Magazine EE nr 27

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Cerindustries SpA

numero 27 gennaio 2012


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entre il ciclo stagionale porta le latitudini italiane verso temperature più rigide, la melanconica atmosfera della Natura che si chiude in se stessa può suggerire l’invito a calarsi in un excursus temporale attraverso cui osservare i corsi e ricorsi della terra che illustriamo: la Romagna. Uno sguardo che dal passato remoto spazi fino a un presente già affacciato sul domani. Ecco allora l’acqua delle sorgenti levigare la roccia cesellando nei secoli il panorama, misurandosi con la mano dell’uomo, che segue tempi ben più cadenzati quando ne modifica l’aspetto. Vecchi opifici diventano spazi consacrati al Design e polle d’acqua sulfurea vengono circondate da palazzi eretti in ossequio al culto del benessere. Gli antichi metodi di coltura si perpetuano in sordina e il fazzoletto di terra lavorato per “sbarcare il lunario” si trasforma in un piccolo laboratorio agricolo avanzato. Il “pane dei poveri” si riscopre una ricercata specialità gastronomica e il vino delle colline, prima di “fare buon sangue”, deve conquistare i sensi. L’arte “ufficiale” muta da sacra a profana; concepita un tempo per riunire le masse sotto un ideale, si impegna oggi a risvegliare la coscienza individuale. Intanto, la Romagna secolare, testimone di avvenimenti che cambiano il destino di una nazione come di paradossali episodi che strappano più di un sorriso, continua a “osservare” curiosa le vicende che si alternano tra i suoi confini. Quelle “incredibili storie vere”, parafrasando Guareschi, che contribuiscono a plasmare la poetica di un territorio. Alcune delle quali vi aspettano dietro a questa pagina.

As the season changes and Italian latitudes

La Redazione di ee

ee editorial team

EDITORIALE

turn colder, nature seems to close in upon itself. It’s a time of year that invites us to cast our thoughts back in time and train our gaze on Romagna past and present. From the remotest past to a present that’s already turning into the future. Spring waters that ooze from polished rock and hone the landscape over a span of millennia, and human intervention that has changed it far more quickly. Disused factories reborn as shrines to design; sulphurous springs surrounded by hotels erected in homage to the cult of well-being. Ancient cultivation methods that quietly endure, scraps of land that peasants worked to make ends meet transformed into advanced openair laboratories of agriculture. The bread of the poor reinvented as a gastronomic treasure, and wine from the hillsides that nourishes the senses as it fortifies the blood. Art that was once sacred is now profane; where once it mobilized the masses under a single banner, now it awakens individual consciences. Romagna over the centuries has been the scene of events which have shaped the destiny of a nation, of comical episodes that have brought a smile to our faces. Incredible true stories, to paraphrase Guareschi, the ones that give a place its unique poetry. Turn the page and some of these stories are yours to read.

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ea r th elem en t



La natura unisce qualche volta alle nostre azioni effetti e spettacoli con una specie di prefazione cupa e intelligente, come se volesse farci riflettere. Victor Hugo

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Sovrana tra le cascate romagnole I L S A Lt o D E L L ’ A C Q U A C h E tA Che sia stata la lunga perifrasi dantesca dedicatale a salvare la cascata dell’Acquacheta dalle pale eoliche, non lo si può dire; di certo il più famoso dei fiorentini l’ha fatta entrare a pieno titolo nel novero dei parchi letterari. valentina santandrea

immagini: archivio provincia di forlì-cesena, paolo simoncelli

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Sensi

di

Romagna


fu il fragore della cascata, dal salto di 70 metri, nei pressi di San Benedetto in Alpe, a conquistare il Sommo

foreste Casentinesi, Monte falterona e Campigna. La cascata è immersa in una foresta di querce, castagni e

Poeta, durante il suo peregrinare fuggiasco nel 1302.

faggi. Un punto panoramico particolarmente privilegiato

Lo stesso suono rumoroso del flegetonte, uno dei fiumi infernali, che tra il settimo e l’ottavo cerchio compiva un

è certamente la piana dei Romiti: un pianoro erboso che mostra le rovine di un antico convento benedettino costruito

salto: “Come quel fiume c’ha proprio camino / prima

nel 986. Il successivo corso del torrente, costeggiato da

dal Monte Viso ‘nver’ levante / da la sinistra costa d’Apennino / che si chiama Acquacheta suso, avante /

una mulattiera, è caratterizzato da brevi salti rocciosi e da profonde pozze balneabili. Nascosti tra rovi e ortiche, si

che si divalli giù nel basso letto/ e a forlì di quel nome è vacante, / rimbomba là sovra San Benedetto / de l’Alpe per cadere ad una scesa / ove dovea per mille essere

intravvedono poi diversi resti di vetuste abitazioni, in luoghi impervi battuti per lo più dai cinghiali. Sono le case di Pian della Posta, una manciata di ruderi situati sul pianoro

recetto; / così, giù d’una ripa discoscesa, / trovammo risonar quell’acqua tinta, / sì che ‘n poc’ora avria

lungo la mulattiera che unisce toscana e Romagna, sito che ospitava anticamente una stazione di posta per i

l’orecchia offesa”. L’Acquacheta è un piccolo corso d’acqua che nasce nei pressi del Monte Lavane, Comune di San Godenzo (firenze) e sfocia nell’Adriatico, nei pressi di Ravenna. Sulle colline sopra a San Benedetto in Alpe precipita da un salto di arenaria, dividendosi in mille rivoli per poi unirsi al torrente troncalosso, mutando il proprio nome in “Montone” nel territorio forlivese. tutta la valle, area protetta dal 1990, si estende su circa 36.000 ettari di grande ricchezza ambientale e costituisce uno degli elementi più importanti del Parco Nazionale delle

viandanti. Più avanti si incontra ciò che rimane dell’abitato di Pian Baruzzoli, che alla fine degli anni Settanta ospitò anche una comunità di Diggers, gli “Zappatori” del movimento di controcultura che prendeva le mosse dalla fazione comunitaria inglese del 1600, al grido di “la terra a chi la lavora”. occupando i luoghi selvaggi abbandonati, cercavano di ristabilire un rapporto profondo con la terra e con la Natura, filosofia che, trent’anni dopo, ritroviamo nell’odierno exploit del (business del) biologico. E quale luogo meglio dell’Acquacheta poteva offrire loro l’ideale atmosfera per tale salto indietro nel tempo?

Q UE E N of C A S C A D E S : the waterfalls of Acquacheta It’s difficult to say for sure whether it was Dante’s verses that saved the waterfalls of Acquacheta from the wind turbines; but Florence’s most famous son certainly did make them a literary landmark. It was the noise of the waterfalls – a spectacular 70-metre-high cascade near the village of San Benedetto in Alpe – that captured the poet’s imagination when he came here in 1302 during his wanderings in exile. The same deafening noise was made by the Phlegethon, one of the rivers of hell that separated the seventh and eighth circles of Dante’s Inferno: “Even as that stream which holdeth its own course / The first from Monte Viso towards the East / Upon the left-hand slope of Apennine / Which is above called Acquacheta, ere / It down descendeth into its low bed / And at Forlì is vacant of that name, / Reverberates there above San Benedetto / From Alps, by falling at a single leap / Where for a thousand there were room enough; / Thus downward from a bank precipitate, / We found resounding that darktinted water, / So that it soon the ear would have offended.” The Acquacheta is a small stream that rises in Monte Lavane above the village of San Godenzo, near Florence. It flows into the Adriatic near Ravenna. In the hills above San Benedetto in Alpe, its course is interrupted by a sandstone precipice where it divides into a thousand

rivulets before joining the Troncalosso torrent. This combined river changes its name to the Montone in the vicinity of Forlì. The valley of the Acquacheta has been a protected area since 1990 and extends over an area of 36,000 hectares of exceptional environmental value as one of the leading elements of the Foreste Casentinesi, Monte Falterona and Campigna national park. The waterfall itself is set in a forest of oaks, chestnuts and beeches. Nearby, there are spectacular views from the plateau of Romiti, a grassy plain with the ruins of a Benedictine monastery built in 986. Here the stream flows alongside a mule trail before it hits the precipice, descending over a series of rocky ripples to pools that are deep enough to swim in. Lost among thickets of bramble and nettle are a number of old buildings in all-but inaccessible spots frequented mainly by wild boars. These are the remains of Pian della Posta, now just a handful of ruins dotted along a mule-trail that leads from Tuscany into Romagna but formerly the site of a staging post for mail coaches. A little further away are the ruins of Pian Baruzzoli, which in the late 18th century was home to a community of zappatori, a farm labourers’ counterculture that took its inspiration from the 17thcentury Diggers movement in England, whose slogan was “the land to who works it”. Occupying wild and abandoned places, the Diggers sought to re-establish a rapport with the earth and nature. All these years later, their philosophy lives on in the organic farming business. And where better than Acquacheta to make the leap back in time?

Territorio

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Le due diverse anime di un paese “siamese” P R E D A P P I o A LtA E P R E D A P P I o “ N U o V A ” luca biancini

immagini: archivio provincia di forlì-cesena, tiziana catani, fabio liverani

Un antico paese arroccato sulle colline forlivesi, stretto intorno alla sua rocca, e una moderna cittadina considerata una delle massime espressioni dell’architettura razionalista. Il cordone ombelicale che lega questi due centri abitati è una tortuosa stradina di circa tre chilometri ed entrambi rispondono al nome di Predappio.

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Nome che deriverebbe dall’insediamento qui fondato, in epoca romana, dalla famiglia patrizia degli Appi, da cui la denominazione Praesidium Domini Appi , poi abbreviata in Pre.D.i.Appi. Dai reperti più antichi l’area risulta però essere abitata fin dall’Età del bronzo. La sopraccitata dicotomia si sviluppa nella storia moderna, alla quale Predappio ha vivamente partecipato dando i natali a uno dei più controversi personaggi del Novecento, Benito Mussolini, e a uno dei protagonisti della lotta di Liberazione, Adone Zoli, entrambi divenuti presidenti del Consiglio, rispettivamente del Regno d’Italia e della Repubblica Italiana. fu per volere del primo che, in seguito alla rovinosa frana che nel 1923 colpì il nucleo abitato originario, si decise di spostare il paese a valle. Un’occasione propizia, prontamente colta dal partito fascista, per costruire la scenografia adeguata alla celebrazione mediatica delle origini del duce, giacché il sito scelto per la nuova cittadina fu proprio la frazione di Dovia, dove Mussolini era nato.

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L’uomo fa il luogo, e il luogo l’uomo. Proverbio popolare italiano

di

Romagna


t h E t w o fA C E S of Predappio

All’ingegnere florestano di fausto fu dunque affidato il compito di progettare e costruire la cosid-

An old village nestled in the hills of Forlì, its houses clustered around its castle, or a modern city considered as one of the finest achievements of rationalist architecture? A narrow and tortuous road around three kilometres long links these two places, which both go by the name of Predappio.

detta Predappio Nuova (oggi semplicemente Pre-

The name is believed to derive from that of a settlement founded here during the Roman period by a patrician family, the Appi. The original designation, Praesidium Domini Appi, would later have been abbreviated to Pre.D.i.Appi. Archaeological finds have shown that the area was inhabited as early as the late Bronze Age. Curiously, the physical dichotomy that characterizes Predappio has its counterpart in recent history. For the town - or towns - are the birthplace of one of the most divisive figures of the 20th century, Benito Mussolini, and a leading player in the struggle for liberation, Adone Zoli. Both men rose to become prime ministers of Italy, respectively of the Kingdom of Italy and the Italian Republic. After the original town was destroyed by the disastrous landslide of 1923, Predappio was rebuilt lower down the valley on the orders of Mussolini. For the ruling fascist party, the reconstruction was an opportunity to celebrate the birthplace of Il Duce in a fitting setting – the chosen site for which was the small hamlet of Dovia where Mussolini had been born. The architect entrusted with the construction of Predappio Nuova (as the new town was to be known; today it’s just Predappio) was Florestano Di Fausto. His mission: to reflect the image and the philosophy of the regime. Naturally, the architectural idiom chosen by Di Fausto was rationalism, as evident (in a degree verging on the didactic) in buildings such as the former Casa del Fascio with its massive volumes of brick and Roman travertine, the posts, telegraphs and telephones office with its two tiers of arcades, the Carabinieri barracks, the provisions market (a semicircle enclosed by a portico of 12 arches) and many other buildings. Today, these examples of rationalist architecture together form the town’s openair “Urban Museum”, with explanatory panels outside each of the buildings on the museum itinerary. Mussolini’s home town was built to consolidate the association between the popular origins of Il Duce and the modernity represented by public works, but it’s also one of the six “foundation cities” (towns conceived according to a rigorous planning project and built as an organic whole) developed in Italy during the fascist period. The others are Alghero, Tresigallo, Arborea, Torviscosa and Latina. With the end of fascism, in an attempt to lose the taint of its now-inconvenient fellow citizen, the municipal council decided to replace the fasces on the town’s new coat of arms with a stylized bunch of Sangiovese grapes, another local “personality” with a long pedigree in Predappio – as the museum of wine, in the castle of Predappio Alta, attests. A neat way of keeping everyone happy.

dappio), che doveva rispecchiare l’immagine e la filosofia del Regime. Il “linguaggio” architettonico di cui egli si ser vì fu naturalmente lo stile razionalista, come dimostrano, in maniera quasi didascalica, edifici quali la ex Casa del fascio (con il suo massiccio corpo in mattoni e travertino romano) l’edificio postelegrafonico (dotato di portico a due arcate), la caserma dei Carabinieri, il mercato dei viveri (esedra porticata con 12 arcate) e molti altri fabbricati. oggi la struttura e le architetture di Pre-

Territorio

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dappio costituiscono un museo all’aria aperta, denominato Museo Urbano, formato da un percorso guidato corredato da pannelli esplicativi. Il “paese di Mussolini”, costruito per rinsaldare il legame fra le sue origini popolari e la modernità rappresentata dalle opere pubbliche, è anche una delle sei “città di fondazione” (nuclei abitativi nati sulla base di un preciso progetto urbanistico e costruiti tramite un inter vento unitario) in Italia, insieme ad Alghero, tresigallo, Arborea, tor viscosa e Latina. Con la fine del Ventennio, per prendere le distanze dal suo ingombrante concittadino, il Comune ha deciso di sostituire il fascio littorio, che compariva nel nuovo stemma comunale, con un grappolo stilizzato d’uva Sangiovese, altra “personalità” che a Predappio affonda storiche radici, come av valora anche il Museo del Vino ospitato dalla rocca di Predappio Alta. Un modo schietto per mettere tutti d’accordo.


angelamaria golfarelli

La forza di un’idea diventa patria:

immagini: archivio museo del risorgimento “a. saffi” (forlì), luca giordani

AURELIo SAffI Così lo scrittore russo Aleksàndr Herzen, allora esule (a Londra), descrive Aurelio Saffi, delineandone quel profilo assente di caratteri somatici che senza svelarne le sembianze in realtà lo raffigura perfettamente:

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di

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La vita di un popolo non consiste nel diritto di eleggere i propri rappresentanti, ma nell’invogliarli, nel dirigerli sulla via, nel trasmettere loro la propria ispirazione. Aurelio Saffi

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“fra i non russi non ho mai incontrato un carattere più puro e semplice di Saffi. Gli occidentali sono spesso corti di mente e perciò appaiono semplici, bonaccioni: ma le nature geniali sono di rado semplici… Ecco perché ci si sente tanto confortati quando in questa calca di mediocrità pretenziose ci si imbatte in un uomo forte, senza la minima imbellettatura, senza l’amor proprio che stride come un coltello sul piatto. Come quando dopo una rappresentazione diurna si esce nel sole da un afoso corridoio di teatro illuminato dalle lampade, e in luogo di magnolie di cartapesta e di palme di tela si vedono autentici tigli e si respira l’aria sana. A quel tipo di uomini, appartiene Saffi” (dedica tratta dalla lectio magistralis del prof. Roberto Balzani). Un’immagine che, pur “distante” da Mazzini, di cui è prima discepolo poi amico inseparabile, ne sottolinea la complementarietà di pensiero e d’azione, sancendone il grande rapporto di amicizia che li vedrà uniti fino alla morte. Saffi nasce il 13 ottobre 1819 a forlì dove la sua famiglia dal 1740 possiede, in frazione San Varano, una bella villa, ex convento dei Gesuiti, trasformata in residenza estiva. La sua formazione, nonostante l’indirizzo giuridico, è caratterizzata dagli studi storici che sono anche il suo vero strumento di emancipazione dall’ambiente religioso e politico in cui era cresciuto. A oxford, dove è esule, incontra l’amore in Giorgina Janet Craufurd che diventerà poi sua moglie restandogli vicina per tutta la vita. Per lui una compagna perfetta, colta e intelligente, che condivide con ardore le idee mazziniane. Ella lo sosterrà sempre dando vita, una volta tornati in Italia, a un’intensa attività che la vedrà esponente del femminismo risorgimentale, impegnata a favore della lotta all’analfabetismo, del diritto allo studio e dell’istruzione pubblica. fu anche grazie a Saffi che la Romagna, coinvolta dal passaggio di Garibaldi nell’estate del 1849, del quale si ricordano ancora oggi le tappe di Cesenatico, Mandriole e Modigliana, riesce a tessere intorno al Generale quella fitta rete di intenti comuni che la portano a rendere attuabile “il disegno di Nazione nel territorio della piccola patria”. La trafila, come ben evidenzia il prof. Balzani, “assomma in sé più aspetti straordinari: la natura mista (popolare e borghese) della compagine che aiuta Garibaldi, la brevità dell’evento (consumato in soli 20 giorni), il dramma romantico che vede la morte di Anita e quell’aura leggendaria che circonda l’intera vicenda, tanto da dar vita a stazioni di un’autentica Via Crucis laica, che sopravvivono ancora oggi”. Aspetti che hanno fatto sì che la Romagna fosse, ad onore, la patria di uno dei suoi stessi padri.


t h E S t R E N Gt h o f A N I D E A B E C o M E S A C o U N t R y: Aurelio Saffi Thus the Russian writer Aleksandr Herzen, during his exile in London, on Aurelio Saffi: a description absent of physical traits but one which seems to sum him up nevertheless. “Among non-Russians I have never met a character as pure and simple as Saffi. Occidentals are often slow-witted and therefore appear simple and kindly: but genial natures are rarely simple… this is why we feel so comforted when amid this crowd of pretentious mediocrity we meet a strong man, without the slightest embellishment, without the pride that screeches like a knife on a plate. Like after a matinee when you come out from an oppressively hot, lamp-lit theatre corridor into the sun, and instead of cardboard magnolias and cloth palms you see real lime trees and breathe healthy air. To that type of man belongs Saffi” (dedication from the lectio magistralis of professor Roberto Balzani). It’s an image which, although “distant” from Mazzini, of whom Saffi was first a disciple and later an inseparable friend, underlines a complementarity of thought and action which sealed the great tie of friendship which bound them until death.

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Saffi was born in the village of San Varano in Forlì on 13 October 1819, in an impressive villa and former Jesuit monastery which had been in his family since 1740 and was then used as their summer residence. Despite his training in law, Saffi’s background was characterized by his studies in history, a field in which he found his emancipation from the religious and political environment he had grown up in. In exile in Oxford, he found love with Giorgina Janet Craufurd, who became his wife and lifelong companion. Giorgina was perfect for Saffi: she was cultured and intelligent, and like him was a fervent supporter of Mazzini. On Saffi’s return to Italy she became a leading voice in Risorgimento feminism, and also threw in her lot with the fight against illiteracy and the campaign for public education. It was thanks to Saffi that Romagna, during Garibaldi’s passage through the region in the summer of 1849 (he was in Cesenatico, Mandriole and Modigliana), had the opportunity of joining with the General in the body of shared objectives which allowed it to make “the design of the Nation in the region of the little country” feasible. The episode, as Balzani has effectively shown, “draws together many extraordinary aspects: the mixed nature (popular and bourgeois) of Garibaldi’s power base, the brevity of the dénouement (it was all over in just 20 days), the romantic drama of the death of Anita and that legendary aura that shrouds the whole episode, the lineaments of a veritable humanist Via Crucis which still linger today”. And so Romagna can lay claim to an honourable position as the homeland of one of its own fathers.

Storia


manlio rastoni

immagini: archivio manlio rastoni

La commedia è una tragedia interrotta. Alan Ayckbourn

Un’avventura faentina di Ugo tognazzi L’INCIDENtE DEL MAIALE GIGEtto

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Nell’irripetibile Italia del secondo dopoguerra, il filone cinematografico della commedia all’italiana traeva spunto dalla vita reale e poteva anche capitare di vedersi superare sulle strade romagnole dalla spider di Ugo Tognazzi con un suino (ovviamente esanime) cinturato nel posto del passeggero.

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Sensi

di

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A spiegare come ciò sarebbe potuto accadere è un cronista d’eccezione: Paolo Villaggio, grande sodale di tognazzi e talvolta, come in questo caso, suo biografo non ufficiale, che include l’episodio tra le quattro “leggende vere” legate alla vita dell’attore cremonese di cui fu testimone diretto. Un bel giorno egli ricevette infatti una telefonata di tognazzi: “ho ucciso il maiale, faccio una cena”; alla richiesta di Villaggio di spiegargli perché avesse fino ad allora sempre rifiutato la sua proposta di comprarne uno a Velletri, egli si sentì rispondere che il maiale tognazzi lo aveva ucciso con l’automobile nei pressi di faenza. Dopo averlo investito era stato immediatamente circondato da un capannello di contadini adirati. La visione delle roncole e forconi branditi dai proprietari dell’animale lo aveva poi rapidamente convinto a risolvere la situazione offrendosi di comprare lo sventurato maiale. Non avendo altri mezzi a disposizione per trasportarlo e andando di fretta, tognazzi aveva dunque sfruttato, in modo atipico, la versatilità della sua spider caricandolo a bordo e fissandolo al sedile con la cintura di sicurezza. I resti di Gigetto, così era stato prontamente battezzato il suino, erano dunque finiti nell’enorme refrigeratore della sua villa a torvaianica, che, secondo l’aneddotica tognazziana, egli considerava una sorta di santuario pagano e in cui conservava le vivande che acquistava o che gli venivano regalate, il cui periodo di permanenza nel frigo poteva protrarsi anche per periodi estremamente prolungati.

UG o to G N A Z Z I ’ S A DV E N t U R E I N fA E N Z A the incident of Gigetto the pig Post-war Italy was an unrepeatable place where the film genre known as the Commedia all’italiana lifted its inspiration from episodes from real life. Like being overtaken on a road in Romagna by the two-seater sports car of Ugo Tognazzi with a dead pig in the passenger seat (with seat belt on). The witness to this episode was an exceptional storyteller, Paolo Villaggio, a great friend of Tognazzi and for occasions such as this his unofficial biographer. Villaggio includes the episode among the four “true legends” of his Cremonaborn friend and fellow actor of which he was a direct eye-witness. It all started when Tognazzi called Villaggio on the telephone: “I’ve killed the pig, I’ll organize a dinner.”. Asked by Villaggio to explain why he’d always refused to buy one in Velletri, Tognazzi explained that he’d run over and killed the pig near Faenza. Immediately after the accident, Tognazzi found himself surrounded by a group of irate peasants. Seeing the hooks and forks brandished by the pig’s owners, Tognazzi quickly resolved to defuse the situation by offering to buy the unfortunate animal. But with no means of transporting the pig other than his two-seater sports car, Tognazzi had no choice but to put the pig in the passenger seat, securing it with the seat belt. And so Gigetto – as the pig had been quickly baptized – ended up in the enormous freezer of Tognazzi’s villa in Torvaianica. According to the mythology that has grown up around the actor’s reputation, Tognazzi saw this freezer as a kind of pagan sanctuary where he kept all the victuals he bought or was given. Tognazzi kept food for years in this freezer, as Villaggio could attest. The menu Tognazzi concocted for an Assumption Day feast years after the incident with the pig included – alongside “Easter Dove bread with slices of Christmas panettone made with sour cream” – a dish named “brodetto of beans with Gigetto’s skin on the bone”. Evidently Tognazzi also saw his freezer as a sanctuary in the sense of a place with supernatural powers. Gigetto the pig therefore became part of the recipes with which Tognazzi “tortured” his guests. He had a reputation as a great cook, but not the vocation, and in fact was notorious among his circle of friends, colleagues and relatives for the indigestible suppers he served up. Ugo Tognazzi made quite a few films in Romagna, but Gigetto the pig was surely his most peculiar souvenir of our region – and in all likelihood was also present (in his capacity as an ingredient) at the famous “secret ballot” dinner, also described by Villaggio, where director Mario Monicelli gathered up some leftovers and declared his intention of taking them to the Italian Institute of Criminology.

A testimonianza di ciò, Villaggio riporta come nel menu stilato da tognazzi per un pranzo di ferragosto che si tenne anni dopo il sopraccitato incidente, comparisse, a fianco del piatto “colomba pasquale con fette di panettone natalizio alla panna acida”, la portata “brodetto di fagioli con le cotiche all’osso di Gigetto”. Evidentemente tognazzi considerava il suo congelatore un santuario anche nel senso in cui gli attribuiva virtù soprannaturali. Il maiale Gigetto è così entrato a far parte delle ricette con cui tognazzi “seviziava” i suoi ospiti. Del grande cuoco, infatti, egli possedeva la fama, ma non la vocazione ed era noto nel suo ambiente per le indigeste cene a cui invitava solennemente amici, colleghi e parenti. Della terra di Romagna, in cui girò un certo numero di pellicole, tognazzi conservò dunque pure questo insolito souvenir, che probabilmente si trovò a partecipare (ancora in qualità di ingrediente) anche alla famosa cena con votazione segreta, sempre descritta da Villaggio, in cui il regista Mario Monicelli portò via alcuni avanzi con l’intento dichiarato di recapitarli all’Istituto italiano di criminologia. Storia

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riccardo castaldi

immagini: riccardo castaldi

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Quando la vite veniva “maritata” a un albero LA PIANtAtA RoMAGNoLA Osservando la campagna romagnola con attenzione, è ancora possibile individuare le rare piantate rimaste, una sorta di “museo viticolo” a cielo aperto che ci ricorda come avvenisse in passato la coltivazione della vite e come fosse organizzato il territorio agreste.

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Sensi

di

Romagna

Albero non piantar pria della vite. Alceo

La piantata, o alberata, altro non è che un filare isolato, che si caratterizza per il fatto che le viti sono avvinghiate a tutori vivi, quali l’acero campestre e l’olmo. Presenti anche in altre regioni italiane, le piantate delimitavano appezzamenti di larghezza compresa tra 30 e 35 metri, nei quali avveniva la coltivazione di cereali e foraggiere. La piantata romagnola si differenziava per la presenza degli schioppi, pali orizzontali montati a sbalzo sugli alberi e perpendicolari alla sua direzione, che sorreggevano all’estremità un filo su cui venivano fissati i tralci. Le sue origini si perdono nella notte dei tempi, dato che nella porzione settentrionale della Penisola furono gli Etruschi a portare la vite selvatica fuori dai boschi e a trasformarla in coltura, facendola crescere abbarbicata a un albero, come avveniva in natura. tra i motivi alla base della sua diffusione troviamo la validità fisiologica di questo sistema, che consentiva di assecondare il vigore della vite, indotto dalla fertilità dei suoli della Pianura Padana. Importante anche il fatto che le chiome degli alberi proteggessero la produzione da gelate e grandine, fornissero fogliame per il bestiame, legna da ardere o da costruzione e, nel caso del gelso, permettessero l’allevamento del baco da seta.


Per soddisfare le esigenze alimentari della famiglia contadina, spesso tra olmi e aceri venivano intercalati alberi di pere volpine, mele cotogne, ciliegie e noci. Durante la dominazione di Roma, la diffusione della vite, e delle piantate, si intensificò; in questo periodo la vite “maritata” ad un tutore vivo venne denominata arbustum gallicum, in quanto diffusa nella Gallia Cisalpina. La caduta dell’Impero Romano causò una contrazione della viticoltura e il conseguente graduale abbandono della piantata, che sopravvisse solo all’interno delle mura cittadine o delle strutture ecclesiastiche, per ricomparire verso la fine dell’XI secolo. A partire da questo periodo, assunse un ruolo più importante rispetto al passato, divenendo intimamente connessa alla sistemazione idraulica del territorio e alla suddivisione degli appezzamenti, delineando un paesaggio che si è conservato intatto fino al secondo dopoguerra, quando la diffusione della coltivazione intensiva della vite e delle piante da frutto ne hanno decretato l’ultimo e definitivo declino. Merita di essere ricordato come la piantata sia stata degna dell’attenzione di Leonardo da Vinci, che, nel 1502, durante un soggiorno in Romagna, ebbe modo di osservare le viti, annotando che crescevano “come ghirlande attorno agli alberi”, appuntandosi alcune altre osservazioni e realizzando uno schizzo, oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi.

t hE M A RRI A G E o f V I N E A N D tR E E a typically Romagnol training method

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Looking closely at the countryside of Romagna, we can still see agricultural plots divided by a row of vines known as a piantata. Today the piantata is a kind of open-air relic, a museum exhibit: a reminder of how vines were once cultivated here, and how rural territory was organized. Simply put, a piantata is a row of vines whose distinguishing feature is that they are trained on live trees – typically field maple or elm. Also present in other Italian regions, the piantata system was formerly used to delimit plots of land, generally about 30 to 35 metres wide, used for growing grain and animal fodder. What makes the Romagnol piantata different is the use of schioppi, the horizontal spars which project outward from the trees at an angle of ninety degrees to the direction of the row. These spars had a string at the end to which the vines were tied. The origins of this system are as old as history: when the Etruscans first cultivated vines in northern Italy, they followed the example of nature and trained their vines around tree trunks. One of the reasons for the progressive uptake of this system was its physiological validity, as a means of lending extra vitality to vines whose roots already prospered in the fertile soils of the Po valley. Also important was the fact that the foliage of the trees protected the vines from frost and hailstones, while the trees also provided leaves for livestock, wood for burning and building and – in the case of the mulberry tree – a habitat for silk worms. To meet the nutritional needs of the rural population, fruit such as volpina pears, quinces, cherries and walnuts was also cultivated in the spaces between the trees. Under the Romans, vine growing – and the use of the piantata system – expanded. In this period the method of “marrying” vines to living trellises was known as arbustum gallicum, in reference to the widespread use of the method in Cisalpine Gaul. With the fall of the Roman empire came a reduction in viticulture and as a consequence the piantata system fell gradually

into disuse, surviving only within city walls or in the gardens of churches. It would later reappear at the end of the 11th century. And with its resurgence, the piantata now played a more important role than ever before in rural life. Along the lines of tree and vine water channels were now plotted, as were the demarcations of agricultural land. All this gave form to a landscape which remained largely unaltered until the Second World War, when intensive cultivation of vines and fruit trees marked the beginning of the inexorable decline of the piantata. The piantata system caught the attention of Leonardo da Vinci during the artist’s sojourn in Romagna in 1502. Observing the vines, da Vinci noted that they grew “like garlands around the trees”. Other notes were accompanied by a sketch which is now in the Bibliothèque Nationale, Paris.

Storia


alessandro antonelli

immagini: archivio angelo grassi

Sul cemento cresce il design

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fABBRICA , LA StRUt tURA ChE CUStoDISCE IL SoGNo CREAtIVo DI ANGELo GRAS SI È stato ribattezzato semplicemente Fabbrica l’ex cementificio S.I.C.L.I. situato a Gambettola (Cesena), che oggi, grazie a un intelligente e originale intervento di recupero architettonico, vive una nuova vita per mano del designer Angelo Grassi, il quale lo ha eletto a suo “quartier generale”. Riconvertito in cittadella dell’artigianato, dell’arte e della cultura, stupisce sia per il grande impatto estetico della struttura sia per la capacità di restituire al presente la preziosità dei mestieri di un tempo, portati avanti dagli artigiani che continuano a operare in alcuni di questi spazi. Angelo Grassi, classe 1953, dopo aver intrigato il mondo del design con le sue prime intuizioni legate all’incontro tra materia e tecnologia, tra materiali pregiati e riuso, sotto il segno dell’ecosostenibilità, ha iniziato a realizzare il suo sogno nel 1989 acquistando dal Comune di Gambettola l’ex cementificio S.I.C.L.I.

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I sogni si avverano: se non esistesse questa possibilità la natura non ci spingerebbe a sognare. John Updike

Uno stabile di grandi dimensioni situato di fronte alla stazione ferroviaria, circondato dai laboratori e dalle botteghe degli artigiani cittadini, che a quel tempo versava in condizioni di semi-abbandono, completamente ricoperto di polvere e cemento com’era. Spinto dall’esigenza di realizzare un laboratorio personale, Grassi ha collocato al suo interno il proprio studio di design, che da più di due decadi si occupa della progettazione e realizzazione di stand fieristici d’ogni tipo, di allestimenti (anche permanenti) per mostre, musei, padiglioni e showroom, nonché di scenografie per eventi. A questa attività si collega la produzione di mobili, realizzati in pezzi unici con legni provenienti dalle più diverse situazioni, e complementi d’arredo accomunati da un’attenzione particolare ai materiali, alla forma e all’innovazione. Ne sono un esempio le sedute, i tavoli e gli ombrelloni in ferro pensati quali strutture per piante rampicanti. L’intento è quello di animare con nuovi valori, coniugando sperimentazione e ironia, gli oggetti della quotidianità reinterpretandone i materiali (cemento armato, reti elettrosaldate, legno…) e il loro uso convenzionale. Il rapporto tra Design e Natura è un elemento costante nella visione creativa di Grassi, che, in collaborazione con il laboratorio San Rocco, ha realizzato anche un prodotto di design ecosostenibile grazie al quale è possibile creare pareti verticali con piante da giardino o da orto, collocabili all’interno o all’esterno. Attratto per temperamento dalle grandi sfide, Grassi, tramite successivi interventi sui blocchi delle diverse aree dell’ex cementificio, dopo oltre vent’anni di lavoro ha ottenuto un risultato straordinario e assolutamente imperdibile. Difficile comunicare la “portata” di un simile spazio con il solo ausilio delle parole e delle immagini statiche. Il modo migliore per valutare una simile location, e per recepire la filosofia estetica che permea questi ambienti, è visitarla, godendo della piena visione di quella che nel complesso non è fuori luogo definire un’opera d’arte.

Passioni

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fRoM CEMENt woRkS to DESIGN oASIS Angelo Grassi’s dream becomes reality at the “factory” The former SICLI cement works in Gambettola (Cesena) is now known simply as Fabbrica (the “Factory”). After an intelligent and sensitive redevelopment the building has been given a new lease of life by designer Angelo Grassi, who has pronounced it his “headquarters”.

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The new-look Fabbrica is a centre dedicated to art, crafts and culture, a visually impressive structure that establishes a continuity between the crafts of yesterday and tomorrow. Designer Angelo Grassi, born in 1953, first captured the attention of the design world with works that explored the links between material and technology and combined new and used media at a time when environmental sustainability was just an idea. In 1989 he bought the former SICLI cement works from the municipal council of Gambettola. A large building opposite the town’s railway station, surrounded by the studios and workshops of local craftsmen, it was a dusty and semiderelict ruin when Grassi bought it. Grassi needed his own working space at this time, and set up his own design studio inside the building. For the last twenty years this studio has worked on the design and installation of all kinds of stands for trade shows, interiors for exhibitions (temporary and permanent), museums, pavilions and showrooms, and set designs for all kinds of events. Grassi’s studio also produces unique pieces of furniture made from wood of diverse provenance and interior design accessories made with a rare attention to material, form and innovation. Examples are his chairs, tables and sunshades of wrought iron, designed to look like frames for climbing plants. The idea is to breathe new life into everyday objects, combining experimentation with a certain humour and unusual uses of raw materials, such as reinforced concrete, electrowelded mesh and wood. The relationship between Design and Nature is a constant feature in the creative vision of Grassi, who has also worked with the San Rocco design studio to create an environmentally sustainable design product which allows plants to be trained to climb walls internally or externally. Grassi is a designer whose temperament attracts him to major challenges, and after twenty years’ work in the various parts of the former cement works the results are quite extraordinary. It’s difficult to express the effect of the building in words or pictures. The best way to experience it, and to appreciate the aesthetic that permeates it, is simply to visit it, and appreciate it as what can fairly be described as a work of art in its own right. The load-bearing elements of the original structure have been retained where possible, and these help communicate an idea of the building as a place of work. Much of the machinery remains intact (for example the horizontal mixer and the bucket conveyor used for transporting raw materials), standing like huge rusty monuments amid their renovated surroundings of carefully selected environmentally-sustainable materials, all of them recycled. Wood, glass, metal and more are combined and applied in unusual ways, like the cement bags used as lining for the speakers which broadcast ambient noise from the roofs. Walking around the building, a complex interplay of space and perspective becomes evident. Inside are spacious open-plan areas, small rooms, corridors and galleries. Outside are Zen gardens on roofs of various levels, herb gardens and broad terraces overlooking the surrounding countryside. Fabbrica is a multi-functional complex: two areas are reserved for exhibitions: the “Bag Room” (next to the four silo areas where the cement was deposited before bagging) and the “Column Room”, where the cement was loaded for transportation. There’s also a theatre workshop – a vast auditorium named the “Filter Room” as it formerly contained the filters which extracted the steam produced during the manufacture of the cement – which is now used for plays, fashion parades and conferences. Another area is dedicated to projections, and a photo gallery known as the Tunnel has a collection of black-and-white photographs of the cement works taken after the Second World War, when it was a temporary refuge for thousands of war homeless. There’s even an observatory that towers 40 metres above ground level and offers excellent views of the countryside as well as the night sky – and some interesting new perspectives on the building itself. A few flights of stairs down from the observatory are the areas formerly dedicated to dopolavoro or workers’ playtime, now used as an informal gathering place during the events organized by Fattoria over the course of the year. On the ground floor the main body of the building is surrounded by the studios built by Angelo Grassi. There are workshops for carpentry, fabrics and iron; 14 different crafts operate here in all, each working on recycled materials and each keeping alive a tradition where the most advanced instrument of labour is man himself. The latest addition to the complex is a hostel which offers accommodation to the many visitors who come from far and wide to admire Angelo Grassi’s dream come true. A “working monument” whose many activities celebrate the predominance of meaning over form, of idea over matter.

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lavoro, anche oggi riservato ai momenti conviviali che si svolgono durante gli eventi organizzati tra le mura di fabbrica nel corso dell’anno. Al piano terra, invece, intorno al blocco principale, la struttura è circondata dai laboratori, gli stessi di cui si serve Angelo Grassi per le sue creazioni. Una falegnameria, un laboratorio per i tessuti, un fabbro; 14 diverse attività, attorniate da cataste di materiale di recupero, al cui interno si tramandano i segreti del mestiere che vedono l’uomo mantenere lo status di “strumento” più avanzato. L’ultima aggiunta nel perimetro dell’ex impianto industriale è un ostello, concepito per ospitare i numerosi visitatori che giungono da lontano ad ammirare il sogno materializzato di Angelo Grassi. Un “monumento funzionale”, così fortemente voluto per rappresentare, al di là dei suoi numerosi ruoli, la predominanza del senso sulla forma, dell’idea sulla materia.

Passioni

La volontà e l’intelletto sono la stessa e unica cosa. Baruch Spinoza

L’architettura portante di questo fabbricato di archeologia industriale è rimasta fondamentalmente invariata dal passato e restituisce l’atmosfera del luogo di lavoro, con gli antichi macchinari in disuso (molti dei quali rimasti intatti, ad esempio il mulino orizzontale e la catena a tazze per lo spostamento delle materie prime) che paiono ciclopici monumenti di ruggine, circondati da materiali accuratamente selezionati e rigorosamente ecocompatibili, tutti di recupero. Legno, vetro, metallo e varie altre componenti, spesso combinate in soluzioni inedite come l’impiego degli originali sacchi del cementificio quale rivestimento cartaceo delle casse acustiche adibite a diffondere il tappeto sonoro anche sui tetti. Percorrendo la complessa teoria di scale interne ed esterne dell’edificio si alternano gli spazi e gli scorci più diversi. Dentro: spaziose sale, piccole stanze, corridoi e ballatoi. fuori: giardini zen sospesi a qualche piano d’altezza, rigogliosi orti pensili e ampie terrazze circondate dalla campagna. fabbrica è anche un centro polifunzionale, ci sono due ambienti riservati alle esposizioni: la Sala dei Sacchi (adiacente alle quattro stanze silos dove veniva depositato il cemento prima di essere insaccato) e la Sala delle Colonne (un tempo area di carico del cemento). C’è un laboratorio teatrale: un gigantesco spazio scenico, denominato la Sala dei filtri (poiché conteneva i filtri per depurare il vapore derivante dalla lavorazione del cemento), aperto agli spettacoli come alle sfilate o alle conferenze. C’è una zona per le proiezioni, una galleria fotografica, chiamata tunnel, che ospita le immagini in bianco e nero del cementificio scattate nel secondo dopoguerra, quando offriva occupazione a una moltitudine di persone. C’è un osservatorio posizionato a 40 metri d’altezza, da cui si può contemplare il cielo, il panorama oppure abbassare lo sguardo per cercare una prospettiva diversa del complesso. Poche rampe di scale più in giù si incontra lo spazio un tempo destinato al dopo-

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PAOLO MARTINI

immagini: archivio euroterme, archivio paolo martini, archivio rimini terme, archivio terre di faenza

La Romagna delle fonti IL RIto ANtICo DEI BAGNI tERMALI Affondano le loro radici nelle brume della leggenda, sono state il palcoscenico per brillanti imprenditori e assoluti lestofanti, alcune giacciono dimenticate, altre sono entrate da protagoniste nel ventunesimo secolo.

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a prendere le acque a Riolo scendeva il bel mondo, dai principi Bonaparte a Giosuè Carducci. Riprendendo la via Emilia s’incontra Castrocaro, le cui fonti, narra la leggenda, servirono a Giulio Cesare per ritemprare le truppe e le cavalcature. Dimenticate nel corso dei secoli, le fortune delle terme rinacquero grazie a un furto. Nel 1829, tal Antonio Samorì venne arrestato con una fiasca contenente 17 litri di acqua sospetta. Dalle analisi risultò salata: il ladruncolo aveva “riscoperto” le acque secolari. La Romagna è un autentico mosaico di acque termali. ogni polla un particolare. toponimi piuttosto diretti: “della troia”, “dei Gonfi”, “E Puzon”, solo per citarne alcuni. oppure le grotte termali di Predappio, ormai in disuso, dove si rifugiarono gli abitanti durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Passando per le terme di Bagno di Romagna, che vantano il centro yuri Gagarin dove si riprendono dalle fatiche spaziali i cosmonauti russi. Il viaggio termina sulla sabbia di Rimini, ove nacque, nel 1843, il primo stabilimento idroterapico d’Italia, iniziativa che diede il la all’epopea del turismo balneare. Manca lo spazio per elencare tutte le altre terme romagnole (Bertinoro-fratta, Cervia, Punta Marina e Riccione), ognuna delle quali unica nel suo genere, a dimostrazione del fatto che in questa terra ogni goccia d’acqua può nascondere una storia.

Comunque vada fanno parte della storia di Romagna: le terme. Scorrendo la via Emilia da Bologna verso l’Adriatico possiamo orientarci in una brevissima storia del termalismo romagnolo. Il Parco delle Acque Minerali di Imola è la vestigia del tentativo, nel 1876, di sfruttare le acque della fonte del Castellaccio. L’esperimento fallì e il proprietario delle terre, Matteo farina, lasciò nel suo testamento i terreni al Comune che li trasformò in uno splendido parco pubblico, ora annesso all’autodromo. Proseguendo nel cammino s’incontra faenza. Qui, sulla collina dell’olmatello che veglia la città, albergavano le fonti di San Cristoforo, conosciute dal XVI secolo, da cui sgorgava un’ottima acqua, paragonabile come qualità alle migliori d’Italia, purtroppo di scarsa portata. Sulla scarsità del flusso, nel corso dei secoli si arenarono i tentativi di “lanciare” commercialmente le fonti. Non di rado, narrano le cronache, i nuovi tentativi commerciali furono sostenuti da un aumento prodigioso, ancorché sospetto, della portata. Sulle colline limitrofe troviamo le terme di Brisighella, attive ancora oggi, le cui sorgenti furono scoperte, nel 1819, dal calzolaio Giuseppe tampieri. Le radici delle acque di Riolo terme affondano invece nella preistoria, tanto che i primi abitanti della Valle del Senio ne fecero oggetto di culto religioso, ma il loro periodo d’oro lo vissero sul finire dell’ottocento, quando

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Haruki Murakami Possano le Acque, le madri, purificarci. / Ave, o Acque divine, insondabili, purificatrici-di-tutto. TaittirīyasaṂhitĀ

RoMAGNA of SPRINGS the ancient ritual of taking the waters 19]

Their origins are as old as history. In their time they’ve attracted the brightest of entrepreneurs and the lowest of swindlers. Some are already 21st-century stars; others lie forgotten. However you look at the history of Romagna, its springs always loom into view. And this history stretches all the way along the via Emilia from Bologna to the Adriatic. In Imola, the Parco delle Acque Minerali is all that remains of an attempt in 1876 to commercialize the waters of the spring of Castellaccio. The venture failed, and in his will the landowner, Matteo Farina, bequeathed the springs to the town. The result is the public park now adjacent to the autodrome. Further along, we come to Faenza. Here, on the Olmatello hill overlooking the city, the springs of San Cristoforo have been known since the 16th century. The water which emerges from these springs is among the best in Italy, but is also scarce in volume. Over the centuries, many attempts to commercialize the springs have come undone because of this scarcity. Not infrequently, according to the accounts, these endeavours were accompanied by a miraculously suspicious increase in volume. In the neighbouring hills we find the hot springs of Brisighella, discovered by a shoemaker, Giuseppe Tampieri, in 1819. The springs are still active today. The springs of Riolo Terme have been known for far, far longer. For the earliest inhabitants of the Senio valley they were the object of a religious cult, but it took until the late 19th century, when the beau monde began to descend on Riolo (the Bonaparte princes, Giosuè Carducci), for the springs to enter their golden age. Back on via Emilia we come to Castrocaro where, according to legend, Julius Caesar watered his troops and horses. But the springs then fell into oblivion for centuries. Their fortunes revived thanks to a crime: in 1829, one Antonio Samorì

was apprehended with a flagon containing 17 litres of suspect water. Analysis of the water showed it to be salty: the thief had rediscovered the springs. Romagna, then, has many springs; and each spring is different. Some names are picturesque: “della Troia”, “dei Gonfi”, “E Puzon”, to name just three. Then there are the now-disused underground springs of Predappio, where the inhabitants of the town took refuge during the bombardments of the Second World War. In the springs of Bagno di Romagna, Russian cosmonauts recuperate from the fatigues of their space journeys in the Yuri Gagarin Centre. Our journey ends on the beaches of Rimini, where in 1843 Italy’s first hydrotherapy establishment opened its doors – and precipitated the vogue for spa tourism. There are so many others: Bertinoro-Fratta, Cervia, Punta Marina, Riccione. Each with its own distinctive features, each the proof that in Romagna, every drop of water holds a story.

Passioni


alba pirini immagini: archivio ass. tur. comune riccione, archivio provincia di forlì-cesena, archivio terre di faenza, tiziana catani, giorgio salvatori

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Il “secondo sole” dei romagnoli LA PIADINA IN tUttE LE SUE foRME Nasce dalla sintesi di pochi semplici ingredienti, ma il risultato di questa combinazione riesce a mettere d’accordo, come raramente accade, i palati più intransigenti e gli appetiti più insaziabili. una sfoglina (donna esperta in questa pratica), però, si misura principalmente nel momento in cui “tira” la sfoglia, ossia la stende con e’ sciadur (il mattarello) sul tagliere di legno in modo da ottenere un perfetto tondo di spessore e diametro variabile a seconda della tradizione locale di riferimento. Nelle zone appenniniche, infatti, la piadina è più alta, più piccola e può essere tagliata trasversalmente per imbottirla. Man mano che si scende verso la costa e ci si sposta a sud, la piada diventa invece più sottile e larga. Per evitare che l’impasto si attacchi al legno, il mattarello viene di tanto in tanto cosparso di farina. La migliore piadina si ottiene cuocendola sul cosiddetto testo di terracotta, una sorta di teglia circolare, i cui migliori esemplari vengono tuttora prodotti a Montetiffi (vedi ee N° 13), sotto il quale deve ardere un fuoco “allegro”,

All’origine di questo piccolo prodigio gastronomico, conosciuto con il nome di piadina, ci sono solo un pugno di farina di frumento, una noce di strutto (oppure un filo di olio d’oliva), una spolverata di bicarbonato di sodio, una presa di sale e la quantità di acqua (o più raramente di latte) necessaria ad amalgamare il tutto. Perché il “miracolo” possa compiersi, però, la preparazione deve rispettare alcuni crismi. Una fase fondamentale è quella dell’impasto, se gli ingredienti sono ben dosati, e l’arzdora (termine dialettale che identifica la massaia romagnola) sa il fatto suo, la ripetuta manipolazione lo porterà alla giusta consistenza. Secondo i cultori della materia, in questa fase molti fattori impossibili da catalogare, come ad esempio il ph della pelle di chi la prepara, conferiscono alla futura piadina caratteristiche organolettiche peculiari. L’abilità di

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La j’è bona in tot i mud, la j’è bona énca scundida: se’ n’avé ancora capì, a scor propri dla pida. (È buona in tutti i modi, è buona anche scondita: se non avete ancora capito, parlo proprio della piadina). Poesia dialettale romagnola

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perché il tempo ideale di cottura è breve. Mentre lievita, la piadina va poi sorvegliata per schiacciare con i rebbi della forchetta le eventuali bolle che dovessero formarsi. Nella consuetudine è però più frequente vedere le piadine cuocersi su lastre di pietra refrattaria o su piastre di metallo, come accade nelle sagre, negli eventi dedicati (ad esempio il Piadina Days) o negli innumerevoli chioschi (detti piadinerie), decorati da linee verticali, che punteggiano la Romagna, dove questa viene servita per accompagnare le pietanze al posto del pane o farcita con i più diversi ingredienti. Salumi, verdure, formaggi, salse; impossibile citare tutti gli abbinamenti, di certo, tuttavia, alcuni degli ingredienti più tradizionali sono lo squacquerone, tipico formaggio fresco di latte vaccino a pasta molle (vedi ee N° 3), le erbe cotte e la salsiccia alla brace. Non è insolito però vedersela proporre in abbinamento a sapori meno classici, come il prosciutto di cervo o il vitello tonnato. Coloro che non temono le calorie in eccesso potranno provare anche le sue varianti: la

piadina unta, quella fritta e la sfogliata, che risulta più friabile a causa del maggior quantitativo di strutto aggiunto all’impasto. Un’altra preparazione tipica è quella del cassone (detto anche cascione o crescione), in cui la sfoglia viene farcita, ripiegata e chiusa con i rebbi della forchetta prima della cottura. tradizionalmente era preparato con il crescione (erba spontanea da cui prende il nome) e magari ulteriormente insaporito con aglio, cipolla o scalogno (vedi ee N° 4). Attualmente vengono più spesso utilizzati spinaci e bietole, mentre nel Riminese si possono trovare imbottiti con le rosole (tipo di papaveri) macerate nel sale. Il cassone viene cotto anche con un ripieno di mozzarella e pomodoro o di zucca e patate, naturalmente con aggiunte a piacere. In tempi più recenti la piadina ha assunto pure nuove forme, come il cosiddetto rotolo, preparato farcendo una piadina sottile che viene poi avvolta su se stessa, e la piadizza (o piadipizza), così chiamata perché guarnita da stesa come una pizza. Se da sempre il suo gusto neutro le permette di sposarsi sia con i sapori salati

Enogastronomia


sia con quelli dolci, alla classica piadina servita con le conserve di frutta oggi si sono sostituiti gli abbinamenti alla crema gianduia o ai fichi caramellati (con l’aggiunta di squacquerone). Questa sconfinata varietà di gusti e preparazioni fa quasi dimenticare che storicamente la piadina non era altro che un surrogato del pane diffuso tra i ceti più poveri. Con tale funzione ha attraversato i secoli; secondo alcune ipotesi accompagnava già il rancio dell’esercito bizantino, di stanza per secoli in Romagna. La prima testimonianza scritta che la riguarda risale invece all’anno 1371, quando nella Descriptio Romandiolae, il cardinal Legato Anglico de Grimoard ne fissa per la prima volta la ricetta: “Si fa con farina di grano intrisa d’acqua e condita con sale. Si può impastare anche con il latte e condire con un po’ di strutto”. Nel periodo compreso tra il Cinquecento e l’ottocento veniva preparata perlopiù con ingredienti impanificabili (spelta, fava, ghianda, crusca, sarmenti, mais...). Anche l’etimologia è incerta, ma i più riconducono il termine piada ( piê, pièda, pìda) al greco πλακούς (focaccia). oggi la piadina romagnola è

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Per cuocere la piada occorre la fiamma, la bella fiamma caduca, la vampata, il falò. Marino Moretti

inserita nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali italiani della regione Emilia-Romagna e le associazioni costituitesi per tutelarla hanno richiesto l’attribuzione dei marchi IGP (Indicazione Geografica Protetta) “Piadina terre di Romagna” e “Piada Romagnola di Rimini”. Marchi a parte, quella piadina che a Giovanni Pascoli piacque definire “il cibo nazionale dei romagnoli” ha ormai superato i confini regionali, nazionali e persino continentali. Non c’è infatti angolo della Romagna dove non giri voce, vera o supposta, relativa a qualche conoscente che ha fatto fortuna aprendo una piadineria in Australia, in Sudamerica o in qualche altro lontano lembo di mondo.

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thE SECoND SUN of RoMAGNA the many forms of piadina It’s made from just a few simple ingredients, but the end product is loved by the most demanding palates and the most insatiable appetites alike – and that’s not something that happens often. The makings of this minor miracle of gastronomy known as piadina are a handful of wheat flour, a knob of lard (or a little olive oil), a sprinkling of sodium bicarbonate, a pinch of salt and just enough water (or more rarely, milk) to make the dough workable. If the miracle is to come to pass, however, there are some golden rules to be observed. The dough must be right, for a start. If the ingredients are in the right proportion, and the arzdora (as the housewife is known in the dialect of Romagna) knows her stuff, repeated kneading will bring the dough to the right consistency. According to lovers of piadina, many, many factors – so many that they are impossible to catalogue – come into play at this stage: the pH of the hands of the person working the dough, for instance, imparts unmistakable characteristics to the piadina-to-be. The skills of the sfoglina (a woman who rolls out dough, in the dialect), on the other hand, are what matters when it comes to forming the dough into the right shape. This is done by rolling the dough with a rolling pin or sciadur on a wooden surface until obtaining a perfect round whose thickness varies according to the place it is made. Over towards the Apennines the piadina is thicker and smaller, and can be slit and stuffed. As we head south and coastward, the piadina becomes larger and thinner. To stop the dough from sticking to the wooden surface, the rolling pin should be dusted with flour from time to time. The finest piadina is cooked on circular terracotta plates, the best of which are still made in Montetiffi (see ee issue 13). The flame under the plate should be “lively”, as the cooking time should ideally be short. As it’s rising, piadina has to be watched so that any air bubbles that form can be pricked with a fork. These days, piadina is more frequently made on a stone slab or griddle, the preferred method at festivals and special events (Piadina Days, for example) and in the many piadina kiosks or piadinerie with their distinctive decoration of vertical stripes found all over Romagna. It’s typically eaten at mealtimes in the place of bread, or with fillings of a ll kinds: cold cuts, salad leaves, cheese, or sauce. It’s impossible to list all the possible fillings, although some of the more traditional ingredients are squacquerone, a fresh, soft cheese made from cow’s milk (see ee issue 3), greens or char-grilled sausage. More unusual fillings like deer ham and tuna with veal are gaining ground, too. For those with no weight issues there are higher-calorie variants: piadina spread with butter, fried piadina and sfogliata, a crumbly, lard-rich version. Another traditional variant is the cassone (a.k.a. cascione or crescione), where the piadina is filled,

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arte senza cuore. primavera senza sole. libero bovio

folded in half and its edges sealed with the tines of a fork before cooking. Cassone piadina was traditionally made with watercress (hence its alternative name of crescione, which is Italian for watercress) and sometimes further flavoured with garlic, onion or shallot (see ee issue 4). Nowadays, other greens such as spinach or chard are increasingly used. In and around Rimini a special type of piadina with a filling of salt-marinated poppies is made. Cassone is also made with fillings of mozzarella and tomato or pumpkin and potato; other ingredients can be added to order. More recently, piadina has been sold in new formats: the rotolo is made by spreading the piadina with a thin layer of filling and then rolling it up, while piadizza (or piadipizza) is served flat and with a topping, like a pizza. Piadina has a neutral flavour, meaning it goes equally well with savoury or sweet fillings. Traditionally, the sweet filling of choice has been jam, although nowadays gianduia and caramelized figs with squacquerone are also to be found. This endless variety of flavours, fillings and forms is almost enough to make us forget that historically speaking piadina was a bread substitute eaten only by the poorest sectors of society. That seems to have been its status for most of its existence, at least. According to some historians, it was eaten as an accompaniment to the ration served to the Byzantine army which for centuries was stationed in Romagna. The earliest written reference to piadina is from the Descriptio Romandiolae of 1371, whose author, papal legate Anglico de Grimoard, gave the first recipe: “It is made with wheat flour soaked in water and seasoned with salt. The dough can also be made with milk and seasoned with a little lard.” Between the 16th and 18th centuries piadina was mainly made from non-wheat ingredients such as spelt, broad bean, acorn, bran, sarmentose, corn etc. The etymology is uncertain, but most trace the term piada (piê, pièda, pìda) to the Greek πλακούς (flatbread). The piadina of Romagna is now firmly established as a traditional product of Emilia-Romagna, and the associations formed to protect the tradition have campaigned for it to be awarded PGI (Protected Geographical Indication) status under the brand names Piadina Terre di Romagna and Piada Romagnola di Rimini. Brands notwithstanding, the piadina that poet Giovanni Pascoli liked to define as “the national staple of the Romagnol” has now broken out of its regional, national, and even continental confines. And back in Romagna, stories abound of friends-of-friends who have made their fortunes opening a piadineria in Australia, South America or some other far-flung corner of the world.

Enogastronomia


Un esperimento enologico rivolto al palato “internazionale” carlo zauli

immagini: archivio condé

CoNDé: LA CIttADELLA DEL SANGIoVESE

In un solo decennio, tra le colline di Fiumana (frazione di Predappio) è sorta, quasi per incanto, un’azienda vitivinicola sperimentale, estesa su 100 ettari (di cui 77 vitati), che alla capacità di investire importanti risorse abbina un obiettivo ambizioso: quello di portare il proprio vino ai vertici qualitativi della produzione nazionale.

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Il vino è composto di umore e di luce. Galileo Galilei

La strada per raggiungere un simile risultato passa inizialmente per l’applicazione rigorosa del miglior know how legato al lavoro in vigna. Aspetto che ha portato l’Azienda a essere segnalata dall’Università di Bologna tra le mete di studio per gli studenti delle facoltà di Viticoltura ed Enologia. La selezione clonale delle viti è stata attentamente pianificata assegnando ad ogni ettaro il vitigno più adatto alla composizione del terreno. L’intento è quello di trasmettere alle uve, regolate da moderni sesti di impianto, l’intensa mineralità dei terreni che compongono il “terroir” di Predappio, zona ricca anche di pregi ambientali, come l’altitudine dei terreni impiantati, che va dai 150 ai 350 metri slm, e la protezione dai venti freddi che la collina offre ai vigneti. La parcellazione in vigna viene rispettata anche in fase di vinificazione, il vino di ogni appezzamento completa, infatti, la fermentazione malolattica e una parte di affinamento in purezza. Condé vinifica rigorosamente in loco appoggiandosi a una struttura esterna, in attesa che sia ultimata la cantina aziendale. francesco Condello, vigneron patron con un passato da broker finanziario di successo, ha scelto il modello francese e, replicando il metodo di molti famosi Chateau, con la supervisione dell’enologo federico Curtaz e l’impegno di uno staff composto da oltre 22 persone, produce un’unica etichetta di Sangiovese, nelle tre versioni: DoC, Superiore e Riserva. Vini che non vengono distribuiti convenzionalmente, ma possono essere acquistati solo in ristoranti selezionati, nella boutique enologica (vera e propria “gioielleria del gusto”) aperta da Condé nel cuore di Bologna, in Galleria Cavour, o naturalmente in Azienda. Anche se sarebbe più opportuno utilizzare la denominazione ufficiale “Cittadella del vino”, visto che comprende anche un ristorante, un osteria wine-bar, un negozio e vi sorgerà a breve anche un albergo diffuso per accogliere gli ospiti e i turisti. turisti che potrebbero provenire in buona parte dall’estero, considerando che, secondo il piano commerciale stabilito da Condello, proprio a quel mercato sarà destinata buona parte della produzione. I

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Capsula Blu _ Sangiovese di Romagna DOC Superiore Riserva 2006 _ Uve/Grapes 100% Sangiovese Dai migliori “cru” di Condé, sulle cui viti maturano grappoli dagli acini piccoli e scuri con una bassissima resa per ceppo (50 q/ha), nasce questo longevo Sangiovese in purezza. Il suo colore rubino profondo, venato di riflessi violacei vira al granato con l’invecchiamento. Il frutto si dimostra maturo e intenso. Alla bocca rivela una persistente nota balsamica vestita da tannini maturi che trova un finale sapido con una spiccata mineralità. Viene vinificato in vasche di acciaio a temperatura controllata e attraversa una lunga macerazione sulle bucce. Il 70% svolge la fermentazione malolattica in acciaio, il 30% in barrique. Si eleva poi per 16-18 mesi in barrique e tonneau di rovere francese di Allier, completando il suo ciclo con 10 mesi di affinamento in bottiglia. Temperatura di servizio 16-18 °C. Si abbina felicemente con i sapori decisi: formaggi stagionati, affettati di Mora Romagnola, cacciagione, stracotti e carni rosse in umido. This wine is made solely from Sangiovese grapes grown on one of Condé’s best crus, whose vines yield a small, dark grape in extremely small volumes (50 cw/h). The colour is deep ruby, with violet tinges shading to garnet as the wine ages. Intensely ripe and fruity, with a persistent balsamic note in the mouth, veiled by ripe tannins that give a sapid, markedly mineral finish. Fermented in inox vats at controlled temperature with extended maceration on the skins. Malolactic fermentation occurs 70% in inox vats, 30% in barriques. Aged for 16-18 months in barriques and casks made from Allier oak, followed by a further 10 months’ ageing in the bottle. Serving temperature: 16-18°C. Drinks well with robust flavours: ripe cheese, charcuterie, game, casseroles and red meat stews.

Capsula Rossa_ Sangiovese di Romagna DOC Superiore 2008_ Uve/Grapes 90% Sangiovese, 10% Merlot Vincitore del premio qualità/prezzo Bere Bene Low Cost 2011, questo vino, capace di buone evoluzioni in bottiglia, viene ricavato da uve di notevole concentrazione provenienti da vigne selezionate lavorate con potatura secca, potatura verde e diradamento estivo. Il suo colore rubino intenso annuncia un naso ricco e austero, mentre al palato i potenti tannini favoriscono un corpo avvolgente, contraddistinto da una sottile vena acida. La fermentazione avviene in vasche inox a temperatura controllata effettuando numerosi rimontaggi e follature per favorire la completa espressione del vino. Il Sangiovese affina 10 mesi in acciaio e il Merlot passa 5 o 6 mesi in barrique dell’Allier e 5 mesi in acciaio. Dopo l’assemblaggio, il Capsula Rossa trascorre altri 6 mesi in bottiglia. Temperatura di servizio 16-18 °C. Si accosta felicemente ai primi di sfoglia a base di selvaggina, al lardo, ai formaggi a pasta fresca, alle carni di maiale e agnello. Winner of the Bere Bene Low Cost 2011 value for money award, this wine ages well in the bottle. Made from grapes with high concentration grown on selected dry-pruned, shoot- and summer-thinned vines. The colour is deep ruby. Rich and austere on the nose, with strong tannins giving a full-bodied texture on the palate with a subtly acidic counterpoint. Fermented in inox vats at controlled temperature. The must is repeatedly pumped over and the cap punched down to bring out the fullest flavour. The Sangiovese is aged in inox for 10 months, while the Merlot spends 5-6 months in Allier barriques and 5 months in inox. After assemblage, Capsula Rossa is bottle-aged for 6 months. Serving temperature: 16-18°C. Goes well with game pastries, lard, fresh cheese, pork and lamb.

Capsula Nera_ Sangiovese di Romagna DOC 2008_ Uve/Grapes 90% Sangiovese, 10% Merlot Estremamente godibile, questo vino coniuga una ricca struttura tannica con una beva fresca ed equilibrata che rivela le parcelle più floreali e ricche di aromi primari, capaci di donare al quadro organolettico complessivo una buona versatilità. Durante la sua vinificazione, in vasche di acciaio a temperatura controllata, vengono effettuati numerosi rimontaggi per ottenere la piena estrazione dei composti nobili dalle bucce. Affina per 10 mesi in acciaio e 6 in bottiglia. Temperatura di servizio 16-18 °C. Accompagna ottimamente i primi a base di sfoglia tirata a mano, i salumi e gli affettati, le carni alla griglia, il coniglio e le carni rosse delicate. This extremely enjoyable wine combines a rich tannic structure with a fresh and well-balanced palate that’s strong on the richer, floral elements of youthful aromas that lend versatility to the overall sensory experience. Fermented in inox vats at controlled temperature, with the must repeatedly pumped over to promote full extraction of the noble compounds contained in the skins. Aged for 10 months in inox and 6 months in the bottle. Serving temperature: 16-18°C. The perfect accompaniment to fresh pasta, salami and cold cuts, grilled meat, rabbit and delicate red meats.

APPEALING to thE “INtERNAtIoNAL” PALAtE: Condé, or the citadel of Sangiovese In just ten years, in the hills of Fiumana above Predappio, an experimental winery has taken shape as if by magic. 77% of its 100-hectare estate are planted with vines. Significant investment has gone into the venture, and its objectives are ambitious: to establish its wines as among the best in Italy. First step on this long road was the rigorous application of the best expertise in vine-growing. So successful has Condé been in this aspect that the University of Bologna singled it out as an example for its students of viticulture and oenology. The clonal selection of the vines has been carefully planned, with each hectare of earth assigned the cultivar most suited to the composition of the soil. The objective is to impart to the grapes (grown according to modern spacing patterns) the intense minerality which characterizes the terroir of Predappio, an area that also offers some exceptional environmental advantages. Planting altitude ranges from 150 to 350 above sea level, while the hillside shelters the vines from cold winds. The segregation of cultivars continues into the vinification phase, with the grapes from each parcel undergoing separate malolactic fermentation and (partial) ageing. Condé produces all its wine on the estate, with some external assistance pending completion of its new cellars. Francesco Condello, vigneron patron with a background as a successful broker, has opted to follow the model employed by many French châteaux, with production supervised by oenologist Federico Curtaz. With another 22 people on the staff, Condé produces a single Sangiovese label in three versions: DOC, Superiore and Riserva. These wines are not distributed via the conventional channels but can be found in selected restaurants, in the wine shop run by Condé in Galleria Cavour in the heart of Bologna, and on the estate itself. Rather than “estate”, perhaps it’s better to use the official designation of “citadel of wine”, as it also has a restaurant, wine bar and shop. A hotel will shortly be opening too. This hotel looks likely to attract a good number of guests from abroad, as the sales model developed by Condello has targeted the international market for a significant part of its production. Enogastronomia

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BEYOND SURFACE

AU DELA DE LA SURFACE



tatiana tomasetta

immagini: archivio ufficio stampa musei san domenico

Ritrattista di Angeli MELoZZo DA foRLì Melozzo di Giuliano degli Ambrosi, detto Melozzo da Forlì, nacque e morì nella città romagnola (1438-1494), ma durante la propria vita, per curare la sua formazione, visse e dipinse in alcune delle città considerate i centri vitali del Rinascimento: da Padova a Urbino, a Roma.

I pittori non guastano mai: quando non possono fare un angelo, fanno un diavolo. Proverbio popolare italiano

Considerato il massimo esponente della scuola forlivese di pittura del XV secolo, architetto e maestro di discepoli della statura di Marco Palmezzano, già nel 1464 si trasferisce a Roma, dove lavora alla Basilica di San Marco, inglobata in Palazzo Venezia, dipingendo gli affreschi San Marco Papa e San Marco Evangelista. Solo undici anni dopo, durante i pontificati di Pio II e Sisto IV, il Melozzo riuscirà a diventare l’artista di punta del Vaticano, fino a meritare il titolo di Pictor papalis. trasferitosi a Urbino nel 1465, incontra Piero della francesca, la cui pittura, ritenuta la più emblematica del Rinascimento, influenzerà pesantemente l’opera del Melozzo, rimasto affascinato dalla misura matematica dello spazio pittorico. L’impostazione che il pittore predilige per dipingere le figure, rese con colori limpidi, avvolte da una luce trasparente, sacra, richiama invece quella dei “pittori di luce” fiorentini, come l’ultimo Beato Angelico. oltre al segno incisivo e all’attenzione per l’espressività dei maestosi soggetti (sicuramente influenzati dalla pittura di Andrea Mantegna), Melozzo da forlì è ricordato per essere stato il primo a utilizzare efficacemente lo scorcio dal basso. I suoi celebri affreschi degli Angeli musicanti, conservati nella Pinacoteca Vaticana, sono caratterizzati dai colori squillanti e dalla luce fredda e religiosa, ma è l’uso geniale della prospettiva dal basso che aumenta la personalità sacra di queste imponenti figure. È il 1475 quando egli decide di tornare a Roma e Papa Sisto IV gli schiude le porte di un mondo fantastico.

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Per lui dipingerà, nel 1477, l’affresco raffigurante il Papa che nomina Bartolomeo Platina Prefetto della Biblioteca Vaticana, un’importante testimonianza della sua inclinazione all’integrazione tra figure e architetture per fini illusionistici, nonché un vero e proprio documento politico che segna l’inizio dell’alleanza fra la Chiesa e la cultura laica. A questo processo il Melozzo parteciperà anche quale cofondatore, nel 1478, dell’Università dei Pittori, Miniatori e Ricamatori, che sarebbe poi divenuta la prestigiosa Accademia di San Luca. Va evidenziata, infine, la forte tensione al bello che si riscontra nella sua opera, egli ebbe infatti molta familiarità con la pittura di Raffaello, a tal punto che la grande mostra dedicatagli quest’anno dalla sua città natale ai Musei San Domenico ha voluto porre l’accento proprio sull’“umana bellezza” del suo lavoro, presentando un’approfondita indagine dell’artista come figura centrale della vicenda del Rinascimento italiano, recuperando così una gloriosa e distintiva identità cittadina che nel Maestro trova il suo essere rappresentata nel mondo.

A PAINtER of ANGELS Melozzo da forlì Melozzo di Giuliano degli Ambrosi, better known as Melozzo da Forlì, was born and died in the city he was named after (1438-94). During his lifetime, however, he lived and worked in some of the major centres of the Renaissance: Padua, Urbino and Rome. The supreme exponent of the 15th-century Forlì school, an architect and the teacher of Marco Palmezzano, in 1464 Melozzo went to Rome to work on the basilica of San Marco beside Palazzo Venezia, where he painted the frescoes Pope Saint Mark and Saint Mark Evangelist. Just eleven years later, under the papacies of Pius II and Sixtus IV, Melozzo had become the Vatican’s painter of choice, earning himself the title of pictor papalis. On moving to Urbino in 1465, Melozzo met Piero della Francesca, whose paintings (now considered among the finest produced by the Renaissance) exercised a profound influence on Melozzo, who was fascinated by Piero’s mathematical handling of pictorial space. In his colours, however – his figures are rendered in limpid tones and enveloped in a diaphanous light that enhances the sacred nature of the theme – Melozzo was closer to the Florentine “painters of light” like Fra Angelico. In the decisive lines and expressiveness of his majestic subject matter, Melozzo was clearly

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influenced by Andrea Mantegna. But he is best remembered for his mastery of the foreshortened perspective from below, the scorcio dal basso. Melozzo’s famous frescoes of musician angels, now in the Vatican Museums, are distinctive for their shrill colours and gelid, celestial light, but it is the virtuoso use of the down-to-up foreshortening effect that makes his angels so full of personality and appeal. On his return to Rome in 1475, Sixtus IV welcomed Melozzo with open arms. One of Melozzo’s papal commissions was a fresco, Sixtus IV Appointing Platina as Prefect of the Vatican Library. From 1477, this painting is an important illustration of Melozzo’s fondness for combining human figures and architecture in a single illusionistic setting. It’s also a valuable historic document recording the beginning of an alliance of church and laity – a process in which Melozzo himself played a role as co-founder in 1478 of the Università dei Pittori, Miniatori e Ricamatori, which would later evolve into the prestigious Accademia di San Luca. One constant in Melozzo’s work is his sheer love of beauty. In this his paintings had much in common with those of Raphael, and it was precisely the “human beauty” of Melozzo’s work that was the focus of the major exhibition dedicated to Melozzo earlier this year in the San Domenico museums of his native city. An examination of the work of one of the leading figures of the Italian Renaissance, the exhibition also projected Melozzo as a native of Forlì and one of its most globally celebrated figures. Arte


L’arte di riconquistare una visione “liberata” del quotidiano LEoNARDo PIVI

tommaso attendelli

immagini: archivio leonardo pivi

Capace di padroneggiare i più disparati mezzi espressivi, Leonardo Pivi consegna allo spettatore delle sue opere un salutare senso di spaesamento, volto forse a permettergli di evadere, almeno per un attimo, dall’addomesticamento estetico impostoci della nostra contemporaneità.

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Classe 1965, l’artista, nativo di Cesena, attualmente vive e lavora a Riccione. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, affianca al suo operato artistico il ruolo di docente del corso di Ricerca musiva (workshop 1) presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna. Nella sua produzione, che dai primi anni Novanta ha cominciato a catalizzare l’attenzione della critica e del pubblico italiano, risulta chiaro come le molteplici tecniche utilizzate e i vari, ed eterogenei, materiali impiegati diventino nelle sue mani un’unica arma sempre puntata sullo stesso bersaglio: l’egemonia conformista della società moderna. Sculture, pitture, disegni e mosaici, sempre realizzati con una maniacale attenzione alla perfezione formale, trasportano la superficie dei suoi lavori tra le due e le tre dimensioni, mentre la nuda pietra, il lino ricamato, il cemento, le tessere musive, i metalli nobili e persino il materiale organico, come le ossa (anche umane), coniugano le proprie peculiarità plastiche alle suggestioni che riescono a evocare nell’economia complessiva delle opere. Caricaturali sculture fiabesche, pinocchi crocifissi e microscopici idoli colpiscono l’occhio e scuotono la sensibilità, stabilendo, grazie al loro valore simbolico, un ponte tra l’universo arcaico e il mondo presente. Il filone che probabilmente più rappresenta l’anima di Pivi è però quello delle sue composizioni musive. Mosaici policromi di dimensioni anche importanti che ritraggono le icone sbandierate dai nostri mass media, come Barbie o i personaggi dello star-system odierno, quando non soggetti inquietanti quali parti anatomiche e bambole dark. I suoi micromosaici, realizzati con la tecnica arcaica dell’opus vermiculatum, intarsiano invece le immagini stampate sui rotocalchi, donando una dimensione permanente al supporto leggi-e-getta. Pivi riattualizza così il linguaggio del mosaico. Le tessere musive paiono mutare in preziosi pixel che compongono immagini “rubate” al web, mezzo di cui l’artista si serve per leggere gli orientamenti del senso comune. tra le realizzazioni musive più importanti create da Pivi, ricordiamo le opere pubbliche Vis a vis e Una finestra su Pegaso, collocate rispettivamente nella stazione ferroviaria di Modena e nella stazione Repubblica della metropolitana di Milano, oltre a Non hai vinto ritenta, opera che orna la sala congressi di palazzo Eracle a Contarina (Rovigo). Il progressivo successo riscosso da suo dirompente linguaggio ha portato l’artista a esporre in personali e collettive nei musei e gallerie private di tutta Italia, oltre che di Svizzera, francia e Stati Uniti. Diffondendo così il suo “antidoto” estetico. I

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Il conformismo è la scimmia dell’armonia. Ralph Waldo Emerson

RECoNQUERING A LIBERAtED VISIoN of thE EVERyDAy the art of Leonardo Pivi As a master of many and varied means of expression, Leonardo Pivi creates in the observer of his works a welcome sense of alienation that allows us to escape – even if only for an instant – the domesticated aesthetics of contemporary life. Born in Cesena in 1965, Pivi currently lives and works in Riccione. A graduate of Bologna’s Academy of Fine Arts, Pivi combines his work as an artist with a teaching job in the mosaic research course (workshop 1) at the Academy of Fine Arts in Ravenna. Pivi’s work first came to the attention of Italian critics and the public in the early 1990s. In Pivi’s hands, the diversity of techniques and media in which he works becomes a single weapon which is always trained on the same target: the conformity imposed by modern society. In his sculptures, paintings, drawings and mosaics, always accomplished with the same obsessive attention to formal perfection, the surfaces lie somewhere between two and three dimensions; in other media – stone, linocuts, concrete, precious metals and even organic materials such as bone (including the human variety) – he exploits the distinctive plasticity of each medium in an unusually evocative manner. Caricatures of fairy-tale figures, crucified Pinocchioes, microscopic idols catch the eye and shake up the senses, their symbolic charge creating a spark between the archaic universe and the present day. Probably most representative of Pivi’s work, however, are two mosaic compositions. These large polychrome mosaics depict contemporary celebrities, icons of mass culture like Barbie, alongside body parts and dark dolls. Pivi’s micromosaics, made with the ancient technique of opus vermiculatum, take disposable cultural artefacts such as magazine covers and give them new permanence in a new medium. They also revitalize the mosaic as an artistic idiom. It’s as if the tesserae of the mosaic have become pixels on a screen, the picture itself like an image lifted from the web – another medium which Pivi mines in his search for the guiding principles of common sense. Among Pivi’s most important mosaic works are two public commissions, Vis a vis and Una finestra su Pegaso, respectively in the railway station of Modena and the Repubblica metro station in Milan, and Non hai vinto ritenta, which graces the assembly room of palazzo Eracle in Contarina (Rovigo). Pivi has exhibited his wonderfully disruptive work in collective and one-man exhibitions all over Italy, as well as Switzerland, France and the United States: dispensing his very own antidote to aesthetic complacency everywhere. Arte

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TERRITORIO

SoVRANA tRA LE CASCAtE RoMAGNoLE _ i l sal t o de l l ’ ac quac he t a QUEEN of CASCADES_ t he wat e rfal l s o f ac quac he t a LE DUE DIVERSE ANIME DI UN PAESE “SIAMESE” _ pre dappi o al t a e pre dappio “n u ova” thE two fACES_of predappio

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STORIA

LA foRZA DI UN’IDEA DIVENtA PAtRIA _ aure l i o saffi thE StRENGth of AN IDEA BECoMES A CoUNt Ry_ aure l i o saffi UN’AVVENtURA fAE NtINA DI UG o t oGNAZZI _ l ’ i nc i de nt e de l mai al e gi getto UGo toGNAZZI’S ADVENtURE IN fAENZA _ t he i nc i de nt o f gi ge t t o t he pi g QUANDo LA VIt E VENIVA “MARItAtA” A UN ALBERo _ l a pi ant at a ro magnola thE MARRIAGE of VINE AND tREE _ a t ypi c al l y ro magno l t rai ni ng me t ho d

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PASSIONI

SUL CEMENto CRESCE IL DESIGN_ fabbri c a, l a st rut t ura c he c ust o di sc e i l s ogn o cr eativo [32

d i a n g e l o g r a s si

fRo M CEMENt woRkS to DESIGN o ASIS _ ange l o grassi ’ s dre am be c om es r eality at the “factory”

LA RoMAGNA DELLE foNtI_ i l ri t o ant i c o de i bagni t e rmal i RoMAGNA of SPRINGS _ t he anc i e nt ri t ual o f t aki ng t he wat e rs

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ENOGASTRONOMIA

IL “SECo NDo S oLE” DEI RoMAGNoLI_ l a pi adi na i n t ut t e l e sue fo rme thE SECo ND SUN of RoMAGNA _ t he many fo rms o f pi adi na UN ESPERIMENto ENoLoGICo RIVoLto AL PALAto “INtERNAZIoNALE” _ con dé: l a c i t t a d e l l a d e l sa n g i ov e se

APPEALING to thE “INt ERNAtIoNAL” PALAt E_ c o ndé , o r t he c i t ade l o f s an gioves e

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ARTE

RItRAt t IStA DI ANGELI_ me l o z z o da fo rl ì A PAINtER of ANGELS_ me l o z z o da fo rl ì L’ARtE DI RICo NQUIStARE UNA VISIoNE “LIBERAtA” DEL QUotIDIANo _ leon ar do pivi RECo NQUERING A LIBERAt ED VISIoN of thE EVERyDAy_ t he art o f l e on ar do pivi

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Periodico edito da Cerindustries SpA 4 8 0 1 4 C a s t e l B o l o g n e s e ( R A ) I tA Ly via Emilia Ponente, 1000 w w w. c e r d o m u s . c o m w w w. c e r d o m u s . n e t Direttore responsabile Raffaella Agostini Direttore editoriale Luca Biancini Progetto Carlo Zauli Luca Biancini Grafica e impaginazione Laura Zavalloni – Cambiamenti per Divisione immagine Cerdomus Coordinamento editoriale Alessandro Antonelli Redazione to m m a s o A t t e n d e l l i Riccardo Castaldi Angelamaria Golfarelli Italo Graziani Paolo Martini Alba Pirini Manlio Rastoni Va l e n t i n a S a n t a n d r e a ta t i a n a to m a s e t t a Carlo Zauli foto Archivio Angelo Grassi A r c h i v i o A s s . tu r. C o m u n e R i c c i o n e Archivio Condé Archivio Euroterme Archivio Paolo Martini A r c h i v i o R i m i n i te r m e A r c h i v i o te r r e d i f a e n z a Archivio Leonardo Pivi (Le opere riprodotte nell’articolo appartengono a collezioni privati. tu t t i i d i r i t t i r i s e r v a t i , v i e t a t a l a r i p r o d u z i o n e e la diffusione previa autorizzazione dell’artista) Archivio Museo del Risorgimento “A . Saffi” (forlì) Archivio Manlio Rastoni Archivio Provincia di forlì-Cesena Archivio ufficio stampa Musei San Domenico (forlì) Riccardo Castaldi tiziana Catani Luca Giordani fabio Liverani Paolo Simoncelli Si ringraziano Angelo Grassi APt Rimini Museo del Risorgimento “A . Saffi” (forlì) Leonardo Pivi Provincia di forlì-Cesena te r r e d i f a e n z a Ufficio stampa Condé Ufficio stampa Musei San Domenico (forlì) Si ringrazia per la preziosa collaborazione Maddalena Becca / Divisione immagine Cerdomus tr a d u z i o n i tr a d u c o , L u g o Stampa fA E N Z A I n d u s t r i e G r a f i c h e © Cerindustries SpA tu t t i i d i r i t t i r i s e r v a t i A u t o r i z z a z i o n e d e l tr i b u n a l e d i R a v e n n a n r. 1 1 7 3 de l 1 9 /1 2 /2 0 0 1 (c o n v ar iazi o n e i s c r i t t a i n d a t a 1 1 / 0 5 / 2 0 1 0 )



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