only to sample the indescribable abundance of the various stands but also to compete in “best truffle” competitions. But the winning truffle is not the only victor: to find the right place man needs the assistance of a dog with an impeccable sense of smell, capable of detecting the intense odour of the truffles.
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HIDDEN TREASURE OF VALLE DEL MONTONE_ THE WHITE TRUFFLE OF DOVADOLA
“La gran questione dei Bianchi e dei Neri che fece seguito a quella dei Guelfi e dei Ghibellini, e che desolò per tanto tempo l’Italia, minaccia di riaccendersi a proposito dei tartufi… Io mi schiero dalla parte dei bianchi e dico e sostengo che il tartufo nero è il peggiore di tutti; gli altri non sono del mio avviso e sentenziano che il nero è più odoroso e il bianco è di sapore più delicato: ma non riflettono che i neri perdono presto l’odore”. Pellegrino Artusi
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n aspetto povero caratterizza il fungo ipogeo più ricercato di Romagna: dalla sembianza di un tubero, dal colore incerto tra il giallognolo e il verdastro, dalla forma irregolare (a volte liscio e tondeggiante, altre nodoso e bitorzoluto, a seconda del tipo di terre-
no), il tuber magnatum pico, comunemente noto come tartufo bianco, è il re della valle del Montone. Questo frutto, che vive nascosto nel sottosuolo in simbiosi con radici di alberi, quali pioppi, tigli, querce, salici, è costituito in alta percentuale da acqua, fibre e sali minerali e si contraddistingue per il profumo aromatico e il singolare sapore che lo rende una prelibatezza unica per il palato, capace di conferire personalità anche al piatto più anonimo. Dovadola celebra il suo gioiello più prezioso con una rinomata sagra, tappa irrinunciabile di fine ottobre per buongustai non solo nostrani, che oltre a fruire di pantagruelici stand gastronomici, assistono alla competizione per il miglior cercatore di tartufo. Ma il tartufaio premiato non è l’unico vincitore: l’esperienza dell’uomo nell’individuare le piante idonee necessita dell’alleanza di un cane dal fiuto infallibile, addestrato a riconoscere l’intenso odore. In Romagna il tartufo bianco della valle del Montone ha un rivale, quello nero della valle del Bidente, protagonista di un’altra affollata sagra, che si svolge a fine novembre a Cusercoli. La diatriba tra i sostenitori dell’uno e dell’altro non è una questione recente: anche Pellegrino Artusi, guru della gastronomia italiana ottocentesca, vi prese parte e, paragonandola all’antica lotta tra guelfi e ghibellini, si schierò a favore dei bianchi, dichiarando quelli romagnoli particolarmente profumati. Tuttavia, non sono solo le caratteristiche organolettiche a rendere questo fungo così bramato, ma anche il fascino che ne accompagna la ricerca, una vera sfida per chi vi si accinge. Allo scopo di non favorire la concorrenza, il momento migliore si rivela la notte, in una sorta di rito pagano che mette in simbiosi uomo e natura, creando una magica alchimia fra mondo umano, animale e vegetale, la cui suggestione è accresciuta dalle tenebre. Già gli antichi ritenevano questo prodotto della terra avvolto dal mistero, tanto da pensare che avesse origine dallo scaricarsi dei fulmini vicino alle piante. Di vero in questa credenza c’è che questi diamanti sotterranei crescono secondo l’arbitrio della natura, e, nonostante i numerosi studi, l’uomo non è riuscito a produrre questa varietà di tartufo in colture arboree. Per il momento è ancora il caso fortuito a generarlo, ed è proprio questa sua capacità di sfuggire al controllo umano a renderlo così raro e ambito.
Romagna’s valle del Montone white truffle has a local rival, however: the black truffle of valle del Bidente, which is the star of another fair, held every November in Cusercoli. This dispute between Whites and Blacks is nothing new: even Pellegrino Artusi, the 19th-century guru of gastronomy, took sides. He compared the dispute to the ancient struggles between Guelphs and Ghibellines, and came down on the side of the whites; the Romagnol variety, he pronounced, was particularly tasty. And yet it isn’t just the taste and texture which make this famous and much-coveted fungus so famous, but the fun involved in finding it – which is quite a challenge for those brave enough to undertake it. Not to favour the competition, the best time to hunt the truffles is at night – traditionally a sort of pagan ritual which required symbiosis between man and nature, a magical alchemy between the human, animal and vegetable worlds which the darkness only made more suggestive. The Ancients believed that truffles were created by thunderbolts and assigned mysterious powers to them. This belief is rooted in the idea that these jewels of nature grow entirely by chance – and indeed, despite extensive research, no-one has ever succeeded in conjuring up the white truffle of Dovadola in artificial tree plantations. For the moment, it seems to grow haphazardly, and it’s partly this quality, the ability to avoid cultivation, which makes it so coveted.
foto d’archivio
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Pensare che non si sa il nome del primo maiale che scoprì un tartufo. Edmond e Jules de Goncourt
E n oga s t r on omi a
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BEYOND SURFACE AU DELA DE LA SURFACE
G i u s ep p e M a s e t t i
La saggezza e la frusta un gi ardin o a Ba gn a ca va llo pe r ricorda re L e o L on ganesi
Everything I don’t know, I learned it at school. Veterans are born, not made. The memories of the coming year are weighing on me already. One fool is a fool. Two fools are two fools. Ten thousand fools are a force of history. Art is a calling; but many who answer were never called. Love is the expectation of something that, when it arrives, gives anguish. Don’t trust women intellectuals. They always end up sniffing out the cretin who understands them.
Tutto ciò che non so l’ho imparato a scuola. Veterani si nasce. I ricordi dell’anno venturo già mi pesano. Uno stupido è uno stupido. Due stupidi sono due stupidi. 10 mila stupidi sono una forza storica. L’arte è un appello a cui molti rispondono senza essere chiamati. L’amore è l’attesa di qualcosa che quando arriva annoia. Diffidate delle donne intellettuali, finiranno per rintracciare sempre il cretino che le capisce.
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I Sensi di Romagna
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L’impegno della sua città natale è tuttora volto a farlo conoscere e ricordare, lontano dalle celebrazioni ufficiali.
L
eo Longanesi è stato un precursore del giornalismo moderno; scrittore, grafico, pittore, regista e soprattutto un illuminato editore che
inventò, nel 1937 con OMNIBUS, il rotocalco illustrato in Italia e fondò, nel 1946, la casa editrice milanese che porta ancora il suo nome. Dunque un grande comunicatore, dibattuto fra il mito liberale di un’Italia dignitosa e contadina, come quella che aveva conosciuto nella sua giovinezza fra Lugo e Bologna, ed il fervore per una nuova cultura di massa, incentrata sulla forza delle immagini, sui titoli ad effetto e sul rigore tipografico. I nonni e le vecchie zie della Romagna furono però sempre presenti in lui come i capisaldi della tradizione, del buon tempo antico e del saper fare a mano. Mentre la passione per le arti figurative e la bella scrittura esercitarono su Longanesi la seduzione della grande città che lo vide fra i principali animatori della vita culturale, prima a Roma poi a Milano. Questa eclettica e geniale personalità, cara come un santo patrono ai giornalisti dai capelli imbiancati, viene ricordata tutt’ora dai suoi ammiratori, non tanto per le opere da lui effettivamente firmate, quanto per le sue storiche battute al vetriolo, che terrorizzavano anche gli amici, sulla società politica e familiare del tempo. Le sue descrizioni in epigrammi, sarcastici ed amari, del pubblico e del privato, fanno parlare di un’Italia di Longanesi che ancora oggi incuriosisce e fa sorridere. Fra le tante manifestazioni promosse per questo centenario, dal Ministero per i Beni Culturali alle Poste Italiane, Bagnacavallo lo ha ricordato con mostre e convegni, ristampe e pubbliche letture, ma soprattutto ha voluto lasciare un segno tangibile nella città che ne raffigurasse l’indole ironica e polemica per la quale lo hanno conosciuto tutti gli amici, gli scrittori e gli artisti frequentati da Longanesi nella sua intensa carriera. Di dedicargli un monumento od una strada nemmeno a parlarne: invece tra i vecchi palazzi e la cerchia muraria della sua antica Bagnacavallo è nato qui, per lui, il Giardino degli Aforismi. Un percorso fatto di citazioni letterarie e di sapere tipografico che, tra piante officinali e tabelle informative, ripropone dieci delle frasi più acute del celebre giornalista. Sono affiancate da piccoli suoi disegni ed incise con cura sullo schienale d’ottone delle panchine in ferro battuto, realizzate proprio per questo anniversario. Con la buona stagione, in quel parco si può conoscere il vero Longanesi, mentre il ristorante di fronte ne offre i bei libri, ristampati per l’occasione.
One of the brightest lightson the Italian cultural scene between the two world wars, Leo Longanesi was born in the heart of Romagna just over a century ago, on 30 August 1905. Today, far from the glare of official accolade, his native town of Bagnacavallo remains committed to honouring his memory. Leo Longanesi was a pioneer of modern journalism. He was a writer, graphic designer, painter and filmmaker too; but above all he was the man who in 1937 invented Italy’s first illustrated magazine, Omnibus, and in 1946 founded the Milan publishing house which still bears his name. A great communicator, therefore, but one divided between the liberal myth of a proud but humble Italy which he had known in a youth divided between Lugo and Bologna, and his fervent belief in a new mass culture built on the power of image, headline and typographical clarity. Yet Longanesi’s grandparents and his elderly Romagnol aunts were omnipresent in the man and his work as a kind of touchstone of tradition, of the good old days when people worked with their hands. But it was his passion for beaux arts and belles lettres that lured Longanesi to the city – first Rome and then Milan – where he became a leading light on the Italian cultural scene. This eclectic and genial personality, almost a patron saint to the older members of the journalistic fraternity, is best remembered nowadays not so much for his works as his often vitriolic wit – a lash which politicians, friends and even family feared. His epigrammatic remarks on topics both public and private contained a bitter barb of sarcasm, and even today the expression “Longanesi’s Italy” is a term which brings a smile to many faces. Many events have been held to commemorate Longanesi’s centenary, with sponsors as diverse as the ministry for cultural heritage and the Italian post office. Bagnacavallo remembered Longanesi with the exhibitions and conferences, republications and recitals which usually accompany such commemorations – but the town also wanted to leave a more tangible token of acknowledgement, something which would capture the spirit of irony and contentiousness for which the friends, writers and artists who knew Longanesi over his eventful career remember him. There could be no question of dedicating a monument to him, or naming a street after him. So here, amid the old palazzi and the walls of Longanesi’s native Bagnacavallo, there now lurks the Garden of Aphorisms. Visitors to the garden can follow an itinerary punctuated by literary citations and typographical tips which, amidst medicinal plants and information boards, reproduces ten of the famous journalist’s most cutting aphorisms. Each aphorism, accompanied by a small illustration by Longanesi himself, is artfully carved into the brass back of wrought-iron park benches made for the occasion. In good weather, the garden offers another perspective on Longanesi; and in all weather, the restaurant across the road sells special reprints of Longanesi’s books.
foto d’archivio
della cultura italiana fra le due guerre.
foto d’archivio
nel cuore della Romagna, uno dei maggiori talenti
WISDOM AND THE LASH_ A GARDEN IN BAGNACAVALLO TO REMEMBER LEO LONGANESI
foto d’archivio
Era nato giusto un secolo fa, il 30 agosto 1905,
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Arte
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Arte è ciò di cui non si capisce il significato, ma si capisce avere un significato. Anonimo
Cattelan a Forlì s et t e anni sc om pars i
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I Sensi di Romagna
immagini di Patrizia Giambi, tratte da “Gli anni del Diavolo 1985-1991”
Ta t i a n a To m a s e t t a
Maurizio Cattelan è l’artista vivente più quotato al mondo. Questa è la presentazione che ne fanno i giornali e i critici più importanti.
P
ersonalmente ebbi la fortuna di contemplare le sue installazioni a Forlì. Nonostante (per motivi che possiamo solo supporre) sulla maggior parte delle sue biografie non compaia, infatti, Maurizio Cattelan, ancora agli inizi del per-
corso che l’ha reso famoso, lui, il genio irriverente, l’habitué delle Biennali a Venezia, il mito della Sensation, ha trascorso sette anni della sua vita (dal 1985 al 1991) in Romagna. Per intenderci parliamo di colui che ha riprodotto Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, la cui copia regalata alla Polonia, peraltro, fu danneggiata da Vescovi e sacerdoti nel tentativo di rialzare il Papa di cera. Nato a Padova, classe ’60, Cattelan giunse a Forlì per amore. Insieme alla sua compagna, l’artista Patrizia Giambi, visse in uno dei palazzi storici più caratteristici della città, il rinascimentale Palazzo Sassi Masini, che ospitò in quel frangente un movimento artistico vero e proprio. Un network di artisti locali e di passaggio da tutta Europa che lo utilizzavano come spazio espositivo, in contrasto con l’amministrazione cittadina che pareva non apprezzare debitamente quel fermento artistico. Nella corte del magnifico Palazzo Sassi, dove un glicine secolare avvolgeva i muri e accompagnava Il ratto di Proserpina, statua dalle fattezze demoniache (del forlivese Francesco Andreoli, 1818 ca.) che ha procurato a Palazzo Sassi il soprannome di “Palazzo del Diavolo”, Cattelan creava ispirato da uno spazio di grande impatto estetico. Nei sette anni trascorsi a Forlì ha esposto e realizzato opere che furono costantemente oggetto di critica. Come il video in cui Ken
la chiusura del palazzo da parte della polizia. Cattelan emigrò e l’unico ricordo che rimane di quel periodo è la rottura tra l’artista e la città. Conoscendolo, egli potrebbe però considerare la rottura stessa un’opera, attraverso la sua cifra stilistica che trasforma l’arte in ingegno e le idee in reazioni, provocazione e stupore. Come quando gli si chiese di allestire un’installazione in due settimane e lui entrò in una galleria d'arte impossessandosi delle opere di un artista concorrente, o quando lasciò un cartello recante la scritta “torno subito" sulla porta della galleria vuota. Celebre fu la trovata di affittare il suo spazio espositivo ad un'agenzia che lanciava un nuovo profumo e andarsene in vacanza. È giunto persino a copiare perfettamente la mostra di un altro artista, inaugurandola, come se niente fosse, nella galleria di fianco. Non c’è dunque da stupirsi se quando a Forlì gli fu rubata la macchina, lui denunciò ai carabinieri il furto precisando che all’interno si trovava una preziosa “opera invisibile" che doveva partecipare ad una mostra a Milano. CATTELAN IN FORLÌ_ SEVEN LOST YEARS Maurizio Cattelan is the world’s most expensive living artist – at least that’s what all the leading critics say. This writer has had the good fortune to view Cattelan’s installations at first hand, in Forlì. Although it’s a fact that’s seldom mentioned in his biographies (for reasons about which we can only speculate) Maurizio Cattelan – the irreverent genius, habitué of the Venice Biennale, revelation of the Sensation – lived in Romagna for seven years (1985 to 1991) while still at the beginning of a career which has made him internationally famous. This is the same Maurizio Cattelan who made a sculpture of John Paul II struck by a meteorite – a copy of which, given as a gift to Poland, was damaged by bishops and priests in their attempt to set the wax pontiff upright. Born in Padova in 1960, Cattelan’s ties with Forlì are affectionate only. He and his partner, fellow artist Patrizia Giambi, lived in one of the town’s most interesting buildings, the Renaissance Palazzo Sassi Masini, which at that time was headquarters of a movement of artists from all over Europe, including Forlì. They used the palazzo as an exhibition area – their only outlet, as the town authorities seemed not to accord this ferment of creativity the recognition it deserved. In the courtyard of the magnificent Palazzo Sassi, where a centuries-old wisteria tree crept over the walls and insinuated itself into the drama of the Rape of Proserpina, a sculpture group by Forlì-born sculptor Francesco Andreoli dating from c.1818 whose demonic lineaments earned palazzo Sassi the nickname of “Palace of the Devil”, Cattelan drew on the inspiration of a truly lovely environment. The work produced in his seven years is among his most controversial – like the video installation in which Ken and Barbie simulate sex, or the exhibition on eroticism which elicited outraged protest – when the only things on show were the sinuous curves of a leaf. As the eighties ended, so did the scene in Palazzo Sassi Masini: the police shut down the palace and the resident artists went their own separate ways. Cattelan departed too, and the only trace of his “Forlì period” is the break between him and the town. To anyone familiar with his style it’s easy to imagine that Cattelan might view the break itself as a work of art, given his talent for transforming art into wit and stirring up reaction, provocation and outrage. Once, when he was asked to set up an installation in just two weeks, he went into a gallery and requisitioned all the works of a rival artist, leaving a note saying “I’ll be right back” on the door of the empty gallery. Another famous prank was to lease his own gallery to an agency looking for a venue for the launch of a new perfume; Cattelan went off on holiday. He has even gone so far as to replicate the exhibition of another artist and inaugurate it, as if it was the most natural thing in the world, in the gallery next door. No surprise, then, that when his car was stolen in Forlì he embellished his report to the police with the claim that the car contained a priceless “invisible work” which was due to be exhibited in an exhibition in Milan...
foto d’archivio
va semplicemente le sinuosità delle curve di una foglia. Terminati gli anni Ottanta tutto ebbe fine con lo sfollamento e
immagini di Patrizia Giambi, tratte da “Gli anni del Diavolo 1985-1991”
e Barbie simulavano un rapporto sessuale o la mostra sull’erotismo che scatenò accuse di irriverenza mentre presenta-
Arte
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04
Territorio Bagno di Romagna_ scrigno d’acque termali Bagno di Romagna_ A jewel box of wellbeing I camposanti perduti_ luoghi di rumori leggeri Lost graveyards_ where silence reigns
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Storia La Romagna di Lord Byron_ passioni amorose e politiche Byron’s Romagna_ between passion and intrigue La Svizzera è nata a Faenza_ favorita anche dalla fierezza dei faentini
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Passioni
Switzerland was made in Faenza_ a story the city is proud of
Storie di “folari”_ le fiabe dialettali Stories of the folari_ folk tales in dialect La dinastia Orfei_ origini romagnole della celebre famiglia circense The Orfei dynasty_ The Romagnol origins of a famous circus family
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Enogastronomia Giovanna Madonia_ signora del Sangiovese Giovanna Madonia_ Signora Sangiovese
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Arte
I diamanti sotterranei della Valle del Montone_ il tartufo bianco di Dovadola
La saggezza e la frusta_ un giardino a Bagnacavallo per ricordare Leo Longanesi
Hidden treasure of Valle del Montone_ the white truffle of Dovadola
Wisdom and the lash_ a garden in Bagnacavallo to remember Leo Longanesi Cattelan a Forlì_ sette anni scomparsi Cattelan in Forlì_ Seven lost years
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I Sensi di Romagna
I Sensi di Romagna Periodico edito da CERDOMUS Ceramiche S.p.A.
numero 14.
settembre 2006 Periodico edito da CERDOMUS Ceramiche S.p.A. 48014 Castelbolognese (RA) ITALY via Emilia Ponente, 1000 www.cerdomus.com Direttore responsabile Luca Biancini Progetto Carlo Zauli Luca Biancini Grafica e impaginazione Jan Guerrini/Cambiamenti per Divisione immagine Cerdomus Coordinamento editoriale Alessandro Antonelli Redazione Giuliano Bettoli Stefano Borghesi Franco De Pisis Italo Graziani Vanna Graziani Giuseppe Masetti Manlio Rastoni Tatiana Tomasetta Serena Togni Carlo Zauli Foto Archivio Cerdomus Archivio Giuliano Bettoli Archivio Stefano Borghesi Archivio Italo Graziani Archivio Monia Lippi Archivio Giovanna Madonia Archivio Manlio Rastoni Jan Guerrini si ringraziano _ Biblioteca Manfrediana di Faenza _ Casa del Teatro, Faenza _ Pro Loco di Dovadola _ Comune di Bagnacavallo, Fondo Leo Longanesi _ le immagini di Cattelan a Forlì sono tratte dal volume fotografico “Gli anni del Diavolo 1985-1991” di Patrizia Giambi si ringrazia per la preziosa collaborazione Maddalena Becca/Divisione immagine Cerdomus Traduzioni Traduco, Lugo Stampa FAENZA Industrie Grafiche ©CERDOMUS Ceramiche SpA tutti i diritti riservati Autorizzazione del Tribunale di Ravenna nr. 1173 del 19.12.2001