Magazine EE nr 15

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n altro anno. Un altro si inabissa, un altro si affaccia. Eppure in alcuni borghi medioevali incastonati

nella Romagna, questa successione si ripete senza contaminare il colpo d’occhio, forse grazie anche alla protezione dei boschi, capaci di grandi generosità verso l’ambiente come verso gli uomini, che hanno imparato a festeggiarne i frutti. Gli stessi uomini perennemente affaccendati a disegnare pianura e collina con le loro campagne, che talvolta offrono spettacoli dal fascino ipnotico, come i lòm a mèrz. Genti che sono il prodotto di una convivenza difficile con la natura, come purtroppo testimoniano usanze e tradizioni che oggi chiamiamo incivili, la cui radice antica è un amaro tributo alla sussistenza. Ma se la mente è tenuta a seguire un destino di pragmatica, il cuore dei romagnoli, specie quando è riscaldato dal vino, da sempre si offre come robusto rifugio alla poesia, all’avventura, alla gioia; e ben onora il luogo deputato a contenerle tutte e tre: il teatro. La Redazione di

ee

A new year. One more year receding into the past, one more year looming into the present. And yet there are medieval villages nestled in the hillsides of Romagna where the rhythm of the years proceeds imperceptibly, perhaps due partly to the protection of the woodlands and their generosity to nature as well as humanity, which has learned to celebrate nature’s gifts. Humanity’s toil has brought order to plain and hillside in the form of its fields, which every year are illuminated by the strangely hypnotic spectacle of the lòm a mèrz. But humanity is equally a product of its often difficult cohabitation with nature, as attested by certain customs and traditions that today we consider barbaric and whose roots lie in a bitter tribute to the imperatives of survival. But while the minds of the people of Romagna must of necessity think along pragmatic lines, their hearts (especially when warmed by a little wine) have always found refuge in poetry, adventure and joy; and what better refuge for all three than the theatre. The editorial staff of ee

E di t or i a l e

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aria

fuoco

terra

acqua


Manlio Rastoni

Petrella Guidi i sola me dioe va le tra le n u bi

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Un borgo fortificato battuto dai venti, arroccato sull´acclivio destro del fiume Marecchia, quasi a guardare Pennabilli; racchiuso dalla sua cinta muraria, ancora intatto nei lineamenti e nelle sue architetture medievali di villaggio fortificato trecentesco.

L

uigi Berardi (vedi ee n°10) conosce il paese per esservisi recato spesso, nel corso degli anni, alla ricerca del vento adatto ad intonare una delle sue arpe. Non è mai riuscito a far suonare lo strumento, ma durante questa sorta di pellegrinaggi ha avuto modo di

conoscere l’anima di Petrella Guidi. Ai tempi in cui il paese era considerato del tutto disabitato, scorse su di una panchina, orientata sul meridiano del solstizio d’estate, l’ultimo abitante e custode di Petrella che guardava verso la valle. Le nebbie di novembre nelle parole del vecchio divenivano un mare compatto che lambiva i confini della rocca, lasciandolo come solo su un’isola. E solo egli voleva rimanere, tentava infatti di scacciare chiunque si spingesse sino a lì raccontando di una pericolosa salamandra dagli occhi di diamante e dai sinistri poteri che si aggirava in quei pressi. A coloro che ignorano questo avvertimento si parerà di fronte l'arco in pietra bianca che rappresenta la porta d'ingresso al paese, su cui scudi e stemmi in bassorilievo ricordano il dominio di antiche nobiltà. Da qui si accede al nucleo centrale del borgo, ove alcune case in pietra antica, ciascuna alta fino a cinque piani, si appoggiano l’un l’altra in una serie irregolare. Le circondano vicoli stretti in ciottolato affiancati dai caratteristici forni, fino a giungere ad una chiesa, a lato della quale si apre, sulla Valle del Marecchia, un ampio

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I Sensi di Romagna


THE MEDIEVAL VILLAGE OF PETRELLA GUIDI_ AN ISLAND IN A SEA OF MIST A windswept hilltop stronghold perched high above the right bank of the river Marecchia, looking over towards Pennabilli – Petrella Guidi is a 14th-century village which has largely preserved its original architectural outline. Luigi Berardi (see issue 10 of ee) knows Petrella Guidi well, as over the course of the years he’s often visited the village in search of the right wind conditions for his Aeolian harps. He’s never found them here, but in the course of so many visits he’s had plenty opportunity to discover the soul of the village. In the times when the village was believed to be completely uninhabited Berardi encountered, stretched out on a bench oriented towards the summer solstice meridian, the last inhabitant and guardian of Petrella looking down towards the valley. In the old man’s own words, in November the mists become an opaque sea which lap at the shores of the cliff, leaving the village detached, like an island. The old man too was content in his isolation – he would even drive off visitors who had ventured as far as the village with stories of a dangerous salamander with eyes of diamonds and sinister powers who lurked somewhere in the vicinity. Those who ignore his warnings enter the village through an archway of white stone, surmounted by the arms of the stronghold’s erstwhile captains in low relief. This archway leads right to the centre of the village, where a handful of houses in old stone, each five storeys tall, lean against one another in a haphazard unity. The streets are narrow and cobbled and lined by ovens, and lead to a church beside which there opens a broad piazza offering panoramic views over Valle del Marecchia. The imposing castle (built some time before 1125) which looms over the village (one of the thirteen in the vicariate of Sant'Agata), retains the impressive ruins of its north and west walls, a cistern and the ruins of the keep. Beside this the crisp outline of a recently-renovated tower rises from the green of the woodland. One story Berardi always tells is how on the first day of May the former inhabitants of the village come with their families to the village to carry the church’s statue of the Madonna in procession. Another returning visitor is Count Guidi, heir of the family which formerly held tenure over the village – and if the count does not raise his glass to them from his window overlooking the piazza, outsiders are viewed as unwelcome on this day. Many visitors have succumbed to the romantic charm that the place exudes, and in the 1970s a kind of commune named the Village of the Sun sprang up beside the village. Even today it’s still frequented by artists and intellectuals. In April 1994, at the instigation of Tonino Guerra, an installation called the Field of Names was inaugurated in the piazza. It currently comprises two commemorative plaques in tribute to Federico Fellini and Giulietta Masina. Fellini and Masina were to be the first two occupants of this “field”, dedicated to the great artists and creators of Romagna, but for some reason they remain alone – alone as the village’s last occupant remained until passing away in 2000. Maybe the old man’s death was a gesture of spiritual solidarity with the old century he was unable to leave behind.

Qualunque paesaggio è uno stato d'animo. Henri Frederich Amiel

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piazzale panoramico. Del poderoso castello, precedente al 1125, posizionato sopra il paese (uno dei tredici del vicariato di Sant'Agata), si ergono arcigni i resti della cinta muraria nord ed ovest, una cisterna ed un rudere del maschio. Accanto si staglia, netta, una torre (recentemente ristrutturata), circondata dal verde. Sempre Berardi racconta di come ogni primo maggio gli ex abitanti ed i loro discendenti ritornino al borgo per portare in processione la madonna della chiesa. Torna anche il conte Guidi, erede della famiglia che possedeva il paese, ed un forestiero non è ben accetto quel giorno in paese se egli, dalla finestra che sovrasta la piazza, non innalza il suo calice, brindano alla salute dello straniero. Sono in molti a recepire l’alone romantico e decadente che permea questo luogo, negli anni Settanta a fianco di Petrella Guidi è sorta infatti una comune chiamata il “Villaggio del Sole”, che ancora oggi accoglie artisti ed intellettuali. Nell'Aprile 1994, poi, per iniziativa di Tonino Guerra, è stato realizzato il "Campo dei Nomi", che conserva due lapidi poste in omaggio a Federico Fellini e Giulietta Masina. Dovevano essere le prime di un parco dedicato ai grandi artisti e sognatori della Romagna ma per qualche motivo sono restate sole, come solo finì per rimanere il loro ultimo custode, prima di passare a miglior vita nel 2000, forse incapace di abbandonare il vecchio secolo, obbedendo ad una sorta di coerenza spirituale. Ter r i t or i o

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Patria di poeta Sa n Ma u ro Pas c ol i Sono in molti a conservare ben vivide nella memoria le liriche descrizioni di numerosi scorci di questo paese dell’immediato entroterra romagnolo senza esservi però mai stati.

Q

uesto paradosso è dovuto al fatto che San Mauro Pascoli, come il suo stesso nome rivela, fu la dimora amata e cantata di uno dei più eminenti poeti italiani dell’Ottocento. Dalle sue forme, cromatismi ed odori, Giovanni

Pascoli mutuò infatti l’ideale di microcosmo agreste, che nelle sue opere egli contrappose all’universo delle città, il quale cresceva a quell’epoca per partenogenesi, fagocitando le genti delle campagne. Eppure questo modello idilliaco di vita campestre dovrebbe la sua origine a zingari e strascichi di invasioni barbariche, ivi stabilitisi, almeno secondo una rimostranza fatta dagli abitanti di S. Mauro a Clemente VIII nel 1596. Durante la sua storia travagliata il borgo ha più volte cambiato nome: da “Fundum Sancti Mauri" a “Villa Sancti Mauri", a “Castrum Sancti Mauri et tenuta lovediae", a San Mauro di Romagna e finalmente, con regio decreto, la denominazione del comune è stata modificata in quella odierna, in onore, come già menzionato, del poeta Giovanni Pascoli, nato in una sobria casa a poche decine di metri dalla piazza centrale del paese. Dal 1924 questa modesta residenza di piccoli benestanti rurali è considerata monumento nazionale ed accoglie un piccolo museo domestico. In essa sono conservati gli ambienti nei quali Pascoli trascorse la sua giovinezza, tra cui lo studio dove si conservano, tra le altre cose, edizioni rare di alcune sue opere, numerose lettere autografe inviate agli amici sammauresi e la sua vetusta macchina da scrivere. Il giardino è ornato da numerose piante menzionate in varie poesie pascoliane, al suo limite si trova poi la cappella della Madonna dell'Acqua: chiesetta ultracentenaria amata dal poeta, poiché consolò il dolore della madre. La casa fu donata dai Torlonia, al padre Ruggero Pascoli nominato amministratore della fattoria, che vi rimase fino a quel fatale 10 agosto 1867. L’antica tenuta dei principi viene attualmente chiamata “La Torre", qui il piccolo Giovanni vide tornare la fedele “cavallina storna" che riportava verso casa il padre, assassinato. Pare certo che la "Torre" si possa identificare con l'antica “Giovedia", luogo anticamente consacrato a Giove con un tempio di origine romana (si crede risalente all'80 a.C.) ove si narra che Cesare si sia soffermato dopo aver attraversato il Rubicone. La seconda guerra mondiale ha distrutto quasi completamente il borgo. Oggi il paese è ritornato quel fiorente centro agricolo e calzaturiero (sede di griffe internazionali e costellato da decine di piccoli laboratori artigianali) che era. Così, mutato, ma senza aver venduto l’anima, questo angolo di terra delimitato dal Rubicone e dall’Uso prosegue pacato la sua esistenza, mentre gli storici locali discutono accesamente su quale fra i due sia il vero fiume Rubicone, forse al solo scopo di sapere se fu l’uno o l’altro a vedere il condottiero romano Gaio Giulio Cesare pronunciare la fatidica frase “Il dado è tratto”.

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I Sensi di Romagna

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F ra n c o d e P i s i s


Romagna solatia, dolce paese, cui regnarono Guidi e Malatesta, cui tenne pure il Passator cortese, re della strada, re della foresta.

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Giovanni Pascoli

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Many people can wax lyrical about the beauty of this town not far from the Romagnol coast – and yet they’ve never even been here. The reason for this apparent paradox is that San Mauro Pascoli, as its name suggests, was the beloved home town of one of the greatest 19thcentury Italian poets, Giovanni Pascoli. Of course, in celebrating the forms, colours and smells of his home Pascoli was drawing on the myth of the rural microcosm, as an alternative to the urban milieu which in his own day was already expanding uncontrollably, encroaching on the countryside and its people. And yet this idyllic notion of country life owed its origins to waves of invasions by and subsequent settlement by outsiders, at least if we are to believe a complaint made by the inhabitants of San Mauro to Pope Clement VIII in 1596. During its agitated history the town has changed names on several occasions, from Fundum Sancti Mauri to Villa Sancti Mauri, then to Castrum Sancti Mauri, San Mauro di Romagna and finally, by royal decree, to the name it now holds, in homage to the poet, born in a small house just a stone’s throw from the town’s main piazza. Since 1924 this modest yet well-to-do country dwelling has been classified as a national monument and is now home to a small museum. This museum preserves the rooms in which Pascoli spent his early years, including the study whose treasures number some rare editions of his works, a large collection of signed letters sent by Pascoli to friends in San Mauro, and his old typewriter. Outside, the garden contains many of the plants mentioned in Pascoli’s poems. At the bottom of the garden is the chapel of Madonna dell'Acqua, a small and very old church much loved by the poet as it was here that his mother found consolation after the death of his father. The house was donated by the Torlonia family to Pascoli’s father Ruggero, a bailiff who was murdered on 10 August 1867. The former holding now known as La Torre was where the young Giovanni watched the faithful “dapple-grey mare” return home with the body of his murdered father. It’s probable that this “tower” is the ancient Giovedia, a precinct dedicated to Jupiter with a Roman temple (believed to date from 80 BC) where it’s said Caesar stopped for a while after crossing the Rubicon. The town was almost completely destroyed in the Second World War, but today it’s once again the flourishing agricultural town and major shoemaking centre it was before the war, the offices of major footwear brands coexisting with dozens of small craft workshops. Outwardly different but with its soul intact, this small town fringed by the rivers Rubicon and Uso is now a quietly industrious place where not much happens except for the lively disputes among local historians on which of the two rivers is the real Rubicon – even if only to resolve once and for all the question of which witnessed the Roman general, Gaius Julius Caesar, utter the immortal words:”The die is cast.”

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SAN MAURO PASCOLI_ VILLAGE OF THE POET

Ter r i t or i o

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Pa o l o M a r t i n i

Buffalo Bill è stato qui

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il ricordo de l colon n e llo in Ro mag na

“Wanted: Young, skinny, wiry fellows, not over eighteen. Must be expert riders, willing to risk death daily. Orphans preferred.” In this rather dubious job notice lies a story that hangs somewhere between legend and fact, and in which Romagna plays a small yet interesting part. It’s a story of pistols, courage, cowboys and Indians, all blended together with generous amounts of imagination – a dish that’s sure to go down well in adventurous-minded Romagna, in other words. William Frederick Cody was fifteen when he answered the ad. It was the start of a career which would win him worldwide fame as Buffalo Bill. After his early days with Pony Express Cody was a soldier, frontiersman, gambler, horseman, freemason, actor, inveterate boozer and who knows what else. But above all he was a man who embodied the entire mythology of an era: Buffalo Bill was the Wild West. And he knew how to market himself. In 1883 he founded Buffalo Bill’s Wild West Show, a travelling revue which for twenty years packed out circus tents the world over. The show was nothing short of a paean to the West, with Sitting Bull, Calamity Jane and Wild Bill Hickock appearing as themselves no less. Just to give an idea of how famous he was, Buffalo Bill had an audience with Pope Leo XIII, and was received by Queen Victoria with the pomp normally resreved for a visiting head of state. And once, his show came to Forlì, where for the modest fee of two lire Buffalo Bill brought America to the people of Romagna. This was in April 1906. Among the marvels on the bill were one hundred redskins, artillery manouevres and a troupe of Japanese samurai – and of course the star of the show, Colonel W. F. Cody: Buffalo Bill. There was a re-enactment of the battle of Little Big Horn, lasso contests, stagecoach hold-ups, and Cody with his trademark Winchester rifle. For Bologna daily Il Resto del Carlino these were acts that “brought vividly back to life all the adventures of life on the wide-open American prairies before its original inhabitants were violently wiped out by Western civilization.” For Cody, his Forlì show must have been just one more engagement among so many others, but for his audience it was the opportunity for a flight of fancy with some very local colour. They saw in the lean features of Bill Cody the living image of Domenico Tambini, a native of Santa Lucia near Faenza who had emigrated to New York for political reasons: as a liberal, he had taken part in the abortive Venice uprisings of 1849 and after their repression he had thought it unwise to return to a pro-papal Romagna. There the story stood until 1911, when Tamburini’s niece received a letter from the Italian foreign ministry informing her that she had come into what the newspaper of the day termed “a princely intheritance” of some 45 million lire, left to her by an uncle in America. From here it was a short step to the obvious conclusion: the uncle was Buffalo Bill! No point in letting a minor detail of chronology stand in the way of things – Cody was still alive at the time, and would remain so until 10 January 1917 – and no matter that no-one in Santa Lucia ever so much as sniffed the money. Even today, ninety years on, the people of Romagna are still fond of telling the story of Buffalo Bill and his fabulous bequest.

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I Sensi di Romagna

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BUFFALO BILL_ THE STORY OF THE COLONEL’S VISIT TO ROMAGNA


«Occorrono ragazzi sotto i diciotto anni, svelti, esperti cavalieri, consapevoli di rischiare la morte ogni giorno: si preferiscono gli orfani».

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a questa offerta di lavoro poco raccomandabile parte una storia, sospesa fra mito e realtà, che tocca anche le terre di Romagna. Si parla di pistole, coraggio e selvaggi, il tutto condito con abbondante fantasia. Un piatto prelibato per le menti sognanti dei

romagnoli. All’annuncio in questione rispose un ragazzetto di quindici anni, tal William Frederick Cody. L’implume cavaliere sarebbe diventato

una leggenda mondiale con il soprannome di Buffalo Bill. Fu pony express, soldato, pistolero, biscazziere, impagabile cavallerizzo, massone, attore, incallito bevitore e chissà cos’altro. Di fatto, incarnò in una sola persona il mito della frontiera. Fu il Far West. E fu abile nel mettere a frutto la sua fama. Nel 1883 creò il Buffalo Bill Wild West Show, uno spettacolo itinerante che per vent’anni gremì i tendoni circensi di tutto il mondo. Un vero peana all’epopea western, con Toro Seduto, Calamity Jane e Wild Bill Hickock a recitare se stessi. Per dare un’idea del successo, Buffalo Bill venne ricevuto da Papa Leone XIII e dalla Regina Vittoria, con un cerimoniale degno di un capo di stato. Nel suo peregrinare gli capitò di passare anche da Forlì dove, per la modica cifra di due lire, donò l’America ai romagnoli. Era il nove aprile del 1906, il programma prometteva mirabilie: cento pellirossa, grandi manovre di artiglieria e un’imprecisata truppa di “samurai” giapponesi. E, va da sé, il colonnello W. F. Cody: Buffalo Bill. Gli spettatori assistettero alla riproduzione della battaglia di Little Big Horn, a gare di lazo, ad assalti alla diligenza. Videro l’Eroe maneggiare la sua carabina Winchester. Come scrisse il Resto del Carlino: «[…] numeri in cui si riviveva fantasticamente tutta l’avventurosa vita delle grandi praterie americane prima che la civiltà occidentale ne discacciasse violentemente i primi abitanti […]». Per il Colonnello fu uno spettacolo come tanti altri, ma per i romagnoli divenne l’occasione per creare qualche fanfaluca su misura. Videro nella scarna figura dello stagionato pistolero le sembianze di Domenico Tambini, un faentino di Santa Lucia emigrato a Nuova York per motivi politici: di fede liberale, partecipò ai moti di Venezia del ’49 e, dopo la sconfitta, pensò bene di non tornare nella Romagna papalona. Ma la leggenda non finisce qui. Nel 1911 la nipote del Tambini ricevette una missiva del Ministero degli Esteri. I giornali dell’epoca scrissero di un’eredità principesca, attorno ai quarantacinque milioni di lire, ricevuta da uno zio d’America. Il passo fu brevissimo: era l’eredità di Buffalo Bill. Il quale morì, carico di gloria, il dieci gennaio del 1917. I tempi non tornano, ma la fantasia mal sopporta i confini temporali. Così come poco importa che dei soldi, a Santa Lucia, non se ne sia vista nemmeno l’ombra. Ancora oggi, dopo novant’anni, i romagnoli si tramandano la storia di Buffalo Bill e della sua favolosa eredità.

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L'uomo è una creatura che crea la storia e che non può ripetere il proprio passato né lasciarselo alle spalle. Wystan Hugh Auden

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I Sensi di Romagna

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voce de lla vita ru ra le Cultura è quella cosa che i più ricevono, molti trasmettono e pochi hanno. Karl Kraus

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S t ef a n o B o rg h e s i

La Caveja


Dritta, piantata davanti sopra il timone come sull’agile prora di una nave, sta la caveja… ja serviva a bloccare il giogo, portato dai

buoi, al timone dell’aratro o del plaustro. Era

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S

imbolo dell’antica fatica dei campi, la cave-

costituita da un’asta di acciaio saldato in alto ad

THE CAVEJA_ THE MUSIC OF RURAL TOIL

una piastra intagliata e adorna di simboli cari ai

Rising from the beam like the figurehead on the prow of a boat – the caveja… A symbol of the labours of the field, the caveja was originally a pin used to fasten the yoke carried by the ox to the beam of the plough or cart it pulled. It comprises a steel shaft terminating in an emblem incorporating symbols beloved of farming communities for their religious, talismanic and propitiatory properties. Perhaps at one time mistaken for a medieval mace, it seems to have its origins in an identical symbol found on the beam of a Babylonian chariot unearthed during archaeological excavations in Mesopotamia. The caveja of Romagna differs from similar emblems found in Emilia, like the stadùr of Bologna, characterized by the application of decorative brass studs. A common motif in the caveja were steel rings which, shaken by the undulating gait of the ox, produced a continuous tinkling chime. Forlì-born poet Aldo Spallicci, who first celebrated the caveja as a symbol of Romagna, described them in this way: “The little rings have a silvery timbre, like the laugh of a child who is always in the mood for laughter […]. The big rings the voice of a father, that strong and thick voice that tries to be gruff but comes out friendly”. For this reason a caveja with rings was also known as a cantarèna (“singer”) or sunajina (“rattler”) in reference to the “good music of toil” that gladdened and swelled the hearts of the peasants while they spurred the pure white oxen along the furrow. In Holy Week, from Thursday to Saturday, the rings of the caveja were muffled in an echo of the liturgy of the church, when the traditional ringing of bells is suspended. Now that the peasant life of which it was a symbol is a thing of the past, the caveja is a collector’s item hotly sought after by folklorists. Modern artistic representations of its form evince varying degrees of indulgence, with the addition of arbitrary or over-wrought decorative variations.

contadini per il loro significato religioso, scaramantico o propiziatorio. Scambiata talvolta per una mazza ferrata di guerriero medioevale, sembra aver avuto come antenato un esemplare issato sul timone di un carro babilonese, rinvenuto in Mesopotamia nel corso di scavi archeologici. Le caveje di Romagna si differenziavano da quelle pure in uso in Emilia, come il bolognese “stadùr” (statoio), per l’applicazione di borchie di ottone a scopo decorativo. Comuni erano gli anelli di acciaio sorretti dalla piastra i quali, agitati dal passo ondeggiante dei buoi, producevano uno scampanellare continuo. Il poeta forlivese Aldo Spallicci, il primo ad elevare la caveja a simbolo della Romagna, la descrive così: “Le anelline hanno un suono che sembra d’argento, come il ridere di un bambino che è sempre in vena di ridere […]. Gli anelloni voce da babbo, vociona grossa che vorrebbe esser burbera ed è amica”. Per questo “La caveja degli anèl” era altrimenti detta “cantarèna” (canterina) o “sunajina” (sonaglina), con riferimento alla “musica buona della fatica”, che allietava e inorgogliva i villici quando spronavano i candidi buoi. Nel periodo della Settimana Santa ci si conformava alla liturgia della Chiesa: gli anelli venivano legati, come si faceva con le campane, dal Giovedì al Sabato Santi. Scomparsa la civiltà contadina, di cui era l’emblema, la caveja oggi è diventata un raro pezzo di antiquariato, ricercato dai cultori del folklore foto d’archivio

sbizzarriscono nel raffigurarla con variazioni decorative più arbitrarie e meno semplici.

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e richiamato dalla fantasia degli artisti, che si

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“Qui nasce il fiume sacro al destino di Roma”, questa la lapidaria citazione che ancora oggi si legge sulla stele posta in epoca fascista sul monte Fumaiolo, là dove il biondo fiume romano ha origine.

Va l e n t i n a B a r u z z i

Il Tevere nasce in Romagna l’ a n n e s s ion e

de l M on te Fu ma io lo

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THE TIBER RISES IN ROMAGNA_ THE ANNEXATION OF MONTE FUMAIOLO

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I Sensi di Romagna

“Here rises the river which is sacred to the destiny of Rome” – thus the suitably lapidary inscription which can still be read on the monument erected during the fascist era at the point on Monte Fumaiolo where Rome’s river has its source. We’re in an area known as Romagna–Toscana, on the Forlì side of the Apennines, an area which even today lacks a clearly-defined regional identity, perhaps because it’s something of a cultural melting pot as a consequence of successive shifts of frontier over the centuries. In Antiquity this patch of Italy was disputed between Umbrians and Etruscans; later, it marked the frontier between the city states of Florence and Forlì; and in the fascist era it acquired a significance that was not merely economic but also political and symbolical. Obviously when Mussolini decided to transfer no fewer than 12 towns from the jurisdiction of Florence to that of Forlì he was quite aware that the area in question was not a particularly rich one – in fact it was undergoing severe environmental and demographic decline (a situation which was only partially reversed afterwards, with the drainage work and improvements in infrastructure promoted by Mussolini’s brother, Arnaldo), but this failed to diminish the emblematic value of the area. For, while one of the motives for extending the jurisdiction of Forlì was undoubtedly to redraft the administrative map to give the major urban centres more room to breathe, the real reason for the annexation was symbolic. Here, on the slopes of Monte Fumaiolo, at a height of over 1200 metres, there rise a number of


S

iamo nella cosiddetta Romagna–Toscana, sull’Appennino forlivese, una zona a cui tutt’oggi manca un’identità regionale definita, o all’interno della quale forse convivono e si fon-

dono identità diverse a causa degli spostamenti di confine che si sono susseguiti nei secoli. Questa terra, che in antichità fu territorio conteso fra gli Umbri e gli Etruschi e in seguito suolo di confine tra i fiorentini e i forlivesi, acquistò poi, in epoca fascista, un valore non solo economico, bensì politico e particolarmente rappresentativo. Certo quando Mussolini decise di passare ben 12 comuni dalla giurisdizione di Firenze a quella di Forlì era ben consapevole del fatto che la zona in questione non fosse particolarmente ricca, si trattava, anzi, di un’area in grave declino ambientale e demografico (tale degrado fu solo parzialmente rallentato in seguito, grazie ad interventi di bonifica e di ristrutturazione, sostenuti anche da Arnaldo Mussolini, fratello del più noto Benito), ma ciò non inficiò il grande valore emblematico che rappresentavano allora queste terre. Se una delle motivazioni che spinse all’ampliamento dell’area forlivese fu la riconsiderazione delle circoscrizioni comunali, affinché gli insediamenti urbani più importanti fossero affiancati da nuove realtà emergenti, la leva principale alla base di quest’annessione fu certamente il fattore simbolico. Alle pendici del monte Fumaiolo, alto più di 1200 metri, sgorgano infatti numerose sorgenti e proprio da due di queste, distanti solo pochi metri l’una dall’altra, chiamate le Vene, nasce il Tevere: terzo fiume italiano per lunghezza (oltre 400 km) ma certamente primo per la sua importanza storica da sempre intrecciata a quella di Roma. Lo spostamento dei confini, sancito da un decreto regio del 4 marzo 1923, a vantaggio della giurisdizione forlivese e con l’annessione ad essa del crinale spartiacque del Monte Falterona e delle fonti del Tevere, mirava dunque a rafforzare il legame fra Roma e la Romagna. Mussolini, nato a Predappio, nella provincia di Forlì, voleva far beneficiare i propri concittadini di tali illustri corrispondenze e legare la sua missione alla capitale dell’antico (e del nuovo) impero. L’ideologia imperiale sulla quale si fonda il fascismo trova nuova forza, soprattutto negli anni Trenta, attraverso la riscoperta di tali origini, che vogliono essere confermate anche del punto di vista geografico e territoriale. Più in generale, si può affermare che durante questi anni tutta la Romagna subì vari interventi ed assestamenti di carattere amministrativo a favore di una gerarchia urbana e di una forte caratterizzazione delle città: Rimini diventa così città a vocazione turistica per eccellenza, Forlì città amministrativa e Ravenna città della memoria. Interventi, dunque, che, come è facile percepire ancora oggi, sono rimasti impressi nell’aspetto e nell’identità di questi luoghi. foto d’archivio

Scrivere

la

storia

è

un

modo

di

sbarazzarsi

del

passato. Goethe

springs. From two of these, just a few metres apart and jointly named the Vene, rises the mighty Tiber: Italy’s third river in terms of length (just over 400 km) but easily the most important in terms of its historical importance and its associations with the eternal city, Rome. The administrative rehash was formalized by a royal decree of 4 March 1923. By annexing the watershed of Monte Falterona and the sources of the Tiber to Forlì, it was designed therefore to strengthen the ties between Rome and Romagna. The intention was clear: Mussolini, who had been born in Predappio in the province of Forlì, wished to elevate the status of his home territory by grafting an illustrious heritage onto it – and to link his own mission with the capital of the ancient (and modern) empire. The imperial ideology on which Italian fascism was founded gained new impetus in the 1930s with the “rediscovery” of these origins, and the annexation formalized and consolidated them. In a wider perspective, it’s fair to say that during the same period the whole of Romagna underwent a series of administrative rearrangements and upheavals designed to foster a new, clearer-cut hierarchy and to cultivate the identities of its cities: thus Rimini became the tourist town, Forlì the administrative centre and Ravenna the city of monuments. And as we can easily appreciate today, these changes have made a lasting impression on the aspect and identity of the cities involved.

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G i u l i a n o B et t o l i

Il crudele rito della fagiolata la s comu n ica de lla cu ltu ra con tad ina

EXCOMMUNICATION, PEASANT-STYLE_ THE CRUEL RITE OF THE FAGIOLATA

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Still commonly-practised in the Romagnol countryside until about fifty years ago, the fagiolata (or fasulêda, in dialect) could occur at any time – but always by surprise. The perpetrators would act in the dead of night, stealing up to the house of their victim and scattering beans and other vegetables on the ground in front of her door – for the victim was always a female, an unmarried girl of tarnished reputation. The better to explain the workings of this strange custom, we’ll take a hypothetical victim – Maria, we’ll call her. At dawn, the first person to notice all these beans strewn in front of Maria’s door would raise the alarm; the women of the house, their heads in their hands in desperation, understood immediately who the target of this cruel gesture of humiliation was. And they would be only too aware that the news that “they did a fagiolata on Maria” would already have spread like lightning all over the area, and that from now on Maria was tainted – an untouchable. And Maria, “the one they did the fagiolata to”, would be too ashamed even to leave the house. So who organized and carried out this cruelty? It could be the revenge of a rejected suitor, or of a fiancé whose engagement Maria had broken to take up with another – but then again it could just as likely have been a publicly sanctioned act of reprobation against Maria, who may have attended all the dances in the district during Carnival in a fruitless search to find herself a fiancé. For in 19th-century Romagna it was precisely at the end of Carnival, on the night

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I Sensi di Romagna


improvvisamente, a tradimento: la fagiolata (la fasulêda, in dialetto)!

A

notte fonda, di soppiatto, un gruppo di bravacci spargeva una gran quantità di fagioli, con l’eventuale aggiunta di altri vegetali, davanti alla casa dove abitava la vittima, ossia una ragazza nubile di reputazione non immacolata.

Per meglio descrivere la meccanica di questa usanza ci serviremo di un personaggio di fantasia che chiameremo Maria. All’alba, il primo ad accorgersi della distesa di fagioli davanti alla porta dell’abitazione di Maria dava l’allarme e le donne di casa,

disperate, le mani nei capelli, capivano subito chi era la destinataria di quel segno di scherno ed oltraggio. Sapevano fin troppo bene che la notizia che “alla Maria era stata fatta la fagiolata” si era già sparsa in un baleno per tutta la zona e che, da quel momento, ella diventava una segnata a dito: una sorta di appestata. La Maria - “alla quale avevano fatto la fagiolata” - si sarebbe, d’ora in poi, vergognata persino ad uscire di casa. Chi organizzava ed eseguiva una simile crudele pratica? Poteva essere la vendetta di un innamorato respinto o del fidanzato che Maria aveva lasciato per mettersi con un altro giovanotto. Poteva anche trattarsi di una pubblica riprovazione contro Maria che, magari, durante il periodo di carnevale, aveva frequentato tutti i balli dei dintorni per trovare un fidanzato senza successo. Nell’Ottocento, difatti, in Romagna la fagiolata si faceva spesso a fine carnevale, la notte della prima domenica di quaresima. Ed ecco che, colmo dell’umiliazione, la povera Maria, dopo tanta vana fatica, doveva pure sopportare l’onta della fagiolata. Va ricordato che il ballo, allora, veniva considerato un’occasione prossima di peccato, anche se le ragazze, durante le serate danzanti, erano controllate a vista dalle madri; un terribile proverbio romagnolo recitava addirittura che: come tre nebbie ravvicinate avrebbero portato la pioggia e tre temporali contigui avrebbero causato una fiumana, una ragazza che avesse frequentato tre balli consecutivamente sarebbe indubbiamente stata una poco di buono. La fagiolata era, dunque, non solo un’oltraggiosa canzonatura, bensì una vera bolla di scomunica, l’anatema che una piccola società contadina lanciava contro la nostra povera Maria. Ogni tipo di vegetale che veniva sparso aveva dei significati precisi, spesso alludendo ad una metaforica similitudine tra l’animale da cortile che se ne cibava e la sventurata ragazza. Se poi nei rami degli alberi, lungo la carraia, venivano conficcate delle cipolle o degli scalogni (vedi ee n° 4), l’allusione alla condizione non più intatta della fanciulla sarebbe stata chiara a tutti. L’ultima fagiolata di cui ho ricordo venne perpetrata quarant’anni fa. Da allora, molte cose sono mutate e parecchi piangono la perdita di certe antiche tradizioni romagnole. Ma la scomparsa della fagiolata, questo crudele e becero rito, usato per umiliare una donna,

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of the first Sunday in Lent, that the fagiolata was frequently practised. Thus, after so much searching in vain, our poor Maria had also to undergo the shame of the fagiolata to make her humiliation complete. It’s worth remembering that dances, in those days, were viewed as almost sinful events, even if the girls who attended them would be closely watched all evening by their mothers. As a baleful Romagnol proverb put it: three straight days of mist bring rain, three straight days of storms bring floods, and a girl who attends three dances in a row was sure as fate a good-for-nothing. The fagiolata was much more than an outrageously cruel prank, therefore: it was nothing short of a bull of excommunication, an anathema cast by a small rural society on our poor Maria. Although beans were the staple, each type of vegetable used in the fagiolata had precise connotations, often in allusion to supposed similarities between the unfortunate girl and farmyard animal whose fodder the vegetable was. So, for instance, if the perpetrators nailed onions or shallots (see issue no. 4 of ee) to the trunks of the trees lining the lanes around their victim’s house, the allusion to her loss of her virginity would be clear to all. The last fagiolata I can remember took place forty years ago. Much has changed since then, and many people lament the loss of the ancient customs of Romagna. But the cruel and boorish fagiolata, and the humiliation it inflicted on its victims, is one tradition nobody wants to revive.

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non può essere certo rimpianta.

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Il matrimonio è l'unica forma di schiavitù che la legislazione ancora conosca. John Stuart Mill

Nelle campagne della Romagna, fino a cinquant’anni fa, ogni tanto poteva capitare,

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I ta l o e Va n n a G ra z i a ni

Fuochi magici - Lòm a mèrz

Antico proverbio contadino

Chi gh’a un bel socu s’la tegna p’r Marsu. Chi ha un bel ceppo se lo conservi per Marzo.

vi aggi o a ri trova re s a pori a rca ici e l uc i purpuree a l tra mon to

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In principio fu… il calendario. O meglio il ritmo delle stagioni che esso scandisce.

È

da qui che traggono origine innumerevoli celebrazioni e usanze, diverse da luogo a luogo, ma che sempre affondano le radici nella cultura popolare contadina. Queste terre di Romagna non fanno eccezione e i “fuochi magici” ne sono un bellissimo esempio: qui,

infatti, fino a qualche decennio fa, si usava accendere fuochi la sera, gli ultimi tre giorni di febbraio e i primi tre di marzo, nei prati o

nei cortili vicino alle case. Fare “lume a marzo”, “lòm a mèrz” appunto, era una scadenza precisa e ogni anno, anche in assenza di una rigorosa organizzazione, immancabilmente all’imbrunire apparivano sparsi bagliori, a testimoniare la continuità della tradizione. Intorno al falò si trascorreva la serata, ballando e saltando sulle fiamme: in altri termini si faceva “la focarina”. Cercando di individuare un punto di partenza nel passato, si può risalire fino alla Roma pagana, dove l’anno iniziava il primo marzo, e sembra verosimile che questi riti siano nati in tale periodo storico, per poi essere inglobati nella memoria comune. Ormai è difficile discriminare il primo intento plausibilmente propiziatorio da altri significati e motivazioni aggiuntive. Di certo si trattava di un’ottima occasione per uscire dal “recinto” privato della famiglia-azienda e consolidare il senso di appartenenza alla comunità, ma non si deve sottovalutare l’effetto “liberatorio” di un falò. Chiunque abbia mai guardato le fiamme salire nella notte con grande vigore, formando un cono luminoso e caldo, sa quale sensazione di gioia ed euforia riescano a trasmettere e quindi perché un fuoco possa avere una funzione catartica rispetto alla monotona sequenza di preoccupazioni e concreti impegni quotidiani. Infine c’è quella componente di semplice credenza popolare, che forse può far sorridere noi abitanti di un mondo tecnologico; eppure questi riti sono arrivati fino ad oggi proprio grazie all’ingenuità quasi infantile con cui i nostri avi li perpetuavano, seguendo gli insegnamenti non scritti della tradizione dialettale.

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THE MAGICAL FIRES OF LÒM A MÈRZ_ THE RETURN TO THE FLAME-STUDDED SUNSETS OF YESTERYEAR In the beginning was... the calendar. Or more accurately the rhythm of the seasons that the calendar keeps time to. There are countless celebrations and rituals that have their origins in the changing seasons. They may vary from place to place, but they’re always rooted in popular rural culture. Romagna is no exception, and its own “magical fires” were a wonderful example. Until just a few decades ago, the custom was to light bonfires in fields and farmyards, in the evenings of the last three days of February and the first three of March. Lòm a mèrz – “light in March” – therefore fell on the same date every year. Nobody organized it - and yet every year, unfailingly, as dusk fell glimmers of light would appear here and there in the countryside, attesting to the continuity of the tradition. Around the bonfires people would congregate, dancing and leaping over the flames: a challenge known as the focarina. One plausible explanation of the origins of this ritual is that it first appeared in the days of pagan Rome, when the year started on the first day of March. It would have subsequently become part of the collective consciousness. But today it’s difficult to separate the propitiatory elements of the ritual from its later accretions. It was certainly an opportunity for rural inhabitants to leave their immediate confines of house and farm and consolidate their sense of belonging to the wider community, but we should not underestimate the “liberatory” powers of the bonfire itself. Anyone who has ever seen the flames leaping into the darkness from a great cone of light and heat knows the sense of joy and euphoria the bonfire can communicate, and will appreciate therefore how fire can have a cathartic function after the monotonous drag of winter and its toils. The element of folk wisdom in this ritual may bring a smile to our faces nowadays, accustomed as we are to life in a world of technology; and yet its survival down to the present day is due precisely to the almost childlike ingenuousness with which our grandparents perpetuated it, following the unwritten precepts of rural tradition.

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Saltèma, balèma: incó a gh’ sèma e dman a ne gh’ sèma. Saltiamo, balliamo: oggi ci siamo e domani non ci siamo. Antico proverbio contadino


E proprio quando l’affievolirsi della trasmissione orale per poco non aveva fatto scomparire la memoria di questi fuochi, si è deciso di riaccendere i lòm a mèrz, di portarli nuovamente nelle aie di campagna, di invitare le persone a ritessere quella tela culturale che è un patrimonio indispensabile alla vita sociale di comunità. Come alcuni semi di piante spontanee riescono a germinare a moltissimi anni di distanza, così è possibile “riseminare” vecchie usanze e vederle fiorire ancora una volta, in maniera completamente inaspettata. In effetti, in poco tempo questa ricorrenza è diventata un appuntamento da vivere nelle case contadine, nelle osterie di campagna, nelle residenze nobiliari che sono disseminate sulle nostre colline e nella Bassa Romagna. Il tutto viene accompagnato dai vini locali, dai prodotti tipici e dalle pietanze preparate al modo della cucina tradizionale dalle “arzdore”, le massaie romagnole che ancora abitano e lavorano nelle aziende. Si è scelto di allietare le serate con musica e dialetto recitato, sotto forma di poesie (come quelle composte da Baldini e Stecchetti), racconti, oppure favole per grandi e piccini. Per conservare la memoria di abilità manuali quasi perdute e di antichi strumenti di lavoro, è nata l’idea di chiamare artigiani a mostrare le loro opere ed illustrare come si fabbricano: cesti di vimini, tele stampate, mosaici, teglie di terracotta, sedie impagliate, fischietti di creta, lavorazioni in ferro battuto e altro ancora. Partecipare a queste “feste” è un po’ come riscoprire la vita di ogni giorno, come si svolgeva in Romagna una volta. È stata trovata una parola, proveniente dal passato, che riesce a riassumere il senso di questa esperienza: θαυµαζω (thaumazo), che significa “provo meraviglia”; infatti, proprio la capacità di stupirsi di fronte al quotidiano costituisce l’inizio della conoscenza. Così il desiderio di ricercare le radici della nostra cultura e frammenti di vita dal mondo degli avi è in grado di unire persone sconosciute in sorprendenti percorsi di riscoperta del territorio; citando una delle espressioni più belle di un saggio del nostro tempo, Tonino Guerra, possiamo definirli “i lunghi viaggi vicino a casa”.

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For it was just as the demise of oral tradition threatened to extinguish the ritual of lòm a mèrz that a conscious decision was made to revive the ritual and bring it back to the countryside and its threshing floors – a call to renew the cultural fabric which is so vital a part of our heritage and community life. Just as seeds can sometimes germinate years after being released to the wind, so we can “reseed” old customs and watch them flourish once more, quite spontaneously. And that’s exactly what has happened. In just a few years lòm a mèrz has come back to life in the farms, country inns and mansions of the hills and lowlands of Romagna. Nowadays the ritual is served accompanied by local wines and dishes prepared according to the traditional methods of the arzdore, the housewives who still live and work in the farmhouses of Romagna. Music and dialect feature prominently too, with recitals of poetry by writers such as Baldini and Stecchetti, storytelling and tall tales for young and old alike. And to revive the memory of the work implements and manual skills which had all but disappeared, craftsmen and women are invited to show off their creations and demonstrate how they’re made: wicker baskets, printed fabrics, mosaics, terracotta tiles, upholstery, clay pipes, wrought iron and much more. To take part in the festival of lòm a mèrz is a little like rediscovering life in Romagna as it used to be. An old Greek word, θαυµαζω (thaumaso) nicely encapsulates the experience: it means “to experience wonder” – for the ability to marvel at everyday things is the beginning of knowledge. It’s in this way that the desire to retrace the roots of our culture, to piece together the scattered fragments of the lives our forefathers lived, is capable of uniting strangers in their common rediscovery of their milieu: what we might define, to borrow a phrase from contemp

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Carlo Zauli

Il terroir di San Valentino

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de diz ion e a lla voca z io ne

Quattordici ettari di vigneti che si estendono sulle prime colline di Rimini, esposti a sud, sud-ovest, guardando il Monte Titano, accarezzati dalla brezza del vicino Adriatico.

U

na congiunzione di fattori favorevoli: un terreno a predominanza argilloso-calcarea potenzialmente non inferiore ad alcune delle migliori denominazioni del Bordeaux, l’effetto termoregolatore del mare ed i venti, particolarmente presenti in questa località (la

quale proprio a causa di ciò era in passato chiamata San Martino in Venti), che aiutano ad evitare lo sviluppo della muffa in annate difficili o particolarmente piovose. Eppure questa regione vitivinicola non aveva una reputazione importante prima che Roberto Mascarin cominciasse ad occuparsi della proprietà, rilevata nel 1990 dal padre Giovanni, prefiggendosi di conferirle i requisiti dell’eccellenza. Decidendo innanzi tutto di alzare la densità di impianto da 2000 a 7000 piante per ettaro e riducendo di pari passo i rendimenti da 80 a 35 ettolitri per ha. Grazie anche alla fruttuosa collaborazione, iniziata nel 2000, con il blasonato enologo Fabrizio Moltard, i generosi risultati non si sono fatti attendere: dal 2001 molte etichette della ricca produzione di San Valentino (che comprende Sangiovese, Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah, Cabernet Franc, Montepulciano, Trebbiano, Chardonnay e Riesling) hanno guadagnano una visibilità internazionale. Vini di carattere, dunque, ottenuti da viti allevate a cordone speronato ed invecchiati nella moderna cantina costruita sotto la collina

per assicurarsi una temperatura costante senza ricorrere all’uso dell’aria condizionata e dotata di una barricaia, posizionata ad un ulteriore sottolivello, fornita di barriques provenienti dalle migliori tonnellerie. Per comprendere i risultati qualitativi di San Valentino basta, in ogni caso, osservare i grappoli magnificamente ripartiti su ogni pianta, e pensare che i vini d’alta gamma dell’azienda sono ottenuti esclusivamente da vitigni con un massimo di sei grappoli per piede fino ad arrivare a tre per pianta. Una filosofia che lascia ben comprendere perché il sangiovese Terra di Covignano sia stato premiato nel 2006 per la terza volta consecutiva con i prestigiosi Tre Bicchieri della celebre guida Gambero Rosso.

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SCABI_ Sangiovese di Romagna DOC Superiore - Annata/Vintage 2005 - Uve/Grapes: 85% Sangiovese, 10% Merlot, 5% Montepulciano Pigiatura e diraspatura, fermentazione alcolica in acciaio sulle bucce per 8 giorni a temperatura controllata. Svinatura e fermentazione malolattica sempre in acciaio, affinamento in barriques di 2° passaggio per 4 mesi. Un rosso piacevolissimo al naso, dai profumi ampi e intensamente fruttati, con una persistenza invidiabile; elegante ma di facile beva. In bocca è ricco, polposo, mentre nel finale si rivela morbido e vellutato. Pressing and destalking are followed by alcoholic fermentation on the skins in inox vats for 8 days at controlled temperature. Racking off and malolactic fermentation continues in inox, with ageing in experienced barriques for 4 months. A red wine that’s pleasant on the nose, with a generous and intensely fruity aroma and very good length; elegant but easy to drink. In the mouth it’s rich and juicy, with a soft, velvety finish. LUNA NUOVA_ Rosso IGT Rubicone - Annata/Vintage 2003 - Uve/Grapes: 60 % Cabernet–Sauvignon, 40 % Merlot Pigiatura e diraspatura, fermentazione alcolica in acciaio sulle bucce per 8 giorni a temperatura controllata. Svinatura e fermentazione malolattica in barriques, affinamento in barriques nuove per 14 mesi ed in bottiglia per 18 mesi. Rosso rubino di bella profondità, con note del frutto a bacca nera maturo e carnoso ed aromi speziati. Al palato si rivela ancora più notevole: è elegante, nonostante una struttura complessa e potente. Lungo e sostenuto al palato, felpata la trama, buona la focalizzazione e precisione dei sapori. Nel finale lascia piacevoli sensazioni di confettura. Pressing and destalking are followed by alcoholic fermentation on the skins in inox vats for 8 days at controlled temperature. Racking and malolactic fermentation in barriques, followed by ageing in new barriques for 14 months and bottle-ageing for a further 18 months. A ruby red with great depth, notes of ripe and chewy black berries and spices. A wine that’s even more remarkable on the palate: it’s elegant, despite its layered, potent structure. Long and persistent, with a plush texture, good focus and clean flavours. The finish is pleasant with a tang of fruit preserve.

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TERRA DI COVIGNANO_ Sangiovese di Romagna DOC Superiore Riserva - Annata/Vintage 2003 - Uve/Grapes: 100 % Sangiovese Pigiatura e diraspatura, fermentazione alcolica in acciaio sulle bucce per 8 giorni a temperatura controllata. Svinatura e fermentazione malolattica sempre in acciaio, affinamento in barriques nuove per 14 mesi ed in bottiglia per 1 anno. Rubino pieno e nerastro dall’armonia incomparabile ed elegante nei suoi profumi di frutta matura, spezie e leggera tostatura. Superiore la penetrazione ed il vigore aromatico, ampia, vellutata e di bella consistenza la bocca, solida l’architettura, equilibrati i sapori, molto sensuale e vellutata la trama. Al palato è un vino austero, che si concede poco a poco e propone un gran finale. Pressing and destalking are followed by alcoholic fermentation on the skins in inox vats for 8 days at controlled temperature. Racking and malolactic fermentation in inox, followed by ageing in new barriques for 14 months and bottle-ageing for a further 1 year. A full and dark ruby red with great harmony and elegant aromas of ripe fruit and spices; slightly toasted. Superior depth and aromatic vigour, generous, velvety and with good presence in the mouth, robust structure, balanced flavours, and a sensual, velvety texture. On the palate it’s an austere wine that gives up its qualities little by little to offer a great finish. Il vino è la poesia della terra. Mario Soldati

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THE TERROIR OF SAN VALENTINO_ DEDICATION TO THE CRAFT San Valentino is fourteen hectares of vines covering the hills of the Rimini hinterland, facing south and south-west towards Monte Titano, caressed by the breeze of the nearby Adriatic. This is an estate with plenty factors in its favour: soil whose predominantly clay/limestone composition potentially places it on a level to match the finest estates of Bordeaux, and the temperate influence of the sea and winds – and wind is one of the characteristic features of this area, which was formerly called San Martino in Venti – which help prevent the formation of mould in rainy and less prosperous years. Yet San Valentino had no reputation as a wine growing area until Roberto Mascarin took over the estate from his father Giovanni back in 1990, and promptly set about bringing all the parameters up to scratch. Roberto Mascarin’s very first move was to up the vine density from 2000 to 7000 plants per hectare, at the same time reducing yields from 80 to 35 hectolitres per ha. With renowned oenologist Fabrizio Moltard joining the team in 2000, the results weren’t long in coming: by 2001 many labels in the exceptionally varied production of San Valentino (including Sangiovese, Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah, Cabernet Franc, Montepulciano, Trebbiano, Chardonnay and Riesling) were earning themselves international presence. Meaning they’re wines with character, made from cordon-trained vines and aged in a modern cellar complex that’s sunk into the hillside to ensure constant temperatures without having to resort to air conditioning, complete with a lower-level cellar equipped with barriques from the very best coopers. To understand the succes of San Valentino, however, it’s enough to look at the vines and the way the grapes hang in well-spaced bunches: the estate’s top-end wines are made from vines with a maximum of six bunches a foot, right down to just three per plant. No surprise then that a Sangiovese, Terra di Covignano, won the prestigious Gambero Rosso Tre Bicchieri award for the third year running in 2006.

E n oga s t r on omi a

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S e re n a To g n i

La civiltà del castagno

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il M a rron Bu on o di M a rra di

CHESTNUTS, OLD AND NEW_ THE MARRON BUONO OF MARRADI Although ours is increasingly an age of plastic food and rampant gastronomic banality, many people are beginning to rediscover the simpler, more sincere flavours of times gone by. One traditional staple whose consumption has increased significantly in recent years is the humble chestnut, which has been around for longer than anyone cares to remember. The principal reason for its resurgence in popularity is the fact that it’s totally natural – for the chestnut is an organic fruit ante litteram, not through human artifice but because its jacket protects it from harmful chemicals and keeps its taste and texture intact. There’s a big difference between the common chestnut and the marrone: the former is the fruit of the wild chestnut, while the latter comes from cultivated trees which are refined by successive grafting to produce a superior-quality nut which is bigger, with a strong scent and fine-grained, very sweet flesh. The border area between Romagna and Emilia and Tuscany is especially renowned for its exceptionally sweet marroni, such as those from Castel del Rio in the upper Santerno valley, Palazzuolo and Casola in the Senio valley, and Marradi in the upper Lamone valley. Here, the marrone is nothing short of an emblem of the local gastronomic and cultural tradition. For centuries it was the staple of the hill-dwelling communities whose lives moved to the rhythms of the cultivation of castanea sativa and the gathering of its fruit. The very poorest layers of the population actually made flour

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La nostra epoca, sopraffatta dal non gusto e dalla banalità gastronomica, va sempre più riscoprendo i sapori antichi, semplici, legati ai riti sinceri d’altri tempi.

T

ra i cibi della tradizione che negli ultimi decenni hanno registrato un rilevante aumento dei consumi il primato spetta alla castagna, nota da tempi immemorabili. Tale recupero si deve principalmente alla totale naturalità di

questo frutto, biologico per vocazione, non per volontà dell’uomo, perché il riccio lo protegge dagli agenti chimici inquinanti, mantenendo intatte le caratteristiche organolettiche. Esiste una sostanziale differenza tra castagna comune e marrone: la prima è il frutto del castagno selvaggio, il secondo di alberi coltivati e sempre migliorati con successivi innesti, da cui deriva un prodotto di qualità superiore, caratterizzato da dimensioni maggiori, un intenso profumo ed una polpa a grana fine dal gusto molto dolce. La zona in cui la Romagna incontra l’Emilia e la Toscana è particolarmente rinomata per la produzione di marroni dolcissimi, come quelli di Castel del Rio, nell’alta Valle del Santerno, quelli di Palazzuolo e Casola, nella Valle del Senio, e quelli di Marradi nell’alta Valle del Lamone. Qui il marrone, vero e proprio emblema della tradizione culturale e gastronomica locale, è stato per secoli la primaria risorsa alimentare dei montanari, la cui esistenza era scandita dalle attività legate alla castanea sativa ed alla rac-

colta dei suoi frutti. Sulle mense dei più indigenti la farina ottenuta dall’essiccazione dei marroni sostituiva addirittura quella di grano, tanto da far soprannominare la pianta che li produceva: “albero del pane”. Da questa “civiltà del castagno” deriva il protagonista della sagra autunnale di Marradi, il Marron Buono, l’ecotipo più pregiato dell’IGP “Marrone del Mugello”, che si distingue per la grandezza, il profumo e l’ineguagliabile sapore. La sua notevole versatilità dà vita a vere prelibatezze culinarie, insuperabili anche per i palati più golosi, preparate con i marroni freschi o con la farina da essi ottenuta: ricette dolci, come la torta di marroni, il castagnaccio, i marrons glacès, i necci, le marmellate, le crostate, i biscotti; piatti salati, come minestre, zuppe, gnocchi, tortelli, polenta, sformati, frittelle; e bevande, come il liquore Maroncello, o, ultima novità, la birra. Ma il gusto della tradizione si assapora meglio con i metodi di cottura più semplici: la lessatura in acqua, da cui derivano le ballotte, o, non plus ultra, la cottura sotto cenere da cui si ottengono le irresistibili caldarroste. Appena le si assaggia il piacere di queste genuine leccornie conquista il gusto, ma durante la loro preparazione vengono coinvolti anche tutti gli altri sensi: la vista, nella poesia del fumo che esce dal paiolo; l’udito, quando borbottano sul fuoco come se chiacchierassero fra loro; l’olfatto, quando si viene pervasi dal loro profumo; ed il tatto, quando si stringe fra le mani lo strofinaccio che le contiene e la sensazione di calore passa dalle mani a tutto il corpo fino all’animo, rincuorato anche nei freddi più intensi.

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Non c’è uomo che non mangi e non beva; pochi, però, sono quelli che apprezzano il buon sapore. Chung Ung foto d’archivio

from dried marroni instead of wheat, which led to the tree which produced the marroni being nicknamed the “bread tree”. Star attraction of the autumn festival of Marradi is the Marron Buono, the most highly-prized variety of the controlled-denomination Mugello chestnut, which is distinguished for its size, perfume and unmatchable flavour. The marrone is an exceptionally versatile foodstuff which forms the basis – whole, or as flour – for some truly excellent culinary creations. Sweets include torta di marroni, castagnaccio, marrons glacés, necci, tarts, preserves and biscuits, while savoury dishes include soups, gnocchi, tortelli, polenta, soufflés, and pancakes. Then there are drinks such as Maroncello liqueur and – a recent innovation - beer. Yet the simplest and most traditional ways of preparing marroni probably remain the best: boiled in water (ballotte), or nec plus ultra, roasted under ashes – the irresistible caldarroste. Ballotte are delectable right from the first taste, but all five senses are involved in their preparation: sight – the steam rising from the pot as they cook; hearing – the way they rumble as they cook, as though chattering to each other; smell – when their scent begins to rise; and touch – when the cloth they’re held in absorbs the heat from the chestnuts and passes into the hands and the whole body and into the soul, bringing warmth on even the coldest days.

E noga s t r on omi a

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BEYOND SURFACE AU DELA DE LA SURFACE



La fantasia è sempre qualcosa di dorato...

Ma n l i o R a s t o n i

Hugo Pratt un apol i de nat o a Rimin i

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foto Š Magnum, Martin Franck

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per andare via anche dal mondo grigio, in cui si deve sempre discutere. Hugo Pratt

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Il nonno paterno aveva origini inglesi, quello materno era un ebreo marrano, la nonna aveva sangue turco, la madre era un’appassionata di scienze esoteriche ed il padre un militare di carriera.

I

gnoto ai più è, però, che a dare i natali al geniale figlio di una così cosmopolita famiglia fu la Romagna, giacché Hugo Pratt venne alla luce il 15 giugno del 1927, su di una spiaggia nei pressi

di Rimini. Vide dunque per primo mare l’Adriatico, l’uomo che viene principalmente ricordato per due ragioni: l’avere, con la sua opera, elevato le nuvole parlanti dei fumetti al rango delle altre arti nobili (non a caso per definire il suo lavoro coniò il termine “letteratura disegnata”) e l’aver dato vita, disegnandone per la prima volta gli occhi nel 1967, alla figura che meglio d’ogni altra è riuscita ad incarnare l’ideale romantico del gentiluomo di fortuna, eternamente diviso tra il mare, le donne, l’amicizia, la letteratura, la magia, l’avventura e gli addii: Corto Maltese. Uno degli elementi che maggiormente ha contribuito a circondare il marinaio scaturito dalla sua ispirazione di un’aura di leggenda è la sorprendente corrispondenza tra le sue caratteristiche e quelle del suo stesso creatore. Pratt ha infatti vissuto in prima persona l’esistenza dell’avventuriero, ha trascorso l’infanzia a Venezia

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ove, grazie alla nonna, è stato iniziato ai segreti delle più recondite zone della città vecchia. Ancora quattordicenne è stato arruolato dal padre nella polizia coloniale, in Africa, dove ha conosciuto il variopinto mondo militare che allora si mescolava in Abissinia. Il giovane Hugo diviene un appassionato di romanzi d’avventura e fumetti americani, scegliendo fin dalla giovinezza la strada dell’autore di romanzi a fumetti. Tornato a Venezia, alla morte del padre nel 1945, Hugo Pratt si lancia, infatti, insieme ad un gruppo di amici, nella realizzazione della rivista che prenderà il nome di Asso di Picche, iniziando ufficialmente la sua carriera di disegnatore. Sarà grazie al successo ottenuto da questa pubblicazione che verrà contattato e invitato da un'importante casa editrice argentina: Hugo Pratt si trasferisce così a Buenos Aires nel 1949. Durante i tredici anni che vi trascorrerà conosce personaggi notevoli di ogni nazionalità e condizione sociale, frequenta i locali dove si balla il tango, diventa amico del jazzista Dizzy Gillespie, impara lo spagnolo e scopre gli scrittori latino-americani. In campo sentimentale, sono tre le donne che segnano questo periodo della sua vita: la prima, Gucky Wogerer, iugoslava, Marina Gisela Dester, di origine tedesca, che diventa sua assistente e quindi sua compagna, ed infine Anna Frogner, di origine belga, che da ragazzina gli aveva ispirato il personaggio di "Anna nella

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Jungla". Hugo insegnerà presso la Esquela Panamericana de Arte, diretta da Enrique Lipszyc e frequenterà la Royal Academy of Watercolour. Si delinea in questa fase il grafismo di Pratt, una sorta di sintesi tra il tratto nitido alla Hergé, che però all'epoca Pratt non conosceva ancora, e la tecnica dei contrasti tra gli spazi neri e bianchi, ereditata dal suo ispiratore Milton Caniff. L’acquarello gli era massimamente congeniale poiché, in quanto “nemico di ogni tecnica di ripensa-

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Arte

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foto © CONG S.A

(...) Mi avete offeso e perciò me ne vado. Non posso

HUGO PRATT_ RIMINI’S STATELESS SON His paternal grandfather was of English descent, his maternal grandfather was a Marrano Jew, his grandmother had Turkish blood, his mother was an aficionado of the kabbala and his father a professional soldier. What most people don’t know, however, is that this son of so cosmopolitan a family came into the world in Romagna: on a beach near Rimini on 15 June 1927. Which means the first sea his eyes would ever have rested on was the Adriatic – and this was the man who is principally remembered for two reasons: raising the comic strip medium to the level of art (not for nothing did he coin the term “literature in drawings” to define his work), and creating, in 1967, the character which more than any other embodies the Romantic ideal of the gentleman adventurer whose life was an endlessly rich pageant of sea, women, friendship, literature, magic, adventure and goodbyes: Corto Maltese. One of the elements which has most contributed to the aura of legend which surrounds Corto Maltese is the surprising resemblance between the qualities of the creation and his creator. For Pratt too led an adventurous life. He spent his childhood in Venice, where his grandmother uncovered for him the secrets of the most recondite corners of the old city. When aged just 14 he was enlisted in the colonial police by his father, and in Ethiopia moved in military circles where he gained an acquaintance with some colourful characters. The young Hugo became a voracious reader of adventure stories and American comic strips, and had by this time already set his sights on becoming a cartoonist. On his return to Venice after his father’s death in 1945, Pratt joined with a group of friends to produce a magazine, Asso di Picche (“Ace of Spades”) – and his career was underway. The magazine was a success, and Pratt was contacted by an Argentinian publishing house, which invited him to come and work in Argentina. He moved to Buenos Aires in 1949. During his 13-year sojourn in the Argentine capital Pratt moved in a cosmopolitan crowd. He frequented tango bars, became friends with Dizzy Gillespie, learned Spanish and discovered Latin American literature. This phase of his life was marked by three women: the first, Gucky Wogerer, was a Yugoslav, the second, Marina Gisela Dester, was of German origin and was his secretary before becoming his companion, and the third, Anna Frogner, was of Belgian descent and as a young girl had been the inspiration for the eponymous character of Ann of the Jungle. Pratt taught in the Escuela Panamericana de Arte under director Enrique Lipszyc and attended the Royal Academy of Watercolour. It was during this phase of his life that Pratt’s graphic style came to maturity – a kind of synthesis of the clean lines of Hergé – whose work Pratt didn’t actually know at the time – and the black-and-white contrast technique which he had learned from his greatest inspiration, Milton Caniff. Another medium which Pratt found especially congenial was watercolour, which as a medium “inimical to any kind of redoing, an art form speedily executed at the service of contemplation”, was ideally suited to the instant preservation of an image. Pratt was known to always carry pens, crayons and felt pens with him wherever he went, but since he couldn’t always find paper or a sketchpad he often had to use whatever came to hand: wrapping paper, napkins, envelopes etc. He always kept pen and paper on his bedside table so that he could sketch any ideas that came to him in his dreams before he forgot them. Hugo Pratt returned to Italy in 1962, where for five years he worked with the children’s comic book Il Corriere dei Piccoli. He then joined forces with Genoan illustrator Florenzo Ivaldi to launch a magazine, Sgt. Kirk, which contained the first nine instalments of Ballad of the Salt Sea, the story of a raft adrift in the Pacific in which Pratt’s most celebrated character, Corto Maltese, makes his debut. Pratt next found work with the prestigious French weekly Pif, and during the train journey from Genoa to Paris resolved to make Maltese the star of further adventures – a decisive career choice which was to establish him in just a few years as one of the world’s three or four leading comic strip creators. From France the success of Corto Maltese irradiated Europe, and Hugo Pratt became almost as legendary as the character he had created – Alberto Ongaro made him the hero of one of his novels, and many fellow cartoonists included him in their own comic strips. One in particular, Manara, contributed to the mythification of Hugo Pratt. Pratt also wrote stories without drawings, such as Jesuit Joe, Il romanzo di Kriss Kenton and Vento di terre lontane, and illustrated all sorts of materials, including the covers of records by singers such as Paolo Conte. His cartoons, drawings and watercolours have been exhibited in the Grand Palais, Paris, as well as Buenos Aires, Belgium, Rome (where an exhibition in the city Vittoriano musuem dedicated to Corto Maltese recently closed) and Switzerland, where he spent the last years of his life. He died on 20 August 1995 in his home in Gandvaux, near Lausanne. Pratt’s last story dated from early 1995. Morgan is an adventure-packed love story set in the Adriatic at the end of the Second World War. It evokes, therefore, the maestro of Malamocco (one of Pratt’s favourite nicknames) himself: whose own life, as his friend Vincenzo Mollica would later note, was easily the greatest work of art he ever created. It’s nice to imagine that among all the elements which went into the formation of his ineffable style is a whiff of the air of the land of his birth - Romagna.

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abbassarmi al vostro livello e spiegarvi cosa significa essere un gentiluomo di fortuna. Corto Maltese

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mento, è un’arte della velocità al servizio della contemplazione” era il mezzo ideale per assecondare il suo desiderio di conservare il ricordo di una visione. Pratt era infatti noto per portare sempre con sé penne, matite e pennarelli, spesso, tuttavia, non disponendo di fogli o taccuini da viaggio gli capitava di scrivere su quello che aveva a portata di mano: carta da pacchi, tovaglioli, buste… Sul suo comodino lasciava sempre carta e penna per essere pronto a fissare ogni immagine che gli fosse apparsa durante un sogno prima di dimenticarla. Nel 1962 decide di rientrare in Italia. Collabora inizialmente con Il Corriere dei Piccoli fino a che, cinque anni dopo, insieme al genovese Florenzo Ivaldi, non lancia la rivista intitolata Sgt. Kirk, che conterrà le prime nove tavole di “Una ballata del mare salato": storia in cui, legato ad una zattera alla deriva nel Pacifico, fa il suo ingresso nell’immaginario comune Corto Maltese. Quando il noto settimanale francese Pif vorrà Pratt come collaboratore, egli, sul treno che da Genova lo porta a Parigi, deciderà di farne il protagonista di nuove avventure, una scelta decisiva per la sua carriera, che in pochi anni lo renderà agli occhi degli specialisti del settore uno dei tre o quattro autori più importanti del mondo. Il successo di Corto Maltese dalla Francia, si ripercuoterà su tutta l’Europa e Hugo Pratt diverrà a sua

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volta un personaggio leggendario. Alberto Ongaro lo rende l'eroe di uno dei suoi romanzi e molti disegnatori lo inseriscono nelle loro strisce, Manara, in particolare, contribuisce alla sua mitizzazione. Pratt ha narrato storie anche senza disegnarle nei suoi romanzi: "Jesuit Joe", "Il romanzo di Kriss Kenton" e "Vento di terre lontane", ed ha illustrato ogni sorta di materiale, tra cui le copertine dei dischi di cantanti come Paolo Conte. Le sue tavole, i disegni e gli acquarelli sono stati esposti al Grand Palais di Parigi, a Buenos Aires, in Belgio, a Roma (è da poco terminata una mostra dedicata proprio a Corto Maltese al Vittoriano) ed in Svizzera, ove ha vissuto gli ultimi anni, spegnendosi il 20 agosto 1995 nella sua casa di Gandvaux, vicino a Losanna. All'inizio del 1995 Pratt disegnò “Morgan", la sua ultima storia: appassionante racconto d'amore ambientato in Adriatico alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ricordando dunque il maestro di Malamocco (uno dei soprannomi più cari a Pratt), la cui vita, come ebbe a dire l’amico Vincenzo Mollica, fu sicuramente la migliore opera d’arte che egli riuscì a creare, ci piace pensare che tra tutte le componenti che contribuirono a determinare l’indefinibile cifra stilistica del suo tratto vi sia pure un alito alla terra che lo ha visto nascere.

Arte

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Ta t i a n a To m a s e t t a

Romagna dei teatri te rra di a n tich i pa lch i ROMAGNA, LAND OF THEATRES... AND OF ANCIENT STAGES Speak of theatres and we tend to base what we say on our own experience. Some think of high drama and settings to match; others think of the more improbable places chosen by experimental companies. Romagna’s theatres, however, invariably exude the odour of stucco and gilt of theatres as they were a hundred years ago: that stucco work that adorns horseshoe-shaped arenas with their delightful frescoes, lit by the glass of antique chandeliers, and tiny, whimsicallydesigned boxes. Not only does every town in the region have its “old” theatre, but almost every village, coastal or interior, can lay claim to a small stage too. Not for nothing is Romagna the place chosen by many artists of international renown for their debut. Any town in Romagna which lacks a theatre dating back to the turn of the 19th and 20th centuries – like Forlì, whose theatre is a modern edifice – has a reputation as a “town with no theatre”. A survey by Bologna’s Institute of Cultural Assets listed a total of 88 historical theatres in Emilia Romagna – “historical” meaning any theatre built before 1925. Each and every one of them is a gem. They span various styles, from art nouveau through art deco to Renaissance revival and rehabilitated industrial premises. We know for example that in 1648 the Goldoni theatre in Bagnacavallo was a granary complex. The elevated floor was later converted into a small, box-lined theatre built entirely of wood, and two centuries later (in 1848) it became the town theatre. Among the oldest theatres are Bonci in Cesena and the Alighieri in Ravenna, which are mentioned as stages as early as the 16th century. The Bonci now survives in its 1838 incarnation, when it was totally restored with Venetian stucco work, monochromes, gilt arabesques and reliefs by famous artists. Another jewel is Faenza’s Masini theatre, one of the finest examples of neoclassical architecture anywhere in Italy. The Masini was designed by the architect Pistocchi along the same lines as the Fenice in Venice, and was inaugurated in 1788. It still retains its magnificent statues with their cornucopiae, scrolls and laurel crowns, and an exceptional fully-frescoed vault. In Longiano, the Petrella theatre (1870) is famous as the place where many celebrated actors made their rehersals and stage debut – in fact they were offered free accommodation in return for a show. And yet not even the Bologna survey lists every theatre in Romagna. Missing, for example, is the Vittoria theatre of Pennabilli. This tiny theatre, whose director is Tonino Guerra, with its wooden floors and tempera-painted balustrades, three tiers of boxes overlooking a minuscule stage, is not the candy box with which the theatres of Romagna are so often compared – it’s more like the candy itself.

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Quando si parla di teatro ognuno si basa sulla propria esperienza, c’è chi pensa al palcoscenico importante “pieno” di prosa, altri prediligono i luoghi più improbabili, come quelli scelti dalle compagnie di ricerca.

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n Romagna, invece, abbiamo nel naso l’odore degli stucchi e dell’oro di un secolo fa, l’odore dei teatri antichi: quegli stucchi che ornano arene meravigliosamente parve nella loro tipica forma “a ferro di cavallo”, preziosamente affrescate, illuminate attraverso

il cristallo dei lampadari antichi, associabili all’irresistibile ambizione di scalare i piccoli palchi, vere e proprie bomboniere dalle forme “arzigogolate”. Non solo ogni città ha il suo “vecchio” teatro, ma quasi tutti i paesi e i paesini, di montagna o di mare, vantano il loro piccolo palcoscenico. Non a caso è la terra prescelta da molti artisti di fama internazionale per mettere in scena il proprio debutto. La città romagnola priva di un teatro risalente all’inizio del secolo, come Forlì che ha scelto un edificio nuovo, ha fama di “città senza teatro”. Un censimento dell’Istituto dei Beni Culturali di Bologna riconduce a 88 il numero degli edifici teatrali storici in Emilia Romagna, intendendo con il termine “storici” quelli costruiti prima del 1925. Sono tutti assolutamente da vedere, edifici Liberty, Decò, strutture rinascimentali ed ex “luoghi di lavoro” poi riconvertiti alle manifestazioni teatrali. Il Goldoni di Bagnacavallo, ad esempio, nel 1648 era un complesso di magazzini per la raccolta del frumento. Il piano rialzato fu poi adibito a teatrino tutto in legno a palchetti, e due secoli dopo (1848) vi nacque il teatro comunale. Fra i palcoscenici più antichi spiccano il Bonci di Cesena e l’Alighieri di Ravenna, di cui si ha notizia quali luoghi preposti alle rappresentazioni già nel 1500. Il Bonci, dal 1838 perpetua ai nostri giorni, grazie ad un complesso restauro conservativo: stucchi veneziani, monocromi, arabeschi dorati e bassorilievi di artisti famosi. Altra opera d’arte è il Masini di Faenza, uno degli esempi più rappresentativi dell'architettura neoclassica in Italia. Progettato dall’architetto Pistocchi, con la stessa soluzione architettonica usata per la Fenice, ed inaugurato nel 1788, conserva magnificamente le sue statue che reggono cornucopie, cartigli e corone d'alloro ed una magnifica volta completamente affrescata. Il Petrella di Longiano, classe 1870, è famoso invece per essere diventato il luogo dove molti celebri artisti svolgono l’attività delle prove. Il borgo li ospita, infatti, volentieri in cambio del debutto dello spettacolo. Ma neanche questo archivio riesce ad annoverare l’intero patrimonio romagnolo, manca ad esempio il Vittoria di Pennabilli. Questo “teatrino”, il cui presidente è Tonino Guerra, con i suoi solai in legno e le balaustre decorate da specchiature dipinte a tempera, con tre file di palchi su una microscopica platea, più che una bomboniera ricorda per le dimensioni un bon bon.

Viva il teatro, dove tutto è finto e niente è falso. Gigi Proietti

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Arte

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Territorio Petrella Guidi_ isola medioevale tra le nubi The medieval village of Petrella Guidi_ an island in a sea of mist Patria di poeta_ San Mauro Pascoli

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San Mauro Pascoli_ village of the poet

Storia Buffalo Bill è stato qui_ il ricordo del colonnello in Romagna Buffalo Bill_ the story of the colonel’s visit to Romagna La Caveja_ voce della vita rurale

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Passioni Il crudele rito della fagiolata_ la scomunica della cultura contadina Excommunication, peasant-style_ the cruel rite of the fagiolata

The caveja_ the music of rural toil Il Tevere nasce in Romagna_ l’annessione del Monte Fumaiolo The Tiber rises in Romagna_ the annexation of Monte Fumaiolo

Fuochi magici – Lòm a mèrz_ viaggio a ritrovare sapori arcaici e luci purpuree al tramonto The magical fires of Lòm a mèrz_ the return to the flame-studded sunsets of yesteryear

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Enogastronomia Il terroir di San Valentino_ dedizione alla vocazione The terroir of San Valentino_ dedication to the craft La civiltà del castagno_ il Marron Buono di Marradi Chestnuts, old and new_ the Marron Buono of Marradi

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Arte Hugo Pratt_ un apolide nato a Rimini Hugo Pratt_ Rimini’s stateless son Romagna dei teatri_ terra di antichi palchi Romagna, land of theatres... and of ancient stages

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I Sensi di Romagna Periodico edito da CERDOMUS Ceramiche S.p.A.

numero 15.

gennaio 2007 Periodico edito da CERDOMUS Ceramiche S.p.A. 48014 Castelbolognese (RA) ITALY via Emilia Ponente, 1000 www.cerdomus.com Direttore responsabile Luca Biancini Progetto Carlo Zauli Luca Biancini Grafica e impaginazione Jan Guerrini/Cambiamenti per Divisione immagine Cerdomus Coordinamento editoriale Alessandro Antonelli Redazione Valentina Baruzzi Giuliano Bettoli Stefano Borghesi Franco De Pisis Italo Graziani Vanna Graziani Paolo Martini Manlio Rastoni Tatiana Tomasetta Serena Togni Carlo Zauli Foto Archivio Cerdomus Archivio Stefano Borghesi Archivio Italo Graziani Archivio fotografico IBC Emilia-Romagna Archivio San Valentino Jan Guerrini Ettore Pezzi si ringraziano _ Comune di San Mauro Pascoli, nella persona dell’autore Renzo Pirini _ Biblioteca Malatestiana di Cesena _ Comune di Verghereto _ Pro Loco di Marradi _ per le immagini della mostra "Corto Maltese. Letteratura disegnata", l’Ufficio Stampa Novella Mirri si ringrazia per la preziosa collaborazione Maddalena Becca/Divisione immagine Cerdomus Traduzioni Traduco, Lugo Stampa FAENZA Industrie Grafiche ©CERDOMUS Ceramiche SpA tutti i diritti riservati Autorizzazione del Tribunale di Ravenna nr. 1173 del 19.12.2001

Copertina stampata su: Polyedra_ Flora Naturale "Caratteristiche Ecosostenibili"


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