TanguEros Cetta De Luca
Marco Reale
Titolo| TanguEros
Autori | Cetta De Luca e Marco Reale
Un progetto di selfpublishing De Luca-Reale
CopyrightŠ2013 De Luca-Reale
Tutti i diritti riservati
Questi sono due racconti di fantasia. Ogni riferimento a fatti, luoghi o persone è puramente casuale. Per gli argomenti trattati se ne consiglia la lettura al solo pubblico adulto.
Degli stessi autori Cetta De Luca Colui che ritorna – Narcissus - 2011 Nata in una casa di donne – L’Erudita Edizioni – 2013
Marco Reale Incompiuto – L’Erudita Edizioni - 2012
http://www.cettadeluca.wordpress.com http://www.fairplaymovie.org
COSA C’È IN QUESTO EBOOK
Interno numero cinque di Cetta De Luca racconto
Intimo nero di Marco Reale - racconto
Contenuti speciali: o Clochard – Il cortometraggio [guarda] o La dispersione di un attimo – Tiromancino [ascolta] o Comunque bella – Lucio Battisti [ascolta] o Time – Pink Floyd [ascolta] o Oblivion – Astor Piazzolla [ascolta] o Milonga triste – Hugo Diaz [ascolta] Quando all’interno vedi i simboli e clicca per aprire il link.
Interno numero cinque Certo che sono curiosa! Il mondo racchiuso nelle sinapsi che affollano la mia mente non mi basta. Mi guardo intorno e provo a frugarci dentro, lì, nei mondi degli altri. Per carpire il segreto di un sorriso stampato in faccia, magari, o di uno sguardo triste. Potrei trovare lo svelamento di un segreto o lo spunto per una storia da scrivere, chi lo sa? Oggi nulla però, nessun incipit magistrale. Sarò solo stanca. Casa mia è al terzo piano di questo condominio di periferia. Proprio al centro. Ho altri due piani di mondi sopra e sotto di me, mondi che non conosco, che non interagiscono con la mia sfera emozionale. Io non uso l’ascensore perché può darsi che, un giorno o l’altro, incontri qualcuno. Perché lo so che qualcuno oltre me lo abita questo caseggiato privo di ogni attrattiva, lo sento dai rumori soffusi che ogni tanto prendono aria nella tromba delle scale. La porta dell’interno numero cinque, al secondo piano, è socchiusa. Pare un
invito. Ma dai! Mica ti puoi infilare in casa di qualcuno così! E se ti sorprendono che dici? Scusi volevo capire se c’era stato un omicidio, un’effrazione, una violenza di qualche tipo, un furto, una scopata fuori programma con l’amante di turno. Sa, è che tutto può accadere oggigiorno e io sono una cittadina responsabile… Entro. Le case degli altri hanno sempre odori strani. Forse perché non è quello che usiamo noi, allora ci pare strano. Invece no, è solo diverso. Odore di cibi cucinati ore prima, cibi che noi non mangiamo magari. Odore di pelle e di sudore, odore di sesso consumato all’alba. Quello che io non faccio da un po’. È eccitante questa casa, eccitante e silenziosa. Hanno proprio dimenticato la porta aperta. Fortuna che ci sono io, coscienziosa vicina di casa, che mi preoccupo. Dall’arredamento deduco che l’abitante sia un uomo, solo. Poche cose in giro, sobrie, monotono. Potrebbe solo essere una donna molto ordinata e minimalista! La camera da letto e il bagno sono la fonte di ogni indizio. Lo so che non dovrei frugare, lo so che, in caso di indagine, rischio che
trovino le mie impronte ovunque e che magari mi accusino di qualcosa, lo so che è da incoscienti perché l’abitante potrebbe rientrare e… È decisamente un uomo. Calzini, boxer, camicie, tutto di ottimo gusto oltretutto. Neppure un reggiseno a tradire una presenza femminile, seppure occasionale. Annuso una camicia poggiata sulla spalliera della poltrona. Mmmm! Che buon profumo. Muschiato, amaro. Percepisco in sottofondo una nota diversa, più dolce. L’odore della pelle. Su una camicia anche appena indossata restano sempre le tracce dell’umore, quel velo sottile che traspare dalla cute anche col semplice movimento che si compie per indossarla. Mi tolgo la giacca, la maglietta, il reggiseno. Voglio sentirla sulla pelle nuda, voglio che mi racconti la sua storia. Via anche la gonna. Mi guardo allo specchio lungo dell’armadio. Gli armadi degli uomini soli ce l’hanno spesso lo specchio di fuori, sulle ante, per fare prima, per catturare col fuggevole ultimo sguardo la loro immagine riflessa prima di uscire. O per specchiarsi durante le ore di sesso notturno,
quando c’è la calma, quando il tempo non si ruba, si concede. È sempre sensuale una camicia bianca da uomo sul corpo seminudo di una donna. Chissà perché. Forse per la malizia che c’è nel vestire i panni altrui, forse per l’intimità che si crea nel mescolare gli odori, forse perché l’inversione dei ruoli rientra da sempre nel segreto gioco dell’attrazione. Indugio nel rimirarmi, i lembi della camicia socchiusi a mostrare l’incavo del seno, e più giù il ventre ancora abbronzato che scompare negli slip candidi. Il profumo dell’uomo è più forte adesso, così vicino, così prepotente. Non riesco neppure a immaginare il suo aspetto, solo le dimensioni, perché ci sono dentro. La sua camicia mi abbraccia e quasi sento il ricordo del suo calore. Rabbrividisco. Forse è il caso di uscire adesso. Mi guardo intorno prima di andarmene, per esser certa di non aver dimenticato nulla. L’odore della casa è cambiato, mi sembra. Ora è più familiare, come se ci avessi lasciato la mia impronta, come i felini che marcano il territorio con i loro umori.
Ho marcato questa casa, ho lasciato una traccia che un giorno, magari, mi condurrà al legittimo proprietario. O lui da me. Chiudo la porta alle mie spalle. Sicuramente lui non si è accorto di averla lasciata aperta, quindi meglio non allarmarlo inutilmente. Ora che ci faccio qui, tra le mie quattro mura rassicuranti e desolatamente vuote? L’idea che da un momento all’altro il mio sconosciuto vicino possa rientrare mi accelera il battito cardiaco. Magari è bello, affascinante, morbido come il culetto di un neonato. Oppure è un intellettuale, stempiato, con gli occhiali, lo sguardo perso nei suoi mondi interiori. Troppe domande senza risposta. E intanto il calore sale dalle cosce al basso ventre. Arriva così l’eccitazione, quella vera, di testa, incontrollabile. Una vampata. Le dita premono sul monte di Venere, un massaggio intenso, doloroso, inefficace. Da troppo tempo non ho un uomo e il sesso fai da te, ormai, non serve a nulla. Meglio uscire, incontrare gente, distrarmi. Dopo cena vado a ballare, così mi sfogo, così mi faccio abbracciare in qualche modo.
A quest’ora posso muovermi solo in taxi, non ci penso proprio a prendere i mezzi pubblici. Così vestita poi, che quando mi sono guardata allo specchio mi sarei saltata addosso da sola! Si chiama divisa da acchiappo, almeno così l’ho ribattezzata io. Niente in mostra, tutto da immaginare, ma molto ben evidenziato. Madre natura è stata generosa con me in fondo, quindi posso ringraziarla e celebrarla. In ogni caso la teoria secondo cui gli uomini sono irrimediabilmente attratti dalle belle donne non vale niente. Cioè, è vero che si lasciano attrarre, ma poi ci vuole qualcosa in più, quella mistura odorosa fatta di fascino e seduzione, che fa scattare l’attrazione, la sensazione profonda che quella donna e quella soltanto può essere la risposta a ogni inconfessato desiderio. Io da molto non do a un uomo l’opportunità di avvicinarsi abbastanza da sperimentare: sono di gusti complicati. E più passa il tempo più peggioro. Ora però basta. Se riesco a farmi un film su una persona di cui ho sentito solo l’odore significa che sono giunta al punto di non ritorno.
Le vetrine illuminate ai lati dell’ingresso del locale sembrano gli occhi languidi di una maitresse che invita a entrare. Promesse di eccitanti e festosi incontri gridano da locandine colorate la loro falsa concupiscenza. Falsa. Non c’è nulla di torbido là dentro, è tutta un’illusione. Io lo so bene, ci vengo spesso in questo locale. L’addetto all’ingresso mi strizza l’occhio. Ci ho fatto un pensierino tempo fa, se non fosse che è davvero troppo giovane, troppo anche per me che non sono certo una vegliarda. Il bancone del bar è già affollato e mi faccio strada a fatica per raggiungere una postazione da “osservazione”. – Il solito? – è rassicurante quando un barman si ricorda di te, dei tuoi gusti. Ti fa sentire protetta, a casa. C’è quel gruppetto spaiato dall’altra parte della sala che è davvero interessante: per una volta gli uomini sono in eccedenza. Tutto sta a capire quale degli uomini sia quello realmente disponibile; magari sono fortunata, magari. Gli sguardi chiamano, è vero, sono potenti attrattori, e io voglio ballare con il tizio alto e moro del gruppo. Allora lo guardo. Profuma di
buono e ha le mani grandi, così grandi che mi copre tutta la schiena nel suo abbraccio. E me le immagino quelle mani, mentre percorrono centimetro dopo centimetro la mia pelle, e scivolano giù, sui glutei protesi. Devo concentrarmi che altrimenti gli pesto un piede. La sua bocca è vicina al mio orecchio, molto vicina. Mi respira dentro, o forse sta dicendo qualcosa? Non lo sento, troppo impegnata a percepire il pizzicore sul cuoio capelluto, quel delizioso tormento che precede il mio godimento. Siamo animali selvatici quando ci accoppiamo, non più donna, non più uomo. Ci annusiamo continuamente e ogni mutamento degli umori arriva forte alle fibrille nascoste, le fa fremere, eccitate. – Devo andare adesso. Dimmi che tornerai. – Ora che ho i crampi al ventre, ora che sono disposta anche a nascondermi con te in bagno e danzare un ballo nuovo sul lavabo, ora mi dici che vai via? – Tornerò, certo. – Certo che torno. Stamattina i ragazzi mi hanno sfiancata. Eppure non è molto che ho smesso di essere una loro
collega. Ce l’ho ancora intatta l’energia, la passione, l’irruenza. Sarà che non ho modo di sfogarmi. L’Università non è solo il luogo in cui si alimenta la cultura, la si nutre, la si scambia. Almeno si dovrebbe. In queste stanze dai soffitti sempre alti, chissà mai perché, c’è un sottofondo denso di amorosi sensi. Quando si mescolano gli odori del mondo, mente e cuore giocano una partita subdola. E può accadere che il ragazzo di Poggioreale fa breccia tra le cosce urbane della fanciulla di Poggibonsi, che tanto mica devono parlare, si capiscono benissimo. Ci pensano gli anfratti dei corridoi a raccogliere la storia e a custodirla. E io, con tutta questa miscela ormonale in corso di travaso, io non posso neppure allungare una mano. Per forza sono esausta. – Prof ci vieni con noi stasera? C’è Allegra che suona! Ci facciamo un "ape" prima da Diego. – La capacità che hanno i ragazzi di mettere, in un’unica frase, la distanza e la vicinanza. Mi invitano con loro perché sono giovane, però mi chiamano Prof, giusto così, per sottolineare. E che
ci vado a fare io a sentire Allegra? Così mi deprimo di più. No, stasera mi riposo. Di nuovo aperta. Un po’ ci speravo, a dire il vero. Quest’uomo però è un incosciente. O è molto sicuro di sé. Magari ha delle telecamere nascoste. No. Se così fosse avrei già avuto visite dalla Polizia. Questa porta aperta è una sfida però, perché io sono curiosa, si sa. Tu te le vai a cercare… Ma sì, magari è dentro e lo sorprendo, magari metto un po’ di sale e pepe a questa giornata così insapore. Lo sento ancora l’odore di familiarità. Come se ci fossi entrata solo ieri, il mio profumo è rimasto, ha impregnato qualcosa. Vediamo di conoscerlo meglio questo mio vicino misterioso. La camera da letto è come l’avevo lasciata la volta scorsa, in penombra. Ha un che di laido questa atmosfera, come se due amanti dovessero entrare tra un momento e la luce sarebbe di troppo. Non serve molta luce quando c’è la voglia. Le nostre mani sono i nostri occhi. La camicia bianca è ancora sulla spalliera della poltrona. Apro un’anta
dell’armadio. Scarpe. Ho una passione feticistica per le scarpe. Mi raccontano storie, percorsi di vita, gusti e debolezze, turbamenti dell’anima. Le scarpe sono una rappresentazione di noi. C’è di tutto qui dentro. Ce n’è pure un paio che mai avrei immaginato di trovare qui. Queste non sono scarpe da passeggio, e neppure da ufficio se è per questo. Non ce lo vedo quest’uomo così raffinato andarsene in giro con scarpe così. Sembrano scarpe da esibire, come a carnevale, come per una festa speciale. Scarpe nere, da ballerino. Le prendo con la punta delle dita. Non ha piedi enormi il mio sconosciuto amico; forse un 42, il numero non si legge, cancellato dall’usura. Una volta avevo fatto sesso con un ballerino. Era il mio insegnante di salsa cubana. A Cuba. Non è che stai lì tanto a guardare l'aspetto delle persone in certe situazioni. Sei talmente inzuppata di rhum, sudore e umori intimi che tutto è semplice e naturale, inevitabile. La salsa cubana è frenetica, veloce, devi lasciarti guidare, per forza. Lui mi disse all'orecchio: - Non ci provare nemmeno a prendere decisioni. Qui sono io che comando. -
Non mi parve vero di lasciarmi andare così. Il mio corpo decise per me, obbediente, e riuscì a compiere movimenti che mai avrei neppure pensato. È eccitante la salsa. Il bacino si muove, sempre, e quello del mio maestro compiva rotazioni e oscillazioni che erano una giostra per i sensi. Era ipnotico. Immaginavo quel movimento su di me, dentro il mio ventre, dietro le mie natiche. Avevo la gola secca. Forse feci un movimento sbagliato, forse interpretai male un segnale della mano che stringeva la mia. Fatto sta che gli caddi tra le braccia, inciampando. Ci ritrovammo nella mia camera. Per mettere una pomata sulla mia caviglia. Si può sempre cominciare da un massaggio alla caviglia. Poi distrattamente la mano scivola più su, dietro il ginocchio, e poi si sposta in alto, sulla coscia, nell'incavo umido e odoroso dell'inguine. Aspettavo con le labbra socchiuse che lui continuasse l’esplorazione, una sorta di stupore compiaciuto. Macché…nessuno stupore, almeno non per lui. Per me, forse, questo sì. Non mi aspettavo certo che dentro di me albergasse quella
gatta in calore così priva di remore. Volevo che continuasse, volevo che affondasse quelle dita sapienti, che cercasse il mio calore più profondo per lasciare ancora un attimo, solo un attimo, prima di prendersi tutto. E si prese tutto, oh se lo fece! E io con lui. Danzammo un nuovo tipo di salsa cubana, non brevettabile, irripetibile. Perché si sa, anche se tornassi, non ritroverei nulla di quanto ho lasciato. Forse neppure il mio maestro. Sto qui a fantasticare, a ricordare, con queste scarpe tra le dita, e il padrone di casa potrebbe rientrare da un momento all’altro. O forse è proprio questo che vuoi? Sto qui a fantasticare, a ricordare, con queste scarpe tra le dita, e il padrone di casa potrebbe rientrare da un momento all’altro. O forse è proprio questo che vuoi? Ripongo le scarpe nell'armadio e decido di dare un'occhiata in bagno. Mmmmm... accappatoio di spugna. Ci tuffo la faccia dentro. È morbido, soffice direi. Mi coglie un attimo di perversione e lo annuso, tra le tasche, più o meno all'altezza del
punto in cui si coprono gli attributi. Coprono. Le volte in cui mi è capitato di imbattermi in un uomo appena uscito dalla doccia, generalmente il suo totem sbucava sempre fuori, in stato di allerta, occhieggiante e malizioso. L'acqua della doccia deve essere molto stimolante, specie se fuori c'è una donna in attesa. Le fantasie piovono come le gocciole, scroscianti, titillanti. Il suo odore intimo ha impregnato la spugna. Chissà da quanto tempo è appeso questo accappatoio. Eppure l'odore c'è ancora, forte, suadente. "Basta, mi sto eccitando di nuovo. " Lascio a malincuore quelle mura ormai così familiari. Le considero un po' come le custodi dei miei desideri, l'alcova dove io arrotolo le mie voglie tra aromi segreti, per ritrovarle ogni volta, intatte, potenti, insoddisfatte. Il rumore della porta che si chiude dietro di me ha un che di definitivo. Probabilmente non varcherò più quella soglia. Stamattina fuori dalla metro mi hanno riempito le mani di volantini. Questa crisi ha fatto impazzire
tutti. Si svende o si offre ogni cosa, e io prima di gettarli do sempre un'occhiata, non si sa mai. Ecco, questa è un'informazione interessante. Un locale in cui si balla e si cena a tariffe incredibili. Ci sarà sicuramente il trucco. Mi svuoteranno le tasche col vino. Però val la pena tentare. Ma sì, facce nuove, nuovi incontri, hai visto mai? Come dice il mio amico Eugenio, mica posso sperare di trovar tartufi in una pietraia! Andiamo nel bosco, allora. Non è il massimo andare per locali da sola. Mi sono dovuta abituare. Da quando sono qui, appena sei mesi, non ho avuto il tempo di crearmi una rassicurante cerchia di amici, quella delle chiacchiere al bar o delle confidenze al telefono. Solo conoscenze universitarie e studenti. Devo ancora entrare nel meccanismo sociale di questa città. I locali in cui si balla mi sembrano un buon inizio. Le discoteche no, quelle non mi attirano. Non c'è contatto umano in quei posti, solo un perenne stordimento.
Il posto si presenta bene. Elegante e sufficientemente decadente. Praticamente non c’è nessuno. Sarà anche presto, ma io ho fame a quest’ora, ho fame prima, prima di ogni cosa, prima di incontrare chiunque, soprattutto. Forse perché per me mangiare è un gesto intimo. Non voglio che mi si guardi in bocca prima di avermi guardato negli occhi. Cerco con lo sguardo la cameriera che gironzola tra i tavoli semivuoti. – Posso mangiare qualcosa al bancone? – intanto mi siedo, giusto per parare da subito le eventuali obiezioni. Mi fa cenno di sì con la testa. Mentre sorseggio un calice di rosso la sala si anima. Gli avventori entrano in coppia, a gruppetti, da soli; si accomodano ai tavoli guardandosi intorno, studiando la scena e il movimento, come attori prima di salire sul palco, da dietro le quinte. O come felini appostati prima di saltare addosso alla preda. Chissà perché si parla sempre di caccia quando uomini e donne si cercano. Forse per questo, perché si fiuta l’altro per riconoscerne l’odore, perché se lo si individua ci sarà una lotta
prima o poi, e scorrerà sangue, tanto sangue nelle vene. Quanto può essere cruento un incontro! Mi ritrovo a ballare con perfetti sconosciuti. Una girandola di volti, braccia, mani che scivolano sui fianchi, gambe che si intrecciano, e teste vicine, troppo vicine a volte, col fiato che alita sull’orecchio in un affannoso eccitamento. Pare una maratona. Tutto è così sudato e faticoso. Ma guarda chi c’è! Il tizio alto e moro della volta scorsa. Lo sapevo che ci saremmo incontrati di nuovo. Mi avvicino a un tavolino libero, col mio calice di vino in mano, e lo guardo. È divertente osservarlo così, a distanza, e sentire distintamente il mio richiamo che vola oltre le teste, oltre i corpi avvinti, oltre la luce gialla delle lampade. Solleva la testa, smette di parlare con la donna al suo fianco, alza gli occhi e mi vede. Abbiamo un discorso in sospeso noi due. Credo che anche lui abbia voglia di riprenderlo, e di portarlo a termine anche. Sono buffi gli uomini quando non riescono a nascondere l’eccitazione per quel che verrà. In bilico tra il “fare o non fare”, come pendoli di un orologio attempato, oscillano aspettando che
l’abbrivio li sospinga in avanti, verso il passo successivo. L’ansia da prestazione ce l’hanno stampata in volto, appena celata da uno sguardo che vuol essere sicuro e diretto, ma che trasmette solo la spavalderia dei timorosi. Si fanno passi falsi a volte, seguendo quest’onda emotiva. Il mio sconosciuto amico si fa avanti, il passo morbido di chi non ha fretta, di chi vuole gustarsi l’attesa. Lascio il calice di vino sul tavolo e mi lascio trasportare nella danza. In realtà è molto difficile che io conceda a qualcuno di guidarmi mentre ballo. Non mi fido. Il ballo è dialogo, serrato a volte, leggero altre, in ogni caso intimo, molto intimo. E un dialogo intimo non lo si fa con chiunque, mancano i presupposti. Il mio compagno deve essere davvero molto abile e molto persuasivo per far sì che io mi lasci andare, e questo sconosciuto amico non mi pare lo sia. Ma in fondo l’importante è sentirsi, trovare il punto di contatto, quello che manda a farsi benedire la tecnica in favore dell’emozione. Chiudo gli occhi e lo sento. Oh se è eccitante! Il respiro si fa affannoso mentre lo attiro ancora più vicino, così
tanto da sentire la sua voglia forte, dura, prepotente, premere contro i miei fianchi, contro la coscia alzata ad incontrare il suo inguine. E lui preme il palmo aperto proprio sulla curva che fa la schiena a incontrare i glutei, per spingermi ancora di più verso di sé, per trattenermi, attaccata, e sentire il mio movimento che lo accarezza, lo massaggia, attraverso la stoffa. Si soffre così. Apro gli occhi per guardarlo, per cercare di interporre la distanza di uno sguardo all’urgenza del sesso. Mi guardo intorno per riprendere il controllo, per distrarmi dall’odore forte che sento salire su, dal mio inguine bollente e umido, su fino alle narici, fino agli occhi, che si velano anch’essi del mio umore. Lui è là, dall’altra parte della sala, e mi guarda. Chissà da quanto, chissà cosa ha visto, percepito, sentito. Ora, tra le sue braccia, ora, tra le sue gambe, ora, con il suo petto appiccicato al mio petto. Non mi sono ancora ripresa dall’amplesso virtuoso più che virtuale che stavo avendo col mio amico sconosciuto, non ce la faccio a reggere questo assalto. Mi lascio andare, guida lui. E lo sa
fare. Mi torna alla mente il maestro di salsa cubana, e arrossisco. Ho le dita bollenti e lui lo sente, attraverso il palmo che mi stringe, lo so, ne sono certa. La voglia di sesso si sente nell’aria, secondo me. Perché non si spiega come mai, di punto in bianco, mi ritrovo a passare da un ballerino all’altro, come una puttana in un bordello. Tutti lì, a voler assaggiare, a voler annusare un po’ di quell’odore animale, che urge i sensi fino a farli esplodere. Devo assolutamente andare in bagno, sono fradicia. L’acqua fresca sul viso lava via il sudore ma non il turbamento. Mi guardo allo specchio e non mi riconosco, quasi. In realtà quello sguardo mi mancava, lo sguardo di chi sa che sta per accadere qualcosa, l’iride liquida della passione accesa e prepotente. Mi asciugo le mani con la salvietta di carta e per fortuna che non c’è il soffione ad aria: fa già troppo caldo qui dentro. Spengo la luce ed esco. Una mano cattura la mia e mi sento trascinare nella stanzetta di fronte al bagno. L’amico sconosciuto (ancora sconosciuto?) mi ansima accanto, il suo desiderio trema. Così mi
accade. L’eccitazione dell’altro è contagiosa per me, mi si attacca come la febbre, e si espande in modo esponenziale. Io sto già godendo, prima ancora che lui mi sfiori, solo perché lo sento. È tutta una questione di testa, c’è poco da fare. Sono con le spalle al muro adesso, nel senso che lui mi tiene così, addossata alla parete, senza via d’uscita; e chi vuole andar via? Le sue mani sono sui miei fianchi, stringono, come per saggiarne la consistenza, poi scivolano sulle natiche, le strizzano piano e mi attirano a lui, a un più stretto contatto. Lo sento attraverso la patta, talmente duro da sembrare un corpo estraneo, talmente rigido che pare i bottoni debbano esplodere. Mi piacciono i bottoni, mi posso prendere il tempo, far decantare l’attesa. Allungo una mano e comincio a slacciarli, uno ad uno, lentamente. La sua bocca è sul collo, calda, morbida, mi sfiora la pelle con le labbra. Poi scende piano, con la punta della lingua, segue l’incavo del seno e sposta il bordo della maglia con i denti. Sento il suo totem attraverso gli slip, bollente, umido, e comincio a massaggiarlo col palmo aperto. Il suo respiro si fa
più corto, veloce, e poi accade. Nel momento in cui prende il mio seno tra le mani e lo libera dalla maglietta io libero lui. Lo tengo in una mano e lui ha un gemito, sordo, gutturale. Ho uno scrupolo in sottofondo. Forse non abbiamo chiuso la porta. Apro gli occhi e mi volto verso l’entrata e lo vedo. Lui, il ballerino, mi guarda, mi sta guardando adesso, mentre ho in mano il membro di un altro uomo, mentre sto qui attaccata al muro a farmi sbattere. Lui mi guarda e io vorrei che entrasse, che mi toccasse, che si masturbasse davanti a me. Mi sento una troia, ma in fondo quale donna non lo è? Solo che non ce lo diciamo, non lo ammettiamo. Una vita di condizionamenti, di regole, di perbenismo del cazzo per poi scoprire che la cosa più bella che ti può capitare è una sveltina a rischio. Il fatto è però che quel ballerino mi eccita molto di più del mio compagno di giochi. Mi eccita l’idea di sentirlo muovere dentro di me come quando abbiamo ballato. Mi eccita pensare a quei passi sornioni e sensuali espressi in un atto reale, di
sesso vero e non solo rappresentato. Sorrido e chiudo gli occhi, di nuovo, mentre il mio compagno reale fruga nei miei slip in cerca del mio calore, denso, umido. Che il ballerino resti pure a guardare… Non siamo andati fino in fondo. Lui mi è esploso prima tra le mani e io sono rimasta coi crampi al ventre, dolorosi, delusi. I crampi sono sempre delusi, indicano una voglia insoddisfatta, un uso improprio del sesso, unilaterale, incompiuto. Sto seriamente pensando di andare a esplorare nuovi orizzonti, dove i maschi fanno i maschi e le femmine si tolgono le loro belle soddisfazioni. Tra due giorni parto per quel seminario ad Amsterdam, hai visto mai che incontro un olandese e mi fermo lì? No, troppo freddo, e troppo strani loro, gli olandesi, sempre a sniffare o fumare roba e poi non rendono. Io voglio sentire il sangue bollente, il sudore, voglio sentirmi dire “ti amo” non “I love you”, e lo voglio sentire con la voce roca di piacere, lo voglio capire dentro ogni mia cellula. E rispondere. L’amore e il sesso spesso sono una questione di lingua, non è un caso.
Torno in sala a prendere le mie cose con la segreta speranza di ritrovare il ballerino. Mi ci sono fissata adesso. Noi donne abbiamo questo sesto senso che ci avvisa quando una strada è percorribile, quando è giusto perseguirla perché porterà cose buone. E io lo sento che lui è una cosa buona, lo sento nella testa, lo sento nel calore che mi scende sotto l’ombelico non appena ci penso. Come se stessi pregustando una pietanza gustosa che mi sazierà. Domani torno qui prima di partire. Magari lo ritrovo. Oggi niente lezione. Devo preparare il materiale per il seminario e alcuni studenti hanno deciso di aiutarmi. – Prof stasera però ci salutiamo per bene. Si va da Diego e niente storie. – Hanno deciso anche per me, neanche partissi per un anno! E poi ho già un appuntamento col destino. – Ma no ragazzi, non è il caso. Starò via solo due settimane, mica tutta la vita! – Lo so come vanno a finire questi aperitivi. Si fa tardi, e io non posso, non voglio mancare l’incontro col mio ballerino. Perché sono certa che verrà. – Prof non esiste. Tu vieni perché dobbiamo chiederti un po’ di cose
visto che vai ad Amsterdam. – Mica vorranno farmi fare il corriere? Non posso dire sempre no, non è carino, rischio di perdere l’unica forma di socializzazione che mi è rimasta in questa città. Se non consideriamo gli accoppiamenti con gli sconosciuti, ovviamente. – D’accordo. Però prima di mezzanotte vi saluto che ho l’aereo praticamente all’alba. – E con questa promessa strappata torno a casa. Mi piace fare la valigia. Partire è un po’ come morire, si dice, ma per me non è così. Partire è rinascere, ogni volta. Imparare a svegliarsi con una luce nuova, sentire altri odori, sapori, riappropriarsi di una naturalezza che la vita di ogni giorno ci ruba un po’, avidamente, lasciandoci spesso privati del piacere stesso di viverci. Stasera voglio vestirmi con questo spirito di libertà che ora mi ha preso. Leggera, impalpabile, senza complicazioni inutili. Gonna e maglietta scollata dietro, un invito della schiena a farsi toccare, accarezzare. Ecco che torna. Il desiderio irrompe così, mentre indosso questi centimetri di stoffa, e immagino le sue mani,
quelle del ballerino, che ci passano sopra, come a lisciare pieghe invisibili. Indosso biancheria di pizzo nero, per sentirmi a posto, per piacermi, per piacere. Ma chi mi dà questa assoluta certezza che lui verrà stasera? E perché mai non riesco a non pensarci? Non devo, non posso permettermi aspettative oltre la mia immaginazione. Sarà quel che sarà, io stasera comunque vado in quel locale. Scendo le scale di corsa. Sono riuscita a fare tardi e i ragazzi mi staranno già aspettando. La porta dell’interno numero cinque pare socchiusa. O forse no, è solo un effetto della penombra. Forse è chiusa. Non ho tempo di controllare però, non stasera, non adesso. Lo incontrerò prima o poi questo vicino e gli dirò di stare attento. Mica posso fargli da guardiana in eterno! Il bar di Diego è vicino all’università e c’è già folla, anche fuori, sul marciapiede. Gioventù vociante e allegra, volti in sorriso perenne, come se intorno il mondo non stesse crollando su se stesso, come se tutto fosse ancora possibile. Quando ho smesso di essere giovane anche io? Eppure siamo
praticamente coetanei. Quando ho perso le illusioni? La solitudine è un’amara compagna di viaggio e devo cambiare questa situazione al più presto. I miei ragazzi mi vedono e mi vengono incontro. – Ce l’hai fatta Prof. Credevamo volessi darci buca! – Strette di mano, abbracci timidi e poi più disinvolti. I cocktail a base di prosecco sciolgono le inibizioni, specie dopo averne sorseggiati più d’uno, specie dopo aver fumato qualcosa di più di una semplice sigaretta. Hanno riservato un tavolo d’angolo, di quelli con le panche che gli girano intorno e io mi siedo nel punto più interno. Mi sento un po’ braccata così in realtà. Non ho vie d’uscita, ma in effetti, dopo il secondo giro di calici e con un po’ di alcol nelle vene, neppure le cerco. Diego è un nostalgico degli anni settanta e l’aria è satura delle note di Battisti e dei Pink Floyd. Strana playlist. Efficace però, perché l’atmosfera si crea, quella stessa che anni prima accompagnava le feste in casa, quando si ballava stretti stretti e all’improvviso qualcuno spegneva la luce. Il ballo è sempre stato uno strumento di comunicazione straordinario. Gli
strusciamenti, i primi contatti, le prime pomiciate magistrali sono sempre cominciati con un ballo, almeno negli anni settanta. Ho nostalgia di un periodo che non ho vissuto, che cosa assurda. Mi manca il contatto umano, l’intrigante sensazione di qualcosa che deve ancora accadere e che inevitabilmente arriva, come il giorno dopo la notte. Non come adesso, in discoteca, dove ballare e parlare sono un optional che si cede volentieri al piacere gratuito e inutile delle sostanze chimiche. Per questo io non ci vado. Io cerco uomini, non bambole gonfiabili. E sono davvero molti quelli che invece circolano con la patta gonfia, ma è solo aria, aria e fumo rappreso, l’illusione di un attimo come dice quella canzone dei Tiromancino. Basta che una donna vera, una che le palle ce le ha sul serio, lei, gli si avvicini, e si sgonfiano, con tutte le velleità che volano via assieme ai sospiri di disappunto. Questi ragazzi qui però promettono bene, sono uomini che si faranno. Peccano un po’ di ingenuità. Se questo biondino accanto a me pensa
che io non mi sia accorta del suo tentativo di fare “mano morta” ne ha di strada da fare ancora! Con tutta la discrezione che la situazione richiede, per decenza se non altro e per rispetto alla sua intraprendenza, allungo la mano sotto il tavolo, tra le mie cosce, dove casualmente incontro la sua. Lo spio con la coda dell’occhio per osservare la sua reazione a quel contatto inatteso. Non si scompone il ragazzo. Bravo! Devo concedergli qualcosa, un piccolo contentino, quel tanto che basta per premiare il suo ego senza però distruggere l’autorevolezza del mio ruolo. Sono pur sempre la sua professoressa. Sposto la mia mano verso l’inguine, come se dovessi sistemare qualcosa, e trascino leggermente le sue dita verso l’alto, un attimo prima di alzarmi così da sciogliere automaticamente il contatto. Ora è arrossito. Bene! Chissà cosa sta accadendo sotto i pantaloni. – Ragazzi si è fatto tardi. Ora devo proprio andare. – Il biondino mi guarda con l’aria afflitta, ancora due chiazze rosse sugli zigomi. Gli sorrido e la sua fronte si imperla di sudore. No mio caro, proprio non si può. Mentre mi faccio
largo per passare penso che potrei pentirmi di questa decisione. Magari il ballerino non viene, magari avrei potuto far toccare un pezzetto di cielo a questo giovane esemplare di uomo, magari ne avrei toccato un po’ anche io. L’aria fresca della tarda serata stempera un po’ la sensazione che ho di aver perso qualcosa, un’opportunità, lo svelamento di un mistero. Non ho mai fatto sesso con uno più giovane di me. Chissà com’è farsi toccare, esplorare, penetrare dall’irruenza senza freni di chi ancora non sa, o, seppure sa qualcosa, ha ancora fame di conoscenza. Voglio un uomo che non sia mai sazio di me. Voglio leggergli negli occhi, e anche di spalle, e anche di profilo, tutta la voglia, che lo ricopre, come la peluria. Manca poco ormai a mezzanotte e probabilmente il locale sarà vuoto. Accidenti al prosecco! Eppure lo so bene che mi fa perdere la cognizione del tempo. Cerco con lo sguardo un taxi, per far prima, anche se potrei arrivarci a piedi. Il fatto è che mi serve una pausa, per riprendermi, per dare
una sistemata al mio aspetto prima dell'ingresso trionfale. Lo specchietto retrovisore del taxi è il complice perfetto per una donna in ritardo. Sfumo un po' la matita nera sugli occhi col pennello, un velo di lucidalabbra, una ravvivata ai capelli con le dita, e tutto è a posto. Me lo conferma la strizzatina d'occhio che mi fa il tassista riflesso nello specchio. La sala è ancora piena di gente. Facce sconosciute, profili familiari, forse ieri sera ho ballato con qualcuno di loro. Non lo so, non lo ricordo, e poi è difficile guardare qualcuno con il volto premuto guancia a guancia. Mi guardo intorno speranzosa. Niente, lui non c'è, o almeno non lo vedo. Mi si avvicina un uomo un po' attempato. Ti prego no, non posso ballare con te... Non ho scampo. Non si può entrare in un posto come questo e pensare di fare da tappezzeria. E ricomincia la girandola da circo. Mani che mi prendono, mi tirano a sé non appena la musica fa una pausa, piedi che si intrecciano, a volte con maestria, altre con titubanza. Respingo con cortesia l'ultimo invito, troppo stanca anche solo per parlare, troppo
stanca per pensare. Sono svuotata, ma forse è meglio così. La delusione di non averlo visto è troppo cocente se mi ci soffermo. Voglio bere del vino rosso. Vino tinto lo chiamano, e mi pare più giusto così, acquista densità, corpo, aroma. A volte una parola può fare la differenza. Mi appoggio con le spalle al bancone in attesa di essere servita, lo sguardo fisso davanti a me, vacuo. Trovo una sedia libera e mi accomodo. Il cuore percepisce tutto un attimo prima degli occhi, perché perde un battito, e subito la vista riacquista vigore e lucidità. Me lo ritrovo davanti il mio ballerino, e inequivocabilmente mi sta invitando a ballare. E non è un invito qualunque. C'è tutto ciò che è inconfessabile in quella mano tesa, le parole non dette, quelle bisbigliate, i sussurri. Senza guardare, senza guidare, la danza è i nostri corpi che si adagiano nel movimento, lo seguono, lo assecondano. La danza siamo noi che ci aggrappiamo a noi stessi, con la fronte, il petto, il respiro.
Non so da quanto siamo qui, su questa pista, a intrecciare legami sensoriali potenti, vibranti. Non so da quanto tempo i nostri piedi si rincorrono in uno spazio ristretto, senza mai raggiungersi. Annunciano la fine della serata adesso, per noi e i pochi avventori rimasti. No, adesso no, devo ancorarla a me questa magia. Prendo la borsa e trascino il mio compagno con me, verso i bagni. Mi guarda sconcertato. Sì, me lo ricordo che ieri sera mi hai sorpresa qui. Sì, lo so cosa stai pensando adesso, e no, ti stai sbagliando di grosso. La porta dello stanzino è chiusa. Meglio così, vuol dire che non devono tornare per le pulizie. Lo spingo dentro e restiamo così, in silenzio, con la luce spenta. Forse dovrei fare qualcosa, il mio corpo lo vorrebbe, e il suo, così proteso verso il mio, è come una domanda muta. Non voglio sesso rubato con lui, voglio passione. Voglio il sogno e la malia, voglio il ricordo. Magari non ci vedremo più, magari ha già un'altra e si sta prendendo solo una vacanza per ravvivare i sensi stropicciati. Magari tutto questo film è solo per me, dunque voglio scriverla io la sceneggiatura.
I rumori del locale si sono come spenti. Si sente il silenzio, è denso, respira. Lo prendo per mano e apro la porta. Lo so che non capisci, e forse pure io sto improvvisando ma, ti prego, fidati. La sala da ballo è deserta e buia. Solo le luci esterne filtrano da un'imposta lontana, o forse è la luna, troppo poco per disegnare i nostri contorni. Cerchiamo tentoni l'interruttore. Ora, ora so cosa fare, ora voglio ballare una danza nuova. Nel silenzio solo il rumore dei nostri passi, mentre mi stringo a lui e mi lascio andare al ritmo dei nostri corpi tesi da vibrazioni nascoste, sotterranee. Siamo vicini, i volti vicini, la pelle vicina alla pelle, le labbra che si sfiorano. Amo questo gioco delizioso che diventa tortura, questo sfuggire per il piacere di cercarsi ancora e ancora. Mi vuole, lo sento dal battito del suo cuore che accelera col mio, e questa attesa è estenuante. Ma è la mia attesa, è la mia opera che si sta rappresentando, e se dovrà avere un gran finale sarà a modo mio. Stai lì, lontano. Ora devi guardare. Glielo dico con gli occhi, le parole non servono e lui si allontana di qualche passo. Sola, al centro della pista,
comincio a ballare. La musica è dentro di me, tra le mie cosce umide, sui capezzoli tesi, turgidi da farmi male. Oh come vorrei adesso che tu me li mordessi! Ondeggio piano, al ritmo del mio cuore che batte, e comincio a spogliarmi, lentamente, svelando brani del mio corpo come le note di una melodia. Una partitura che è un crescendo. Vorrebbe avvicinarsi, magari mi strapperebbe quel che resta di dosso, e forse sarebbe anche eccitante, ma sono io che dirigo. Mi piace che mi stia guardando così; gli occhi mi sfiorano la schiena, le spalle, il collo e poi si posano sul seno. Le mie mani diventano i suoi occhi e comincio ad accarezzarmi, coi palmi aperti, dal seno ai fianchi, fino al bordo dello slip. È ancora più lento il mio incedere verso questa sorta di inno che sto eseguendo. Le dita giocano con l’elastico, lasciano intravedere, immaginare l’antro caldo che, lo so, tra poco accoglierà tutto il desiderio che questo uomo saprà esprimere. E mentre immagino mi accorgo che sto venendo a fiotti, come una sorgente termale, bollente. Mi eccito al mio stesso odore, e la voglia si fa urgente. Oddio se lo voglio.
Ci vuole tanto a spogliare un uomo, molto più che una donna. Tanti pezzi da sottrarre, sbottonare, slacciare. Gli uomini indossano un’armatura prima di uscire di casa, come guerrieri, ma io sono una chiave paziente, e aprirò questa ferraglia, dovessi usare un apriscatole. Eccolo lì, trionfante, svetta come il pinnacolo di un veliero, turgido, lucido, un totem da cerimonia, un gelato da succhiare. Il sesso orale non mi ha mai attirata, ma per qualche ragione inspiegabile ho voglia di assaggiarlo, leccarlo, morderlo se possibile. Ho voglia di sentirlo gonfiarsi dentro la mia bocca, sussultare, scivolare. E lui sospira, come se avesse trattenuto il fiato fin’ora, come se gli si fosse risolto il mondo intero. Ma io lo voglio dentro di me questo cono bollente, vivo, pulsante. Io lo voglio sentire quando esplode. Lo faccio sdraiare, sì, sul pavimento. Voglio cavalcarlo e domarlo, e lo faccio, lo accolgo dentro di me e stavolta il sospiro che sento è il mio. Sono indolenzita in ogni centimetro del mio corpo. Abbiamo fatto l’amore in tanti modi stanotte e ho scoperto parti di me destinate al
piacere che neppure pensavo di avere. Dietro le ginocchia, ad esempio, c’è un punto che mi fa impazzire, proprio nell’incavo sopra l’attaccatura del polpaccio. Me lo ha insegnato lui. Che ora dorme beato, accanto a me, qui sul pavimento. Come posso andar via adesso? Proprio ora che una cosa straordinaria comincia, proprio ora sono io a porle fine? Pare incredibile, ma deve esserci qualcosa scritto nel mio destino, o nelle carte di qualche chiromante da strapazzo, da qualche parte insomma. Deve esserci scritto che io dalle cose buone devo solo fuggire. Perché ne sono certa, quando tornerò tra quindici giorni lui sarà scomparso, volatilizzato, smaterializzato. O forse non esiste affatto, non è qui con me in questo momento, mi sono immaginata tutto. No che non ho immaginato, non sentirei questo piacevole dolore dappertutto, non avrei i muscoli addominali così tesi come se avessi fatto mesi di palestra, non mi tremerebbero ancora così le gambe. Una lama di sole gli illumina le palpebre chiuse. Pagliuzze dorate paiono danzare tra le
ciglia che ora si muovono, come tende alla brezza d’estate, e apre gli occhi. Arriva poi il momento del commiato, quello in cui non sai mai cosa dire, perché la luce del giorno svela ciò che la notte complice ha celato, anche le insicurezze. Non stavolta però. Le nostre pigre chiacchiere mattutine hanno il sapore della consuetudine, dell’intimità, la dolcezza infinita che assale chi non ha nulla da rimproverarsi, ma solo da ringraziare. Grazie per questa notte, grazie per avermi donato un pezzetto di te, grazie per avermi permesso di fare altrettanto. Pare deluso quando gli dico che sto per partire. Chissà, magari se ci annusiamo bene, prima o poi potremo ritrovarci, seguendo il profumo. Io non lo dimentico il tuo, stanne pur certo. Ha un che di familiare, odore di casa.
Intimo nero Potrei essere in qualunque posto. Non ho radici che si riconoscano, né terre che mi tengano stretto. A volte ho dubbi sull'andare via o restare, questo sì, e lotte interne con me stesso. Poi, però, trascorrono come acqua calma, nell'indifferenza circolare che si crea rispetto a un fiume di città: a meno che non si ingrossi, non c'è modo di farlo notare. Così, proprio come fiume naturale, cammino senza una direzione, ma con una meta: casa. Il volo non è stato disturbante, se non per le chiacchiere degli italiani, compagni di viaggio, ai quali non sento di appartenere, soprattutto per il volume utilizzato negli scambi d'opinione (ed alcune, a chiamarle opinioni, si sta facendo loro un gran bel complimento), seppure l'interlocutore si trovi al sedile accanto. Ma non sono neanche le chiacchiere a rovinarmi il viaggio, bensì l'applauso che parte ogni qualvolta la musichetta allegra della compagnia aerea sottolinea, insieme ad una femminea registrazione, che è stato effettuato l'ennesimo volo in orario. Non ho mai compreso
se i plaudenti capiscano quel che la voce dice, o no. Ho due spiegazioni rispetto a entrambe le possibilità: non lo capiscono e credono che sia una musichetta allegra per accompagnare l’arrivo in aeroporto, come la rivisitazione di un carnevale di Rio e che, quindi, abbisogna di trenino propiziatorio ma, essendo legati a un sedile, ci si limita a festeggiare applaudendo; capiscono perfettamente quel che dice, ma sono così grati d'esser riusciti a venir fuori vivi dall'avventura che, in barba a qualunque logica, si dilettano a sbattere le mani che, fino a quel momento, avevano tenute in posti anatomicamente propiziatori. In questo caso capisco gli uomini, ma le donne dove dovrebbero tenerle? Avrei qualche indicazione del caso, ma non è il momento per pensarci: devo arrivare al trenino urbano. Due file più avanti, soltanto due, c’era una ragazza con i capelli scuri, e gli occhi altrettanto. La osservavo dall'aeroporto di partenza, era lì, non ha mai rivolto lo sguardo verso di me e così non ho avuto la prontezza di cercare il posto accanto a lei. Non sono così bravo negli approcci. Neanche
quando immagino. Di solito la mia fantasia vola a conoscenza già effettuata, o non effettuata per nulla, ma comunque a quando ci si guarda negli occhi, anche se non si è di fronte. Ci si guarda con il respiro. Lo si riconosce quel momento in cui si sta già facendo l'amore, anche senza essersi sfiorati. Ed è proprio da quel respiro che la mia immaginazione parte. No, non devo rifletterci ora, il trenino sta arrivando. Salgo, mi accomodo. Il capolinea è bello per questo: trovi posto e quando sarà una bolgia infernale, più o meno sei stazioni dopo, sarai seduto con tranquillità disarmante, perso a guardare fuori dal finestrino. Ancora mi ci vogliono cinque minuti di passeggiata prima di raggiungere l'ingresso del condominio che mi ospita. O meglio, che ospita casa mia. Cinque minuti di primavera. Notevole la stagione dei fiori in questa città. L'odore, il profumo, è leggero. Istintivamente penso che a volte la vita si faccia facile, anche se solo per cinque minuti.
Ed eccomi di fronte il portone a vetri. Evito di cercare la mia immagine riflessa. Evito perché i viaggi mi distruggono sempre un po', sopratutto perché ne faccio spesso. All'inizio mi piaceva la vita zingara, senza una meta. Poi, pian piano, ho cominciato a odiare gli hotel, e pensare sempre più alla parola casa. Così ho rallentato, ma non posso fermarmi del tutto. Sono il marinaio che ha nostalgia della terra ferma e che, il giorno dopo il ritorno, vuole partire di nuovo, per poter sperare di tornare. Sono il rappresentante dell'uomo, inteso come maschio della razza umana: ho una storia fissa con la mia casa, ma la tradisco di frequente, e spesso solo per il senso di bellezza che trovo in qualcosa che non m'appartiene, per poi sperare di tornare e riaverla solo per me. È per questo che non voglio una storia fissa, per non fare lo stesso. No, credo di non volerla perché non mi piace e basta. No, non la voglio perché non ne ho avuto voglia. Mai. Forse una volta. O due. Ma non è andata. Meglio così. Il portone scricchiola, come in tutti i palazzi datati di questa città. Il legno del telaio sembra diventare sottile, fragile.
La testimonianza che gli alberi sono vivi: come gli umani, con gli anni, creano una scorza esterna per difendere la fragilità interna. Lo accompagno per non farlo sbattere. Mi danno fastidio le persone che lo lasciano andare. L'ascensore mi attende. La porta in ferro battuto è decorata da una maglia dello stesso materiale, intrecciata come una rete Per entrare devo aprire due piccole ante di legno e vetro. L'ascensore è messo al centro della tromba delle scale. Scale a spirale, che lo cingono come un serpente candido, di marmo bianco, con venature grigie. Entro e richiudo le porte dietro di me. È stretto e lungo l’abitacolo. Di fronte a me c'è uno specchio e io lo evito. Al di sotto di questo c'è una specie di poltroncina. Mai usata. Ho paura che esista solo per bellezza. Non ho voglia di sentire la signora del quarto piano che mi riprende perché "solo uno stupido non si accorgerebbe che è per bellezza". Magari non lo è, ma pur di non rischiare il collutto con l'arpia, preferisco fare i miei due piani in piedi. Le pareti laterali, quelle più lunghe, sono anch'esse a vetri, così mi gusto il primo piano e mi perdo a pensare che non so chi ci abiti.
A dirla tutta, se non di vista, non conosco nessuno nel palazzo. Tranne l'arpia. Quella si fa conoscere e riconoscere da tutti. Uno scatto mi fa capire che anche questa giornata, questo viaggio, questo percorso, son finiti. Apro le ante di legno, poi quella in ferro, mi volto, chiudo le prime con cura. Hanno l'abitudine di restare aperte. Di seguito chiudo l'altra. Clang! Puoi chiuderla delicatamente quanto vuoi, sembra fatta apposta per far salire all'impazzata questo rumore di ferro e molle. Ormai ci ho fatto l'abitudine. Mi volto ancora, la porta di casa mia è lì, al centro, in bella vista sul pianerottolo. Non c'è anima viva che non l'abbia vista, o perché hanno preso l'ascensore proprio davanti a lei, sullo stesso piano, o perché muovendosi in su o in giù con lo stesso, si sono ritrovati a guardarla. Casa. Non dice nulla, ma lo so che è gelosa. Lo sento che mi annusa per sentire se indosso ancora l'odore di una camera a ore. È una compagna paziente, alla fine mi attende sempre. A volte trovo complicato il riavvicinamento: spesso, per qualche giorno dopo il rientro, non trovo delle cose o, comunque,
le trovo spostate rispetto a dove le ricordassi. Mi dico che la mia memoria comincia a fare cilecca, ma so che è lei a nascondermi tutto. Casa. Divano. Ho appena il tempo di togliermi le scarpe, prima di accasciarmi su di lui. Odore di casa mia. Sono giorni che non cucino qui, eppure sento rimanenze di profumi dell'ultima cena. Con chi era? Lucia? Sì, Lucia. Bella donna. Cerco di far riaffiorare la sua immagine, ma non ci riesco. Storco la bocca quando mi rendo conto che, prepotentemente, appare la ragazza dell'aeroporto. Non voglio che succeda qualcosa senza la mia benedizione, così cerco di distogliere l'attenzione e trovare Lucia. Niente. Resta lei. E non mi dispiace affatto, in verità. Erano soltanto due file di differenza, ma non riuscivo a sentirne il profumo. Avrei voluto. Così lo immagino ora: dolce, delicato. Appoggiarle il naso sul collo, poco sotto l'orecchio, sentire la commistione fra il profumo della pelle candida, quello della bottiglietta di... vediamo... Alien, sì, Alien... e quello del balsamo per i capelli setosi e lisci. Certo, per far questo, avrei sollevato quei capelli
con la mano, scoprendo l'attaccatura alla base della nuca e quel sottile, timido ciuffetto di capelli nuovi. L'avranno mai baciata lì, in quel punto fra l'orecchio e la nuca? Forse sì, o forse non sa cosa voglia dire la sensazione che sente chi ha qualcuno che appoggia lì un bacio e accarezza la pelle dolcemente, come se mangiasse una nespola, lasciando che le labbra, dopo essersi avvicinate schiuse, vadano a richiudersi in una carezza umida, in un brivido che corre lungo tutto il corpo. Non ci rimarrei troppo, e neanche poco. Scendo, scandendo il ritmo con qualche morso delicato, disperso fra le carezze. La mano che sorreggeva i capelli, diventa una presa sicura, facendole inclinare leggermente la testa verso di me. L'altro braccio la cinge. Metto la mano sulle sue costole. Stringo un po', per farle percepire il mio corpo. Sento caldo, il cuore ha accelerato i battiti e il sangue fluisce più rapidamente. Mi sto eccitando al solo pensiero di quella ragazza. Sono fatto così, mi conosco, ormai mi accetto. Sorrido, faccio scendere una mano mentre chiudo gli occhi, sospiro e riprendo a immaginare. Confondo ciò
che davvero sento strisciando la mano sulla coscia, lasciando che l'indice accarezzi, con lo sfiorare il suo seno, piccolo ma sodo, nessun reggiseno, sotto una maglietta a fascia, senza bretelline, che lascia le spalle scoperte e stringe sul petto. Non voglio toccare di più per ora. Godo nell'idea di essere lento, calmo, e intanto gioco accarezzandole la nuca con la punta delle dita, chiudendo e aprendo la mano. Non resisto: nella realtà, quel che prima era sfiorato dalle dita, diventa l'interesse primario di tutta la mano. Strofino con forza. I pantaloni mi costringono. Sotto le palpebre, invece, afferro la maglietta di lei e la tiro su, percorrendo la pelle liscia. Lei alza le braccia e mi sorride. Comincio a sfilargliela verso l'alto. Mi libero: via la cinta di cuoio. La maglietta le copre la faccia; i capelli, morbidi, si lasciano guidare dalla stoffa salente senza fare obiezioni. Via anche il bottone. Ora è tornata a guardarmi, sorride. La zip si apre al passaggio. È solo dopo averle sorriso a mia volta che abbasso lo sguardo sui suoi seni. La mano è fra i boxer e i pantaloni. Prende la maglietta e la lascia cadere a terra.
Adoro l'intimo aderente, ti permette di sentire tutto. Disegno con le dita la linea delle sue braccia ancora sollevate e seguo l'incavo delle ascelle, delicato, non voglio solleticarla, non in questo senso almeno. Sento piĂš caldo e umido verso la fine dei boxer, sulla coscia sinistra. Non riescono a contenere tutto. Non mi sono mai lamentato delle possibilitĂ che madre natura mi ha dato. Continuo disegnando la forma dei seni. Stringo forte la mano sul rialzamento e contemporaneamente le stringo i seni. Cellulare. Squilla in modo invadente. Il mio capo. O dovrei dire "la mia" capo? Non ho molta scelta: devo rispondere. SarĂ per un'altra volta. Doccia. Calda. Ma non troppo. Non mi piace l'acqua bollente, la doccia deve essere un piacere. Al punto giusto, invece, diventa un massaggio delicato. Le mani appoggiate al vetro che mi separa dal resto del bagno e lo salva dall'allagamento. Lascio scrosciare l'acqua sulla schiena. Mi sollevo e faccio sĂŹ che anche i capelli, la testa, si bagnino, senza far andare l'acqua sulla faccia.
L'accappatoio non è mai come nelle mie speranze infantili: la pubblicità degli ammorbidenti dovrebbe essere vietata ai bambini, maschi, perché mette addosso delle prospettive che non si paleseranno mai, se non quando avranno una moglie particolarmente brava nel fare il bucato. Immagino una sofficità che non trovo mai. Telo per scompigliare i capelli mentre faccio finta d'asciugarli. Camera da letto. Intimo. Neri, boxer neri. Maglietta in microfibra grigia. Mi piace l'intimo aderente, dà l'idea di non esserci. Guardo l'orario, sono le 19.00. Posso fare due cose: la prima è prepararmi qualcosa da mangiare, oppure chiamare e ordinare una pizza, poi lasciarmi andare con Morfeo in un sonno profondo fino a domattina; la seconda è andare in milonga. È un po' che non ballo. Il tango va coltivato, altrimenti poi hai l'impressione di essere un disadattato. Guardo il letto, sono stanco. Viaggiare mi stanca sempre. Sì, credo che mi lascerò andare ad una serata casalinga. Arrivo in milonga alle 22.30, ci metto sempre troppo a decidermi. Speriamo facciano ancora
cenare, perché la serata danzante, di solito, comincia mezzora prima. Lo chiedo alla ragazza che sta all'entrata, - ancora sì, ma non fanno più la pizza. - Meglio, avevo voglia di carne. E vino. Mi dice che c'è ancora un tavolo libero, la serata non sembra così piena, dopotutto è un infrasettimanale. Difficilmente ballo nel weekend, c'è troppa confusione, troppa gente che non sa farlo e troppi calci gratuiti. Le persone ballano come guidano l'automobile. Cambio le scarpe nell'attesa della cena ordinata. Nel girarmi per prendere il sacchetto di stoffa in cui le tengo riposte, sento un profumo diverso dal solito. Accosto il naso alla camicia, quella bianca da abbronzatura, e riconosco il mio profumo, eppure c'è qualcosa che mi suona strano, una nota dolce. Forse mi sbaglio. Magari è un odore che c'è qui. Dopotutto non è importante. Cambio le scarpe, nere, anni trenta, le mie preferite. Ne ho altre paia, ma queste sono quelle che amo. Mi sollevo. C'è già qualcuno che balla, altri chiacchierano con un bicchiere in mano. Chiudo gli occhi, alzo la testa e respiro. L'odore delle milonghe, odore di legno, di vino, di
borotalco a volte. Mi concentro. Sento forte i profumi da uomo, alcuni li riconosco, altri, mischiatisi, diventano una fragranza nuova e sconosciuta, magari diluiti nell'essenza di un profumo da donna. Mi passano accanto delle persone, una ventata di profumi nuovi. Ad un tratto un odore diverso, dolce, netto, mi colpisce: vaniglia, non posso sbagliarmi. Ci faccio caso solo ora: quella nota che non capivo poco fa era proprio vaniglia. Apro gli occhi, cerco fra le persone chi potrebbe avere questo profumo. È impossibile che riesca a capire chi, ci saranno un centinaio di persone. Tutte che conosco di vista, oltretutto. Il mondo del tango è un mondo ristretto. Carlo, Emilia, lei non so come si chiami ma c'ho ballato qualche volta, Enrico, ancora Carlo, nessuno che abbia la fisionomia da vaniglia. E lei chi sarebbe? Non l'ho mai vista prima. Non qui almeno. Lineamenti delicati, sembra giovane, dopotutto l'età è quella che vogliamo avere, non quella scritta sui documenti. Capelli neri, legati morbidi. Alcuni ciuffi le ricadono sul collo. Poco trucco, ma buono. Giusto un po' di nero sugli
occhi. Labbra rosa, lucide. Si guarda in giro. Il tavolino che usa per sorreggere il suo bicchiere di vino rosso, mi impedisce di vedere le gambe. Torno su, una gonna nera, a punte varie, leggera. Una canottiera che si chiude dietro il collo, lasciando scoperte le spalle e la schiena. Ricami di pizzo costeggiano il decolté. Mani affusolate. Un braccialetto luccicante, sobrio, ma non per questo povero. Laccetto argentato al collo, che posa al suo centro un punto luce. Scarpe rosse, lucide, tacco alto, tipiche da tango. No, non l'ho mai vista prima. Sarà lei che spande profumo di vaniglia? Non lo so, potrebbe. La cameriera mi distrae, le rispondo con un cenno del capo e posa sul mio tavolo un piatto con una tagliata al sangue, del vino rosso e un sorriso di convenzione. Sorrido di riflesso. Torno al mio osservare: sedia vuota, soltanto il bicchiere è rimasto lì dov'era. Guardo svogliatamente in giro, troppa gente a bordo pista, meglio mangiare. Le pietanze fredde non mi piacciono. La forchetta entra nella carne, un movimento dolce, senza dolore. Quel po' di sangue rimasto, fuoriesce silenzioso. Accosto la
punta del coltello, incido, gesto deciso ma delicato, il cibo si apre al suo passaggio mostrandomi cosa contiene all'interno. Sollevo il boccone arpionato e mi accorgo che sta per gocciolare, con il rischio che mi cada sulla camicia. Avvicino la bocca, apro le labbra, lecco per l'intera lunghezza il pezzo di carne, è morbida, calda, umida. Mi sento osservato, volgo lo sguardo verso la pista e la vedo: mi sta osservando. Quando ci incrociamo, lei chiude gli occhi, ma troppo tardi perché io non capisca che stava guardando nella mia direzione. Sorrido. Faccio entrare il boccone e chiudo le labbra. Il freddo del metallo, per un attimo durante l'uscita, si contrappone al calore del cibo. Mastico lento, ripetitivo, assaggio. Poso il coltello, afferro il tovagliolo e, mentre poso anche la forchetta, mi pulisco le labbra. Afferro il calice di vetro, ora posso tornare a guardare la pista. Sorseggio. Intanto osservo. Eccola. Balla bene, delicata. Leggera. Lui non è un granché, esita. Lei no, quindi non è lui a guidare. Dopotutto pare che l'equilibrio esista. Eccole le gambe, incrociate,
andando indietro. Inizio a gustarla dalle caviglie, salgo ai polpacci, a quello che la gonna permette di vedere delle cosce, poi il sedere. Ocho atras. La femminilità della donna racchiusa in un passo di tango: il movimento incrociato ha bisogno del movimento del bacino, una sorta di camminata da modella, ma all'indietro. Dalla vita in su, invece, si resta fermi ed eretti, principeschi. La schiena scoperta, nell'atto di abbracciare, si modifica a suon di muscoli che cambiano intensità . L'incavo che si forma laddove si erge la spina dorsale è un richiamo per qualunque essere umano dotato di sangue e senso estetico. Torno alla mia carne e mangio con voglia maggiore. Sorseggio il secondo calice di vino. Non ho ancora avuto voglia di alzarmi e ballare. Sono rimasto qui per due intere tande, quindi all'incirca mezzora. In milonga mi lascio andare all'istinto e l'istinto mi ha detto di osservare e aspettare. Eccola, torna a sedersi, non l'hanno lasciata stare un attimo. Questo succede quando si è una bella donna e ci si trova ad essere straniera in un posto dove tutti si conoscono. Il musicalizador annuncia una
tanda di Piazzolla. Oblivion, non posso farmi scappare quest'occasione. Mi alzo fissandola, mi avvicino a passi decisi, non veloci, ma decisi. Non mi guarda. Ecco, finalmente alza gli occhi. Le sorrido, mi risponde timida; faccio un cenno col capo, si alza. Le sono di fronte, sporgo il petto, lo fa anche lei e c'è il primo contatto. Abbassa lo sguardo, chiude gli occhi. Sollevo il braccio destro, le sfioro il fianco, entro fra questo e il suo braccio, lei me lo lascia fare e con dolcezza appoggia la mano sulla mia schiena. Sento la pressione solo da parte di un dito, cosÏ immagino la sua mano morbida che tocca la mia camicia solo con il polpastrello del dito medio, mentre le altre dita restano perse a pochi millimetri dalla mia carne. Con la mano sinistra percorro silente la pelle del suo braccio destro e cerco la sua, che si fa trovare e si stringe nella mia. Qualche secondo per accordare i corpi, poi non riesco a controllare i battiti, spero non se ne accorga. Il suo seno spinge sul mio petto: sensazione conosciuta. Partiamo e io non so quello che danzerò, come al solito, solo la musica e i corpi in movimento. Siamo
circospetti, nessuno che azzardi un avvicinamento che non sia quello di circostanza. Poi, ad un tratto, succede: sento la sua presa più decisa e la tempia preme contro la mia. Piano mi volto di più verso di lei, inclinando la testa. Questo mi porta ad avvicinare il naso verso la sua pelle: vaniglia, non mi sbagliavo. Chiudo gli occhi un istante, mi lascio andare e tutto succede. Alla fine della tanda le sorrido e le dico il mio nome, lei risponde col suo. L'accompagno al suo tavolo, non sono bravo in queste cose e neanche voglio ora, non mi piace passare per uno che balla tango per acchiappare. Credo si sia accorta della passione che ci metto e non voglio che questo pensiero diventi vano. Le sorrido ancora, mi volto e torno al mio tavolo. Ballo distratto di qua e di là. Lei non si è fermata un attimo, probabile che abbia sbagliato tutto: dovevo cogliere l'attimo. Amen. Ricapiterà. Saluto Enrica, la riaccompagno al suo posto fra una battuta e l'altra e torno al mio. Mi volto un attimo
per cercare lei, ma non c'è. Forse è andata via, il bicchiere è vuoto. Me ne farò una ragione. Sto per sedermi, no, devo andare in bagno. Passo lateralmente alla pista per non intralciare i ballerini che hanno ripreso con una nuova canzone. Corridoio, porta degli hombres, di seguito quella delle mujeres. Di fronte una porta privato. Entro, do un'occhiata al grande specchio che c'è alla parete sopra i lavandini: non sono ancora malconcio. Apro la porta del gabinetto, la richiudo dietro di me e sbottono i pantaloni. Faccio attenzione alla direzione, poi mi perdo nel pensiero di un profumo alla vaniglia. La sua pelle era così vicina che avrei potuto baciarla. Finisco, rimetto tutto a posto e torno fuori. Arrivo ai lavandini per lavarmi le mani. Ancora bagnate le passo fra i capelli, all'indietro, mentre mi guardo negli occhi. Esco dalla porta e mi dirigo... cos'è stato? Una voce di donna, anzi, un respiro di donna. Mi volto: la porta di fronte è socchiusa. Mi avvicino per sentire meglio. Sì, proprio un respiro di donna, no, un ansimare. Qualcuno si sta divertendo qui dentro. Non me ne ero accorto
prima. Toppo poco aperta affinché riesca a vedere dentro. Mi guardo intorno, non c'è nessuno. Appoggio la mano sul legno e spingo in modo delicato, cercando di non fare rumore. Appena l'anta si distacca dall'infisso, mi assale un profumo di vaniglia. Incredulo continuo ad aprire e la vedo. Li vedo. Sono sbigottito, non perché non sia possibile o perché ci sia qualcosa di male, ma... sono sbigottito e basta. La testa di lei è riversa sulla spalla di lui, mentre lui le bacia il collo. Li osservo di profilo. Ad un tratto lui la volta e l'appoggia su di uno scaffale con chissà cosa dentro, non mi interessa. La cinge, le sue mani sono dappertutto, lei glielo permette e appoggia la nuca sulla sua spalla, gli occhi chiusi, la bocca aperta. I capelli sono più liberi rispetto a quando ha ballato con me. Le stringe i seni ancora coperti dalla magliettina, poi scende sulla pancia. Le afferra un braccio e la guida, lei si lascia guidare, ed entrambe le mani spariscono fra il fondoschiena di lei e il pube di lui. La bocca aperta diventa un mordere il labbro inferiore. Non riesco a distogliere lo sguardo. Poi succede quello
che non avrei mai immaginato: a tradimento apre gli occhi. Sento svuotarmi il petto, ci stiamo guardando. Neanche lei si aspettava di trovarmi qui. Attimi si congelano, trascorrendo come minuti. Non saprei descrivere la sensazione che sento. Disorientamento, eccitazione, rabbia? Invidia. Irrazionale voglia di essere dentro e non fuori quella porta. Ma sono fuori, non c'è dubbio. Prendo il mio sangue e i miei battiti accelerati, distacco lo sguardo e vado via. La porta torna ad accostarsi come in principio e come sarebbe dovuta rimanere senza la mia interferenza. Rientro in pista e mi dirigo verso il mio tavolo. L'istinto dice di voler andare via e, infatti, raccolgo le mie cose. Sto per cambiare le scarpe quando mi sento chiamare: è Daniela, una mia vecchia conoscenza. Era dalla mia ultima permanenza piÚ duratura in Irlanda che non la vedevo. Sapevo abitasse qui, ma non che ballasse tango. Una bella ragazza, ma era la compagna di un cliente a Dublino. - Sei tornata in Italia, come mai? Finita la storia con Declan?
- Sì, ma è un argomento che preferirei non aprire, ormai è passato un po'. - Capisco, nessun problema. Non sapevo ballassi tango. - Ho cominciato da poco in realtà, meno di un anno, ma il mio insegnante dice che prometto bene. - Allora bisogna provare, che dici? - Solo se prometti di spiegarmi se non capisco qualcosa. Sorridiamo. Ci alziamo e, passando fra le persone, arriviamo in pista. Prima io di lei, mi piace raggiungere il parquet per attendere, come se stessi aprendo la portiera della macchina. Ormai faccio movimenti meccanici, non me ne rendo quasi conto: una volta arrivato sul pavimento legnoso, mi volto, sorrido e tendo la mano. Lo faccio pensando ad altro. Siamo di fronte, io guardo in diagonale verso il basso, è la posizione che uso quando mi concentro. Sento il mio corpo, faccio uno screening per essere sicuro che tutto
sia a posto. Le porgo il petto, mi inclino leggermente verso di lei per darle peso. Attendo. Fa un passo avanti, timido, e appoggia il suo seno contro di me. Ha un attimo di incertezza, lo sento, ma poi si abbandona. Sorrido, tanto già non può più vedermi. Inizialmente le teste sono sempre ritte, su un collo teso e allungato. Soltanto dopo diventeranno serene conclusioni di un corpo che segue la musica. È sempre così. La cingo con decisione, il mio braccio destro le circumnaviga la schiena fino ad arrivare al lato del seno destro. La mano sinistra porta su la sua destra e siamo in posizione. Osvaldo Pugliese non è il massimo per una novizia, fin troppo ritmato, ma se l'uomo è bravo, si può ballare senza che nessuno si accorga degli inghippi vari. Cerco di essere calmo all'inizio, ma devo trattenermi. Non so perché ma il mio corpo vuole fare qualcosa di forte, presente, di sfogarsi insomma. Lei mi segue abbastanza bene.
Certo non le sto rendendo la vita facile. È quando prendo un attimo di pausa dal ritmo incalzante della musica, che capisco il perché del mio stato d'animo: la sedia è vuota. È rimasta nello sgabuzzino, com'è giusto che sia e mi devo rendere conto che il mio essere in questo momento, non è perché non sia tornata a sedersi dopo l'incontro fra sguardi, bensì perché non sono io l'uomo che è lì dentro con lei ora. Sono queste le situazioni che fregano una persona che non crede nei rapporti monogami: l'idea che non sia tu con lei (o lui) potrebbe farti fare qualunque cosa. Non devo pensarci, non voglio pensarci. Riprendo il ritmo. - Mi dispiace non essere esperta, questa musica andrebbe ballata con una persona che riesce a seguirti meglio. - Tranquilla, stai andando benissimo, anzi, complimenti se balli davvero da così poco. - Quindi nessuna correzione?
- Bah, l'unica cosa che mi sento di dirti è che dovresti fare il passo un po' più lungo, sai, così come pestare i piedi è un errore, anche beccare una coscia con la coscia dell'altro lo è. Per il resto mi sembra tutto molto buono. - Sì, lo so. Non mi succede mai di solito. Magari se succede proprio con te... un motivo ci sarà. Istintivamente mi blocco un attimo. Sorpreso e incredulo. Le donne: ne sanno davvero una più del diavolo. È poco il tempo che passa fra il decidere di andare via e l'essere a casa mia. Quasi non chiudiamo neanche la porta. Ci appoggiamo al muro e diamo sfogo a quello che, in modo evidente, era un pensiero reciproco. Mi stringe mentre le bacio con veemenza il collo. Faccio salire una mano sulla sua schiena, fino ad arrivare alla nuca. Sento l'inizio dei capelli, li ha corti, il viso glielo permette. Solitamente non mi piacciono le ragazze con i capelli corti. Afferro quello che riesco e tiro, senza troppa forza, ma con decisione. Al contempo mordo il collo. Non credo
di riuscire a controllarmi ancora per molto, forse già non ci sto riuscendo. Ci baciamo, se così si può dire: abbiamo smesso di essere umani e siamo diventati quello che si diventa quando l'istinto non ha più freni. Mentre la bacio sento che comincia a sbottonarmi la camicia, così le do una mano. Faccio indietro il bacino, ma non stacco le labbra e mi tolgo la camicia. Spero non si sia strappata. Vola sul pavimento e un attimo dopo anche il vestito di lei. La osservo fugace. Però! Hai capito come s'era sistemato bene l'irlandese. La stringo. - Vedi? Questa parte qui - le dico mentre salgo con la mano dal ginocchio all'inguine - non deve mai sbattere alla coscia del partner nel tango, a meno che non si stia facendo una sagada... oppure del sesso. - Cercherò di ricordarmelo, soprattutto quella cosa riguardante il sesso. Mi ferma la mano. Sorride. Mi porta al divano e mi fa sedere. Si inginocchia. Fammi quello che vuoi con quelle labbra. Prende a baciarmi il petto,
la sento addosso. Credo lo senta anche lei che la sento. È arrivata alla pancia. Mi accarezza intanto che bacia, morde, lecca. La cinta ormai è aperta e, in un attimo, anche il bottone dei pantaloni. Alza lentamente la testa, mi sorride e comincia ad abbassarli. La lascio fare. Mi pare ovvio. Ritorna giù, con le labbra sui boxer. Continuo a pensare che l'intimo aderente sia una scelta sempre adeguata. Sì! È molto... hhmmm... adeguata. Me li sfila via con calma, partendo dal sedere. Sollevo il bacino e lei comincia a sfilarli. Poi davanti. Sono nudo. A questo punto desidero solo una cosa, ma di nuovo mi sorride e si tira su. Che hai intenzione di fare? Non si scherza mica con queste cose! Mette le mani dietro la schiena e, sempre guardandomi, slaccia il reggiseno che dopo pochissimo è per terra accanto ai miei pantaloni. Si avvicina, prende le mie mani e le porta al seno. Stringo e massaggio. I capezzoli restano fuori attraversando lo spazio che ho fra le dita aperte. Sono turgidi, rosa e si meritano il trattamento che sto per far loro con i miei pollici. Appoggio le dita sulla loro punta e li faccio roteare in modo
delicato ma con forza, poi li stringo fra pollice e indice, in modo da farla soffrire un po'. Non sembra disdegni. Impulso incontrastabile, le metto le mani dietro la nuca e la spingo verso il basso. Non fa resistenza e apre la bocca. Caldo. Caldo dentro, fuori, dovunque. E mi lascio andare. Chiudo gli occhi, rilasso le braccia. Il sesso, e questa parte del sesso, sono un rilassante naturale. Il nulla, la mia testa finalmente è piena di nulla. Ma nel nulla, si sa, si formano le idee o i sogni. Anche le ossessioni. E non so davvero quale di queste cose contenga lo sguardo che, a occhi chiusi, vedo. Due occhi nel buio di uno sgabuzzino. Dapprima chiusi, poi aperti, ad osservarmi. Quello mi ha sconvolto di più: è rimasta a guardarmi mentre toccava lui, ignaro, neanche spettatore di una scena che stava vivendo ma che non era più sua. Rabbia, forse provo rabbia. No, gelosia, che poi porta alla rabbia. No, nessuna delle due: eccitazione. Non riesco a togliermela dalla testa, lei, i suoi occhi consenzienti e quel suo maledetto profumo di vaniglia.
- Pare che ti stia piacendo. - dice una voce sensuale poco più giù delle mie orecchie. L'avevo quasi dimenticata. In un attimo avevo dimenticato una donna, bella donna, che sta creando l'impossibile per darmi piacere. Che esseri strani gli uomini. Intesi come esseri umani, ma anche con l'accezione di maschi. La guardo e tentenno un secondo prima di rispondere. Lo scambia per eccitazione donata da lei. Se sapesse... - Sì, apprezzo sempre le belle cose e di solito... via dalla mia testa, non mi farò comandare da nulla - ... le ricambio bene. - Davvero? - sorride, continua a sorridere. Potrei farti smettere con una sola parola, toglierti quel sorriso dalla faccia. Ma non è quello che voglio. Ora, quello che mi preme, è distogliere la mia attenzione e tu potresti riuscirci benissimo. Si solleva, sfila le mutandine. Mi alzo anch'io, la faccio accomodare. Le sono sopra, apre le gambe, le bacio la pancia, comincia a respirare in modo più pesante, affondo. Mi hanno sempre detto che
avrei fatto più feriti con la lingua che con la spada. Non credo si riferissero a questo. In situazioni così sono più un risanatore che un combattente. Espierò le mie uccisioni di lingua, con resurrezioni donate dalla stessa materia prima. Sa di dolce, ma non è un profumo che mi faccia impazzire. Il sapore è delicato, ma l'odore forte, buono, ma forte. Continuerò comunque ancora un po'. Non resiste molto in verità: è pochissimo tempo dopo che mi sento afferrare dalla testa, mi preme contro la sua vagina, vuole che entri e allora entrerò. So che sono gli ultimi colpi, poi assaggerò il suo succo. Non mi dispiace, non mi dispiace mai. Pare che sia una di quelle che se la gode proprio, buon per lei. Mi ergo, devo togliermi gli ultimi indumenti rimasti, mi sento sempre un cretino con i boxer che costringono le caviglie. Mentre sono in piedi, mi guarda, così, eccitato come sono, si alza, si volta di schiena e comincia a strusciarsi addosso. Non faccio in tempo a capire che intenzioni abbia, che infila la mano fra il suo sedere e il mio pube e mi afferra. Era l'unica cosa che non dovevi fare, cazzo! Ero
riuscito a non pensarci e ora tu decidi di fare esattamente la stessa cosa? Non ci credo! Questo è Dio che mi prende in giro. Va bene, te la sei voluta, sarai una sostituta, non lo saprai mai, ma lo sei. La sbatto giù, sul divano, riversa. Non fiata e attende. Non dovrà aspettare molto. Le sono dentro: forte, imponente, prepotentemente. Chiudo gli occhi. Quello che succede non lo so più, ma so quello che vedo con la fantasia. Adesso voglio solo venire. Giorno. Un nuovo giorno. Il mio letto. Da solo. Per fortuna Daniela ha preferito essere riaccompagnata a casa. Meglio così, amo svegliarmi da solo, avere i miei tempi, i miei modi, i miei spazi. Certo, il problema è stato andare a dormire alle cinque e ora sono le dieci. Quando fai nottata hai due cose che ti gravano sulle spalle: l'esserti svegliato in ritardo e il non aver dormito comunque. Caffè, nessun altro pensiero. La giornata è trascorsa, tutto sommato, in modo tranquillo. Un paio di appuntamenti, un pranzo con "la capa" e via, di nuovo a casa. Ho bisogno di
una doccia. L'acqua calda è una mano santa per la stanchezza. La seconda di oggi: la prima per svegliarmi e questa per restare sveglio. Stasera che faccio? Nulla, sto a casa e mi addormento presto. Non è da me. Lo so che non è da me, ma è per riprendere le forze. No, è perché non voglio pensare ancora a quella donna. No, semplicemente ho voglia di non fare nulla. Nemmeno andare a ballare? No, sono stanco. Peccato, magari lei è ancora lì. Non è vero. Magari sì, è lì che mi aspetta. No, non le è importato nulla mentre la osservavo in quello sgabuzzino, figurati il giorno dopo. Allora è vero che non vado a ballare per paura d'incontrarla. No, ho detto di no, non c'entra niente lei! Non c'entra niente questa voglia che ho di starle addosso? Voglia di entrarle fra le gambe, perdermi nei suoi ansimi. Sì, magari mentre guarda qualcun altro, che troia! Non è una troia, lo so, sono io che non accetto di essere stato fuori ad osservarla, invece di stare dentro al posto di quel tizio. Insomma, milonga o no? Cerchiamo di essere chiari e decisi. Mi volto: le scarpe sono lì,
accanto al letto. Accetto il suggerimento e decido di sì, milonga! Quasi mezzanotte e io sono qui dalle dieci e trenta. Nessuno in vista. Meglio così. Sì, meglio così, almeno mi sono tolto lo sfizio di venire a controllare, di non essere scappato a gambe levate, e qui posso dimostrare che avevo ragione: chissà dov'è. Non mi interessa più di tanto. I ricordi, come sempre, dopo un po' scompaiono per far spazio ai nuovi pensieri. È una questione di tempo e il tempo, si sa, passa, lento o veloce, passa inesorabile. In questo caso più che benvenuto. Ho scelto in modo accurato le ballerine stasera, o forse dovrei dire che non avevo poi troppa voglia di ballare. A volte mi capita di preferire il rimanere al tavolo con il mio bicchiere di vino, osservando la pista, facendo il terzo ballerino, ovvero quello che ti osserva mentre balli. È per lui che pulisci il passo. È il terzo ballerino che ti pianta gli occhi addosso, ma devi essere tu a interessarlo. C'è chi, però, balla solo per se stesso e spesso si vede. Magari si tratta di ballerini con i quali è anche piacevole danzare, ma
guardarli è impossibile. Il tango è un po' tutto: danza, recitazione, vita, sesso. Tante cose insieme. Non lo scegli. Lui sceglie te. E così, chi lo ama e lo pratica davvero, non trova inutile stare a guardarlo, ad apprendere con gli occhi prima che con le gambe. Anche perché le gambe sono solo un mezzo, un sostentamento che porta in giro il punto di contatto fra i corpi. Petto a petto: la grandezza, nonché il segreto del tango. Basta, vado a ballare e poi me ne torno a casa. Mi alzo e cerco l'ultima ballerina di questa sera: trovata, molto carina. L'ho notata già da un po', mi sembra brava. Purtroppo le mie scelte non possono essere esulate dalla bellezza, non ce la faccio, qualunque cosa devo fare, la faccio scegliendo la bellezza. Fa parte del mio lavoro, o forse ho scelto il mio lavoro in base a questa caratteristica. Così cedo anche alla bellezza della musica e del danzare: stacco il cervello e lascio che il corpo faccia quel che vuole. Cammino, tempo, doppio tempo, lascio che la musica si tramuti in movenze. Mi ascolta bene, o forse mi faccio ascoltare bene io. Non importa, l'importante è capirsi. Chissà se sorride.
Non posso guardarla, questo è l'unico problema del tango: l'eccessiva vicinanza non permette di osservarsi. Doppio tempo, sagada, giro, sagada di nuovo, accelero, sagada, parada. Mi fermo. Eccola! Sapevo che sarebbe arrivata. No, non lo sapevo, lo speravo. È entrata ora e sta parlando con qualcuno al bancone. Non devo distrarmi, sto ballando. Continuo a muovermi a tempo, facendo finta che quella fosse una pausa dopo una serie di passi veloci. Non lo era, ma la mia momentanea compagna non lo saprà mai. Penserà ad un'interpretazione del pezzo. Io penserò all'interpretazione di me stesso... non mi capisco. Finisce la tanda e anche il nostro comunicare. Mi stacco dolcemente e lei fa lo stesso. Sorride, ora lo vedo. Non mi interessa più. L'accompagno al tavolo. La musica sta ripartendo, devo sbrigarmi. La saluto, sì, è stato un piacere anche per me. Ciao. Mi volto, la cerco, non la vedo. Comincio ad osservare la pista come un bambino che non vede più la sua mamma, disperso in un grande magazzino. Vista! Sta ballando. E che cacchio, lasciatela sola un momento, no?! Torno al tavolo e
al mio bicchiere di vino. Bicchiere vuoto, pare. Vado a farlo riempire. Ne ho bisogno stasera. Dovrei andare via, lo so, sono stanco e avevo detto che sarebbe stato l'ultimo giro di tango. Resto, è ovvio. Non mi capisco e non capisco perché io stia palpitando così tanto. Cosa fa stare così un uomo verso una donna che neanche conosce? Eccitazione, si chiama così. Ma non l'eccitazione che si ha quando stai per scoparla, no, questa è l'eccitazione del volerla possedere. Non so se si tratti di attrazione fatale, magari sarebbe solo per stanotte, ma è forte. Carne, sangue e passione. Forse neanche l'amore è così denso. Non riesco a trovare nessuna sensazione aleatoria, nessun pensiero alto e nobile. Mi siedo, sorseggio e aspetto. Torna a sedersi. Non riesco ad alzarmi. Magari vuole riposare, sembra provata. Magari ha qualcuno da portare nello sgabuzzino. Non fare stupidaggini, alzati e vai. Dovete solo ballare, lo hai già fatto con lei e ti è piaciuto. Alzati da quel cazzo di sedia. Sì, è giusto che vada. Bevo un sorso generoso di liquido purpureo e mi muovo. La
pausa sta concludendosi e a breve inizierà un nuovo giro, deve essere con me. Mi avvicino, non mi ha ancora visto, cammino. Ecco, alza la testa, mi guarda. Per un attimo rivedo quello sguardo nello sgabuzzino. Lei non è imbarazzata, io sì. Continuo. Le sono davanti, sorrido e le faccio segno. Sorride, accetta. Siamo di fronte, l'afferro con delicatezza e la stringo. Parte milonga triste di Hugo Diaz. Questa non me la dovevate fare. Sento il cuore andare contro la mia volontà. La stringo involontariamente più forte, è un gesto inconsulto. Sento la sua mano che si poggia sulla mia schiena, siamo di nuovo vicini. - Ti aspettavo. - sussurra al mio orecchio - Mi è piaciuto molto ballare con te ieri. Non rispondo. Forse sorrido. Forse. Non lo so. Parto. Movimenti lenti, eppure sento il calore disperdersi intorno a noi. Chiudo gli occhi. Non mi importa di sbattere a qualcuno, voglio chiudere gli occhi. Voglio ubriacarmi di musica. Quante tande sono trascorse? Non lo so. Non ci siamo più staccati. Non abbiamo neanche parlato,
se non di stupidaggini per occupare il tempo delle pause fra un ballo e l'altro. Siamo ancora qui a ballare. Non so più neanche che ore siano. In pista sono rimasti in pochi, meglio, si balla meglio in pochi. Siamo diventati proprietà privata l'uno dell'altra, almeno fino a quando non andremo via. È stato un tacito patto. - Ultima tanda, poi si va a casa, grazie a tutti per essere stati qui stasera. - dice la voce del musicalizador - Purtroppo è l'ultima occasione, ma dopotutto ti sarai anche stancata di me stasera. - dico mentre mi avvicino per concludere in bellezza. Sorride. Mi prende il polso e mi sussurra: - Vieni con me. e mi porta via. Che cosa ha in mente? Siamo davanti ai bagni, si guarda in giro, prova ad aprire la porta dello sgabuzzino, è chiusa. C'è una chiave. La gira nella toppa, apre la porta, entra e mi tira dentro. Chiude a chiave. Buio. Stesso posto di dove l'ho vista. Cos'è, un'abitudine? Li porti tutti qui? Sto per parlare...
- Shhh. - mi fa - Fidati di me, dobbiamo solo aspettare. Mi zittisco. Per fortuna non soffro di claustrofobia. Cosa vorrĂ fare? Buio. Non posso parlare. Non posso vedere. Posso solo sentire il suo profumo, mischiato con quello dei detersivi. Non capisco cosa sia questa sensazione: ansia, mischiata a eccitazione, passione, voglia. Vorrei saltarle addosso, ora, senza remore. Forse aspetta questo. No, mi ha detto di aspettare. Ma le donne non dicono mai quello che vogliono. Mi ha detto di aspettare! Potrei andare al manicomio ora. Non ho piĂš la percezione spazio-tempo. Che cazzo dobbiamo aspettare qua dentro? - Ragazzi, buonanotte a tutti. Ci vediamo domani. - dice una voce lontana, che riconosco essere quella della barista. - Ma stanno... - tento di sospirare. - Lo so, aspetta ancora un attimo.
Trascorrono ancora dieci minuti, forse quindici. Silenzio. Si sono sentiti ancora dei saluti, ma da qualche minuto è tutto un grande unico silenzio. - Vieni. - dice sottovoce. Queste parole risuonano in me, rimbalzando sulla sensazione di eccitazione che ho da non so piÚ quanto. Gira la chiave, un rumore secco. Apre la porta: fuori lo stesso buio che dentro. Andiamo tentoni. Camminiamo per tutto il corridoio dove ci sono i bagni e raggiungiamo la sala. Si vede pochissimo, ma gli occhi si stanno abituando alla luce lunare. Si distingue qualcosa. - Cerchiamo le luci. - Ok. - rispondo. Tasto il muro distrattamente. Ecco: pulsanti con potenziometro. Giro la manopolina... e luce fu. La vedo al centro della pista, mi aspetta. Allunga le braccia e sorride. Le vado incontro. Ora so cosa vuole. Mi avvicino e, come se la musica stesse suonando, la prendo: un tango solo per noi, senza nessuno, senza neanche la musica. Si sentono
rimbombare i passi. Sembriamo in tanti, ma siamo in due. Che situazione magica. Ad un tratto non resisto: mi fermo, volto la testa lentamente e l'accarezzo con le labbra nel passaggio. Arrivo alla sua guancia, poi all'angolo della bocca, poi alle labbra. Ci baciamo. Cazzo, la sto baciando e sento il fiatone. Le afferro la faccia con le mani. Sento i muscoli della mascella indurirsi: sto digrignando i denti. Mi guarda, sorride. Mi osserva le labbra, poi si rivolge ai miei occhi. Si allontana. Dove vai? Sorride, non distoglie lo sguardo. Poco distante fa qualche passo da sola, lenta, sensuale. Si accarezza e piano toglie la magliettina. Di schiena. Che schiena! Sono fermo, immobile, rapito. L'indumento finisce sul parquet. Ăˆ il turno della zip della gonna, aperta con maestria, sempre sotto i miei occhi. Comincia a sfilarsi quel che resta dell'abito. Uno slippino di pizzo, nero. La stoffa della gonna lo svela poco alla volta. Si piega leggermente in avanti per rendere piĂš eccitante il movimento. Ci riesce. Non riesco a toglierle gli occhi da dosso. Sto esplodendo. Con un calcio manda via anche quella. Le mani tornano su, al
gancio del reggiseno. I muscoli della schiena si contraggono per quel movimento innaturale. Staccato. Si volta stringendo i seni per non far cadere l'intimo, anch'esso di pizzo nero. Le bretelline cadono grazie ad una forza di gravità complice e più donna delle donne. Mi guarda, sorride, di quel rosso che due labbra sono solo se possono permetterselo. Rosso, nero, rosso. Rosse le labbra, nero il completo intimo, rosse le scarpe. Tra poco il nero verrà spazzato via. Così vola anche il reggiseno. Resta ancora poca roba. Voglio toglierle io. Faccio un passo. Mi ferma immediatamente con un dito alzato e che, muovendosi, mi indica un no come risposta. Tira la testa indietro, come se fosse in una vasca colma d'acqua calda. Le mani si muovono e scoprono i seni; arrivano al collo, si accarezzano e, accarezzando la pelle, scendono sul petto, fra i seni, circumnavigandoli dal centro, scendono sulla pancia, si separano e giungono ai fianchi. I pollici entrano al disotto dell'elastico. Si volta ancora una volta di schiena e comincia a far scendere le mutandine. Non posso resistere, è più
forte di me: comincio a sfiorarmi. È splendida, cazzo, splendida. Si avvicina. Mi spoglia. Via la camicia. È più veloce ora, forse anche lei sta cedendo. Via la cinta. Mi apre i pantaloni. Si ferma, va a prendere una sedia e l'avvicina sulla pista. Mi fa sedere, anche poco delicatamente. Mi bacia il petto e scende, fra le mie gambe. Mi slaccia le scarpe e le toglie, prima una, poi l'altra. Via anche i calzini. Torna su, è in ginocchio. Afferra i pantaloni. mi fa capire di dovermi sollevare con il bacino ed ecco che li sfila. Poi è la volta dei boxer. Non è di troppi convenevoli, vede il mio essere eccitato oltre ogni limite. Mi bacia, dappertutto. Sento il calore della sua bocca un attimo prima di chiudere gli occhi e sospirare. Non lo sento per molto, ma quel poco mi da piaceri inaspettati. È proprio vero che si tratta di un fatto di testa; chi non lo capisce è solo un animale. Mentre non penso a nulla, sento che si allontana. Apro gli occhi. Mi chiede di alzarmi. Me lo chiede con la mente; non c'è bisogno neanche che mi faccia un gesto per capirlo. Andiamo al centro della pista. mi fa sedere sul
parquet, è ancora caldo. Sta mettendosi in piedi, a cavalcioni su di me. Scende lentamente, facendomi vedere tutto il suo corpo. Mi è sopra. Usa la mano per indirizzare ciò che deve. Di nuovo calore, semplice, avvolgente e dimentico anche chi sono. Abbracciati, distesi sul parquet, ansimanti, contenti, stanchi. Crolliamo entrambi in un sonno profondo. Breve ma profondo. È un raggio di sole a svegliarmi, un raggio di primo mattino. Lei è già sveglia, mi guarda. - Sei sveglia da tanto? - No, cinque minuti al massimo. Restiamo un po' in silenzio, poi ci rivestiamo e usciamo, sperando che non ci sia nessun allarme. L'aria è fresca, sono le sei di mattina. Ogni volta mi dico che farei bene a uscire per una passeggiata, tutti i giorni a quest'ora. Non lo faccio mai.
- Tu cosa farai oggi? - chiedo con un fondo di speranza che io sia fra i suoi programmi. - Parto. - In che senso? - incredulo. - Ho un aereo fra qualche ora. Parto per un po' di tempo. - Che vuol dire un po' di tempo? - Che starò via per un po'. Lavoro. Ed era da tanto che aspettavo quest'occasione. - Capisco. - no, non capisco, ma mi difendo Allora buon viaggio. - Grazie. È stata una bella serata. Grazie. Ci sorridiamo, un bacio fugace, poi via, di spalle, ognuno verso la propria macchina. Mi fermo e mi volto, sta andando. Si ferma, si volta anche lei: Sono contenta d'averti conosciuto. Sorrido, di più non so fare. Lo fa di riflesso anche lei. Poi si volta e va via davvero: è più brava di me
a scivolare via. Fine. Questo è tutto ciò che penso: fine. Arrivo a casa che la luce fuori già entra prepotentemente dalle finestre. Apro la porta, poso le chiavi sul mobiletto dell'entrata, mentre penso che non ho voglia di fare la doccia, per non togliere il profumo di vaniglia che ho addosso. Distratto chiudo la porta. Muovo un passo. Sento un rumore flebile. Mi fermo, guardo indietro. La porta si è riaperta. - Ancora quel difetto... - penso svogliatamente - ... credevo d'averlo riparato. Hmmm... devo farci più attenzione. Sai che bello se parto e la porta resta aperta? Con i tempi che corrono, chissà chi mi ritrovo in casa. Mi butto sul letto e sogno.