Cerindustries SpA
numero 35 settembre 2014
GLI
scenari deputati a meglio rappresen-
Perhaps the settings which best express the
tare la dolce malinconia del passag-
sweet melancholy of the passage of summer to
gio tra l’estate e l’autunno sono forse quelli capaci
autumn are those where the intrinsic metaphysic
di esprimere una metafisica insita nel panorama,
of place is expressed most strongly: like a forest
come una foresta scultorea, una fortezza sospesa
of sculptures, a fortress suspended in the air,
o un paesaggio sottomarino.
or an underwater landscape. This issue of
Ma questo numero di ee conduce a scoprire anche luoghi che esistono ormai solo nella memoria, simboli di epoche perdute, visitate rievocando sia i salotti del fu bel mondo sia i momenti topici della antica civiltà contadina. Luoghi di una Romagna che non c’è più, di cui rimangono qua e là isolate tracce, abitata da uomini il cui carattere fu però molto simile a quello che caratterizza i loro posteri. Ostinati, caparbi, ma quasi
ee takes us to these places and others which only exist in memory, the symbols of vanished epochs, whether they evoke the salons of the beau monde or the rituals of peasant society. Corners of a Romagna that no longer exists except in isolated traces here and there. And yet the spirit of the people of Romagna survives unchanged. Stubborn, headstrong, but generous
sempre generosi, come la terra che calpestano.
too, like the land that reared them. Often
Talvolta capaci, pur provenendo da una cultura
capable, despite their pragmatic backgrounds, of
pragmatica, di creare luminose architetture artisti-
producing luminously artistic works of miniature
che, che uniscono la componente estetica a quella
architecture which combine the aesthetic and
concettuale.
the conceptual. Sometimes even combining
Magari mescolando discipline diverse; ché al ca-
different disciplines; for rules can often feel
rattere romagnolo spesso le regole stanno strette.
restrictive to the Romagnol character.
EDITORIALE
1]
ea r th elem en t
La coscienza artistica di Ivo Sassi tommaso attendelli
immagini: archivio ivo sassi
I L G I A R D I N O D e L L A S C u LT u R A
Dopo aver completato l’opera, un artista ha svolto per intero la propria “missione”? Forse no. Deve anche preoccuparsi che tale opera sia messa nelle condizioni ideali per instaurare un dialogo con l’osservatore. Questa sembra essere la posizione di Ivo Sassi, a giudicare dal suo ultimo progetto che, in nome di questo assunto, lo ha portato ad aprire al pubblico addirittura i cancelli della sua dimora privata. Scultore, ceramista e pittore, Ivo Sassi (vedi ee n. 13) ha incantato tutto il mondo con le sue sculture ceramiche che sommano una straordinaria cromaticità a formati di dimensioni tali da richiedere una tecnica ineccepibile per essere realizzate. Dopo oltre mezzo secolo di attività, in questa fase della sua ricerca, l’artista brisighellese sembra vivere un ritorno alle proprie radici. Così, nell’immenso parco della sua residenza sita sulle alture collinari di Oriolo dei Fichi (tra Faenza e Brisighella) ha cominciato a disporre alcune delle sue opere per testare la risposta dell’ambiente. I
Sensi
È lo stesso Sassi a dichiarare come egli abbia assistito a una fusione poetica tra gli elementi che lo ha spinto a continuare fino a realizzare quella che è stata definita una “foresta scultorea”. Circa una trentina di pezzi sono stati finora disposti, sempre cercando un proficuo equilibrio tra le caratteristiche delle singole opere e la conformazione naturale del luogo preciso in cui venivano poste. Quello che ha preso il nome di Giardino della scultura è ancora un work in progress e potrà arrivare a contenere oltre 50 opere. Sarà uno spazio aperto al pubblico senza restrizioni, che nell’intenzione dell’Artista non dovrà costituire solamente una mostra permanente, bensì divenire la cornice per eventi legati all’Arte di qualunque portata e orientamento. Non una semplice galleria en plain air, dunque. Non un centro culturale qualsiasi, ma una porzione di territorio in cui sia visibile il compenetrarsi dell’elemento naturale e di
Romagna
so lu
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ssi ivo sa lo. l e b il
After finishing a work, has an artist completed his “mission”?
la
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T h e A RT I ST I C CO N S CI eN Ce O F I vO S A S S I The garden of sculptures
della sua controparte culturale, nati entrambi dallo stesso humus vitale. Con la sua arte, in altre parole, Ivo Sassi celebra lo stesso substrato da cui ha attinto la propria visione artistica, scegliendo di condividerlo con un terzo elemento fondamentale per far quadrare questa “equazione” percettiva: le persone. La città di Faenza non ha raccolto passivamente il “dono” di Ivo Sassi, l’attuale assessore alla Cultura, Massimo Isola, ha infatti ideato un modo di incrementare il potenziale espresso da tale opportunità sviluppando un percorso museale a cielo aperto che avrà per tappe le numerose opere pubbliche faentine realizzate dall’artista brisighellese e culminerà proprio nel Giardino della scultura. Da un punto di vista antropologico il progetto di Sassi si potrebbe leggere come il tentativo di costituire l’esatto opposto di un nonluogo (neologismo introdotto dal sociologo Marc Augé per definire spazi ove le individualità si incrociano senza entrare in relazione, come ad esempio aeroporti, grandi centri commerciali, outlet…), che un giorno rappresenterà anche il suo testamento artistico. Territorio
Maybe not. He also has to think how the work can best be placed to enter into dialogue with the observer. This seems to be the position of Ivo Sassi, to judge by his latest project, which led him to open the doors of his own home to the public. A sculptor, ceramist and painter, Ivo Sassi (see ee 13) is an artist whose enchanting ceramic sculptures combine extraordinary chromatic power with shapes and dimensions which require exceptional technique just to produce them. After a career spanning half a century, the Brisighellaborn Sassi seems to be returning to his roots. In the huge garden of his home in the hills of Oriolo dei Fichi (between Faenza and Brisighella), Sassi has taken to “exposing” some of his works to the elements, to see how they respond. This is the same Ivo Sassi who declared how it was after witnessing a “poetic fusion of the elements” that he was driven to produce what one critic has described as a “forest of sculptures”. Sassi has placed around thirty works in his garden so far. In each case he seeks to establish a meaningful dialogue between the characteristics of each individual work and the natural setting they occupy. What’s now known as the “garden of sculptures” is still a work in progress, and Sassi plans to install up to 50 works there. The garden will be open to the public, with no restrictions. But in the artist’s conception, it will be more than just a permanent exhibition but rather the setting for art-related events of all shapes and sizes. Not just an open-air gallery, then. And not just any “centre of the arts” either, but a portion of land where the interpenetration of the natural milieu and its cultural counterpart is visible, as if it had sprung from the same vital humus. In other words, what Ivo Sassi’s sculpture garden celebrates is the stuff that fed his own artistic vision, articulating it with a third and no less essential fundamental element in this “equation” of perception: people. Ivo Sassi’s gifts have not gone unnoticed by the city of Faenza, whose local commissioner for the arts, Massimo Isola, has come up with a way of augmenting the potential of the sculpture garden by developing an open-air museum trail whose “stations” are the many public artworks produced by the Brisighella-born artist. The trail reaches its culmination and destination in the sculpture garden. From the anthropological point of view, Sassi’s garden can be seen as an attempt to construct the exact opposite of a non-place (a neologism coined by the sociologist Marc Augé to define spaces where people mingle without establishing rapport, such as airports, malls, outlet centres etc.). Perhaps one day it will also symbolize Sassi’s artistic legacy.
5]
una fortezza sospesa SA N LeO
[6
Secondo la leggenda, sul finire del III secolo d.C., un umile tagliapietre di nome Leone, fuggito dalla Dalmazia per sottrarsi alle persecuzioni contro i cristiani si rifugiò sulla rupe del Mons Feltrus (Monte Feliciano) per vivere da eremita. L’eremita divenne Santo e il paese che si sviluppò su quell’altura prese il suo nome: San Leo. Oggi, sul punto più alto del maestoso sperone di roccia si eleva una poderosa fortezza, che si staglia contro il cielo. Resa virtualmente inaccessibile dallo strapiombo che la circonda e collegata alla valle solo da una stretta strada intagliata nella roccia. Il forte, attraverso i suoi vari rimaneggiamenti architettonici, nell’arco di quasi due millenni ha visto “cozzare” tra loro eserciti di ogni sorta. La sua importanza strategica viene testimoniata anche dal fatto che San Leo assunse addirittura per due anni (dal 962 al 964) il titolo di Capitale d’Italia, assegnato da Berengario II.
luca biancini
immagini: archivio comune di san leo, asgeir pedersen
I
Sensi
di
Romagna
A FO RT R eS S S u S peN D eD I N T h e A I R San Leo According to legend, late stonecutter by the name persecution of Christians the rock of Mons Feltrus lived as a hermit.
in the 3rd century a humble of Leo, fleeing from the in Dalmatia, took refuge on (Monte Feliciano), where he
The hermit became a saint, and the village which grew in the place he now called home took his name: San Leo. Today, an imposing fortress thrusts itself skywards from the highest point of the crag. This fortress is almost impregnable due to the sheer cliffs which surround it, and can only be reached from the valley below by a narrow road cut out of the rock. In its various architectural incarnations over the course of nearly two millennia, the stronghold has resisted armies of all kinds. Such is its strategic importance that for two years (962-64) San Leo was actually the capital of Italy under Berengar II. Over the centuries, the imposing crag on which the village of San Leo stands has been important as a spiritual retreat, then as a military stronghold, and now as a tourist attraction. Its visual impact has remained uncontaminated by modern infrastructure, and San Leo now flies the Orange Flag awarded by Italy’s Touring Club to small inland towns distinguished for the quality of their tourist facilities. And when it comes to receiving tourists, San Leo can count many illustrious figures among its visitors.
Dante Alighieri stayed here, as Canto IV of his Divine Comedy attests; so did St Francis of Assisi, who arrived here on 8 May 1213. It happened that on the day of his arrival a count of Montefeltro was being invested as a knight in San Leo. Among the guests at the investiture was another count, Orlando Cattani da Chiusi. Seeing the large crowd in attendance at the ceremony, Francis delivered an impassioned sermon from the shade of an elm tree. Orlando was so struck by Francis’ eloquence that he made a gift of a small and solitary local peak, Monte Verna, to the holy man. But in San Leo, the odour of sanctity is inextricably bound up with another, darker odour: that of magic. Giuseppe Balsamo, better known as the Count of Cagliostro, was imprisoned in the fortress of San Leo from 1791 until his death on 26 August 1795. Cagliostro was an enigma, an adventurer and an alchemist famed all over Europe for his supposed magical powers (see ee 11). Also imprisoned in the fortress half a century later was the revolutionary Felice Orsini. For such a small town, San Leo is rich in history. Among its other architectural attractions are the early Christian church built on the site of the original memorial chapel erected by San Leo himself (he was a stonecutter, according to tradition), the Romanesque cathedral, and the Renaissance fort. The most original, and certainly the most spectacular, way of enjoying the dizzy heights of San Leo is from a glider (there is a landing strip in the vicinity) or paraglider (taking off from Monte Severino). In autumn nights, the mists that rise from the valley surround the fortress and cut it off from the world below, and it seems to be perched on clouds.
la città più bella d’italia? san leo: una rocca e due chiese. umberto eco
Lungo i secoli, il poderoso masso leontino su cui sorge il paese gli ha dunque conferito prima un valore spirituale, poi militare ed oggi turistico. Il suo impatto panoramico, non contaminato da infrastrutture moderne, ha permesso infatti a San Leo di guadagnarsi la Bandiera Arancione (marchio di qualità turistico-ambientale conferito dal Touring Club Italiano ai piccoli comuni dell’entroterra che si distinguono per un’offerta di eccellenza e un’accoglienza di qualità). Sul fronte dell’accoglienza, il paese può anche vantare trascorsi illustri. Ospitò Dante Alighieri, come si può leggere nel Canto Iv della Divina Commedi a, e San Francesco d’Assisi. Quest’ultimo giunse qui casualmente l’8 Maggio 1213 mentre si teneva l’investitura a cavaliere di un conte di Montefeltro alla quale era presente fra gli altri anche il conte Orlando Cattani da Chiusi. vista la numerosa folla, Francesco tenne un’appassionata predica all’ombra di un olmo. Il conte Orlando rimase così colpito dalla sua eloquenza che gli donò un picco solitario della zona, conosciuto col nome di Monte verna.
Ma a San Leo, l’”odor” di santità si mescola all’”aroma” della magia. Nelle carceri della sua fortezza fu infatti rinchiuso, dal 1791 fino alla morte avvenuta il 26 Agosto 1795, Giuseppe Balsamo, noto come Alessandro conte di Cagliostro: enigmatico avventuriero ed alchimista famoso in tutta europa per i suoi presunti poteri esoterici (vedi ee n. 11). Tra le stesse mura languì mezzo secolo dopo l’attivista Felice Orsini. Molte sono dunque le suggestioni concentrate in questo borgo raccolto intorno alla pieve preromanica sorta sull’originario sacrario edificato dallo stesso Leone (che la tradizione vuole abile tagliatore di pietre), con il suo Duomo romanico e il suo forte rinascimentale. Il modo più originale e spettacolare per abbracciare questo panorama è certamente quello di osservarlo da un aliante (sfruttando la locale aviosuperficie per il volo a vela) o in parapendio (decollando dal Monte Severino). Nelle notti autunnali, poi, le nebbie che si levano dalla valle circondano la fortezza, che pare arroccata sulle nuvole.
Territorio
7]
franco de pisis
immagini: archivio franco de pisis
Il fu Kursaal [8
L’ e M B L e M A p e R D u T O D e L L A B e L L e é p O Q u e R I M I N e S e A cavallo tra Ottocento e Novecento, il simbolo della vita mondana d’élite riminese era un fastoso palazzo in stile neoclassico, che con i suoi quasi 80 metri di lunghezza guardava da un lato la città e dall’altro il mare. per descriverne la maestosità, basti dire che gli avventori accedevano direttamente al piano nobile, che si trovava a due metri d’altezza, salendo su un’elegante scalinata. Inaugurato nel 1873, il Kursaal, a dispetto del significato letterale del suo nome, che in tedesco significa sala di cura, fu la cornice di ricevimenti, balli e serate di gala. varcata la sua soglia ci si trovava al cospetto di un grandioso atrio di quasi 200 metri quadrati. A sinistra si trovavano il caffè e il ristorante, mentre a destra si accedeva alle sale da gioco, da lettura, da conversazione e al salone da ballo. Sul fronte mare, le terrazze “babilonesi” offrivano un meraviglioso colpo d’occhio sul panorama costiero, mentre nelle sale superiori era stato allestito addirittura un tabarin, che tra musiche esotiche e luci soffuse, presentava ben altri “panorami” benché pur sempre naturali. un alone di leggenda circondava spesso le serate danzanti che si tenevano fra le mura del Kursaal, eventi che risultavano talvolta memorabili, come il cotillon del 1906 che vide la presenza di elena Bianchini Cappelli, Filippo Tommaso Marinetti, ermete Novelli e Olga Giannini. Nel ferragosto del 1936, vi si tenne anche il primo festival della canzone italiana, che già l’anno successivo incontrò un clamoroso successo richiamando oltre 5000 persone nel parco del Kursaal e sarebbe poi divenuto, una volta cambiata location, il Festival di Sanremo. Questo monumento al loisir vacanziero fortemente voluto dal patrono della riviera romagnola, paolo Mantegazza, rappresentò a lungo per tutte le rinomate località costiere d’Italia un esempio di ciò che il turismo balneare poteva diventare. Nel secondo dopoguerra, però, risparmiato miracolosamente dai bombardamenti, il Kursaal simboleggiò anche gli eccessi di un regime che aveva portato il paese a sfiorare la propria autodistruzione. Così, mentre la prima amministrazione comunale del post-Liberazione dibatteva sulla sua sorte, alcuni gruppi di disoccupati iniziarono a picconare il Kursaal per recuperare materiale edilizio e il 13 marzo 1948 fu dato ufficialmente inizio al definitivo smantellamento. Sparì così un incalcolabile patrimonio architettonico riminese, pur se va considerato che con il denaro necessario al suo restauro fu invece possibile dare una casa, ben più modesta, a molti di coloro che avevano perso la propria durante la guerra. I
Sensi
di
Romagna
The KuRSA AL Lost emblem of Rimini’s belle époque At the turn of the nineteenth and twentieth centuries Rimini’s Kursaal was the hub around which the life of the city’s high society revolved. A lavishly appointed neoclassical palazzo, it was almost 80 metres long, overlooking the city on one side and the sea on the other. Its majesty began even before guests reached the reception desk – which was on the first floor, two metres above ground level, and could only be reached via a grand staircase. Inaugurated in 1873, the Kursaal was not the sedate establishment its name might suggest (it means “cure hall” in German) but the setting of choice for lively receptions, balls and gala evenings. The grand lobby of the Kursaal covered almost 200 square metres. To the left were a café and restaurant, while the ballroom and rooms for gaming, reading and conversation lay to the right. On the side of the building which faced the sea, a series of descending terraces offered spectacular views of the coastline. In the upper rooms of the hotel there was even a tabarin, where exotic music and muted lighting set the scene for some quite different – but equally natural – views. An aura of legend often shrouded the balls that took place within the walls of the Kursaal, some of which have gone down in history, such as the 1906 cotillon that was attended by such luminaries as Elena Bianchini Cappelli, Filippo Tommaso Marinetti, Ermete Novelli and Olga Giannini. On Assumption Day of 1936, the Kursaal hosted Italy’s very first festival of song, and when the festival returned the following year it was a runaway success, attracting 5000 spectators to the gardens of the hotel. The event later changed venue, to become known as the Sanremo festival. For decades, the Kursaal was a monument to pleasure, whose benefits were proclaimed by Paolo Mantegazza, himself a patron of the Riviera, and an example of what resort tourism could be for every other coastal resort in Italy. Miraculously, the Kursaal survived the bombardments of the Second World War. But by the time the war ended, the hotel had come to symbolize the excesses of a regime which had brought the country to the brink of (self-) destruction. And so, while the first postwar municipal council hummed and hawed on the fate awaiting it, groups of unemployed looters moved in with pickaxes, stripping the hotel for building materials. Its final demolition began on 13 March 1948. It was the disappearance of one of Rimini’s architectural jewels. But other priorities reigned at the time, and the money required for restoring the Kursaal was better employed in providing homes – of a far more modest nature – to so many of those who had lost theirs during the war. Although it is no longer standing, the Kursaal lives on in the collective memory of the people of Rimini, and thanks also to the work of scholars and enthusiasts (like Alessandro Catrani, Ferruccio Farina, Manlio Masini and the volunteers of the Rimini Sparita association, to name just a few) who collect and disseminate news, photos and documents relating to what was incontestably the first temple dedicated to pleasure in a place where pleasure reigns.
la gente gode di più il divertimento quando sa che tante altre persone sono rimaste escluse dal divertimento. russell baker
Benché non sia più in piedi, però, il Kursaal è ancora ben vivo nella memoria collettiva riminese, grazie anche all’impegno di studiosi e appassionati (come Alessandro Catrani, Ferruccio Farina, Manlio Masini e i volontari dell’Associazione culturale Rimini Sparita, per citarne alcuni) che conservano e divulgano notizie, foto e documenti di quello che fu certamente il primo “tempio” consacrato al divertimento della tuttora gaudente riviera romagnola. Storia
9]
italo graziani – testo raccolto da alessandro antonelli immagini: archivio vanda budini
Coperte da buoi A N T I C h I M A N T I D A L L A F u N z I O N e p R AT I C A , BeNAuGuRALe eD eSTeTICA
Una delle “bandiere” della civiltà contadina, oltre alla famosa caveja, può essere certamente considerata la coperta da buoi. [10
Oggi è relativamente poco conosciuta perché i motivi decorativi tradizionali, stampati a ruggine con matrici di legno, che ornavano questi paramenti si ritrovano attualmente per lo più su tovaglie e cuscini. C’è stato un tempo però in cui i fedeli e straordinari compagni dell’uomo che lavorava la terra erano i buoi. prima che l’impetuoso “vento” diretto dall’intelligenza dell’uomo la cancellasse, per alcune migliaia di anni questi mansueti animali (in pratica tori castrati) furono una presenza quotidiana nella vita rurale. Dividevano infatti le gioie e i dolori dei loro padroni, per i quali erano motivo d’orgoglio. Non esiste una documentazione che permetta di risalire alle esatte origini dell’uso di coprire il dorso dei buoi con le coperte. Sappiamo però che è eccezionalmente antico. In alcune iconografie medioevali ritroviamo infatti il Carroccio (simbolo delle città comunali) tirato dai buoi protetti da coperte decorate. Si tratterebbe dunque di una versione povera della gualdrappa con cui venivano vestiti i cavalli da guerra. La tradizione orale testimonia la loro importanza pratica quando nell’epoca della civiltà contadina le bestie si trovavano a sostare all’addiaccio dopo un lungo tragitto. Come nel frangente in cui il contadino, che conferiva i suoi prodotti, doveva attendere il proprio turno per scaricarli. Le coperte usate quotidianamente per proteggere le bestie sudate al giogo non erano però ricI
Sensi
camente decorate. Si trattava per lo più di semplici manti di tela spinata a rigatino. Le uniche di tale tipo giunte ai giorni nostri mostrano larghe righe (6/8 centimetri) bianche e blu. Il colore blu veniva in questo caso ottenuto dal guado: una pianta tintoria molto presente nelle terre marginali. Lo stesso tipo di copertura era usato dal bovaro durante la stagione fredda. I buoi più grassi venivano generalmente macellati a pasqua, dopo una sfilata pubblica. In occasioni come questa, così come alle fiere, le corna delle bestie venivano adornate di fiocchi e sulle loro larghe groppe si poneva una coperta da parata. I tessuti con cui erano confezionate non differivano di molto da quelli delle coperte da lavoro, anche questi erano infatti realizzati dalle donne di casa nei telai domestici. Si distinguevano però le istoriazioni stampate a ruggine che le adornavano. Queste spaziavano dai motivi geometrici e floreali, ai fiocchi cardinalizi, alle scene di caccia. un posto di rilievo era riservato alle raffigurazioni religiose, prima tra tutte quella di Sant’Antonio Abate. Oltre a difendere i bovini dal freddo, alle coperte veniva infatti attribuita anche una funzione talismanica. Ora, guardando gli stessi motivi decorativi che campeggiano sulla biancheria da cucina tipica romagnola, resta il nesso della qualità artigianale autentica, che va difesa dall’avvilente diluizione delle imitazioni industriali. di
Romagna
Ox BLANKeTS Colourful, practical and propitious Beside the famous caveja, another emblem of the peasant tradition of Romagna is the ox blanket. These blankets are relatively unknown nowadays, although the traditional decorative motifs, printed from carved wooden dies, which formerly adorned them are frequently found on dishtowels and cushions. Ox-drawn machinery is a rarity nowadays too, after all. But for a long time the ox was one of mankind’s strongest and most faithful servants. Before the impetuous winds of human innovation swept it and much else away, this docile draught animal – a castrated bull, to be precise – was for thousands of years a daily feature of rural life. It shared in the joys and pains of its owner, and was a source of pride for him. The historical records tell us little about the practice of covering oxen’s backs with decorated blankets. We do know that it’s a very old custom, however. Medieval iconography often features a carroccio, the cart that was the symbol and standard-holder of its city, drawn by oxen protected by decorated blankets. These blankets were basically toned-down versions of the caparisons worn by medieval warhorses. Oral tradition records the practical convenience of these blankets in peasant life. When their beasts stood at rest after a long journey, for example, or when they were waiting to offload their produce from their carts. The blankets used on an everyday basis, with their wearers sweating under the yoke, were not richly decorated. They were usually simple mantles of embroidered fabric. The only specimens of this type that have survived to the present day have broad (6-8 cm) blue and white stripes. The blue pigment was obtained from woad, a dye-yielding plant commonly found on edgelands. The same type of blanket was worn by ox drivers during the winter months. Fatter oxen were generally slaughtered at Easter, after a public parade. On occasions like this, just like at the market, the horns of the oxen were festooned with ribbons and a festive blanket draped over their broad shoulders. The fabric of these “special occasion” blankets did not greatly differ from the fabric of their workaday equivalents, and both varieties were produced by peasant women on domestic looms. What made the festive blankets different were the woodblock-printed illustrations that decorated them. These could range from geometric and floral motifs to garlands and hunting scenes. Many blankets gave pride of place to religious figures, especially Anthony the Great. Besides protecting the beasts from the cold, the blankets also had a talismanic function. Now that the oxen have gone, the decorative motifs of their blankets live on in the traditional table linen of Romagna – the traditional, handmade kind, that is, not the cheap industrial imitations.
paiono gualdrappe da giostra o da torneo e non sono in fondo che coltri a difesa del freddo. ruvide lenzuola di tela spina su cui sono stati impressi disegni a color ruggine. aldo spallicci
Storia
11]
paolo martini
immagini: archivio franco de pisis
un ribelle romagnolo le passioni si manifestano in tutta la loro nudità; e col lungo contatto non v’è corteccia che tenga, non raffinata ipocrisia che possa durare; il cuore vedesi qual è: e grande scuola per conoscere gli uomini sono le prigioni. felice orsini
L A CA RICA e v eRSIvA DI FeLICe ORSINI
[12
“Le bombe all’Orsini / pugnale alla mano / A morte l’austriaco sovrano / E noi vogliamo la libertà. Morte a Franz, Viva Oberdan”.
Queste le parole che echeggiavano nelle università italiane durante le manifestazioni interventiste del 1914. per raccontare questa piccola storia ci basta la prima strofa, chi era questo Orsini e perché inneggiare alle sue bombe? Orso Teobaldo Felice Orsini nasce in un piccolo paese sulle colline romagnole nel 1819, poco più di un villaggio cui però la storia risorgimentale italiana deve molto: Meldola, questo il nome della cittadina, ha dato i natali, oltre che ad Orsini, a pietro Maroncelli e ad Aurelio Saffi. I
Sensi
di
Romagna
A ROMAGNOL ReBeL The subversive calling of Felice Orsini “Orsini bombs/Daggers in hands/Death to the Austrian sovereign/We want liberty/Death to Franz, viva Oberdan”. These were the chants that echoed in the halls of the Italian universities during the interventionist demonstrations of 1914. But who was this Orsini, and why sing the praises of his bombs? Orso Teobaldo Felice Orsini was born in a small hill town in Romagna in 1819. Although little bigger than a village, Meldola punches well above its weight in the history of the Italian Risorgimento, for it is the birthplace not only of Orsini but of the patriots Pietro Maroncelli and Aurelio Saffi. Orsini quickly showed himself to be a man whose temperament was a volatile blend of idealism and violence, and it was these qualities that drove him to become a revolutionary by profession – and a man capable of unprecedented acts of violence. Aged just 13, he was arrested while attempting to enrol in the French army. In 1836 he was found guilty of the murder of his family cook. After spending six months in jail, he was released after promising a family friend, Cardinal Mastai-Ferretti, that he would enter the Jesuit order. A few months later he was in Imola, where his uncle, Orso, persuaded him to resume his studies. Sure enough, Orsini graduated in jurisprudence. But his revolutionary ardour still burned unabated, and in 1844 he founded a secret society, the Congiura Italiana dei Figli della Morte. He was soon arrested as a conspirator and sentenced to life imprisonment.
Two years later he was a free man again, thanks again to the intercession of Mastai-Ferretti, who in the meantime had been elected pope, taking the name of Pius IX. It was at this point that Orsini became a full-time revolutionary. He fought in the first War of Italian Independence, and supported his friend Aurelio Saffi in the proclamation of the Roman Republic. Orsini travelled Italy from end to end, by now a famous figure with a reputation that shaded into legend. But the Austrians feared him, and hunted him. They finally managed to capture him and imprisoned him in the impregnable castle of Mantua. This time he spent a year in prison, before making a daring and dramatic escape. Orsini now went into exile, spending time in London and then Paris. He published books on his adventures, and gradually became estranged from his fellow patriot Mazzini. The better to follow his own destiny. On the evening of 14 January 1858, Orsini and other co-conspirators hurled three bombs at the procession of Napoleon III, who in Orsini’s view had betrayed the cause of the Roman Republic and the ideals of the carbonari. It was carnage: 12 dead and 156 maimed. The Emperor himself was unscathed, and the conspirators were rounded up in the course of the night. Orsini went to the guillotine on 13 March 1858. Before his execution, he wrote a long letter to the Emperor, explaining the reasons for his acts. So forcefully did Orsini argue his corner that Napoleon III allowed the letter to be published. Its effect on public opinion was so great that Cavour saw the opportunity to increase political pressure on France. Orsini’s bombs were made of cast iron and loaded with nails and bolts. The explosive charge was mercury fulminate. They are considered to be the first hand bombs in history.
Il Nostro impiega molto poco per mostrare al mondo un’indole, sospesa fra ideali e violenza, che lo porterà a diventare un rivoluzionario di professione e uomo capace di violenze inaudite. A 13 anni viene arrestato mentre tenta di arruolarsi nelle truppe francesi. Nel 1836 viene condannato per l’uccisione del cuoco di famiglia. passa sei mesi in galera, ne esce solo grazie alla promessa di entrare nella Compagnia del Gesù fatta a un amico di famiglia, il cardinale Mastai Ferretti. pochi mesi e lo ritroviamo a Imola, dove lo zio Orso lo convince a riprendere gli studi. Riuscirà a laurearsi in Giurisprudenza. Ma l’ardore non si placa, nel 1844 fonda una nuova società segreta, la Congiura Italiana dei Figli della Morte. Arrestato, per lui è carcere a vita. È libero due anni dopo, grazie al cardinale amico di famiglia: è diventato papa con il nome di pio Ix e lo grazia. A questo punto diventa rivoluzionario a tempo pieno. partecipa alla prima guerra di indipendenza, con l’amico Saffi fa parte della Repubblica Romana. Gira l’Italia da cima a fondo, la sua fama ormai sconfina nella leggenda. Gli austriaci lo temono e lo braccano. Riescono ad arrestarlo e a rinchiuderlo nell’inespugnabile castello di Mantova. Tempo un anno, e Orsini riesce a fuggire con un’evasione rocambolesca. va in esilio, prima Londra, poi parigi. pubblica libri sulle sue avventure e, lentamente, si sgancia da Mazzini. per andare incontro al suo destino. La sera del 14 gennaio 1858, assieme ad altri congiurati, lancia tre bombe all’Orsini contro il corteo dell’Imperatore Napoleone III, l’uomo colpevole di aver affossato la Repubblica Romana e di aver abiurato gli ideali carbonari. È una strage: 12 morti e 156 feriti. L’Imperatore illeso, gli attentatori arrestati nel corso della notte. Orsini viene ghigliottinato il 13 marzo 1858. prima dell’esecuzione scrive una lunga lettera all’Imperatore spiegando le ragioni del suo gesto. Tale la forza delle argomentazioni che Napoleone III acconsente alla pubblicazione. L’effetto sull’opinione pubblica è così forte da permettere a Cavour di aumentare la sua pressione politica sulla Francia. Le bombe all’Orsini, fatte in ghisa, caricate con fulminato di mercurio e riempite di chiodi e bulloni, sono considerate le prime bombe a mano della storia. Storia
13]
La collezione Mauro pascoli MeCCA ROMAGNOLA D e L L A v e S pA
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bernardo moitessieri
immagini: archivio cambiamenti.net
Un bel giorno di tanti anni fa, il signor Mauro Pascoli, titolare del concessionario Piaggio di Ravenna si è reso conto di preferire le vecchie Vespe che ritirava dai clienti rispetto a quelle nuove che gli vendeva. Da questa presa di coscienza è nato il nucleo di quella che oggi è una delle collezioni più importanti al mondo dedicata a quel mirabile pezzo di design su due ruote che è la vespa. A 60 anni dalla sua nascita, infatti, il piccolo scooter nato dalla matita dell’ingegnere aereonautico Corradino D’Ascanio è universalmente conosciuto come simbolo del miglior Made in Italy e può vantare club dedicati oltre a schiere di fedelissimi appassionati in tutto il mondo. Quando la Collezione è diventata troppo importante per restare chiusa dietro ad un portone, Mauro, la moglie Loretta e successivamente il figlio Raffaele hanno dunque dato vita all’Associazione culturale La Bella in Mostra, con l’obiettivo di rendere fruibile al grande pubblico la Collezione. Oggi il museo che contiene le vespe del signor pascoli si estende su oltre 500 metri quadrati di area espositiva distribuita su due piani e contiene più di 150 veicoli tra vespa, Ape, Moscone e ciclomotori piaggio. Il percorso espositivo si snoda dai primi modelli del 1946 fino a quelli dei giorni nostri, tracciando idealmente la storia di questo piccolo grande mezzo di locomozione nato come alternativa pratica ed economica alle utilitarie a quattro ruote e divenuto simbolo della rinascita economica, prima, moda, poi, e infine fenomeno di costume. Si possono ammirare pezzi iconici introvabili, come la 98 (primo modello di vespa prodotto dalla piaggio nel 1946, dotato di telaio rigido e privo di cavalletto), la 125 u (versione economica sviluppata per fare concorrenza alla Lambretta) o la 90 Super Sprint (con scudo frontale ridotto I
Sensi
di
Romagna
The MAuRO pASCOLI COLLeCTION Romagna’s vespa Mecca Mauro Pascoli was running a Piaggio dealership in Ravenna when one day it occurred to him that he preferred the old Vespas his clients left with him to the new ones he was selling them. It was the start of what is now one of the world’s biggest collections dedicated to that miracle of two-wheeled design, the Vespa. It’s now 60 years since the Vespa, the small scooter first sketched into life by the aeronautics engineer Corradino D’Ascanio, came to embody the finest in Made in Italy excellence. Today, the Vespa has clubs dedicated to it and legions of followers all over the world. As Pascoli’s collection grew, it soon became too important to remain under lock and key. So Pascoli, his wife Loretta and their son Raffaele founded an association, La Bella in Mostra, with the objective of opening the collection to the public. Today, the museum which houses Pascoli’s collection extends over 500 square metres of exhibition space on two levels, and contains over 150 exhibits, with models such as the Ape, Moscone and the Piaggio moped alongside the Vespas. The exhibition trajectory takes us from the early 1946 models to the present day, tracing the history of a humble means of transport that began as a cheap and practical alternative to the economy car and ended up first as the symbol of Italy’s economic resurgence, then as a fashion item, and finally as a design icon. Many hard-to-find models are on display in the Pascoli collection, like the 98 (the first Vespa model produced by Piaggio in 1946, with a rigid frame and no prop stand), the 125 U (an economic version designed to compete with the Lambretta) and the 90 Super Sprint (with a smaller fairing, tapering towards the top to reduce drag, a narrow drop handlebar and a small luggage compartment between the saddle and the steering column, complete with a chest-cushion), which was used for racing. The Pascoli collection spans the entire existence of the Vespa, and many more recent models are also on show, such as the 250 GT 60 (produced in 2006 in a limited edition of 999 specimens, to mark Vespa’s 60th birthday). But the exhibit that really catches the attention of enthusiasts and the merely curious alike is the TAP, a military model produced in France in 1956 and designed for use by the Foreign Legion in Algeria and Indochina. Besides a series of modifications that would raise the eyebrows of many an expert, the huge, longitudinally mounted 75 mm cannon that pokes through the armoured fairing is enough to stop anyone in their tracks. An assault Vespa! And although it looks like something out of a cartoon strip, it was actually designed to be parachuted into action. But one of the museum’s biggest attractions is the section dedicated to the Vespa’s poor relation, the bee to the Vespa’s wasp: the Ape. Among the prize exhibits in this section are the Calessino 125 Giardinetta, which was principally used as a taxi in Capri, Ischia and Riccione in the 1950s and 60s. Its back seat had enough room to carry two passengers in comfort. This model is of high historical significance, for due to its similarity with the rickshaw it became a best-selling means of public transport throughout southeast Asia, where it is still widely in use with the name of tuk-tuk. It’s especially ubiquitous in India, where the Vespa and the Ape are now produced under licence.
ha la vita stretta; sembra una vespa! enrico piaggio (visionando il prototipo della 98 mp6).
e rastremato verso l’alto per ridurre la resistenza aerodinamica, manubrio stretto ed abbassato nonché bauletto portaoggetti sistemato fra sella e sterzo dotato di cuscino poggia-petto) che veniva impiegata per le competizioni su pista. Non mancano pregiati esemplari moderni come la 250 GT 60 (prodotta nel 2006 in una serie limitata di 999 esemplari per celebrare il 60° anniversario della nascita della vespa), poiché la collezione copre l’intero arco di vita del celebre scooter italiano. Il pezzo che più di tutti catalizza l’attenzione degli appassionati, ma anche dei semplici curiosi, è la vespa TAp, un modello militare prodotto in Francia nel 1956 per essere utilizzato dalla Legione straniera in Algeria e in Indocina. A parte una serie di modifiche che occhi esperti giudicherebbero già radicali, chiunque resta di stucco osservando il suo gigantesco cannone da 75 millimetri alloggiato longitudinalmente, che esce dallo scudo anteriore rinforzato. una vespa d’assalto, dunque, che veniva paracadutata sul teatro di guerra e pare uscita dalla fantasia di un fumettista surreale. Immancabile la sezione dedicata alla “cugina” della vespa deputata ai lavori di fatica: l’Ape. Qui spicca la Calessino 125 modello Giardinetta che venne usata soprattutto come taxi nelle località marittime più rinomate degli anni Cinquanta e Sessanta quali Capri, Ischia e Riccione. Il suo sedile posteriore offre un comodo spazio per due persone. Questo mezzo possiede anche un altissimo valore storico perché grazie alla sua somiglianza con il risciò divenne un best-seller in tutto il sud-est asiatico come mezzo di trasporto pubblico, dove è tuttora diffusissimo con il nome di tuk-tuk. In particolare è largamente utilizzato in India, ove la vespa e l’Ape vengono attualmente costruite su licenza. esiste infatti la categoria delle vespe straniere, prodotte su licenza francese, inglese, tedesca, russa… e degnamente rappresentate nel Museo, che dedica loro un’apposita area. La Collezione dà spazio anche a vere e proprie stravaganze, come il mini-trattore piaggio, la vespa 400 (che a dispetto del nome è una minicar) e addirittura un paio di fuoribordo marini piaggio. Passioni
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la vespa? è l’idea più innovativa che l’italia abbia mai avuto dopo l’invenzione della biga della roma antica. estratto da un editoriale apparso sul the times
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Completano il corpus museale una sezione dedicata ai giocattoli e memorabilia, una intitolata alla vespa nel Cinema ed una al movimento vespistico nel mondo. La prima include più di 300 modellini, di cui 30 semoventi (a pedali o elettrici) e un’infinita varietà di accessori originali dal 1946 ad oggi. La seconda raggruppa le locandine dei film in cui la vespa compare in primo piano, su tutti vacanze romane, che lanciò sia Audrey hepburn che la vespa 125 del 1951. La terza presenta in bella mostra più di 1000 placche di partecipazione a raduni, 300 trofei e coppe assegnate in gare di regolarità e giri turistici nonché testimonianze provenienti da molti dei vespa Club disseminati in Italia e nel mondo. Oltre a libri, riviste, cartoline, calendari, manifesti… Mauro ha raggruppato una ricca documentazione tecnica cartacea legata alle creature piaggio, composta da oltre 200 Cataloghi, parti di ricambio e Manuali di stazione di servizio, circa 200 libretti uso e Manutenzione e una vasta quantità di notiziari e pubblicazioni. Nonostante l’altissimo livello di completezza raggiunto, non si può parlare di una collezione chiusa. Sia grazie alle continue donazioni di materiali da parte di molti appassionati vespisti (tra cui anche il campione italiano di vespa Raid Franco Ortolani), che partecipano in questo modo attivamente alla missione di Mauro pascoli salvaguardando e rendendo visibili al pubblico i loro ricordi legati al mondo vespistico, sia perché egli continua a selezionare e restaurare i pezzi di valore storico. Il Museo è infatti attiguo alla sua attività di rivendita ricambi e accessori, piaggio manco a dirlo, quasi che questa fosse il bookshop che si trova abitualmente nei musei. Così, sulla via Faentina, appena fuori Ravenna, ha preso forma una vera e propria mecca romagnola della vespa che da tributo alla passione di un uomo è divenuta patrimonio collettivo. I
Sensi
di
Romagna
For Italy isn’t the only country where Vespas are made. They’re also produced under licence in countries such as France, the UK, Germany and Russia – and the museum dedicates a special area to these “foreign” Vespas. Pascoli’s collection also makes room for some curiosities, such as the Piaggio mini-tractor, the Vespa 400 (which despite the name is a car, admittedly a very small one) and even a couple of Piaggio outboard motors. The museum is completed by a section dedicated to toys and memorabilia, another which showcases the Vespa in cinema, and another which documents the Vespa movement worldwide. The first of these sections includes over 300 toy Vespas, 30 of them self-propelled (by pedal or battery), and an endless variety of original accessories from 1946 to the present day. The second features a collection of posters of all the films in which the Vespa features strongly. First among these is Roman Holiday from 1951, the film that launched not only the Vespa 125 but Audrey Hepburn too. In the third section, there are over 1000 commemorative plaques from meetings of Vespa enthusiasts, 300 cups and trophies from races and trials, and testimonies from the many Vespa Clubs in Italy and all over the world. Then there’s the memorabilia: books, magazines, postcards, calendars, posters and so on. Mauro Pascoli has also assembled an impressive body of technical documentation on all kinds of Piaggio vehicles, with over 200 catalogues, original spare parts and service station manuals, some 200 rider’s and maintenance booklets, and a vast accumulation of news articles and diverse published matter. Pascoli’s collection is remarkably complete, but it should not be described as a closed collection. Thanks not only to continuous donations of material by Vespa enthusiasts (including the Italian Vespa Raid champion, Franco Ortolani) who actively assist Mauro Pascoli in his mission of preserving the heritage of the Vespa for the benefit of the general public, but also to Pascoli himself, who continues to purchase and restore specimens of historic value. His museum stands next door to his business venture, a spare parts and accessories shop (Piaggio, should anyone wonder) that’s just like the gift shops we find in modern museums everywhere. It’s located on via Faentina, a little outside Ravenna, and it’s become Romagna’s own Vespa Mecca, the tribute to one man’s passion that became a collective heritage.
Passioni
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manlio rastoni
immagini: archivio ducati
Il “Dottor T” della Ducati FA B I O TA G L I O N I
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Se il glorioso marchio Ducati riesce ad impennare il battito cardiaco di milioni di motociclisti in tutto il mondo, lo deve certamente ad un riuscitissimo mix di tecnologia e design. Le originali soluzioni tecnologiche Ducati rendono il rombo dei suoi motori irriproducibile (compendiato talvolta dal controcanto del tintinnio dei dischi della frizione a secco) e gli permettono di scaricare alla ruota posteriore un numero di cavalli capace di mettere in crisi gli pneumatici più performanti. padre putativo di tutti i ducatisti moderni fu l’ingegner Fabio Taglioni. Originario della piccola frazione lughese di Santa Maria in Fabriago, entrò in Azienda nel 1954 come ingegnere progettista e si può dire che apportò un tocco romagnolo alla emilianissima Ducati. Il monocilindrico di 100 centimetri cubi che sviluppò come primo progetto permise alle Ducati Gran Sport di primeggiare nelle più importanti competizioni del tempo. Sul suo tecnigrafo prese forma la Ducati GT 750, prima moto a montare il bicilindrico a “L”, che rimane il tratto distintivo delle “rosse di Borgo panigale”. Sua anche l’intuizione di come applicare il sistema di distribuzione desmodronica alle moto di serie. pure il telaio a traliccio e il sistema di distribuzione a coppie coniche e a cinghia furono “visioni” di Taglioni. Ideò e realizzò, insomma, tutti, o quasi, i capisaldi che costituiscono il retaggio della Ducati contemporanea. Al suo arrivo l’azienda bolognese era specializzata solo nella produzione di motocicli di piccola cilindrata. Al momento del suo ritiro, Ducati era divenuto un marchio di fama mondiale sinonimo per eccellenza della moto ipersportiva. Si può addirittura dire che esiste ancora proprio grazie a lui. Quando, infatti, nel 1954 l’allora Direttore Generale lo chiamò in Ducati, gli chiese di realizzare a tutti i costi una moto per vincere il Giro d’Italia, confessandogli di avere solo un mese di I
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di
Romagna
credere nel proprio pensiero, credere che ciò che è vero per voi, personalmente per voi, sia anche vero per tutti gli uomini, ecco, è questo il genio. date voce alla convinzione latente in voi, ed essa prenderà significato universale. ralph waldo emerson
DuCATI’S “DOCTOR T” Fabio Taglioni If Ducati is a name that sets pulses racing among motorcycle enthusiasts all over the world, it’s due to an exceptionally subtle combination of technology and design. The originality of the Ducati’s design makes its trademark rumble (with the distinctive counterpoint screech provided by the dry friction discs) impossible to imitate. And the power it delivers to the back wheel is enough to test even the best of tires. Behind it all was an engineer, Fabio Taglioni, now seen as a father figure by Ducati fans everywhere. Born in the village of Santa Maria in Fabriago near Lugo, Taglioni joined Ducati as a design engineer in 1954, bringing a Romagnol touch to a firm that was and remains proudly Emilian. The 100 cc singlecylinder engine he designed as his first project enabled the Ducati Gran Sport to win the most important races of the period. Taglioni also designed the Ducati 750 GT, the first two-cylinder Ducati to have the L-twin design that has remained the distinctive feature of the Borgo Panigale firm’s motorcycles. His too was the solution for incorporating the desmodromic valve system on standard models. And the trellis chassis, and the bevel gear and belt drive system. In other words, Fabio Taglioni devised and engineered nearly all of the innovations that contemporary Ducati motorcycles have inherited. When Taglioni arrived at Ducati, the firm was producing small motor scooters. By the time he retired, Ducati was a world-famous name known for the excellence of its racing bikes. It could even be argued that Ducati would not even exist today if it wasn’t for Fabio Taglioni. When he joined the firm in 1954, Ducati’s managing director explained that he only had enough money to pay the firm’s workers four weeks’ wages. He pleaded with Taglioni to design a motor capable of winning the Giro d’Italia, for defeat would mean Ducati would have to close down. Taglioni designed the engine in 6 months, without ever receiving a proper wage in the meantime. But in addition to their excellence of design and construction, his motorcycles have another, more elusive characteristic. They have charisma. Taglioni was eclectic in his genius: in a career spanning almost half a century he designed all kinds of engines, from small single-cylinder two-strokes to powerful two-cylinder racing engines. Taglioni manifested his bond with his place of origin by adopting the emblem of Francesco Baracca, a pioneer of Italian aviation and a native of Lugo (see ee 3), as his own. The same prancing horse symbol that was also more famously borrowed by Enzo Ferrari embellished the racing bikes designed by “Doctor T” (as Taglioni was affectionately known at Ducati) from 1956 to 1961. Taglioni’s final creation was the 750 F1, which came out in 1985. A minimalist masterpiece that was well ahead of its time. And a fitting swansong for a man who designed engines not only as an engineer, but also and above all as a motorcycle enthusiast.
stipendio per gli operai e spiegandogli che una sconfitta avrebbe significato la chiusura dei battenti per l’Azienda. Taglioni ce la fece in 6 mesi senza percepire in quel periodo nemmeno un vero stipendio. Oltre alle doti tecniche e strutturali, le sue moto possiedono una caratteristica determinante quanto sfuggente. hanno carisma. Il genio di Taglioni era massimamente eclettico: in quasi mezzo secolo di carriera ha progettato motori di ogni sorta, dai piccoli monocilindrici a due tempi ai poderosi bicilindrici da pista. Il legame di Taglioni con la sua terra si espresse anche nella decisione di adottare l’emblema del pioniere lughese dell’aviazione italiana Francesco Baracca (vedi ee n. 3). Lo stesso cavallino rampante utilizzato anche da enzo Ferrari fregiò infatti le motociclette da competizione disegnate dal Dottor T (questo l’affettuoso soprannome affibbiatogli in Ducati) tra il 1956 e il 1961. L’ultima sua creazione fu la 750 F1 uscita nel 1985. una moto minimale e avanzatissima per il suo tempo. elegante canto del cigno di un uomo che disegnava le moto non solo da ingegnere, ma soprattutto da motociclista. Passioni
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alessandro antonelli
immagini: archivio cooperativa la fenice
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Il mìtilo noto LA COzzA DI CeRvIA Il mìtilo mediterraneo (Mytilus galloprovincialis), comunemente detto cozza, è un mollusco bivalve che vive su rocce o substrati resistenti e duri, il cui gusto deciso è molto apprezzato in cucina. Filtrando le acque in cui si sviluppa, possiede la particolarità di portare nel piatto l’essenza saporosa del mare in cui è stata pescata. proprio grazie alla qualità delle acque in cui viene coltivata, nel dicembre scorso la Cozza di Cervia ha ottenuto la certificazione di qualità e il marchio di prodotto biologico che garantisce la tracciabilità di filiera Bio, rilasciata da uno dei più accreditati organismi italiani di certificazione e controllo dei prodotti agroalimentari. Gli allevamenti della cittadina rivierasca (sita in provincia di Ravenna) sono infatti tutti dislocati in acque marine di classe A accuratamente selezionate, a tre miglia dal litorale. La qualità del prodotto è strettamente legata a quella dell’ambiente in cui viene coltivato. Numerosi e costanti sono i controlli sulla qualità di tali acque di allevamento, eseguiti a tutela della sicurezza alimentare e genuinità dei mìtili cervesi, per preservarne il sapore particolarmente gradevole. elemento che li conI
Sensi
traddistingue da tutte le altre cozze, rendendoli unici nel loro genere e particolarmente ricercati. La Cozza di Cervia possiede, infatti, una serie di peculiarità sostanziali, sia organolettiche che concernenti la consistenza delle sue carni. Tali da fale guadagnare il titolo di regina dei molluschi dell’alto Adriatico, aprendole la strada dei mercati europei. Di certo, però, il modo migliore per gustare questo frutto di mare è farlo proprio lì dove viene raccolto. I mìtilicoltori, veri e propri “agricoltori del mare”, svolgono infatti a mano le attività di selezione e confezionamento già a bordo dei pescherecci, consentendo di assaggiare la Cozza di Cervia a “chilometro zero”, ossia consumata freschissima in loco, subito dopo essere stata raccolta. Non è difficile trovare una situazione in cui sia possibile assaporarle così vicino al luogo di raccolta da riuscire a intravedere in lontananza, sul pelo dell’acqua, le grosse boe della cozzara (struttura in cui vengono allevati i mìtili). di
Romagna
A FAMOuS MOLLuSC The Cer via mussel The Mediterranean mussel (Mytilus galloprovincialis) is a bivalve mollusc which lives on rocks or other hard, durable substrates. It’s much appreciated as food. Since the mussel filters seawater through its shells, its flesh is impregnated with the flavour of the sea it was fished from. So the quality of a mussel has everything to do with the quality of the water it lives in. In December 2013, the Cervia mussel obtained quality certification as a fully-organic foodstuff from one of Italy’s leading agrifood control bodies. The mussel beds of Cervia, a small town on the coast of Ravenna province, are all to be found in carefully selected class-A marine water at a distance of three miles from the coast. The quality of the product is only as good as the environment it comes from. Therefore, the quality of the water that’s circulated through the farms is constantly monitored to guarantee the safeness and authenticity of Cervia mussels, thereby preserving all their exceptionally good flavour. For it’s their flavour that distinguishes Cervia mussels from all others, and what makes them so eagerly sought after everywhere. And Cervia mussels do in fact possess some unique characteristics in terms of flavour and texture: characteristics that have earned these mussels the title of Queen of Adriatic Molluscs and opened the way to international fame. But the best way to enjoy Cervia mussels is to eat them right where they’re produced. The mussel farmers of Cervia select and pack their mussels on board their fishing boats, and they’re on shore just minutes later – meaning the Cervia mussel can be enjoyed at “kilometre zero” as soon as it’s landed. It isn’t difficult to find a place to enjoy the mussels that’s so close to their place of production you can make out the forms of the large buoys of the mussel farms floating in the distance. What’s considerably more difficult is deciding between the many local recipes for preparing Cervia mussels. The dilemma lies in choosing between the traditional recipes – where the mussels are typically served in soup or with pasta – and the contemporary creations of star chefs, like smoked mussel carbonara or mussel fritters on mixed salad leaves. The Cervia mussel is now increasingly recognized as a valuable local resource, and moves are underway to obtain PGI designation.
Scegliere una tra le tante ricette della zona che valorizzano questo pregiato mollusco può invece non essere un’impresa semplice. Il dilemma del buongustaio si pone tra le preparazioni tipiche, quali il brodetto o il tagliolino con le cozze, e le reinterpretazioni in chiave contemporanea firmate da fior di chef stellati, come la carbonara alla cozza fumé o la misticanza con bruciatini di cozza. La gustosità del mollusco cervese è tale da renderlo una preziosa materia prima e sono già in corso le pratiche per fargli ottenere la denominazione IGp. Non sarà un caso, se digitando sulla stringa del browser Google “cozza”, il primo risultato che il motore di ricerca vi proporrà sarà proprio quello relativo alla Cozza di Cervia. Enogastronomia
i greci e i romani, benché meno esperti nell’arte di condire il pesce, pure lo tenevano in gran conto ed erano così raffinati da indovinare, sentendone il sapore, dove fosse stato pescato. anthelme brillat-savarin (estratto da fisiologia del gusto)
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vino a maturare cullato dal mare
esiste in natura un habitat che possiede tutti questi requisiti e può certamente vantare il più alto tasso di umidità immaginabile: quello sottomarino. L’idea di far maturare il vino in mare non funziona solo in linea teorica, ma è empiricamente supportata. Numerosi sono stati finora, infatti, i casi di bottiglie di vino rinvenute in mare che sono uscite dal loro lungo “sonno” subacqueo mantenendo la bevibilità del loro contenuto. un esempio eclatante è quello dello champagne più vecchio mai assaggiato al mondo, datato 1782 e ritrovato nel 2010 al largo delle isole Âland in un vecchio relitto inabissato a 55 metri di profondità. Da circa un lustro, dunque, si moltiplicano gli esperimenti in questo senso, portati avanti soprattutto in Francia, Spagna e, naturalmente, in Italia. Grazie alla lungimiranza di due ravennati: Gianluca Grilli e Raffaele Ravaglia, in Romagna oggi è possibile osservare un percorso inverso rispetto al sopraccitato caso dello champagne. Quello, insomma, che vede il vino andare dalla cantina al relitto. Nella fattispecie il relitto è quello del paguro (vedi ee n. 13), una piattaforma metanifera che quasi cinquant’anni fa affondò nelle acque del Mare Adriatico, a 12 miglia dalla costa di Marina di Ravenna, adagiandosi sul fondo ed oggi è una piccola oasi sottomarina. Tale è il sito scelto da Grilli e Ravaglia, che dal 2010 hanno iniziato a sviluppare questa idea e nell’aprile del 2012, coadiuvati da una squadra di subacquei dell’Associazione paguro, hanno affondato nel reef artificiale, a 25 metri di profondità, le prime 200 bottiglie di vino. Circa sei mesi dopo, le casse sono state fatte riemergere per la “prova del brindisi”. Test superato brillantemente. Solo un 10 per cento delle bottiglie è risultato non corretto, a causa del cedimento della particolare capsula progettata in camera iperbarica per resistere all’ambiente sottomarino, che ora è stata perfezionata. Il resto della produzione ha restituito nel bicchiere tutti gli sforzi profusi dai due soci ravennati, esprimendo grande equilibrio organolettico. Oltre alla qualità intrinseca dei vini, i prodotti della Tenuta del paguro possiedono un evidente fattore evocativo suggerito anche dalla confezione in legno di pino marittimo (albero autoctono della zona) con coperchio in acciaio CorTen (a richiamare il ferro arrugginito della piattaforma sommersa), che contiene pure un filmato in formato DvD dell’immersione ed emersione delle bottiglie. Operazione un tantino più complessa rispetto allo scendere gli scalini che conducono a una cantina convenzionale.
carlo zauli
immagini: archivio tenuta del paguro
T e N u TA D e L pA G u R O
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Le caratteristiche che deve possedere una eccellente cantina per garantire l’ottimale maturazione e conservazione di un vino sono: temperatura costante, assenza di luce e altissimo tasso di umidità.
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Romagna
[…] vino inchiocciolato e sospeso / amoroso, marino, / non sei mai presente in una / sola coppa, in un canto, / in un uomo, sei corale, gregario […]. pablo neruda (estratto da ode al vino)
Se A-AGeD wINe Tenuta del paguro Every wine needs certain conditions if it is to mature and age in the right conditions: constant temperature, no light, and very high humidity. There’s one habitat in nature that offers all these conditions, and is incontestably the most humid environment of them all: the sea. The idea of maturing wine at sea is not only theoretically possible but empirically valid. There’s no shortage of stories about bottles of wine found at sea that taste as good as ever after their long underwater sojourn. One example is the world’s oldest champagne, dated 1782 and discovered in 2010 off the coast of the Aland Islands in a wreck at a depth of 55 metres. For the last five years experimentation in this direction has been increasing, especially in France, Spain and, naturally, Italy. And thanks to the foresight of two Ravenna wine producers, Gianluca Grilli and Raffaele Ravaglia, in Romagna we now have the reverse of the process of the champagne bottle mentioned above. In other words, the wine is not taken out of the wreck, but is instead placed in it. The wreck in question is the Paguro (see ee 13), an offshore methane platform that sank in the waters of the Adriatic half a century ago, 12 miles from the coast of Marina di Ravenna. It now lies on the sea bed, a minor underwater oasis. This is the site chosen by Grilli and Ravaglia, who began to develop their idea in 2010, and in April 2012, helped by a team of divers from Associazione Paguro, stowed their first consignment of 200 bottles of wine in this artificial reef at a depth of 25 metres. Six months later the boxes were hoisted back to the surface for the wine to be sampled. The results were good – very good indeed. Only 10 percent of the bottles were spoiled, after their capsules – specially designed in a hyperbaric chamber to resist the pressure – caved in. The design of the capsules has now been perfected. The rest of the bottles rewarded all the effort expended by the two Ravenna-based entrepreneurs, and turned out to be exceptionally well balanced in flavour and bouquet. To complement the intrinsic quality of the wines, the produce of Tenuta del Paguro is evocatively packaged in cases made of maritime pine (a tree which is native to the zone) with lids of cor-ten steel that evoke the rusted iron of the sunken platform, and even comes with a DVD documenting the immersion and retrieval of the bottles. After all, it’s an operation that’s a little more complex than walking downstairs into a conventional wine cellar.
Pagurus _ Sangiovese IGP Ravenna _ Uve/Grapes 100% Sangiovese Le uve da cui nasce il vino portabandiera della Tenuta provengono da vigne che affondano le proprie radici nel terreno argilloso e calcareo che caratterizza la zona della Vena del Gesso Romagnola. Vengono poste a fermentare, a temperatura controllata (26-28 °C), in serbatoi di acciaio inox con macerazione sulle bucce che si protrae per 10 giorni. Dopo l’affinamento in cantina, il Pagurus matura per 12 mesi in cesti di maglia metallica zincata, che consentono il passaggio dell’acqua, ad una profondità di 30 metri; quota atta a garantire una temperatura costante di 13 °C. Si presenta con un bel colore rosso rubino tendente al violaceo e offre al naso sentori che ricordano la viola e i frutti rossi. Al palato rivela un sapore asciutto, armonico, leggermente tannico, caratterizzato da un retrogusto gradevolmente amarognolo che lo rende indicato ad accompagnare i sapori decisi, come salumi, carni rosse, brasati, arrosti misti e selvaggina da piuma. Temperatura di servizio: 16-18 °C. The grapes which yield Tenuta del Paguro’s flagship wine come from vines growing in the clay and limestone soil that characterizes Romagna’s Vena del Gesso. They are fermented at a controlled temperature (26-28 °C) in stainless steel vats, with maceration on the skins for a period of 10 days. After ageing on the estate, Pagurus is matured for a further 12 months in zinc metal baskets which allow the passage of water at a depth of 30 metres; at this depth, the temperature is a constant 13°C. The colour is ruby red tending to violet. On the nose it has notes of violet and red fruit. On the palate it’s crisp, well-balanced, slightly tannic, with an agreeably bitterish finish that makes it the ideal accompaniment to robustly-flavoured foods such as salami, red meats, braised meats, mixed roasts and game birds. Serving temperature: 16-18ºC.
Nephros _ Cabernet IGP Ravenna _ Uve/Grapes 75% Cabernet, 25% Merlot Questo uvaggio viene ottenuto da uve Merlot, vendemmiate a metà settembre, e Cabernet, vendemmiate ad inizio ottobre, che fermentano in acciaio a temperatura controllata (26-28 °C) macerando sulle bucce e affinano in barrique di secondo passaggio per circa un anno. Una volta imbottigliato viene sommerso per 12 mesi a una profondità di 22 metri, restando così ad una temperatura stabile di 11 °C. Nel bicchiere sfoggia un rosso rubino particolarmente intenso. Svela sentori di frutti rossi accompagnati da note floreali. Di notevole struttura, si esprime con un sapore asciutto chiuso da un retrogusto parzialmente fruttato. Accompagna bene i piatti saporiti, come i primi di pasta, secca e ripiena, tipici romagnoli e i secondi a base di carne. Temperatura di servizio: 18-20 °C. This wine is made from a blend of Merlot grapes, harvested in mid-September, and Cabernet, harvested in early October. The grapes are fermented on the skins at a controlled temperature (26-28°C) in steel vats and then aged in second-fill barriques for around a year. Once bottled, the wine is submerged for 12 months at a depth of 22 metres, where the temperature is a constant 11°C. In the glass, its colour is vivid ruby-red. On the nose it has scents of red fruit mingled with floral notes. A remarkably well-structured wine, its flavour is crisp with a slightly fruity finish. Drinks well with robust flavours such as traditional pasta dishes (dry and filled) and meats. Serving temperature: 18-20ºC.
Squilla Mantis _ Bianco IGP Ravenna _ Uve/Grapes 100% Albana Tenuta del Paguro dedica il suo Albana al crostaceo più tipico della Romagna: la canòcchia. Durante la sua vinificazione le uve vengono direttamente pressate, separando il fiore dal secondo di pressa. Il mosto fiore, dopo una lieve decantazione statica, viene poi avviato alla fermentazione a temperatura controllata (1214 °C). Questo vino affina poi sui lieviti, in acciaio, per circa sei mesi prima di essere portato a maturare sott’acqua, a una profondità di 27 metri, e cullato per 12 mesi dalle correnti dell’Adriatico a una temperatura costante di 13 °C. Il suo tipico colore giallo paglierino, con riflessi dorati, introduce un profumo intenso e complesso con sentori di frutta matura. Asciutto e caldo al palato, dimostra una buona struttura, armonia e persistenza. È un vino a tutto pasto, indicato per il pesce in generale e per i crostacei in particolare. Ottimo anche come aperitivo. Temperatura di servizio: 10-12 °C. Tenuta del Paguro dedicates this wine, produced from Albana grapes, to Romagna’s king of crustaceans: the mantis shrimp. The grapes are directly pressed and the first-pressing must separated off.The must produced by this first pressing is left to settle for a short time and then fermented at a controlled temperature of 12-14°C. The wine is then aged on the lees in stainless steel vats for around six months before being transferred underwater at a depth of 27 metres, where it is bathed in the waters of the Adriatic at a constant temperature of 13°C for 12 months. It has a distinctive straw-yellow colour with golden highlights, and an intense, complex aroma with notes of ripe fruit. Warm and crisp on the palate, it has good structure, harmony and length. A wine that’s suited to all courses, it drinks particularly well with seafood in general and crustaceans in particular. Also great as an aperitif. Serving temperature: 10-12ºC. Enogastronomia
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BEYOND SURFACE
AU DELA DE LA SURFACE
chi lavora con le mani è un operaio; chi lavora con le mani e la testa è un artigiano; chi lavora con le mani, la testa e il cuore è un artista. san francesco d’assisi
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Architetture effimere
Da lì, il rumore dell’acqua e i silenzi, insieme ai riflessi, alle luci e alle ombre che si alternano incessantemente, emanano una profonda tranquillità. entrare nell’arte di vittorio presepi è quindi un’esperienza estremamente intimistica, che può essere immediatamente colta solo se si desidera mettersi in ascolto. un incontro pacato quello con l’artista, che vede, nell’esaltazione della perfezione, un senso estetico, raffinato ed avvolgente attraverso il quale presepi, fin da subito, esprime il suo messaggio. Nella sua personale filosofia, infatti, l’arte è bellezza che deve trasmettere la capacità di una riflessione profonda ma anche un’assoluta serenità lontana da ogni forma di provocazione e sofferenza. Il suo percorso artistico non è accademico. Si concretizza agli inizi degli anni Settanta, con lo studio della tecnica dell’origami. Nasce quasi per gioco, con l’intento di trasmettere ai figli, prima, e alle nipotine, poi, il valore della manualità come elemento fondante di un vivere più armonioso e positivo. Ma ben presto le regole imposte dall’origami divengono troppo stringenti per la sua fantasia che ha bisogno di liberarsi senza però distaccarsi da quelle geometrie, a lui tanto care, che lo portano alla costruzione di straordinarie architetture effimere realizzate con la carta.
L A vISIONe DeI vOLuMI DI vIT TORIO pReSepI
Vittorio Presepi è nato, vive e lavora a Cesena in una casa lungo il fiume che domina il Ponte Vecchio.
angelamaria golfarelli
immagini: archivio vittorio presepi
I
Sensi
di
Romagna
epheMeRAL BuILDINGS vittorio presepi’s visions of volume Vittorio Presepi was born in Cesena, where he now lives and works in a house overlooking the river, near Ponte Vecchio. It’s a spot where the murmur of the river mixes with silence and the endless play of light, shadow and reflection emanates an enormous sense of tranquillity. Experiencing the art of Vittorio Presepi is an intimate, up-close experience that can only be fully appreciated if we’re ready to listen to what it says. We need peace and quiet to enter into dialogue with the works of an artist who sees perfection as an aesthetic category through which he expresses his message. In Presepi’s personal philosophy, art is beauty that’s capable of eliciting profound reflection and absolute serenity – the absolute opposite of provocation and hardship. Presepi does not have an academic background. He found his vocation in the 1970s, when he began studying the techniques of origami. What began almost as a game – his endeavour to transmit to his children (and later his grandchildren) the value of manual dexterity as a fundamental element in a more harmonious and positive attitude to living – became a passion. But the “rules” inherent to the craft of origami soon proved too restrictive for Presepi’s imagination, which felt the need to shake itself free from the physical restrictions of the craft without losing sight of the formal geometries he found so fascinating. The results are evident in his extraordinary paper buildings, canvases and sculptures which preserve the bright purity of paper, with meticulously worked incisions that transform flat surfaces into fascinating three-dimensional forms. The ability of paper to hold and radiate light imbues Presepi’s rigid structures with an aura of the sacred. Removing nothing from and adding nothing to the pristine white sheet, form gradually acquires volume to become a fully three-dimensional structure of mass and void where the play of light and shadow produces magical effects. “Enchanting” is perhaps the best way to describe the creations that spring from the mind and hands of Vittorio Presepi, the practitioner of a unique art form which he has reinvented with the unpretentious brilliance which distinguishes his work. Presepi’s creations combine the dazzle of gesso with the insubstantiality of paper in a creative impulse which yields sculptures and landscapes invested with an evanescent and scenographic impact that, even where they address social issues, never fails to elicit the gentle fascination their creator is aiming for. His works speak of people and nature, touching on themes such as solitude and the prison of individualism, a world where we are often unable to strike up a rapport with our fellow humans or the environment we live in – and which we plunder and abuse without restraint. Presepi’s slender towers, populated by stylized human figures who seem always to be running after something without ever reaching it, offer food for reflection on the real meaning of success, of helping our fellow humans, and the fragility of modern myths.
27] Nascono così quadri e sculture che, mantenendo intatto il candore del foglio, con puntuali e precise incisioni trasformano il piano in un affascinante volume. Trafitto dalla luce, questo investe le rigide forme di presepi di un’aura di sacralità. un intervento di cesello che, senza nulla togliere e nulla aggiungere all’intonsa pagina bianca, vede erigersi le forme lentamente fino alla tridimensionalità attraverso una metaforica scalata ai volumi che dà vita a vuoti e pieni entro cui il gioco della luce produce la conseguente e magica nascita delle ombre. È un vero incantesimo quello che scaturisce dalla mente e dalle mani di vittorio presepi; depositario di un’arte unica che ha saputo reinventare con quella semplice genialità che lo contraddistingue. un’arte che dal candore delle gipsoteche e dalla leggerezza delle cartiere trae l’impulso per inventare sculture e paesaggi di una tale evanescente e scenografica apparenza che, senza negarsi alle traiettorie dei temi sociali, non manca mai di produrre quella soave fascinazione a cui l’autore induce. parlano dell’uomo e della Natura le sue opere, toccando temi quali la solitudine e l’individualismo esasperato, incapace di creare rapporti non solo con i propri simili, ma anche con l’ambiente che abita, che viene depredato e offeso senza ritegno. Le sue leggere torri popolate da umane presenze stilizzate, che si rincorrono senza mai raggiungere la vetta, riflettono sul reale significato della “scalata” al successo, sul reciproco mutuo soccorso, sulla fragilità dei miti moderni...
Arte
alessio nelli
immagini: luca del pia
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Generalissimo linguaggio teatrale NeLL A pOeTICA DI ROMeO CASTeLLuCCI La fertile scena romagnola legata al teatro di ricerca (vedi ee n. 21) che dagli anni Ottanta si è sviluppata fino a raggiungere l’attuale riconosciuto spessore ha avuto per capofila la compagnia Socìetas Raffaello Sanzio. Suo fondatore e deus ex machina, senza nulla togliere al fondamentale contributo delle cofondatrici Claudia Castellucci e Chiara Guidi, è Romeo Castellucci. Nato a Cesena, classe 1960, dal 1981, con la Sanzio o individualmente, egli realizza spettacoli fondendo nella propria figura i ruoli di autore, regista e creatore delle scene, delle luci, dei suoni e dei costumi. Nel corso della sua attività ha ricevuto i riconoscimenti più importanti, per citare i più recenti: nel 2002 è stato insignito del titolo di Chevalier des Arts et des Lettres dal Ministero della Cultura della Repubblica Francese, nel 2005 è stato nominato Direttore della sezione I
Sensi
Teatro della Biennale di venezia e nel 2007 è stato chiamato a ricoprire la carica di Artiste Associé dalla Direzione artistica del Festival d’Avignon. Nel 2010 ha ricevuto il premio Butaca Barcelona per il migliore spettacolo internazionale con il ciclo della Divina Commedia; lo stesso anno Le Monde ha eletto la trilogia migliore spettacolo teatrale ed evento culturale tra i dieci più influenti del decennio 2000-2010 e nel 2013 è stato insignito del Leone d’Oro alla Carriera da La Biennale di venezia - settore Teatro. Il suo lavoro è regolarmente invitato e prodotto dai più prestigiosi teatri di prosa, teatri d’Opera e festival internazionali. di
Romagna
la vera funzione politica del teatro di carmelo era quella, presumo, di dividere la città e di mettere a repentaglio il luogo comune che tiene insieme la comunità umana: il linguaggio. romeo castellucci (citato in fondazione immemoriale di carmelo bene)
Alla base dell’opera omnia della Socìetas Raffaello Sanzio e di Castellucci si percepisce il medesimo orientamento: un concetto di teatro inteso come espressione parallela della totalità delle arti, adottato con l’obiettivo di comunicare con tutti i sensi dello spettatore. Contribuiscono a questa “missione” un ventaglio eterogeneo di discipline, tutte impiegate con alta maestria. In parole povere, la tecnologia digitale sperimentale convive con l’arte del trucco tradizionale e con l’artigianato scenografico di vecchia scuola in un sodalizio senza tempo.
Il senso più stimolato risulta, in ogni caso, essere l’occhio, che si trova esposto a immagini di tale imponenza ed intensità da scatenare fortissime reazioni emotive. Questo poderoso impianto scenografico è al servizio di testi teatrali sempre taglienti nella loro capacità di sezionare la condizione umana e di una regia che potrebbe forse essere definita “ad orologeria”. Castellucci ha anche collezionato una serie di premi ubu per varie categorie, l’ultimo, nel 2004, gli è stato assegnato per gli sviluppi del lavoro sulla Tragedia endogonidia, sistema drammatico che si estende alla compagine produttiva dello spettacolo, concepito come un processo di invenzione privo di pause e di repliche che si compone di undici singoli episodi legati ognuno a una diversa città europea. un percorso in climax le cui tappe rappresentano, si potrebbe quasi dire, gli atti dell’opera. Non uno spettacolo auto-concluso che viene rappresentato in diversi teatri, dunque, bensì luoghi diversi che entrano a far parte del dispositivo drammatico come mete di un unico processo. Le rappresentazioni della Socìetas Raffaello Sanzio e di Castellucci non mancano di scandalizzare i benpensanti, il caso più clamoroso si è avuto durante la tournée dello spettacolo Sul concetto di volto nel figlio di Dio, che ha ricevuto accuse di blasfemia poiché durante il suo svolgimento venivano scagliati oggetti non meglio identificati contro una gigantografia del volto di Cristo (tratta dal dipinto di Antonello da Messina) che dominava la scena. Accuse respinte da Castellucci, che si dichiara tra l’altro cristiano, ma che hanno comunque avuto molta eco sulla stampa e sui media. Sono decisamente più frequenti, però, gli onori che gli vengono tributati, come lo speciale progetto a lui dedicato recentemente conclusosi a Bologna, dal titolo e la volpe disse al corvo. Iniziato lo scorso gennaio con la rappresentazione della prima regia d’Opera di Castellucci: Il parsifal, ha avuto per sottotitolo Corso di linguistica generale in dieci volumi anche in relazione alla riproposizione proposta della lingua Generalissima della Raffaello Sanzio.
A LANGuAGe OF TheATRe Romeo Castellucci’s unique conception of drama The flourishing experimental theatre scene in Romagna (see ee 21) has grown in stature and reputation since its emergence in the 1980s. And it all began with one company, Socìetas Raffaello Sanzio. The founder and deus ex machina of SRS (without in any way denying the fundamental contributions of cofounders Claudia Castellucci and Chiara Guidi) is Romeo Castellucci. Born in Cesena in 1960, since 1981 Romeo Castellucci has been making (with Sanzio or on his own initiative) theatre in which he is simultaneously author, director, set designer, wardrobe designer, sound engineer and lighting technician. Over the course of his career he has received some of the most important awards going. To cite just the most recent ones: in 2002 Castellucci was made a Chevalier des Arts et des Lettres by the French ministry for culture, in 2005 he was appointed director of the theatre section at the Venice Biennale, and in 2007 was an artiste associé at the Avignon Festival. In 2010 he received the Butaca Barcelona prize for best international production with his Divina Commedia cycle; the same year, the trilogy was elected by Le Monde as “one of the ten most influential cultural events in the world for the decade 2000-2010”. In 2013 Castellucci received a Golden Lion career award at the Venice Biennale. His works are in great demand all over the world and are produced by many of the world’s leading dramatic and operatic companies and by international festivals. At the core of all of Castellucci’s work, alone or with Socìetas Raffaello Sanzio, we can discern the same outlook: a concept of theatre as the parallel expression of all the arts, articulated with the objective of communicating with all 5 senses of the observer. Contributing to this objective is a wide and heterogeneous range of tributary disciplines, all of them mastered with the greatest of virtuosity. Put simply, experimental digital technology rubs shoulders with greasepaint and old-school scenography. The sense most stimulated is the eye, which is exposed to images of such power and intensity that they can trigger extremely strong emotional reactions. This hard-hitting scenographic component is placed at the service of texts which offer incisive commentary on the human condition, and a stage production which might best be defined as “like clockwork”. Castellucci has also received a series of Ubu prizes in various categories. The latest, in 2004, was for Tragedia Endogonidia, a monumental dramatic cycle conceived as a process of invention deprived of pauses and repetitions, comprised of eleven separate episodes, each associated with a different European city.
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osceno è uno spettacolo che si interroga sul dolore umano […]? o osceno è il clamore fondamentalista che si scatena intorno a un lavoro teatrale senza averlo visto […]? e non è osceno il conseguente silenzio complice di molti, che non fa chiarezza, che non denuncia la montatura? romeo castellucci (in reazione alle polemiche scatenate dallo spettacolo sul concetto di volto del figlio di dio)
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Frutto di un lungo lavoro di ricerca portato avanti a metà degli anni Ottanta, questa complessa invenzione teatrale si concretizza in un vocabolario di 400 parole con le quali è possibile esprimere qualunque concetto. Studiato partendo da modelli esistenti come le lingue morte, creole o artificiali quali l’Ars Magna di Raimondo Lullo che nel ‘300 elaborò una lingua fondata sul numero “9” e i sistemi concepiti da Giordano Bruno, è un linguaggio di sintesi che funziona per anelli concentrici su quattro livelli cognitivi. Castellucci ha fissato sulla carta il poderoso impianto teorico che costituisce la propria visione teatrale portando avanti, in parallelo ai suoi altri impegni, anche l’attività di saggista. Quello che stupisce quando lo si ascolta parlare è la modestia di fondo che emerge dalle sue parole. Il suo approccio è misurato, autocritico e molto introspettivo.
una delle domande che sostiene di porsi più spesso riguarda il perché un individuo dovrebbe investire una parte del proprio tempo per assistere ai suoi spettacoli. Questa riflessione pone l’accento su un elemento della rappresentazione che non infrequentemente viene snobbato dai registi nell’ambito del teatro di ricerca: il pubblico. Da una domanda diretta postagli durante un seminario, apprendiamo anche che egli, nonostante si ritenga un cittadino del mondo, non ha tagliato i ponti con le sue origini provinciali. pur non riconoscendosi in un’ipotetica identità romagnola, predilige risiedere in provincia piuttosto che in una grande città europea. L’unica alternativa che ritiene preferibile è quella della megalopoli mondiale, ideale contraltare al piccolo lembo di territorio locale. un punto di vista che forse non tutti condivideranno, ma assolutamente coerente con il suo teatro; esente da compromessi.
As the episodes succeed one another, the action moves towards a climax that’s almost operatic in its intensity. Not so much a selfdelimited spectacle that can be performed in various theatres, as various places that enter and become part of the workings of a single dramatic process. The performances of Socìetas Raffaello Sanzio and Castellucci solo make a point of scandalizing the more conformist sectors of society. The most egregious example came when the company was touring with Sul concetto di volto nel figlio di Dio, drawing accusations of blasphemy for a scene where unspecified objects were hurled at a blow-up face of Christ (based on the painting by Antonello da Messina) which dominated the stage. Castellucci rejected these accusations, even declaring himself to be a Christian, but the repercussions in the media were enormous. Nevertheless, the honours continue to outstrip the opprobrium, such as the special project dedicated to Castellucci and recently completed in Bologna, E la volpe disse al corvo (“And the Fox Said to the Raven”). The project began last January with a performance of Castellucci’s first operatic production: Parsifal. This production’s subtitle, Corso di linguistica generale in dieci volumi, brings to mind the Generalissima, a language invented by Socìetas Raffaello Sanzio. The fruit of extensive research in the mid-1980s, this complex theatrical confection operates with a vocabulary of 400 words which can be used to express any concept. Based on dead languages, creoles and artificial languages such as the Ars Magna of Ramon Llull, who in the 14th century devised a language based on the number “9”, and on Giordano Bruno’s investigations into the geometry of language, it is a synthetic language which can be described as a series of concentric rings operating on four cognitive levels. Castellucci has written extensively on theoretical subjects and his own vision of the theatre, and in parallel to his other projects has a considerable output as an essayist. Hearing him speak, we’re immediately struck by the modesty that underpins his words. He talks of his work with restraint, self-criticism and a lot of introspection. One of the questions he asks himself most often is why people should invest their time in going to see his performances. It’s a reflection which touches on an aspect of theatre often ignored by the proponents of experimental theatre: the audience. Castellucci sees himself as a citizen of the world, but to judge from a question put to him at a recent conference, he hasn’t severed his ties with his origins either. Although refusing to align himself with a conventional “Romagnol” identity, he prefers to live here rather than some major European capital. The only possible alternative is the global megalopolis, the very antithesis of the provincial backwater. It’s a point of view that perhaps not everyone would share, but it’s totally coherent with his approach to theatre: devoid of compromise.
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[0 4] TERRITORIO L A CO S CI e N z A A R T I ST I C A D I I vO S A S S I _ i l g i a rd i n o d e l l a s cu l t u ra T h e A R T I ST I C CO N S CI e N Ce O F I vO S A S S I _ t h e g a rd e n o f s cu l p t u res u N A FO R T e z z A S O S p eS A _ s a n l e o A FO R T R eS S S u S p e N D e D I N T h e A I R _ s a n l e o
[08] STORIA I L F u K u R S A A L _ l’e m b l e m a p e rd u to d e l l a b e l l e é p o q u e r i m i n es e T h e K u R S A A L _ l o s t e m b l e m o f r i m i n i’s b e l l e é p o q u e CO p e R T e DA B u O I _ a n t i ch i m a n t i d a l l a f u n z i o n e p ra t i ca, b e n a u g u ra l e e d es te t i ca Ox B L A N K e T S _ co l o u r f u l, p ra c t i ca l a n d p ro p i t i o u s u N R I B e L L e R O M AG N O LO _ l a ca r i ca eve r s i va d i fe l i ce o r s i n i A R O M AG N O L R e B e L _ t h e su bve r s i ve ca l l i n g o f fe l i ce o r s i n i
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PASSIO NI
L A CO L L e z I O N e M Au R O pA S CO L I _ m e cca ra ve n n a te d e l l a ves p a T h e M Au R O pA S CO L I CO L L eCT I O N _ ro m a g n a’s ves p a m e cca I L “ D OT TO R T ” D e L L A D u C AT I _ fa b i o ta g l i o n i D u C AT I ’ S “ D O CTO R T ” _ fa b i o ta g l i o n i
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ENOGASTRONOMIA
I L M I T I LO N OTO _ l a coz za d i ce r v i a A FA M O u S M O L Lu S C _ t h e ce r v i a m u s s e l v I N O A M AT u R A R e Cu L L ATO DA L M A R e _ te n u ta d e l p a g u ro S e A - AG e D w I N e _ te n u ta d e l p a g u ro
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A R Ch I T e T T u R e e F F I M e R e _ l a v is i o n e d e i vo l u m i d i v i t to r i o p res e p i e p h e M e R A L B u I L D I N G S _ v i t to r i o p res e p i’s v is i o n s o f vo l u m e G e N e R A L I S S I M O L I N G uAG G I O T e AT R A L e _ n e l l a p o e t i ca d i ro m e o ca s te l l u cci A L A N G uAG e O F T h e AT R e _ ro m e o ca s te l l u cci’s u n i q u e co n ce p t i o n o f d ra m a
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periodico edito da Cerindustries SpA 4 8 0 14 C a s t e l B o l o g n e s e ( R A ) I T A LY v i a e m i l i a po n e n te, 10 0 0 w w w.c e r d o m u s .c o m w w w.c e r d o m u s . n e t Direttore responsabile Raf faella Agostini Direttore editoriale Luca Biancini progetto Carlo zauli Luca Biancini Grafica e impaginazione Laura zavalloni – Cambiamenti per Divisione immagine Cerdomus Coordinamento editoriale Alessandro Antonelli Redazione To m m a s o A t t e n d e l l i Franco De pisis A ngelamaria Golfarelli Italo Graziani Alessio Nelli Alba pirini Manlio Rastoni Carlo zauli Foto Archivio Cambiamenti.net Archivio Comune di San Leo A rchivio Cooperativa La Fenice Archivio Ducati A rchivio Franco De pisis Archivio Ivo Sassi A r c h i v i o Te n u t a d e l p a g u r o A rchivio vanda Budini Archivio vittorio presepi Luca Del pia Asgeir pedersen Si ringraziano ApT Rimini Cooperativa La Fenice Gilda Biasini Silvia Bottiroli vittorio presepi Ivo Sassi Claudia zannoni Si ringrazia per la preziosa collaborazione Maddalena Becca / Divisione immagine Cerdomus Tr a d u z i o n i Tr a d u c o , L u g o Stampa FA e N z A I n d u s t r i e G r a f i c h e Š Cerindustries SpA Tu t t i i d i r i t t i r i s e r v a t i A u t o r i z z a z i o n e d e l Tr i b u n a l e d i R a v e n n a n r. 117 3 d e l 1 9 / 12 / 2 0 0 1 ( c o n v a r i a z i o n e i s c r i t t a i n d a t a 11 / 0 5 / 2 0 1 0 )