È
la volta dell’inverno.
Inverno che cristallizza la natura, trasformando borghi e boschi in lucide scenografie
monumentali, che non stupisce parlino alla sensibilità dei pittori. Inverno che spesso limita gli orizzonti del quotidiano agli ambienti chiusi, e giacché i romagnoli sono imparentati alla lontana con i celti, invece di temere che il cielo gli cada sulla testa si limitano a sperare che il proprio tetto regga l’ingiuria degli elementi e della terra che si scrolla. Un tetto sotto il quale ci si scalda sfidando il freddo lasciato all’addiaccio, momento celebrato in altre epoche durante i trebbi, alimentati da chiacchiere, dicerie e leggende arrotate dal fragoroso timbro del dialetto ed incalzati naturalmente dal vino, meglio se nero e forte, con cui accompagnare cibi semplici e sostanziosi. Un inverno che forse non c’è più, illuminato com’era da luci fioche di lanterne, barlumi che suggeriscono un piacevole torpore suggellato dal salmodiare lontano del ricordo di una ninna nanna. Un inverno ancora custodito, in alcune delle sue forme, tra le pagine di ee. La Redazione di ee Winter has come round again. It’s the season that seems to shroud nature in crystal, transforming villages and woods into vast glittering landscapes that so captivate the imaginations of painters. Winter often limits our horizons to the more immediate confines of our homes. But, since the people of Romagna are distant relatives of the Celts, instead of waiting for the sky to cave in on us we prefer merely to hope that our houses hold out against the assaults of the elements and an alarmingly restless earth. This habit of keeping indoors and savouring the heat, leaving the cold outside where it belongs, perhaps has its roots in the old Romagnol tradition of the trebbo, a winter gathering in which rural communities would meet to exchange gossip, news and tall tales whose plausibility was no doubt enhanced by the twin stimuli of wine – preferably dark and strong, the better to wash down the simple and substantial fare it accompanied – and the equally robust timbre of the local dialect in which they were related. Perhaps that kind of winter – illuminated by the meagre glow of lanterns so conducive to a state of agreeable torpor, which the distant intonation of a traditional Romagnol lullaby must have made complete – no longer exists. But its memory, or part of it at least, is still kept safe here, in the pages of ee. The editorial staff of ee
E di t or i a l e
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acqua_ terra_ fuoco_ aria_
Va l e n t i n a S a n t a n d re a
Vivere sulla faglia
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quando l a R om agna t rem a
Capita a volte, per la verità con una certa frequenza, che i romagnoli sentano la terra tremare sotto i piedi; ma il mondo non sta cascando loro addosso: il tremore è piuttosto un padrone di casa che di tanto in tanto fa percepire la sua presenza discreta benché incombente, in ogni caso fisiologica.
L
a storia sismica delle maggiori città romagnole è lunga e le scosse sono tuttora frequenti, a volte allarmanti, ma raramente si registrano danni che vadano oltre crepe o lesioni ad intonaci. Negli ultimi cent’anni il “grande padrone di
casa” non ha mai scosso la nostra terra solatìa oltre il IX grado della scala Mercalli, risparmiando i romagnoli da tragedie provocate altrove. Abituandoli magari a rigirarsi qualche volta nel letto dopo l’ennesimo tremore dei muri di casa, ma per poi ricadere fiduciosi in braccio a Morfeo. Tra i faentini si mormora che già la Madonna delle Grazie vaticinasse per il comune manfredo un destino “sismico” ma non luttuoso: “Faenza tremerà ma non cadrà”, si narra avesse pronosticato. In realtà la faglia di sovrascorrimento, il cui letto preme dall’Adriatico verso l’interno, è piuttosto estesa e su di essa sono state nel tempo edificate borgate e paesini, finanche città e capoluoghi di provincia. In tutta la Romagna, da Castel Bolognese a Cattolica, non v’è località che, nei secoli, non abbia provato l’intenso brivido della scossa sotto i piedi, e
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percorrendo la storia a ritroso, è possibile rilevare anche fenomeni drammatici, vuoi per la maggiore vulnerabilità degli
I Sensi di Romagna
LIVING ON THE FAULT LINE_ WHEN ROMAGNA TREMBLES From time to time – fairly often, in fact – the earth trembles in Romagna. It’s never a sign of the end of the world, however: more like the ructions of a grumpy old landlord who every once in a while reminds us of his discreet yet incontrovertible presence. Every town in Romagna has a long history of seismic activity. The tremors still occur frequently today, and though sometimes alarming they rarely cause more damage than a few cracks in the plasterwork. In fact, in the last hundred years this sunny region of ours has never been shaken by any seismic activity registering beyond force 9 on the Mercalli scale – Romagna has so far escaped the tragedies which have struck in other places. They may find themselves awakening at night after the walls shake for the umpteenth time, but when earth tremors strike, the inhabitants of Romagna soon enough turn over and fall back to sleep. In Faenza it’s said that the town’s patron saint, the Virgin Mary, foresaw a “shaky” but not disastrous future: “Faenza will tremble but it will not fall”, she’s said to have predicted. But it’s not just Faenza which is at the mercy of the overthrust fault which is responsible for all this seismic activity. Pushing inland from the Adriatic, this fault extends all over the region, affecting villages, towns and provincial capitals alike. Nowhere in Romagna, from Castel Bolognese to Cattolica, is there even the smallest village which over the course of the centuries has not experienced an earth tremor. And going backwards through history we can encounter certain seismic events whose more dramatic consequences were the result of poor building practices or ignorance of safety precautions. Rimini has paid the highest price: the earthquake of 1672 claimed the lives of 460 inhabitants. And yet if all three provinces of Romagna are equally at risk from seismic activity, there are two hot points where the danger is especially high: the zone around Brisighella (in the valley of the Lamone, upstream towards Florence), and the hills in the immediate vicinity of Forlì. While they’re accustomed to feeling the earth shift beneath their feet, those who live in “fault line” Romagna have not shown themselves immune to the occasional outbreak of collective earthquake panic in recent years, a phenomenon perhaps fuelled by increased media alarmism. Between April and May 2000, the towns of Faenza and Forlì recorded no fewer than 400 perceptible seismic events – whose effects were felt over a fairly wide area. There was no serious damage, but memories of this episode were still very much alive when, in 2003, a new swarm of earth tremors swept through Faenza and Rimini. On both occasions, many people abandoned their houses as soon as the first tremors struck, even before dawn had broken, preferring to camp out in the open air for days – in keeping with the abrupt ways and scant respect for the niceties of appearances inherited from their rural forefathers. Yet it’s this ancient and innate familiarity with an earth that rumbles constantly, without respite, that forges people of this character: people whose pride and brusqueness knows no apparent ends, but who are forthright and hospitable too. Just like that grumpy old landlord who’s never managed to drive them out.
Se il tuffatore pensasse sempre allo squalo, non metterebbe mai le mani sulla perla. foto d’archivio
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Muslih Al-Din Sa'di
edifici, vuoi per una minore conoscenza delle procedure di sicurezza. Fu Rimini a pagare il “pizzo” più salato: 460 vittime caddero nel terremoto del 1672. Tuttavia, se le tre province romagnole sono “calde”, due sono i punti “bollenti”, ove cioè il rischio sismico è più elevato: la zona di Brisighella, nella valle del Lamone in direzione Firenze, e la prima fascia collinare del forlivese. L’abitudine al suolo mobile non ha tuttavia risparmiato i romagnoli “della faglia” dal panico collettivo in occasione degli eventi più recenti, causato forse da un maggiore allarmismo “sismico” alimentato dai media. Tra l’aprile e il maggio 2000, faentini e forlivesi convissero per qualche tempo con ben quattrocento movimenti tellurici ben percepibili e diffusi lungo un’area piuttosto ampia. I danni non furono gravi, ma il ricordo era ancora vivo quando, nel 2003, un nuovo sciame sismico fu avvertito dal faentino al riminese. In entrambi i casi i romagnoli si affrettarono a lasciare le proprie abitazioni già dalle prime scosse antelucane, decidendo di dormire per giorni all’addiaccio, forti dell’abitudine ai modi spicci e alle scarse cerimonie ereditata dagli avi di campagna. È anche l’atavica familiarità con un brontolio della terra che non concede requie a forgiare gente di tale tempra: orgogliosa e burbera finché si vuole, ma diretta ed ospitale. Come quel padrone di casa che in fondo non li ha mai sfrattati. Ter r i t or i o
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To m m a s o A t t e n d e l l i
Santa Sofia foto d’archivio
a rte in n a tu ra
Dove la Romagna inizia a mutare in Toscana, incastonato nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, il borgo di Santa Sofia si specchia placido nel fiume Bidente.
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La Natura deve essere lo Spirito visibile, lo Spirito è Natura invisibile. Friedrich Schelling
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I Sensi di Romagna
L
e sue acque restituiscono l’immagine di un borgo ameno, capace di presentare i tratti dell’accogliente oasi vitale: sufficientemente lontana dai grandi centri per non risentire degli effetti nocivi della cosiddetta “vita moderna”, senza però mostrare i sintomi dete-
riori dell’isolamento. Due sono le forze primarie che si mescolano in quest’atmosfera, la nota dominante è certamente espressa da una natura maestosa, incarnata da distese di boschi misti millenari popolati da lupi, cinghiali e cervi; un’area di straordinario interesse naturalistico che, dal 1959, conserva al suo interno la prima riserva integrale statale d’Italia, quella di Sasso Fratino, comprendente ad oggi 764 ettari di foresta protetti dall’accesso e dall’attività dell’uomo. Proprio all’uomo si deve invece la seconda componente che aleggia in questi luoghi: un’arcaica forza spirituale che nei secoli ha lasciato chiare tracce come il Santuario di La Verna e l’Eremo di Camaldoli, ma non è solo il misticismo a dimorare in queste foreste, tra gli alberi vestiti dei colori autunnali, nelle immediate vicinanze di Santa Sofia è nato nel 1955 un premio di arte moderna inizialmente dedicato esclusivamente agli artisti locali che sarebbe divenuto un importante punto di riferimento per il panorama artistico nazionale: il Premio Campigna. Pur cambiando periodo di svolgimento e spostandosi entro il borgo, negli anni il Premio ha portato artisti del calibro di Luigi Carluccio, Francesco Arcangeli, Ennio Morlotti, Concetto Pozzati, Piero Manai e molti altri a giungere qui per creare estemporaneamente le loro opere negli spazi del paese. Tra gli anni Settanta ed Ottanta, l’artista informale Mattia Moreni (vedi ee N° 6) ha addirittura scelto Santa Sofia quale sua residenza, facendo dono al
Premio di molte sue opere, oggi conservate nella Galleria d’Arte Moderna, dedicata a Vero Stoppani (fondatore del Premio Campigna), insieme a circa cento opere dei più esimi pittori romagnoli, da Sughi a Cappelli, da Piraccini a Ruffini e di autori di livello nazionale e internazionale, come Korompay, Vacchi, Fieschi, Bonfanti, Mandelli, Morlotti, Ruggeri, Plessi, Petlin e Berman. Nel 1993 il Premio ha aperto una parentesi dedicata all’arte scultorea inaugurando il Parco delle Sculture all'Aperto: un percorso artistico naturalista che dal centro del paese si snoda lungo l’alveo del fiume sfiorando opere come quelle di Somaini, Mainolfi, Nagasawa, Anne e Patrick Poirier. Tutto concorre a fare di Santa Sofia uno scrigno incantevole, che resterebbe però vuoto se non fosse vivificato da una popolazione allegra ed ospitale: a completare un colpo d’occhio, che, visto dall’alto, probabilmente appare come una pennellata intensa di
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colore vivace sul fondo di una valle.
SANTA SOFIA_ ART IN A NATURAL SETTING The village of Santa Sofia stands on the river Bidente in the heart of Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, where Romagna meets Tuscany. The village as reflected in the placid waters of the Bidente looks every bit the pleasant and welcoming oasis of life that it is: it’s far enough from the major cities to escape the harmful effects of so-called “modern life” but equally shows no signs of the dilapidation so often found in isolated villages. There are two principal ingredients in the unique atmosphere of Santa Sofia. The dominant note is obviously nature – and nature at its most majestic. Its broad expanses of deciduous and evergreen woodland have been here for thousands of years and are home to wolves, boars and deer. It’s an area of exceptional natural interest which since 1959 has accommodated the Sasso Fratino national park, Italy’s first nature reserve – currently comprising 764 hectares, access to the park is restricted and industry is banned. But it’s humanity itself we have to thank for the second key ingredient in the unique character of this part of the country: the seemingly timeless spiritual energy which the place emanates, and which over the centuries has found physical manifestation in the form of religious buildings like the sanctuary of La Verna and the hermitage of Camaldoli. But it’s not only mysticism that flourishes in these woods. For the modern art prize created here in 1955 and initially conceived as a showcase for local artists has since grown to become a major event on the Italian modern art scene. The Campigna Prize is held at different times of the year and at different venues within the town, and over the years has attracted artists of the calibre of Luigi Carluccio, Francesco Arcangeli, Ennio Morlotti, Concetto Pozzati, Piero Manai and many others, who have assembled temporary installations around the town. One artist, Mattia Moreni (see ee issue 6), even chose Santa Sofia as a permanent residence in the seventies and eighties. Moreni gifted many of his works to the prize, and these are now on display in the local art gallery dedicated to Vero Stoppani (founder of the Campigna Prize), alongside a hundred or so works by leading Romagnol artists including Sughi, Cappelli, Piraccini and Ruffini and some names of national and international renown: Korompay, Vacchi, Fieschi, Bonfanti, Mandelli, Morlotti, Ruggeri, Plessi, Petlin and Berman. In 1993 a section dedicated to sculpture was included in the Prize, with the simultaneous inauguration of an open-air sculpture garden: a trail which winds from the centre of the town along the banks of the river and features works by Somaini, Mainolfi, Nagasawa, and Anne and Patrick Poirier. The sculpture garden is one more jewel in Santa Sofia’s crown, yet none of the town’s charms would mean much without the essential ingredient: for it’s the lively and hospitable inhabitants of Santa Sofia which really bring the town – which from the surrounding hills looks like a splash of bright colour at the bottom of the valley – to life.
Ter r i t or i o
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S t ef a n o B o rg h e s i
Il “professore tedesco”
I confini della Romagna dei poeti correvano tra la Bassa sbirra di Olindo Guerrini e le colline melodiose di Aldo Spallicci: la lunga vista di Schürr li ha allargati fino ai castelli dei contropoemi alle spalle del Poliziano e dell’Ariosto. Francesco Fuschini
L’
idioma romagnolo condivise con altri dialetti settentrionali le trasformazioni del latino popolare, interagenti con tendenze linguistiche preesistenti contrassegnate da influenze galliche, ma circostanze geografiche e storiche gli diedero un indirizzo partico-
lare. La storia del romagnolo ebbe origine propriamente dall’isolamento di una parte della popolazione romana entro i confini dell’Esarcato di Ravenna, nella regione detta poi dai Bizantini “Romania” (onde Romagna) in opposizione alla Langobardia ovvero ai territori occupati dai Longobardi. Tale storia è stata oggetto di studi approfonditi da parte del glottologo austriaco Friedrich Schürr (1888 – 1980), divenuto romagnolo d’elezione per il suo interessamento a questa terra, di cui apprese perfettamente la lingua. Il primo incontro di Schürr con la parlata di Romagna avvenne nel 1910 quando, studente nell’Università di Vienna, ebbe per tesi di laurea l’analisi filologica di “Pulon Matt” (Paolone Matto), un antico poemetto eroicomico di anonimo, tra i primi esempi di uso letterario nel dialetto romagnolo, conservato nella Biblioteca Malatestiana di Cesena. Per conoscere direttamente la pronuncia Friedrich Schürr venne in Romagna per la prima volta nel 1912 e vi ritornò frequentemente fino agli ultimi anni della sua vita. Negli studi pubblicati fin dal 1917 in rendiconti di Accademie e in riviste specializzate analizzò scientificamente la struttura, la grammatica, la fonetica delle parlate romagnole nella loro molteplice varietà. Nei suoi soggiorni in varie città della regione era solito frequentare i mercati e intrattenersi a parlare con i popolani, dei quali annotava per motivi di studio le espressioni linguistiche. La Romagna che Schürr conobbe era ancora quella delle case rustiche col portico antistante, dei buoi e dei pagliai, dei plaustri dipinti e della “caveja dagli anèll” (vedi ee
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I Sensi di Romagna
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F rie dr ich S c hürr, gl ot t ol ogo c onquis ta to de l ve rn a colo roma gn olo
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The confines of Romagna as sung by its poets and writers traditionally ranged from the Bassa Romagna of Olindo Guerrini to the hills celebrated by Aldo Spallicci: but the far-sighted Schürr extended them as far as the territories of Poliziano and Ariosto. Francesco Fuschini Like other northern Italian dialects, Romagnol developed from common Latin, which underwent transformation via its contact with pre-existing linguistic forms with a marked Gallic influence. Geographic and historic circumstances, however, gave the dialect its own peculiar character. The origins of Romagnol can be traced to the isolation of part of the Roman population within the confines of the Exarchate of Ravenna, in the region which the Byzantines later called “Romania” (hence, Romagna) in opposition to “Langobardia”, i.e. the territory occupied by the Lombards. The history of the Romagnol dialect was exhaustively studied by the Austrian linguist Friedrich Schürr (1888 – 1980), whose interest in Romagna led him to gain a perfect mastery of its language and to adopt the region as his second home. Schürr’s first encounter with Romagnol came in 1910 when, as a student at the university of Vienna, he chose as subject for his doctoral thesis a philological analysis of Pulon Matt, an old heroic-comic poem by an unknown author which was one of the first examples of literature composed in the Romagnol dialect. The poem is now conserved in the Biblioteca Malatestiana, Cesena. Friedrich Schürr first visited Romagna in 1912, with the intention of hearing for himself how the language was spoken. He was to return on many occasions until the end of his life. By 1917 Schürr was publishing his analysis of the structure, grammar and phonetics of the many variants of Romagnol in academic papers and learned reviews. In his travels throughout Romagna, Schürr would often visit markets and talk with the local inhabitants and traders, taking notes of their speech patterns and diction for purposes of later study. The Romagna that Schürr knew was still an overwhelmingly rural region of shacks and draught oxen, haystacks and painted carts with tinkling caveja (see ee issue 15). It was this Romagna – the Romagna of Balilla Pratella and Aldo Spallicci – with which the Austrian linguist was to form enduring ties of friendship. Dialect in those days was considered the language of the poor, but Schürr managed to reinstate it as a Romance language as worthy of dignity as any other; and as an impassioned reader of both ancient and modern vernacular poets, he also succeeded in showing how particularly suited it was to poetic expression. The inhabitants of Romagna have always been amazed, and a little taken aback, that a foreigner should show so much interest in their language. But the “German professor” had an endearing ability to bring warmth and humanity to the rigours of his philological research. He celebrated his 85th birthday here as a guest of Cà de Bé in Bertinoro. In 1974, Ravenna made Schürr an honorary citizen. Today, his memory is kept alive by the association named after him. Based in Santo Stefano di Ravenna, the Friedrich Schürr association works to protect and promote the linguistic heritage of Romagna.
Sa più il papa e un contadino che il papa solo. Antico proverbio popolare
THE GERMAN PROFESSOR_ FRIEDRICH SCHÜRR, LINGUIST OF THE ROMAGNOL VERNACULAR
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N° 15), la Romagna di Balilla Pratella e di Aldo Spallicci, al quale il glottologo fu legato da cordiale amicizia. Il dialetto era allora considerato la lingua dei poveri, ma Schürr ne seppe cogliere, insieme con la dignità di lingua romanza, la vocazione al canto attraverso la lettura appassionata di poeti in vernacolo antichi e moderni. Per i romagnoli è sempre stato motivo di meraviglia e di curiosità il fatto che uno straniero si occupasse della loro lingua. L’attrattiva del “professore tedesco” era la capacità di stemperare nella sua grande umanità il rigore del filologo ben munito dei ferri del mestiere. la “Cà de Bé” di Bertinoro lo ebbe ospite festeggiato per il suo 85° compleanno. Ravenna gli conferì nel 1974 la cittadinanza onoraria. Oggi la memoria di Friedrich Schürr è mantenuta viva dall’Associazione a lui intitolata, che ha sede a Santo Stefano di Ravenna, con lo scopo di tutelare e di valorizzare il patrimonio dialettale della Romagna. St or i a
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Ta t i a n a To m a s e t t a
I tesori sepolti di Mussolini
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ri c ch e z z e e ve rità ma i ve n u te a lla lu ce
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I Sensi di Romagna
Sulle “ricchezze” nascoste di Benito Mussolini la storia ha riempito molte pagine e dossier, certo è che le favole e le verità si confondono tra loro creando nell’immaginario una suspense degna dei migliori intrecci noir.
D
alla leggenda sul cosiddetto “oro di Dongo” - valute, gioielli, ecc. nascosti al momento della cattura del gerarca in quel del lago di Como - , al carteggio scottante scritto dal duce durante il Ventennio, e mai trovato, tra cui lo scambio epistolare con
Winston Churchill, alle voci che narrano di due borse di cuoio da cui Mussolini alla fine dei suoi giorni non si separava mai, per arrivare ai fatti sui diari del duce, le cinque agende della croce rossa su cui egli avrebbe annotato giornalmente i propri pensieri dal '35 al '39, trovati quest’anno da Marcello Dell’Utri e sulla cui autenticità gli storici contemporanei dichiarano seri dubbi. Anche in Romagna episodi passati svelano l’esistenza di “tesori” attribuiti al duce. Parliamo, in fondo, della terra dove il gerarca ha visto la luce ed è stato seppellito, una terra di genti fantasiose, che non poteva esimersi dal ritagliarsi una fetta di palcoscenico. Lo scenario in cui si svolge la storia è infatti Predappio, borgo storico della valle del Rabbi dove Mussolini è nato, ed inizia con l’arrivo di un giornalista del quotidiano britannico Daily Telegraph che ha ricevuto notizia da Scotland Yard dell’esistenza di oro, pietre preziose, corone e regali di proprietà di Benito Mussolini, sepolti vicino ad una cascina predappiese. È il 1965 e Predappio in pochi giorni viene invasa da reporter provenienti da tutti gli angoli del mondo, mentre la divisione affari riservati del Ministero degli Interni italiano apre un’inchiesta. La stampa di quei tempi raccontava che Mussolini prima di morire dette l’ordine ad un suo fidato ufficiale di nascondere il “tesoro” e questi avrebbe scelto il paese dove il dittatore era nato. La versione del Daily Telegraph parlava di una soffiata su un polacco che, nella primavera del ’45, avrebbe scoperto otto casse sepolte, piene di gioielli quadri e documenti per una stima di dieci miliardi di lire, sbandando con il cingolato in una buca scavata di fresco. console della milizia. Nella realtà, ed è fin troppo somigliante, esisteva località Baccanello ad otto chilometri da Predappio, dove abitava, guarda caso, il console fascista Zauli. Il tesoro sarebbe stato sepolto nella stalla di una cascina abitata da una famiglia composta da padre, madre e figlia quindicenne. Per quattro giorni i coloni delle cascine lì intorno dovettero accompagnare decine di curiosi a visionare le proprie stalle e le proprie figlie. Mentre Rachele Mussolini insisteva sulla tesi della messinscena, la
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Avere dei segreti presenta questo inconveniente: perdiamo il senso delle proporzioni e non ci rendiamo più conto se il nostro segreto è importante o no.
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Edward Morgan Forster
Il luogo dove si doveva trovare la buca era nella zona di Baccinello, più precisamente nella campagna vicino alla cascina di un
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THE HIDDEN TREASURE OF MUSSOLINI_ THE RICHES (AND THE TRUTH) THAT HAVE NEVER BEEN BROUGHT TO LIGHT
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Many thousands of pages have been written on the putative hidden “treasures” of Benito Mussolini. So many, in fact, that it’s now difficult to distinguish between truth and rumour. It’s a plot worthy of the finest suspense film. The ingredients include the legend of the “Dongo gold” – the money, jewellery and other valuables supposedly hidden just before Mussolini’s arrest in the village of Dongo on Lake Como – to the potentially explosive body of correspondence composed by Il Duce during his twenty-year rule known as the Ventennio (these letters have never come to light and are believed to include the Italian dictator’s exchange of correspondence with Winston Churchill), the tales of the two leather briefcases which Mussolini carried constantly with him in his final days, and the so-called Mussolini diaries – five notebooks marked with a red cross in which Il Duce is said every day to have recorded his thoughts in a period lasting from 1935 to 1939, discovered this year by Marcello Dell’Utri and on whose authenticity historians have voiced serious doubts. Romagna, too, has its contribution to the legend of the hidden treasures of Mussolini. This is, after all, the region where he was born and where he is buried. And since its inhabitants have a reputation for having an over-active imagination, it’s hardly surprising that they’ve made their own contribution to the legend of the lost treasure. The setting for this variant of the story is Predappio, the small and historic town in the Rabbi valley where Mussolini was born. It begins with the arrival of a journalist from the UK newspaper, The Daily Telegraph, which had received news from Scotland Yard on the existence of gold, precious stones, crowns and regalia said to have belonged to Benito Mussolini, now buried in a hamlet just outside the town. This was in 1965. In just a few days Predappio was invaded by reporters from all over the world, and the Italian home office’s confidential affairs department opened an inquiry. Press reports from those days relate how, just before his death, Mussolini had ordered a trusted official to hide his “treasure”. The hiding place said to have been chosen by the official was the village where Mussolini was born. According to the version of events reported in the Telegraph, the story began with a tip-off from a Pole who in the spring of 1945 claimed to have discovered eight buried chests full of jewellery, paintings and documents – the value of the hoard was estimated at 10 billion lire – when his tank skidded on a freshly-excavated ditch. This ditch was believed to be somewhere around Baccinello, in the land surrounding the estate of a militia console. A more plausible location, however, would be the village of Baccanello, eight kilometres from Predappio and the home of – would you believe – the fascist console Zauli. The treasure was believed to have been buried in the barn of a farm inhabited by a family comprising father, mother, and fifteen-year-old daughter. For four days, the inhabitants of all the farms in the vicinity had to endure the curiosity of scores of sightseers eager to view their barns (and their daughters). Meanwhile, Mussolini’s widow Rachele insisted the whole episode was a hoax – but the story had already set the wheels of the world’s imagination turning. Excavations under cover of darkness and illicit disinterments were the order of the day. Even Il Duce’s family arrived on the scene: by an apparently strange coincidence, Mussolini’s daughter Edda appeared in Castrocaro to take the cure at a local spa. Officially at least, no treasure has ever been recovered. Writing in l’Europeo in 1965, journalist Gianni Roghi asked: “The envoy of the Daily Telegraph is going home; the carabinieri sent to guard the house where Il Duce was born are going back to their barracks; the reporters from the leading Italian and foreign dailies are packing their suitcases; for the commissioner of Forlì and the communist mayor of Predappio it’s back to business as usual. But for the inhabitants of Predappio, how can they leave behind the idea of this fabulous hoard worth 8 billion lire?” Mussolini’s diaries and correspondence form a separate chapter of the story. On 3 October 1965, Il Giorno reported: “The legend of the treasure of Mussolini has had its day. There’s nothing to be discovered. But if we’re talking about documents, then the story takes on a different aspect. There’s a village in Romagna which seems a very likely candidate as hiding place for the chests containing Mussolini’s correspondence: Castrocaro Terme, where in 1943 Mussolini was summoned by the first government of the Italian Social Republic.” When the Allies occupied the village they went so far as to dismantle its sewers in a fruitless attempt to discover the documents. But in Predappio, now restored to its sleepy rural tranquillity, local rumour maintains that the real treasure is Mussolini’s diary. Mussolini’s valet Mentore Ruffilli of Rocca delle Caminate even said he had seen the diary with his own eyes: “It was a great big book with a black cover.” Rocca delle Caminate is the name of a magnificent castle which stands above Forlì at a distance of four kilometres from Predappio, set in nine hectares of gardens encircled by extremely high walls. In 1927 the castle was restored and presented as a gift to Benito Mussolini for use as a summer residence. On 2 October 1965, Italian newspaper Il Resto del Carlino carried a story in which an ex-functionary of the fascist police who wished to remain anonymous told the paper how in 1945, while on Lake Como, he had heard the confession of a blackshirt assigned to the guard detail of… Rocca delle Caminate. According to this witness, some time before April 1945 an army truck arrived at the castle. Eighteen sealed metal cases were unloaded from it and buried beneath a yard in the castle. These cases, reportedly, contained highly confidential documents belonging to Il Duce. Rocca delle Caminate also contained Mussolini’s library, which was dispersed during the passage of the Allies. Today, part of the library is kept in Forlì’s Villa Carpena, the country residence of the family of Mussolini’s widow Donna Rachele, who died there in 1979. The villa has now been transformed by private funding into a museum to Mussolini. It’s unlikely that the contents of the museum have yet been fully inventoried and catalogued – and that’s something which can only further fuel the speculation that Mussolini’s “hidden treasure” really does lie under the fertile soil of Romagna.
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I Sensi di Romagna
no, la stessa famiglia del gerarca era arrivata in Romagna: Edda, figlia di Benito, singolare coincidenza, si recò infatti a Castrocaro per un periodo di cure termali. Nessun tesoro è mai stato ufficialmente trovato. Il giornalista Gianni Roghi nel ’65 sull’Europeo scrive: “Torna a casa l’inviato del Daily Telegraph, tornano in caserma i carabinieri mandati a presidiare la casa natale del duce, rifanno le valigie gli inviati dei principali giornali italiani e stranieri, ritornano in pace il questore di Forlì e il sindaco comunista di Predappio. Ma ai predappiesi chi gliela toglie ormai l’idea del favoloso tesoro, otto miliardi?”. Un altro capitolo della storia riguarda i carteggi e i diari che furono del gerarca. Il 3 ottobre del 1965, il quotidiano Il Giorno pubblica: “La vicenda del tesoro di Mussolini ha fatto il suo tempo. Non c’è nulla da raccogliere, se si tratta invece di documenti il discorso cambia aspetto. C’è una località in Romagna che avrebbe potuto benissimo prestarsi per occultare casse di carteggi: Castrocaro Terme, dove nel ’43 fu convocato Mussolini dal primo governo della R.S.I.”. Quando gli alleati occuparono la cittadina smontarono perfino le installazioni idriche nel tentativo di rinvenirli, senza successo. A Predappio invece, seppur restituita alla sua quiete campestre, tra le dicerie del paese qualcuno cominciò a sostenere che il vero tesoro da cercare era il diario di Mussolini. Il cameriere Mentore Ruffilli della Rocca delle Caminate dichiarò di aver visto il diario con i suoi occhi: “era un librone con la copertina nera”. Rocca delle Caminate è un magnifico castello ubicato sopra Forlì, a quattro chilometri da Predappio, entro un parco di nove ettari circondato da altissime mura, che nel 1927 venne restaurato e donato a Benito Mussolini perché ne facesse la propria residenza estiva. Il Resto del Carlino del 2 ottobre 1965 parla di un exfunzionario della polizia fascista che, restando nell’anonimato, raccontò al giornale di quando nel 1945, trovandosi sul lago di Como, raccolse le confidenze di una camicia nera destinata al servizio di guardia di Rocca delle Caminate. Secondo il testimone, prima dell’aprile del ’45 un camion dell’esercito scaricò diciotto cassette metalliche sigillate contenenti documenti riservatissimi del duce, che furono seppellite sotto il pavimento di un pollaio del castello. A Rocca delle Caminate si trovava anche la biblioteca di Mussolini, che sparì al passaggio degli alleati. Oggi parte di quel patrimonio librario è custodito a Villa Carpena di Forlì, residenza di campagna della famiglia dove Donna Rachele morì nel 1979, in seguito trasformata da privati nella “Casa dei ricordi” comprendente il museo Mussolini. Pare addirittura che quel corpus non sia ancora stato completamente inventariato e catalogato, ulteriore presupposto votato ad alimentare il dubbio intrigante che i tesori sepolti di Mussolini dormano ancora sotto la
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terra di queste floride campagne.
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La ricchezza somiglia all'acqua di mare: quanto più se ne beve, tanto più si ha sete. Arthur Schopenhauer
psicologia fascinosa del tesoro sepolto era già dilagata. Gli scavi notturni e i dissotterramenti nascosti erano all’ordine del gior-
St or i a
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U i era ’na volta un maledett dregh / Ch’u s’magneva totti i bastian; / quand ch’l’et finì i bastian / si cominzò a
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San Zorz e e’ dregh
magés i cristian. / La prima figlia ch’e’fe dimandé / L’era la figlia de’re dla zitté. / Da pu che t’ami la vu magné, / lassmla almanch disi dè, / ch’a pienza me cun lì e lì cun me. / Quand ch’e fo passè i disi dè, / u l’andè’to e u la mne sott’a una rivadella: / Stà ben lè ch’a ti vegna a magné! . / D’a lè e’ passè a San Zorz e’ cavalir: / Cs a fett a lè te sola suletta? / T’an he rucchina da filé, / gnanca sappetta da sappé la stre, / figlia d’un cavalir che te mi pe . / San Zorz e’ cavalir, ch’l’è fura par andé, / ch’e’ vega pu par la su stre: / me aspett e’ gran dragon ch’u mi vegna a magné. / D’a que da te non mi voi partì / Intant ch’a vegn e’ gran dragon venì. / E’ da fura dalla bosca: / al fiàquel de’ fugh dalla bocca e’ botta. / San Zorz e’ cavalir l’eva una speda, / l’era sett enn ch’la n’era sté sfrudeda: / la prema volta ch’u la sfrudò / s’è col a e’ gran dragon u i menò: / la testa a là d’i pi la i balzò. / Fantena, fantena, tsuiev la vostra zenta / Da allazzé sta brotta bocca. / La s’e’ tireva dri a lè par li terr, / mo ch’e’ pareva in forma d’un agnel; / M a n l i o R a s t o ni
San Giorgio e il drago dal l a L eggen da A u re a a ll’ ora z ion e popola re roma gn ola
Lunga necessità e lunga preghiera stanno bene insieme. Antico proverbio popolare
ST GEORGE AND THE DRAGON_ FROM THE GOLDEN LEGEND TO POPULAR RELIGIOUS BELIEF IN ROMAGNA
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Although we don’t even know for sure that he really existed, the image of St George slaying the dragon from the saddle of his white horse is one which had fired imaginations all over Europe. In Romagna, the legend has profound roots, as attested by an ancient folk prayer. According to the Golden Legend, compiled at the time of the Crusades by Jacobus de Voragine, St George released the inhabitants of the Libyan city of Silene from the tyranny of a terrible dragon which, from its den in a black lake, forced the inhabitants to sacrifice their youths to it. George wounded the dragon with a swipe of his sword, saving the king’s daughter, also called Silene, who was next in line for sacrifice. This done, George ordered the princess to harness the dragon by running her sash around its neck, and to bring it to the city. To the terrified inhabitants of the city George announced that he had been sent by God to liberate them from the dragon, and promised to slay the beast if they had themselves baptized as Christians. In the Middle Ages, this episode became the symbol of the struggle of good against evil and the triumph of the Christian faith, here incarnate in the most sacred chivalric values. Nowadays, all over Italy, the emblem of St George - a red cross on a white ground – is still to be found in the arms of many cities. Milan, Genoa and Bologna are three examples. And there are hundreds of churches dedicated to the saint. The epic poem of St George probably came to Italy over the Adriatic and via the lands then under Venetian control, and therefore it would have quickly spread into Romagna. This would perhaps explain why the cult of the saint, as manifest in the dialect prayer L'Urazion ad San Zorz (“Prayer of St George”) is so deeply rooted here. For longer than anyone can remember, the people of Romagna – and the women in particular – have recited this prayer ad infinitum in their homes and churches, their fervour fuelled by the proverb that promised paradise to anyone who could recite the prayer in full, from memory. The version which has come down to us was transcribed by Bagnaresi from the recital of one of these women, Paulena dj Arnez, who told it as she had learned it from her mother. In fact the prayer has passed down the centuries, orally transmitted from one generation to the other. In the process it’s become an ever more deeply-rooted part of tradition, insinuating itself into the fabric of local customs to the point that, even today, ask an old lady in Romagna where the epic encounter between the saint and the terrible dragon took place and she’ll probably tell you – if she can bring herself to speak through her incredulity that someone actually has to ask – it happened here, in Romagna.
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la s’e’ tireva dri a là par la stre, / ch’e’ pareva un agnel ammazzé; / la s’e’ tirev’a là dri par la piazza, / ma ch’e’ pareva un cagnulen da cazza. / L’andè alla porta de’ su padren a bàtter: / Son ben a qua ch’a i ho e’ dragon a man . / O chi l’è un queich sant ch’u t’ha aiuté / O chi l’è e’ mond ch’e’ vo aruviné. / A San Zorz e’ cavalir a i voi duné / setti castelli cun sette zitté. / Non voi setti castelli né setti zitté, / cardé in Dio e fevvi dattizzé. / U s’in battizzeva piò d’un mel ‘ e’ dè, / u s’in battizzeva piò d’un mel all’ora: / u n’s’vest piò e’ dragon da pu d’allora.
Non esistono nemmeno prove certe della sua reale esistenza, tuttavia l’immagine di San Giorgio in sella al suo cavallo bianco mentre uccide il drago è una delle icone che più ha spronato la fantasia popolare di tutte le regioni d’Europa, radicandosi profondamente in Romagna, ove ha originato un’antichissima orazione popolare.
S
econdo la Leggenda Aurea, vergata dal vescovo di Genova Jacopo da Varazze ai tempi delle Crociate, nella città libica di Selem, un giovane cavaliere di nome Giorgio avrebbe liberato la popolazione dalla minaccia di un orribile drago che, dalla
sua tana in un lago nero, costringeva la popolazione a offrirgli in sacrificio i propri giovani. Giorgio lo ferì con un fendente della sua spada, salvando così Silene, figlia del re di quelle terre in procinto di essere sacrificata. Ciò fatto, le disse di cingere il collo del drago con la propria cintura, a mo’ di guinzaglio, e di condurlo in città. Agli abitanti atterriti disse poi di essere stato inviato lì da Dio a liberarli dal drago, promettendogli di ucciderlo se si fossero fatti battezzare abbracciando la fede cristiana. Nel Medioevo questo episodio divenne il simbolo della lotta del bene contro il male e del trionfo della fede cristiana, incarnando i più sacri valori della cavalleria. In tutt’Italia, il simbolo di San Giorgio: una croce rossa su campo bianco, ricorre anche negli stemmi di diverse città italiane, come Milano, Genova e Bologna; numerosissime chiese sono inoltre dedicate al Santo. Il canto narrativo di San Giorgio è probabilmente giunto nella nostra penisola dall’Adriatico, in particolare attraverso le zone che erano sotto il controllo di Venezia, penetrando dunque repentinamente in Romagna. Questo fatto contribuirebbe a spiegare perché l’espressione del suo culto, rappresentata da un’orazione popolare dialettale: “L'Urazion ad San Zorz” (l’orazione di San
Giorgio), è così sentita in queste terre. Da tempo immemorabile le genti romagnole, particolarmente le donne, l’hanno ripetuta all’infinito in casa e nelle chiese, incoraggiate dal detto che prometteva il paradiso a coloro che riuscivano a recitarla integralmente a memoria. La versione che ci giunge è stata trascritta da Bagnaresi dalla voce di una di queste donne: Paulena dj Arnez, che l’ha espressa così come l’aveva imparata dalla madre. L’orazione, infatti, ha attraversato i secoli tramandata oralmente di generazione in generazione, divenendo parte sempre più inscindibile della tradizione e mescolandosi al costume, fino al punto che, anche oggi, se si chiede ad un’anziana signora romagnola dove avvenne l’epico scontro tra il Santo e l’orribile drago, probabilmente ella risponderà, stupita dall’ovvietà della domanda, che successe in Romagna.
St or i a
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Pa o l o M a r t i n i
Ninne nanne romagnole a n tich e me lodie ma te rn e
Ormai è sera, il lavoro nei campi va terminando, il buio incipiente zittisce la campagna. Nel crepuscolo, una madre foto d’archivio
addormenta il proprio figlio, lo culla e canta, sottovoce,
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una ninna nanna.
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della cultura contadina della Romagna. Non semplice folclore, ma autentico strumento per comprendere meglio un
mondo ormai scomparso. Un mondo con cui fare i conti da subito, ancora nella culla. Un mondo in dialetto, ché l’in-
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U
sanza antica, soppiantata prima dal Carosello poi da qualche cartone animato, le ninne nanne sono parte integrante
timità è scandita dal romagnolo, autentica lingua madre. «Bèi fiöl, fasi’ la nâna» (bel figlio, fai la nanna). La prima funzione del canto materno è semplice: accompagnare il dondolio della culla e addormentare la creatura. Ma la ninna nanna serve anche per trasmettere, fin dalla più tenera età, gli immutabili valori della civiltà contadina. Sui figli maschi le mamme hanno pochi dubbi: «Fa la nâna, e’ mi’ babên, che ti vêgna brëv da vanghë’» (fai la nanna, bimbo mio, che tu possa presto andare a lavorare nei campi). Il figlio maschio è dunque destinato a vangare i campi, come il padre. E come il padre dovrà essere un uomo onesto e lavoratore. Le bimbe dovranno crescere in fretta, tanto da metter su la «sòpa» (zuppa) per la famiglia e costruirsi, pezzo per pezzo, la dote per maritarsi. Il figlio nei campi e la figlia maritata, le madri contadine hanno pochi grilli per la testa e qualche sassolino da togliersi dalle scarpe. Perché quel momento di intimità, lontano da tutto e tutti, diventa il luogo privilegiato delle doglianze sulla loro condizione di donne. «Bab’ e’ rid’, e mâma stènta. Bab’ e’ rid’ in quà o’ in là, mâma stènta a stër a cà» (Il babbo ride e la mamma fatica. Il babbo ride qua e là, la mamma fatica stando a casa). Le ninne nanne descrivono un ambiente in cui è meglio nascere maschi. All’uomo si schiude il mondo, mentre la donna imperdonabile. Un giorno, arrivato il momento, uscirà di casa per sempre, portando con sé la dote, spogliando così la famiglia di una parte cospicua del suo – esiguo – patrimonio. In questo breve tragitto, non possiamo dimenticare due cardini del caratteraccio romagnolo: la politica e la passione
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è relegata in casa, chiusa fra quattro umide mura. Ma la figlia femmina, anche agli occhi della madre, ha una colpa
amorosa. In una terra di mangiapreti, tutte le gravidanze indesiderate hanno un responsabile preciso: «e’ guargian di Capuzzen» (il Padre guardiano dei Cappuccini). Colpevole, in una terra dominata a lungo dallo Stato Pontificio, del peggiore dei soprusi: girare la campagna a chiedere la questua. Lo spazio intimo, lontano dagli uomini di casa, diventa, grazie all’astuzia muliebre, occasione per dare appuntamen-
I figli sono per
to all’amante. «Ninan, ninan ne so no sté a vni perché j’è lò, vèn dmatèna a tri or nenz dè, ch’à a so sola da par mé»
la madre an core
(Ninna nanna e non venire perché c’è lui, vieni domani pomeriggio alle tre, quando sono sola).
della sua vi ta. Sofocle
Così ci si addormentava nella Romagna d’un tempo, cullati dalla voce di una madre che cantava un mondo duro, fatto di fatica, sudore e passione.
Imagine the scene – it’s evening, work in the fields is over for another day, and darkness descends with a hush over the countryside. In the failing light, a mother cradles her son in her arms, softly singing a lullaby to send him off to sleep. Though they’ve largely been supplanted by TV jingles and cartoons, lullabies are an integral part of the peasant culture of Romagna. More than just “folklore”, they provide a key to a better understanding of a world that’s now disappeared. A world whose often harsh realities were introduced to its newcomers right from the cradle. A world whose inhabitants spoke in dialect, where primal intimacies followed the cadences of the “mother” tongue, Romagnol. Bèi fiöl, fasi’ la nâna (Fair child, go to sleep). The primary function of the mother’s lullaby is simple enough: to provide an accompaniment to the rhythmic rocking of the cradle and send the child to sleep. But lullabies also helped transmit the immutable values of the rural communities from a very tender age. With baby boys the formula was clear: Fa la nâna, e’ mi’ babên, che ti vêgna brëv da vanghë’ (Go to sleep, my baby boy, so you can soon go to work in the fields). Male children, therefore, were destined to follow in their fathers’ footsteps. And they were expected to grow up to be honest, hard working men – like their fathers. As for baby girls, they were expected to grow up quickly, the sooner to put on the sòpa (soup) for the family and put together, little by little, enough money for a wedding dowry. Their sons in the fields and their daughters married off – peasant mothers were never given to fanciful ideas, and with things going to plan they have less to worry about. That special moment when, in the intimacy of their own company, a mother sings her child a lullaby, was the perfect occasion for the mother to impart to her infant daughter the realities of her future station as a woman. Bab’ e’ rid’, e mâma stènta. Bab’ e’ rid’ in quà o’ in là, mâma stènta a stër a cà (Daddy’s laughing and mummy’s toiling. Daddy’s laughing here and there, mummy’s toiling, staying at home). These lullabies describe a milieu in which it’s better to be born male. Men have the whole world at their disposal, while women are relegated to the domestic sphere, imprisoned between four damp walls. And the baby girl is already condemned – even in the eyes of her mother – for a sin she’ll commit far in the future. For one day the time will come when she leaves home for ever, taking with her dowry, thus depriving her family of a considerable portion of its – already meagre – patrimony. As she makes this brief journey, however, let’s not forget two points of the Romagnol character: a love of politics, and a disposition for amorous passion. In a fiercely anti-clerical part of the world, one person is ultimately responsible for every unwanted pregnancy: e’ guargian di Capuzzen (the guardian father of the Capuchin friars). Guilty, in a region long subject to papal rule, of the foulest of abuses: roving around the country begging. Meanwhile, the domestic confines, far from the eyes of the men of the house, became, thanks to womanly ruses, an opportunity for the woman to meet her lover. Ninan, ninan ne so no sté a vni perché j’è lò, vèn dmatèna a tri or nenz dè, ch’à a so solo da par mé (Don’t come because he’s here, come tomorrow afternoon at three, when I’m alone). It was to these words that, once upon time, we fell asleep in Romagna, lulled by the voice of a mother who sang of a harsh world of toil, sweat and passion.
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LULLABIES OF ROMAGNA_ SONGS OUR MOTHERS SANG TO US
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Gi ul i a n o B e t t o l i
I tempi del trebbo
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mome n to a gre s te de lla vita s ociale inv ernale
IN THE TIMES OF THE TREBBO_ A WINTER GATHERING OF THE RURAL COMMUNITY
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I Sensi di Romagna
Traditionally, supper was eaten early in the Romagnol countryside in wintertime: a peasant family would be sitting round the table by six in the evening. And afterwards came the gathering known as the trebbo. According to those who know about these things, trebbo (see ee issue 14) derives directly from the Latin trivium, which means “crossroads”: places where chatterboxes as well as carts and carriages converged. But the evening trebbo in the houses of rural Romagna was more than just a casual exchange of gossip. It was an indispensable feature of the “social life” of the country community. Trebbo season lasted only four months, approximately: from the feast of St Martin (11 November) to the middle of March. These gatherings were typically held in the stables, where the air was warm from the body heat of the animals. Those in attendance would take a seat wherever they could find one: on a stool, on a bale of hay, even – if they were lucky – on some old chair. Most gatherings would number fifteen or more participants – all of them adults, as children would be dispatched to bed immediately after supper. The trebbo was an open-house event: anyone who wanted to could enter, and guests would sometimes travel a considerable distance to attend. Everyone, in other words, was welcome. Guests were normally served a glass of wine. If the hosts were known to be especially poor, however, the visitors would bring along a bottle of wine. Many of the guests would be young men – who never came alone but always in company – looking to pair up with a good-looking girl. According to custom, a young man who wished to pay court to a particular girl would have to attend with a male companion who acted as a kind of “witness”, in whose company the young man could present himself in the house where the girl lived. As luck would have it, it often happened that if the suitor was of a more timid stamp it would be his companion who would strike up a conversation with the girl – and even in some cases end up marrying her. The older women, meanwhile, would keep themselves occupied during the trebbo by spinning hemp or knitting. The men would usually start a game of cards. As all this was happening the conversation ranged across all kinds of topics. There was storytelling, too: ghost stories were especially appreciated, and their effects were no doubt enhanced by the eerie shadows which a sputtering oil lamp cast upon the walls of the stable. Perhaps the star of these gatherings was the folista, a professional storyteller with a huge stock of tales – which were always related in dialect, naturally. The folista would go from house to house, receiving recompense in the form of a salami here or a hunk of cheese or some similar offering there, telling stories which had been handed down over centuries and were told – with infinite variations – all over Italy and elsewhere in Europe. More rarely, there was dancing: but never during Advent or Lent. These dances took place in a spacious kitchen, its fireplace blazing and its large central table removed to make space for the dancers. On an improvised stage stood an organ grinder, a bottle and glass of wine at his feet, while the matrons would sit against the wall and keep a close eye on their daughters’ conduct. But all this belonged to a rural way of life that’s long disappeared: and taken with it the trebbo, which from a pivotal feature of the peasant community now survives only in debased form as a picturesque pageant of folklore.
D’inverno si cenava presto nella campagna romagnola: alle sei della sera la famiglia contadina era già a tavola; subito dopo in casa si teneva usualmente il “trebbo”.
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rebbo (vedi ee N° 14) – dicono i competenti – proviene direttamente dalla parola latina trivium, che significa “crocicchio”: il classico “posto delle chiacchiere”.
Ma il trebbo serale nelle case della nostra campagna non era solo un incontro ciarliero, bensì una parentesi indispensabile di autentica “vita sociale”. La fase annuale in cui si tenevano i trebbi durava solo quattro mesi o pressappoco, da San Martino (11 novembre) sino a metà marzo. Si svolgevano soprattutto nella stalla, là dove l’aria era riscaldata dal calore naturale delle bestie. Ci si metteva a sedere dove capitava: sugli scranni, sui cestoni del fieno, magari anche su qualche sedia spagliata. Raramente i partecipanti erano meno di una quindicina, tutti rigorosamente adulti, visto che i bambini dopo cena venivano con pochissime eccezioni spediti a letto. Nella casa in cui si teneva il trebbo poteva entrare chi voleva, capitava che gli ospiti potessero giungere anche da lontano. Tutti erano accolti. Si beveva anche un bicchiere di vino. Se si sapeva che quella casa era povera, e magari con la cantina sguarnita, erano i visitatori che ne portavano un fiasco. A prendere parte al trebbo erano specialmente i giovanotti - mai da soli, sempre in compagnia - che volevano magari cercare di accostarsi ad una bella ragazza. Chi
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voleva corteggiarne una in particolare, per usanza doveva trovarsi un compagno, una sorta di “testimone” insieme al quale poteva presentarsi nella casa dove la sua “fiamma” abitava. Ironia della sorte, poteva anche capitare che, se il ragazzo era timido, fosse il compagno occasionale ad intrattenersi con la ragazza e, magari, a finire per sposarla. Durante il trebbo le donne o filavano la canapa col fuso o facevano la calza. Gli uomini invece solitamente giocavano a carte. Nel frattempo si parlava di tutto, si
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raccontavano favole: le storie dei fantasmi erano all’ordine del giorno, rese più efficaci dalla luce fioca della lucerna a petrolio che giocava con le ombre della stalla. Talvolta il protagonista del trebbo era il “folista”, un autentico professionista nel raccontare favole, sempre in dialetto naturalmente. Il folista, che girava di casa in casa, ricompensato con un salame o un formaggio o qualche altro piccolo obolo, raccontava favole che venivano tramandate da secoli e che, con infinite varianti, si ascoltavano in tutta Italia ed in altre parti d’Europa. Più raramente si ballava: mai durante l’Avvento o la Quaresima. Si ballava nell’immensa cucina di casa con il camino acceso, dopo aver tolto la grande tavola centrale. Su di un palco improvvisato stava il suonatore di organetto, con fiasco e bicchiere ai piedi, mentre le mamme, sedute accanto al muro, controllavano severamente il comportamento delle figlie. Quel mondo rurale non esiste più. Così il trebbo, da vitale perno della civiltà contadina, giunge al presente declassato a semplice vetusto rituale folkloristico.
Impara nella semina, insegna nel raccolto, ed in inverno godi.
William Blake
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Al b a P i r i n i
Pane di Natale dolce tradi z i onal e da res usc i t a re
Oggi in Romagna, con l’approssimarsi del periodo natalizio le tavole della festa ospitano gli stessi panettoni e pandori che si possono trovare in qualsiasi casa italiana, ma, naturalmente, non è sempre stato così.
P
rima che i gusti caratteristici venissero forzati alle prerogative della produzione di massa, in Romagna durante l’avvento, come conferma uno scritto datato 1811 dell’allora parroco di Savarna, si usava preparare un particolare tipo di pane dolce chiamato pane di
Natale. La ricetta originale di quest’ultimo non compare in alcuna fonte ufficiale, tuttavia diversi decenni fa Ermanno Silvestroni ne ha raccolto una versione relativa al territorio di San Pancrazio, rimasta inedita fino a quando lo studioso e scrittore Eraldo Bandini non l’ha tratta dal suo archivio personale per inserirla in un suo saggio. Recita la ricetta che per preparare il pane di Natale si cuoceva una libbra di castagne secche fino alla totale ebollizione dell’acqua, si schiacciavano bene con lo stampo per i passatelli (vedi ee N° 7) e si mettevano in una catinella di terracotta. Successivamente, nella stessa catinella, venivano aggiunte tre manciate di uva secca (fatta precedentemente rinvenire in un po’ d’acqua), sei once di canditi, quattro fichi seccati al sole, una manciata di mandorle dolci e quattro mandorle amare (tenute precedentemente nell’acqua calda per privarle della pellicola) e mezza mela cotogna, il tutto ben pestato con la mezzaluna. In un’altra terrina, si faceva disfare in acqua calda una noce di lievito, aggiungendo una cucchiaiata di strutto di maiale, quattro cucchiaiate di miele, quattro uova, tre bicchieri di latte, macinando sopra il tutto un po’ di pepe nero, tre o quattro pizzichi di cannella, una grattugiata di noce moscata e amalgamando il tutto con la frusta delle uova, prima di versarlo nella catinella, mescolando il tutto e aggiungendo gradualmente tre tazze di farina di grano ed una di farina di granturco finemente setacciate. Dopo aver rimescolato il tutto, lo si rovesciava su di un piano cosparso di farina e zucchero impastandolo e suddividendolo in alcune pagnotte rotonde, che venivano incise a croce, fatte lievitare e messe in forno. Appena sfornate venivano poi ricoperte di cenere calda. Qual’era il sapore di questo dolce dimenticato? È consolante pensare a come un’antica ricetta non sia solo un documento di valore storico ed “antropologico”, bensì una preziosa formula capace, se scrupolosamente messa in pratica, di richiamare in vita il passato, risvegliando negli animi più sensibili quella memoria genetica a cui si può spesso attingere, meglio che da ogni altra via, seguendo un semplice aroma.
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I Sensi di Romagna
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At Christmas time in Romagna you’ll find the same panettone and pandoro as you’ll find on any other festive table in Italy at this time of year. Of course, it wasn’t always like that. Long ago, before our palates were normalized at the altar of mass production, a special kind of sweet bread called pane di Natale (“Christmas bread”) used to be made in Romagna during Advent. The earliest record of pane di Natale dates from a document written by the parish priest of Savarna in 1811. No records of the original recipe are to be found in “official” sources, although several decades ago Ermanno Silvestroni recorded a variant from San Pancrazio. This recipe remained unpublished until the scholar and writer Eraldo Bandini, who had it in his own files, included it in one of his essays. The recipe goes as follows: Boil a pound of dried chestnuts until the water has totally evaporated, crush the chestnuts thoroughly with a passatelli iron (see ee issue 7) and put them in a terracotta basin. Then add to the basin three handfuls of raisins (previously soaked in a little water), six ounces of candied fruit, four sun-dried figs, a handful of sweet almonds and four bitter almonds (previously run under hot water to remove their skins) and half a quince, all well chopped. In another bowl, add a little yeast to some hot water, then a spoonful of lard, four spoonfuls of honey, four eggs and three glasses of milk; then add a little ground black pepper, three or four pinches of cinnamon and a scraping of nutmeg. Combine the ingredients with an egg whisk and then pour into the basin, stirring continuously and gradually adding three cups of finely sieved wheat flour and one cup of corn flour. Mix well then turn the dough onto a flat, floured and sugared surface. Knead the dough and divide into a few round loaves. Score a cross into each loaf and leave to rise before baking in the oven. As soon as the loaves are removed from the oven, cover them with warm ashes. It’s impossible not to ask, what did this forgotten delicacy taste like? And it’s comforting to think how old recipes have value that goes beyond the historic and anthropologic. If carefully followed, they can bring the past back to life, reawakening in more sensitive souls that genetic memory which a simple smell, more than any other sense, is capable of evoking. E n oga s t r on omi a
L'appetito è per lo stomaco quello che l'amore è per il cuore. Non conosco un lavoro migliore del mangiare. Gioachino Rossini
PANE DI NATALE_ A TRADITION WORTH REVIVING
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Carlo Zauli
Gallegati raro “cora llo” di collin a Tra i poggi di Brisighella, sulle pendici dei Monti Coralli, a circa 200 metri sul livello del mare, si estendono i sei ettari di vigne dalle cui uve discendono i vini dell’azienda Gallegati.
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GALLEGATI_ FROM THE “CORAL” VINEYARDS The vines which produce Gallegati wines extend over six hectares, at an altitude of 200 meters above sea level, on the slopes of the Coralli hills near Brisighella. The terrain here is steep, the clay-rich soil soft and fertile. It’s high in calcium content and moderately alkaline. The climate is mild, and the orientation is perfect. It’s precisely these factors which played a key role in the decision by brothers Antonio and Cesare Gallegati, both qualified agronomists, to orient their vine-growing and wine-making business towards the pursuit of excellence – a decision which is part of a growing trend, with more and more winemakers in Romagna placing their hopes not in quantity but quality. When they succeeded their father in the running of the estate in the 1990s, the brothers therefore embarked upon a carefully planned campaign to replenish the existing vines, most of which were Sangiovese and Albana aged over 40 years growing on the steeper slopes of the estate. The next step was to plant new vines, using the latest cultivation criteria and concepts. Among these new vines were new varieties: Cabernet Sauvignon, Merlot, Chardonnay and Pignoletto. Red grapes are now grown using the spurred cordon method, while white grapes are trained using the single-arched cane system. Both are managed with minimum intervention. Vegetable or grass species are planted between each row of vines using environmentally safe products that respect the equilibrium of the surrounding ecosystem – characterized by thick blackthorn shrubs, dog rose, dogwood, blackberry and groves of oak, poplar, maple and locust trees. Attentive management of the vines is essential to a satisfactory end product. Shoot thinning, cleaning, pruning, and leaf removal operations are conducted in accordance with the season and the growth of the vines, and are performed manually to ensure each vine receives the treatment its state of ripeness requires, in this way allowing the vines to reach their maximum potential in terms of quality. With only a limited grape yield, the Gallegati brothers decided to produce wines with a distinctive personality – wines which do not renounce complexity for the sake of drinkability. It’s a decision which has earned them a prize for excellence from AIS (Italian Association of Sommeliers) Romagna for Corallo Nero, and a finalist’s position in the Tre Bicchieri del Gambero Rosso award for Regina di Cuori.
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ui il suolo è ripido, a tessuto franco argilloso-limoso, calcareo e moderatamente alcalino, il clima è mite e l’esposizione ottimale. Proprio questi elementi hanno giocato un ruolo chiave nella scelta dei fratelli Antonio e Cesare Gallegati, entrambi agronomi, di
orientare il proprio lavoro in vigna ed in cantina verso i crismi dell’eccellenza, aderendo alla filosofia ormai diffusa che vede in Romagna sempre più realtà locali barattare volentieri la dottrina della quantità con quella della qualità. Subentrati al padre nella conduzione dell’azienda, negli anni Novanta hanno dunque iniziato un’attenta ed oculata opera di restauro delle vigne già esistenti, per lo più vitigni di Sangiovese ed Albana di oltre 40 anni di età coltivati sul versante più ripido del podere. Il passo successivo è consistito nell’impianto, tramite moderni criteri agronomici, di nuovi vigneti, introducendo anche Cabernet Sauvignon, Merlot, Chardonnay e Pignoletto. I vitigni di uve rosse sono allevati a cordone speronato, mentre quelli di uve bianche sono allevati a capovolto. Entrambi vengono condotti con la minima lavorazione, inerbendoli tra le file con essenze naturali sia leguminose sia graminacee, usando prodotti dal minimo impatto ambientale che rispettano l’aspetto biotico dell’ambiente circostante, costituito da folti cespugli di prugnolo, rosa canina, sanguinella, rovo e da boschetti di quercia, pioppo, acero e robinia. Fondamentale per il risultato finale è poi la gestione attiva del vigneto. Le operazioni di potatura verde, di pulizia, di diradamento, di defogliazione vengono decise infatti a seconda dell’andamento stagionale e dello stato vegetativo della pianta ed eseguite manualmente in modo mirato, interpretando l’andamento dell’annata e permettendo, di rimando, alla pianta d’esprimere il suo massimo potenziale qualitativo. Da una produzione limitata, in sede di vinificazione, la scelta è stata quella di costruire vini dalla personalità marcata, vini che non barattano la complessità con la facile beva. Una risoluzione gratificata anche dal premio eccellenza conferito dall’AIS Romagna al Corallo
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Nero e dal posto conquistato in finale per i Tre Bicchieri del Gambero Rosso da Regina di Cuori.
CORALLO BIANCO_ Colli di Faenza Bianco D.O.C._ Uve/Grapes: 60% Pignoletto – 40% Chardonnay Di un bel giallo paglierino intenso con riflessi dorati, esprime sentori floreali con note di mela verde. Vino di corpo, sapido, pieno ed armonico, di buona persistenza. Nasce dalla pressatura soffice delle uve selezionate, la fermentazione e la maturazione sono suddivise tra barriques di rovere francese con la tecnica del “batonnage sur lies” e botti inox. L’imbottigliamento avviene a primavera inoltrata, segue affinamento per circa 3 mesi. Temperatura di servizio: 10-12°C. Accompagna piacevolmente antipasti leggeri o di mare, primi di pasta con sughi delicati, pesce e crostacei. A deep straw yellow colour with golden highlights. Floral overtones with notes of green apple. A full-bodied, zesty wine that’s well rounded and harmonious with good length. Produced from selected, soft-pressed grapes. Fermentation and ageing is in French oak barriques (with lees stirring) and stainless steel vats. The wine is bottled in late spring and bottle-aged for around 3 months. Serving temperature: 10-12°C. The perfect accompaniment to snacks, seafood starters, pasta in more delicate sauces, fish and shellfish. REGINA DI CUORI_ Albana di Romagna tipo passito D.O.C.G._ Uve/Grapes: 100% Albana Presenta un colore giallo dorato tenue e sprigiona sentori di pompelmo, albicocca e pesca gialla. È un vino di grande struttura con zuccheri residui bilanciati da una buona freschezza. All’appassimento naturale delle uve attentamente selezionate segue la pressatura soffice. Fermentazione e maturazione avvengono in barriques di rovere francese con la tecnica del “batonnage sur lies”. Temperatura di servizio: 10-12°C. Si sposa magnificamente con formaggi saporiti, dessert, pasticceria e macedonie. A soft golden yellow colour, with notes of grapefruit, apricot and yellow peach. A solidly-structured wine whose residual sweetness is well balanced by its remarkable freshness. Regina di Cuori is made by soft-pressing carefully selected, naturally withered grapes. Fermented and aged in French oak barriques, assisted by the lees stirring technique. Serving temperature: 10-12°C. The perfect partner for strong cheeses, desserts, pastries and fruit salads. E n oga s t r on omi a
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Lascia pure all’erede ogni riposto avere, ma il vin della cantina, tu te lo devi bere. Marco Valerio Marziale
CORALLO NERO_ Sangiovese di Romagna Superiore D.O.C._ Uve/Grapes: 100% Sangiovese Orgoglio della cantina, prodotto da un’accurata selezione delle uve è di un rosso rubino intenso e compatto, manifesta un profumo ampio e complesso, con evidenti sentori di prugna e ciliegia matura e con note di tabacco e spezie. È un vino di grande corpo e struttura con accentuata persistenza. La fermentazione avviene per 15-20 giorni sulle vinacce a temperatura controllata 28-29°C. Dopo la svinatura passa alla fermentazione malolattica ad appropriate temperature in botte inox e alla maturazione in barriques francesi per un periodo di circa 14 mesi. Imbottigliato ad inizio estate viene affinato in bottiglia per circa 5 mesi. Temperatura di servizio 16-18°C. Si abbina felicemente ai primi di pasta con sughi saporiti, agli arrosti di carne ed ai formaggi piccanti. Corallo Nero is the pride of the estate and is made from carefully-selected grapes. A deep and close-knit ruby red, it has a wide and complex fragrance, with clear overtones of plum and ripe cherry and notes of tobacco and spice. A full-bodied, well-structured wine with remarkable length. The grapes are fermented on the skins for 15-20 days at a controlled temperature of 28-29°C. After racking the wine undergoes controlled-temperature malolactic fermentation in stainless steel vats before being transferred to French barriques, where it is left to mature for around 14 months. The wine is bottled in early summer and further aged for around 4 months. Serve at 16-18°C. Goes well with pasta with strong sauces, roast and grilled meats and extra-aged cheeses.
BEYOND SURFACE AU DELA DE LA SURFACE
I t a l o e Va n n a G ra z i a ni
Artigianato luminoso
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le la n te rn e di Tols toj a Pe n n a billi
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Niente di grande al mondo è stato fatto senza il contributo della passione. Georg Hegel
Come nasce l’idea di un’opera d’arte? Qualche volta è il caso a crearla, con la sua imprevedibilità e leggerezza, superando immense distanze e lunghi anni.
E
d è stata proprio una serie di fortunate coincidenze ad unire con un sottile filo di seta Pennabilli, piccolo paesino sulle colline tra Romagna e Marche, ad Astapovo, sconosciuto villaggio della ster-
minata Russia. Pennabilli è il luogo dove vive e lavora Tonino Guerra, poeta ed eclettico artista romagnolo, la cui fervida mente, si dimostra costantemente attiva ed instancabile. Da qualche tempo Tonino, realizzando uno dei suoi più grandi desideri, ha iniziato a compiere “viaggi particolari”, soprattutto attraverso l’amata terra russa, della quale è profondo conoscitore e di cui è originaria la moglie Lora. Durante uno di questi itinerari, egli ha voluto ripercorrere in treno l’ultimo viaggio di un grande della letteratura mondiale, Leone Lev Tolstoj, autore di capolavori come “Guerra e pace” e “Anna Karenina” ed ideatore delle teorie di “non resistenza al male” e di rivolta non violenta che avrebbero attirato il giovane Gandhi. Negli ultimi giorni di ottobre del 1910, a ottantadue anni, lo scrittore decise di abbandonare tutto, per dissapori famigliari e soprattutto per tener fede ai suoi principi morali della professione di artista e di rinuncia ai vantaggi materiali della nobiltà. Egli partì in treno senza una meta precisa, ma in breve fu costretto a fermarsi a causa delle sue precarie condizioni di salute, scendendo alla stazione ferroviaria di Astapovo, dove morì il 7 novembre. In vecchiaia Tolstoj era stato oggetto di autentica venerazione, ed i suoi funerali, celebrati sul posto, videro un’enorme partecipazione popolare, nonostante i tentativi delle autorità di limitarla. A ricordo di questi avvenimenti, nella stazione di Astapovo rimangono tuttora una targa ed una piccola lanterna, davanti alle quali si è trovato, quasi cent’anni dopo, Tonino Guerra: “Bisogna fare una Il poeta romagnolo ha immaginato una sorta di enorme lucerna arrugginita, con vetri opachi colorati e luci insolite. Non doveva essere “bella” nel senso più tradizionale del termine, anzi l’errore nella simmetria della sua struttura doveva essere così evidente da rompere la perfezione dell’oggetto: secondo
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grande lanterna”. Così è nata l’idea.
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LUMINOUS CRAFTS_ TOLSTOY’S LANTERNS IN PENNABILLI
L'arte e la letteratura sono l'emanazione morale della civiltà, la spirituale irradiazione dei popoli. Giosuè Carducci
How does the idea for a work of art come into being? Sometimes it’s all down to chance, that capricious spark that can leap across great distance of space and time. And in fact it’s a series of happy coincidences that links Pennabilli, a small town in the hills between Romagna and Marche, and Astapovo, a village lost in the endless Russian steppe. Pennabilli is home and workplace to Tonino Guerra, the multi-faceted Romagnol poet and artist whose vast output reflects his tireless exploration of new avenues of expression. For some time now Guerra has been making trips to his beloved Russia, a country which he knows intimately and which is the homeland of his wife, Lora. During one of these trips Guerra decided to retrace the final journey of one of the greats of world literature, Leo Tolstoy, author of such masterpieces as War and Peace and Anna Karenina and inventor of the theories of non-violent resistance which were later to influence Gandhi. In the final days of October 1910, Tolstoy, then aged 82, decided to give up and leave. Family problems contributed to this decision, but the primary factor was his anxiety to remain true to his artistic principles and to renounce the material comforts of his noble status. He set off by train with no fixed destination, but failing health soon forced him to cut short his journey, and he alighted at the station of Astapovo, where he died on 7 November. In his later years Tolstoy had been an object of veneration for his many followers, and his funeral, held in Astapovo, attracted enormous crowds, despite attempts by the authorities to prevent this. The station at Astapovo now features a plaque and a small lantern in remembrance of these events. It was here, almost a hundred years after the novelist’s death, that Tonino Guerra found himself standing: “What’s needed is a big lantern,” Guerra decided. And thus the idea was born. Guerra conceived the idea of a huge, rusty oil lamp with opaque coloured glass and unusual lights. Not “pretty” in the conventional sense of the term, with a deliberately skewed symmetry designed to “spoil” the perfection of the lantern. Only in this way, felt Guerra, could a piece of workmanship rise to the status of art: beauty and harmony are unattainable but it’s the job of the artist to pursue them nevertheless. Guerra’s lantern began with a few casual sketches; but it took a further happy coincidence for the idea to become material reality. What Guerra now needed was to find someone to actually make the lantern. This someone was Aurelio Brunelli, a gifted and mercurial craftsman who proved himself fully capable of turning Guerra’s ideas into palpable reality. The two men met on various occasions during the project in an attempt to hit on the vital harmony of perspective without which the lantern could never have come into being. New sketches were made and a few practical modifications introduced to make the transition from paper to “concrete” easier. Brunelli then retired to devote several days of uninterrupted work to the manufacture of the lanterns. Guerra was delighted and not a little amazed to be presented with the finished work on the agreed deadline of 16 March 2007 – his birthday. This extraordinary set of seven lanterns, each a minor masterpiece, was put on display in the Oratorio di Santa Maria della Misericordia, the small church of Pennabilli, and was later the star attraction in the Luminous Crafts exhibition organized by Il Mondo di Tonino Guerra cultural association. But this first exhibition was only the beginning, a brief pause before the lanterns set off on a tour of Russia and Armenia, following an itinerary painstakingly put together by Lora. Without seeing them at first hand, it’s impossible fully to comprehend the fascination exerted by these sculptures of rusted iron, the power that their unlikely origins invests them with. It’s nice, in fact, to see them as itinerant monuments to the memory of a great writer and his final gesture of peaceful revolt. These days, however, when nothing has value unless it has use, we can also appreciate Tolstoy’s lanterns precisely for their uselessness – for the delight they give to our eyes, and the way their strange light seems to illuminate our souls.
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Tonino solo in questo modo si può ritenere artistico un lavoro, in quanto la bellezza e l’armonia sono talmente irraggiungibili da dover essere comunque ricercate ed inseguite. L’opera d’arte comincia sempre da qualche schizzo casuale; per poter diventare “un’entità”, però, serve un’altra coincidenza fortunata, ossia trovare la mano che la realizzi. La mano a cui si è affidato Tonino è stata quella di Aurelio Brunelli, artigiano geniale e imprevedibile, che in questo caso è stato ancora più abile, in quanto è riuscito ad interpretare i pensieri e le idee del grande poeta romagnolo, concretizzando e costruendo, con umiltà, “realtà” che prima erano solo nella sua mente. Nel corso della realizzazione si sono resi necessari diversi incontri tra i due, con l’intento di trovare l’indispensabile sintonia e sono stati fatti nuovi schizzi ed alcune modifiche pratiche per poter passare dall’oggetto disegnato a quello “concreto”. Con una certa incredulità, dopo molti giorni di lavoro ininterrotto, l’opera è stata ultimata entro un termine prestabilito, il 16 marzo 2007, giorno del compleanno di Tonino. Così la straordinaria serie di sette lanterne, ognuna un piccolo capolavoro, è stata esposta nell’Oratorio di Santa Maria della Misericordia, la chiesetta di Pennabilli, ed è diventata il pezzo forte della mostra “Artigianato Luminoso”, allestita dall’Associazione Culturale “Il Mondo di Tonino Guerra”. Ma questa prima esposizione non è stata che l’inizio della “vita” delle lanterne, una breve sosta prima di intraprendere un lungo viaggio per essere ammirate anche in Russia e in Armenia, secondo il progetto che Lora ha caparbiamente sostenuto. Del resto è quasi impossibile, senza averle osservate dal vero, comprendere appieno il fascino emanato da queste sculture di ferro arrugginito, che possiedono quella forza che proviene dal passato. In effetti, ci sembra bello considerarle come monumenti itineranti, in memoria di un grande scrittore e Ma nella nostra realtà attuale, in cui la concretezza e la praticità appaiono valori irrinunciabili, in un certo senso potremmo apprezzare le lanterne di Tolstoj anche per la loro “inutilità”, per il fatto di essere piccoli piaceri per gli occhi, che con la loro luce particolare alimentano le speranze.
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del suo ultimo gesto di pacifica rivolta.
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A n g e l a m a r i a Go l f a re l l i
Giovanni Marchini poe tica ma cch ia iola de lla ma linco nia foto d’archivio
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Era nato a Forlì nel dicembre del 1877, in quella magica stagione di cui possedeva l’avvolgente malinconia che, come una coltre di galaverna, copre l’animo umano.
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nella sua opera aveva sovente ritratto la natura silenziosa e assopita che in inverno, più che in ogni altra stagione, si concede alla lentezza e alla sosta
cogliendone pienamente le movenze e quel forzato riposo che tutte le creature paiono agognare. Rientrato in Italia dall’Argentina (dove la sua famiglia era andata a cercare fortuna) Marchini si recò giovanissimo a Firenze per completare la sua formazione artistica sotto la guida di G. Fattori. Forte di uno straordinario talento e di grande umanità, fece della sua opera quella preziosa gemma visiva che allo sguardo aggiunge emozione. Davanti alle sue opere, che ho potuto recentemente riammirare grazie alla gentilezza del figlio Arrigo, ci si sente rapiti da una nebbia emotiva che induce ad entrare nella loro anima garbatamente, ma da cui non si riesce facilmente ad uscire. Nel suo ritrarre la natura è delicato e poetico, nel suo ritrarre animali e persone è
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La malinconia, sempre inseparabile dal sentimento del bello. Charles Baudelaire
GIOVANNI MARCHINI_ THE MELANCHOLY MACCHIAIOLO Giovanni Marchini was born in Forlì in December 1877, in that magic season which must have imparted to him its all-enveloping melancholy that covers the human soul like a blanket of hoar frost. In his paintings Marchini often depicted nature locked in the stillness and silence of winter, the season that is especially conducive to making us stop and reflect, capturing to perfection its muted rhythms and the state of enforced repose for which creation seems to yearn. On his return to Italy from Argentina (where his family had emigrated) Marchini was still a young man, and headed to Florence to complete his artistic training under the guidance of Giovanni Fattori. An artist of extraordinary talent and great humanity, Marchini was to produce work of extraordinary emotive as well as visual appeal. To look at his work, which I recently had the chance to admire again thanks to the kindness of Marchini’s son Arrigo, is to feel enveloped in a mist of emotion which gently lures us inwards, but which isn’t easy to escape. In his depictions of nature Marchini is delicate and poetic; in his depictions of animals and people he is timid, almost fearful. What always prevails, however, is the respect that the man and the painter feel towards that supreme prodigy, Creation, a respect that rises to a veritable degree of contemplation in the long sojourns at the Raggio (the estate he had bought in Passo dei Mandrioli and where he moved with his family every summer – a place whose beauty is attested in many of his works). Every single one of Marchini’s works elicits an almost religious sense of wonder, and it’s through this sense of wonder that reflection on his work is most productive. From Il cavallo narratore (inspired by a story by Tolstoy, who wrote to Marchini to thank him after having seen the painting) to I vecchi al ricovero, his art seems to carry the observer off on a journey fraught with poetry and the spontaneity of the intimate. Marchini’s self-portraits show an austere and severe man with a refinement brought into extra relief by his lean and slender physique, but always absorbed in that pensive melancholy that he only ever abandoned in his everyday family life. Faithful to his style, Marchini rarely explored new expressive forms, and when he did he would promptly abandon them and return to the macchiaiola style which let him express and transmit so much. Marchini’s house is full of the memories of a life and mood which still feeds on his presence. He died on 18 February 1946, in that same silent season which saw his birth. But “Giov” – as Marchini sometimes liked to sign his painting – lives on in his works and in the memory of those who are old and fortunate enough to have known him. His art still speaks for itself – with that emotion-laden silence that words simply cannot convey, and a power that only the soul can understand. It’s imbued with that melancholy which impels every artist infected with it to express it in his or her own work. Marchini explored this melancholy with incredible intensity in his paintings. They are a precious artistic and human heritage which we cannot allow to fall into oblivion.
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timido e quasi timoroso. Sempre, però, prevale il rispetto che l’uomo e il pittore sentono verso quel grande prodigio che è il Creato e che diventa vera e propria contemplazione nei lunghi periodi passati al “Raggio” (podere che aveva acquistato al passo dei Mandrioli in cui si trasferiva ogni estate con la famiglia e di cui molte sue opere testimoniano la bellezza). Ogni sua singola opera meriterebbe riflessioni raggiunte attraverso quella religiosa dimensione che è lo stupore. Da “Il cavallo narratore” tratto da una novella di Tolstoj (che gli scrisse per ringraziarlo personalmente dopo aver visto il quadro), a “I vecchi al ricovero”, percorrere la sua arte rasenta una sorta di viaggio a cui non si può non riconoscere il grande pregio di una poetica densa di intima spontaneità. Austero e severo, ma dotato di una signorilità messa in risalto da un fisico asciutto e slanciato, si autoritrae sempre assorto in quella pensierosa malinconia che solo nella quotidianità familiare abbandona. Fedele al suo stile, raramente cercò nuove forme espressive e puntualmente le abbandonò per ritornare alla pittura macchiaiola, che tanto gli permetteva di esprimere e trasmettere. Nella sua casa i ricordi di una vita e un’atmosfera che ancora si nutre della sua presenza. Morì il 18 febbraio 1946 (sempre in quella silente stagione che gli aveva dato i natali), ma Giov, come lui stesso a volte amava firmarsi, vive nella sua opera e nel ricordo di quanti di lui conservano ancora la fortuna della memoria. La sua arte parla per lui con quel silenzio non certo privo di emozioni che le parole tentano di tradurre, ma che solo il più alto linguaggio dell’anima può percepire. E racconta quella malinconia che spinge ogni artista che ne è contagiato a trasferirla alle proprie opere. Marchini l’ha saputa profondere con tale intensità sulle sue tele, tramandando una preziosa eredità artistica e umana, da non lasciar cadere nell’oblio. Arte
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Territorio Vivere sulla faglia_ quando la Romagna trema Living on the fault line_ when Romagna trembles Santa Sofia_ arte in natura
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Santa Sofia_ art in a natural setting
Storia Il “professore tedesco”_ Friedrich Schürr, glottologo conquistato del vernacolo romagnolo The German professor_ Friedrich Schürr, linguist of the Romagnol vernacular
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I tesori sepolti di Mussolini_ ricchezze e verità mai venute alla luce
Passioni
The hidden treasure of Mussolini_ the riches (and the truth) that have never been brought to light
Ninne nanne romagnole_ antiche melodie materne Lullabies of Romagna_ songs our mothers sang to us
San Giorgio e il drago_ dalla Leggenda Aurea all’orazione popolare romagnola
I tempi del trebbo_ momento agreste della vita sociale invernale
St George and the dragon_ from the Golden Legend to popular religious belief in Romagna
In the times of the trebbo_ a winter gathering of the rural community
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Enogastronomia Pane di Natale_ dolce tradizionale da resuscitare Pane di Natale_ a tradition worth reviving Gallegati_ raro “corallo” di collina Gallegati_ from the “coral” vineyards
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Arte Artigianato luminoso_ le lanterne di Tolstoj a Pennabilli Luminous crafts_ Tolstoy’s lanterns in Pennabilli Giovanni Marchini_ poetica macchiaiola della malinconia Giovanni Marchini_ the melancholy macchiaiolo
I Sensi di Romagna Periodico edito da CERDOMUS Ceramiche S.p.A.
numero 18.
febbraio 2008 Periodico edito da CERDOMUS Ceramiche S.p.A. 48014 Castelbolognese (RA) ITALY via Emilia Ponente, 1000 www.cerdomus.com Direttore responsabile Luca Biancini Progetto Carlo Zauli Luca Biancini Grafica e impaginazione Jan Guerrini/Cambiamenti per Divisione immagine Cerdomus Coordinamento editoriale Alessandro Antonelli Redazione Tommaso Attendelli Giuliano Bettoli Stefano Borghesi Angelamaria Golfarelli Italo Graziani Vanna Graziani Paolo Martini Alba Pirini Manlio Rastoni Valentina Santandrea Tatiana Tomasetta Carlo Zauli Foto Archivio Cerdomus Archivio Associazione “Istituto Friedrich Schürr” Archivio Valentina Santandrea Archivio Stefano Borghesi Archivio Tatiana Tomasetta Archivio Paolo Martini Archivio Giuliano Bettoli Archivio Gallegati Archivio Italo e Vanna Graziani Archivio Angelamaria Golfarelli Jan Guerrini Manlio Rastoni si ringraziano _ Ufficio stampa del Comune di Santa Sofia _ Biblioteca Comunale Manfrediana di Faenza _ Pinacoteca Comunale di Faenza _ Bernd Wilm _ Famiglia Marchini si ringrazia per la preziosa collaborazione Maddalena Becca/Divisione immagine Cerdomus Traduzioni Traduco, Lugo Stampa FAENZA Industrie Grafiche ©CERDOMUS Ceramiche SpA tutti i diritti riservati Autorizzazione del Tribunale di Ravenna nr. 1173 del 19.12.2001