Tradizione e Modernità

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TRADIZIONE e MODERNITÀ : il rapporto con il contesto nell’opera di

MOLLINO

e

ALBINI

nelle Alpi

Chiara Pieri 204420 Prof. Alessandro De Magistris P O L I T E C N I C O D I M I L A N O F A C O LT À D I A R C H I T E T T U R A E S O C I E T À SCIENZE DELLA ARCHITETTURA ANNO ACCADEMICO 2007/08


| a chi piÚ mi è amico |

in copertina [C.Mollino Sedia per la Casa del Sole, Cervinia 1947]


Introduzione

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1. Il dibattito degli anni ’20 e ’30 in Italia 1.1 Un approccio storiografico alle vicende architettoniche

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2. L’Italia del secondo dopoguerra 2.1 Il contesto storico e politico 2.2 L’architettura della Ricostruzione 2.3 La modernità nelle Alpi

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3. Carlo Mollino (1905-1973) 3.1 Lo studente e il ‘figlio d’arte’ 3.2 1942-43: la ‘casa ideale’ 3.3 Architetture in montagna

42 46 50

4. Stazione della Slittovia Lago Nero, Sauze d’Oulx 4.1 Il progetto 4.2 Il cantiere 4.3 Una lettura critica 4.4 Altre opere significative Regesto delle opere di Mollino nel contesto montano

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5. Franco Albini (1905-1977) 5.1 L’adesione alla modernità 5.2 La lezione della tradizione 5.3 Il mestiere dell’architetto ‘artigiano’

92 98 102

6. Albergo Rifugio Pirovano, Cervinia 6.1 Il progetto 6.2 L’edificio costruito 6.3 Una lettura critica 6.4 Altre opere significative Regesto delle opere di Albini nel contesto montano

106 112 116 120 128

Conclusione

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Bibliografia

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Introduzione

[Ogni architettura nasce dalla terra e dagli uomini di quella terra in armonia con le esigenze di vita e dall’evolversi di questa nell’ambiente; nasce il gusto, lo stile, in una parola, la tradizione che è fiume nel tempo, mutevole e insieme unico in virtù di quelle costanti che l’hanno generato. In questo spirito deve operare la creazione dell’architettura di ogni luogo, in questo spirito l’architetto troverà le forme nuove che da quella tradizione discendono insieme formandola] Carlo Mollino


Dove nasce il progettare? Questa domanda ha accompagnato il percorso dei miei primi anni in università, un interrogativo che tuttora non viene meno. Attraverso i diversi corsi, i laboratori e l’attività di tirocinio, di fronte ad un nuovo tema progettuale da affrontare, è sempre tornato a galla questo bisogno di capire il perché di un determinato modo (piuttosto che un altro) di fare architettura. In particolare, durante i laboratori di progettazione sono sempre stata chiamata a lavorare su un certo contesto, a leggere in maniera critica un dato luogo. Questa prima fase del lavoro sembra imprescindibile per tutto ciò che viene dopo: pensare ad una forma, stabilire un programma funzionale…tutti aspetti che alla fine devono risultare ‘adatti’ a ciò che già c’è. Il tentativo della mia tesi non è fornire una risposta alla domanda posta all’inizio, ma approfondire cosa significa concretamente stabilire un rapporto con un ‘luogo’ attraverso l’architettura, un ‘luogo’ inteso non solo in senso fisico. Il campo d’azione di questa indagine è ristretto ad un determinato momento storico - gli anni della ricostruzione - nel nostro Paese, caratterizzato, a livello architettonico, dalla lezione del Movimento Moderno e allo stesso tempo dalla volontà di riallacciarsi alla tradizione. Dagli anni ’30 in poi l’affermarsi di nuove abitudini e l’emergere di nuovi bisogni cambiano la società…una veloce evoluzione che gioca un ruolo fondamentale per il mutare dei luoghi con cui gli architetti sono chiamati a confrontarsi. In particolare la mia riflessione ruota attorno a due personalità - Albini e Mollino - e a ciò che essi hanno costruito nella zona delle Alpi, un ambiente in cui, più che altrove, il rapporto con la tradizione e con il contesto diventa decisivo, o forse senza apparenti possibili compromessi. Fondamentale per me è cercare di approfondire il loro personale approccio al progetto, facendo riferimento alla duplice relazione che instaurano con ciò che ha portato la modernità e quello che ha lasciato la tradizione.

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1.

Il dibattito degli anni ’20 e ’30 in Italia

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[G.Muzio Cà Brutta, Milano 1919-1923]


1.1 Un approccio storiografico alle vicende architettoniche E’ difficile dare una lettura sintetica di quelle che sono le esperienze architettoniche in Italia nel periodo tra le due guerre. Sono molto diversificati gli esiti a cui giungono gli architetti di questo periodo e altrettanto numerose sono le letture critiche ed le interpretazione fatte dagli storici dell’architettura. Alcuni critici, riprendendo l’impostazione utilizzata da Zevi già negli anni ‘50, mettono in stretta relazione le idee proprie del Futurismo con le esperienze del Gruppo 7 e del Movimento italiano per l’architettura razionale (MIAR). Una simile chiave di lettura è quella utilizzata da Kenneth Frampton che considera queste esperienze razionaliste come il passo successivo all’opera di Muzio e alla tendenza del Novecento, all’interno del solco dell’eredità futurista. [Tra il nostro passato e il nostro presente non esiste incompatibilità. Noi non vogliamo rompere con la tradizione: è la tradizione che si trasforma, assume aspetti nuovi, sotto i quali pochi la riconoscono], così si legge nel primo articolo del Gruppo 7, che esce nel Dicembre del 1926 su Rassegna Italiana. Il ‘moderno’ proposto da Castagnoli (sostituito poco dopo da Libera), Figini, Frette, Larco, Pollini, Rava e Terragni è da intendersi quindi non come negazione del passato, ma come espressione ‘del nuovo spirito’ capace di creare uno ‘stile’ rinnovato, che sia frutto di un’azione collettiva, di un ordine costituito. Rispetto ad alcune correnti di ricerca architettonica, come quella dei novecentisti milanesi (tra cui Muzio e De Finetti) che portano avanti una produzione di qualità alto borghese, tentando una sintesi tra riferimenti neoclassici e metafisici, questi giovani architetti si fanno interpreti delle istanze di rinnovamento e diventano parte attiva all’interno del dibattito che coinvolge il


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campo dell’architettura. A Milano Muzio procede per accostamento di ‘frammenti’di una tradizione classica, secondo una logica e un ordine nuovo, quei frammenti sono raggruppati in parti complete, in porzioni di edificio ulteriormente accostate ad altre, per arrivare ad un’immagine della città costruita con frammenti compiuti (monumenti, edifici pubblici, fronti stradali) secondo un ordine ‘neoclassico’. Occorre inoltre sottolineare che il legame con il futurismo viene dichiarato dal Gruppo 7 solamente nel 1928, in occasione della I Esposizione di architettura razionale a Roma. Questa dichiarazione è letta da Ciucci e Dal Co come una chiara difesa dall’accusa rivolta ai razionalisti di dipendere da modelli stranieri. Già da questi primi accenni si coglie la complessità delle ricerche architettoniche che coinvolgono l’Italia durante il periodo fascista. È difficile isolare le caratteristiche di ogni singolo tentativo proposto e interpretare il rapporto che lega questo ‘pluralismo’ e la politica culturale ufficiale. [Ai giovani architetti- da Libera, a Terragni, a Figini e Pollini –che guardano con ansia ai maestri del razionalismo internazionale, sarà riservato un ruolo non del tutto marginale, dato che la complessa articolazione della politica culturale del regime intende salvaguardare il proprio carattere di prodotto di movimento di massa e ‘popolare’, assumendo un volto ‘nazionale’ (…) Tra polemiche e dibattiti, il Fascismo si muove con abilità: privilegia alcune occasioni per riaffermare la propria vocazione nazionale, agendo pragmaticamente nel predisporre una divisione di compiti che prevede una netta distinzione tra le ‘mansioni’ da assegnare alla ‘nuova architettura’ e quelle da affidare a strutture di potere gestite da architetti accademici o di mediazione.]1 Gli architetti razionalisti vengono chiamati in causa soprattutto in quelle occasioni in cui il regime vuole mostrare il suo volto moderno e progredito, come nel caso dei padiglioni fieristici e degli allestimenti 1

M.Tafuri, F.Dal Co Architettura contemporanea, Electa, Milano 1992


[G.Terragni Casa del Fascio, Como 1932-1936]


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espositivi. Anche Leonardo Benevolo sottolinea che il regime fascista esercita sulla cultura architettonica italiana [una pressione discontinua e volubile, secondo i diversi indirizzi che vi si succedono, e mai così pesante come quella del nazismo]2 in Germania, dove il Movimento Moderno si afferma durante il governo democratico precedente. Benevolo chiarifica anche che in Italia il protezionismo culturale del regime non aiuta l’apertura oltre i confini nazionali del dibattito sull’architettura e allo stesso tempo questa condizione permette solo contatti scarsi con ciò che sta accadendo in Europa. [Nessuno prima di Persico si rende conto neppure parzialmente di quel che avviene in Germania; persino le informazioni sono scarse, subito tradotte nei termini convenzionali del dibattito locale. Nel ’30 Piacentini descrive la situazione tedesca con queste parole sorprendenti: “In Germania non si palesa ancora un carattere dominante e preciso: ancora perduta, in mezzo a grandi incertezze, la lotta tra la linea verticale e orizzontale” e nel ’31 una fotografia del Bauhaus è pubblicata su ‘Architettura’ con questa didascalia: “Sede dell’impresa di costruzioni Bauhaus a Dessau”.]3 Tentando una ricostruzione complessiva della vicenda architettonica italiana tra il 1922 e il 1944, l’analisi di Giorgio Ciucci, parte dai casi emblematici di Torino, Milano e Roma, significativi anche dal punto di vista della nascente disciplina urbanistica; infatti queste città diventano il centro del confronto tra gli architetti legati ancora alla tradizione e i giovani razionalisti. Il regime instaurato da Benito Mussolini e la successiva polemica sull’ “architettura arte di Stato” impongono agli architetti una messa in discussione dei significati attribuiti ai termini classico, moderno, razionale. Il fascismo sostiene infatti una mediazione tra il richiamo ai valori della tradizione culturale italiana e la ‘modernità’ della sua azione proclamata come rivoluzionaria. Il rapporto sempre più stretto tra la politica e la disciplina dell’architettura è testimoniato 2 3

L.Benevolo Storia dell’architettura moderna, Editori Laterza, Roma-Bari 2006 L.Benevolo Storia dell’architettura moderna, Editori Laterza, Roma-Bari 2006


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dall’interesse crescente per l’urbanistica e l’organizzazione delle città. Questo passaggio decisivo si coglie anche nella diversa definizione che viene fatta riguardo ai compiti dell’ architetto. Nel 1916 Giovannoni aveva proposto una figura di architetto ‘completo’, un architetto integrale, che sintetizzasse la figura dell’Ingegnere e quella dell’allievo dell’Accademia di Belle Arti, uno ‘scienzato’ che fosse allo stesso tempo un ‘umanista’; negli anni ’20 si passa alla definizione della figura di architetto-urbanista, che prende parte al dibattito sui processi di sviluppo urbano proponendo modelli teorici ‘razionali’ e facendosi interprete delle richieste del potere politico. Mussolini vede nella riorganizzazione del territorio la chiave di volta per lo sviluppo economico del paese e propone uno piano di riassetto amministrativo e fisico dell’Italia, in funzione della ripresa dell’agricoltura e dell’ industria; il settore edilizio svolge quindi il ruolo di ‘catalizzatore’ per questo tentativo di carattere economico, che Mussolini chiarifica il 26 maggio 1927 durante il suo discorso tenuto alla Camera, passato alla storia come il ‘discorso dell’Ascensione’. Occorre, secondo quanto affermato, limitare lo sviluppo urbano incontrollato (dovuto soprattutto all’emigrazione dalle campagne alle città, in quanto centri della produzione industriale), e realizzare nelle diverse province una rete di servizi e opere pubbliche. Una nuova gestione e un migliore controllo del territorio possono essere realizzati in maniera efficace solo attraverso un nuovo assetto amministrativo centralizzato, che Mussolini costruisce a partire dal ’23 attraverso la ‘fascistizzazione’ dei prefetti e l’attribuzione del potere locale dei comuni ai Podestà. Nello stesso anno (1928) in cui a Roma si apre la già citata I Esposizione italiana di architettura razionale (tre mesi prima del primo CIAM a La Sarraz) organizzata dal MIAR e a Milano vengono fondate due nuove riviste (Domus, da Gio Ponti e La Casa bella da Guido


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Marangoni, che dal 1933 viene diretta da Pagano, a cui si affianca Persico nel 1935, che segnano il passaggio che si sta attuando dall’arte applicata alla sfera dell’architettura), questo processo di progressivo controllo centralizzato raggiunge il suo assetto definitivo. Mentre il cambiamento della struttura politica e amministrativa dello Stato definisce le premesse per il nuovo sviluppo della città, si delineano in maniera più chiara le diverse posizioni dei protagonisti della vicenda architettonica. Da una parte il processo di rinnovamento formale portato avanti dalle posizioni razionaliste rilegge la tradizione come recupero dell’architettura ‘spontanea’ e ‘mediterranea; dall’altra ci si attesta sulla linea accademica del monumentalismo; tutti condividono però il desiderio di arrivare alla definizione di un’arte nazionale. Gli anni ’30 testimoniano la nascita di contrasti interni al gruppo razionalista. La II Esposizione italiana di architettura razionale, inaugurata dallo stesso Mussolini, testimonia la fine di quel periodo in cui i rapporti tra gli architetti razionalisti sembrano molto stretti e le loro posizioni conciliabili all’interno del MIAR. In concomitanza con la mostra esce il libro di Bardi Rapporto sull’architettura (per Mussolini), in cui scagliandosi contro Piacentini, l’autore proclama l’architettura razionalista come l’unica autentica espressione dei principi rivoluzionari incarnati dal Fascismo, provocando la reazione ostile del Sindacato Nazionale degli Architetti, che subiva l’influenza classicista dello stesso Piacentini. Pagano, che interpreta le polemiche a sostegno dell’architettura moderna come riaffermazione degli ideali del regime, volendo incidere a livello professionale, è disposto a scendere a compromessi; Persico permane invece in opposizione rispetto agli esiti culturali del Fascismo, portando avanti una critica dai forti accenti politici sotto la veste del dibattito sull’architettura. Attorno alla rivista Quadrante, di Bardi e Bontempelli, si raccolgono gli intransigenti razionalisti astratti che si


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battono con dure polemiche contro il monumentalismo accademico; mentre Piacentini si pone come mediatore ufficiale tra le istanze artistiche, mondo professionale e architettura fascista, con il suo stile ‘littorio’. La posizione di Piacentini è stata rafforzata, come racconta Kenneth Frampton, dalla nascita del Raggruppamento Architetti Moderni Italiani (RAMI), che appoggiando il classicismo dello stile propugnato da Piacentini, non ha permesso alcuna categorica condanna dei Novecentisti e dei Razionalisti. In occasione del Ventennale del Fascismo, che ricorre nel 1942, Mussolini decide di organizzare a Roma un esposizione universale, per affermare il ruolo internazionale dell’Italia, diventata nel frattempo un Impero. Gli architetti vengono chiamati a rappresentare il volto di un’Italia che vuole essere una potenza mondiale, portatrice di civiltà e pace. La cosiddetta E42, che idealmente sembra proseguire l’esperienza precedente della Città Universitaria, dovrà diventare, una volta terminata l’esposizione, un moderno quartiere modello; collaborano alla redazione del piano generale oltre a Piacentini, Pagano, Piccinato, Vietti e Ettore Rossi. Ben presto viene a prevalere sui caratteri dell’esposizione l’esigenza autocelebrativa del regime, e il compromesso tra le diverse tendenze non riesce ad essere duraturo. [Gli intricati nodi che avevano caratterizzato il dibattito nei dieci anni passati, da quello sul piano territoriale a quello sulla città, da quello sull’architettura di Stato a quello sul “moderno”, si rivelarono dei nodi finti, decorazioni di una scatola che avrebbe dovuto contenere politiche urbanistiche, piani territoriali, istanze sociali, e che una volta aperta si scoprì vuota. Gli architetti che avevano creduto nei contenuti di quella scatola si ritrovarono sul tavolo i resti di un dibattito teorico e fra le mani un mestiere non adeguato alla professionalità necessaria e adatta ai compiti prefissati.]4 4

G.Ciucci Gli architetti e il Fascismo, architettura e città 1922-1944, Einaudi, Torino 1989


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[Palazzo della CiviltĂ Italiana, EUR Roma 1942]



2. L’ I t a l i a

del secondo dopoguerra

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[Milano Piazza Duomo 1945]


2.1 Il contesto storico e politico All’indomani della seconda guerra mondiale l’Italia è un paese fortemente provato: buona parte del patrimonio nazionale è andato perduto e le devastazioni subite ostacolano il ritorno alla normalità. Nelle principali città i bombardamenti hanno causato la distruzione di case, officine e industrie e l’interruzione di tante vie di comunicazione. Nonostante questo un’aspettativa di rinascita e rinnovamento permea la componente sociale: la volontà di essere partecipi dell’opera di ricostruzione anima tutti, c’è nelle masse la convinzione – maturatasi anche attraverso la Resistenza – di essere finalmente diventate protagoniste. Il primo governo dell’Italia dopo la liberazione, presieduto da Ferruccio Parri e formato dai rappresentanti del CLN, cioè da tutti quei partiti che avevano partecipato alla lotta partigiana, ha vita breve. I contrasti tra i partiti di sinistra e quelli moderati, che sorgono su temi fondamentali, in particolare riguardo alla riorganizzazione economica del Paese, portano alla caduta del primo governo. Il nuovo governo (dicembre 1945-luglio 1946) nasce sotto la guida del leader della DC, De Gasperi. Nel giugno 1946, dopo il lungo silenzio elettorale degli anni della dittatura fascista, i cittadini italiani sono chiamati alle urne, sia per scegliere la forma istituzionale – monarchia o repubblica –, sia per eleggere l’Assemblea Costituente. I risultati del referendum istituzionale sono favorevoli alla Repubblica. Nonostante lo scarto di soli due milioni di voti (poco meno di 13 milioni contro i circa 11 milioni della monarchia) e il fatto che sia stato in prevalenza il Sud a schierarsi per il re, lo scontro istituzionale non riesce a dividere il Paese. Nelle elezioni per l’Assemblea Costituente emergono la DC (35.2%), il Partito Socialista (20.7%) il Partito Comunista (19%). Il secondo governo De Gasperi, si forma a luglio, ed è ancora una volta all’insegna della coalizione. La nuova


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costituzione repubblicana entra in vigore il 1 gennaio del 1948 e il liberale Enrico De Nicola diventa il primo presidente della repubblica italiana. L’inizio della guerra fredda tra USA e URSS provoca in Italia la rottura dell’unità antifascista. Nelle elezioni dell’ aprile del 1948 la DC ottiene una vittoria clamorosa: si apre l’epoca del centrismo, caratterizzata dalla collaborazione tra la DC e i partiti di centro (il partito liberale guidato da Benedetto Croce e dall’economista Luigi Einaudi; il partito repubblicano guidato da Ugo La Malfa; il partito socialdemocratico guidato da Giuseppe Saragat). Una delle iniziative più importanti di questo periodo è la riforma agraria: una parte dei grandi latifondi sono espropriati di e ridistribuiti in piccoli appezzamenti ai contadini. La legge però ha molti limiti e modifica soltanto in parte i rapporti di proprietà nelle campagne. Con la legge Fanfani (ministro del lavoro e della previdenza sociale) nel 1949 viene dato l’avvio al piano Ina-Casa, che nasce come ‘piano per l’incremento dell’occupazione operaia’, infatti attraverso l’attività edilizia si crea manodopera e si risponde contemporaneamente all’esigenza di nuovi alloggi. Nel 1950 il governo cerca di affrontare il problema dell’arretratezza del meridione istituendo la Cassa per il Mezzogiorno. Nel periodo che segue la guerra l’architettura, per alcuni decenni, è segnata dalla posizione preminente di architetti che pur appartenendo ad una classe elevata, hanno una particolare preoccupazione ‘sociale’. Molti di essi infatti militano nei partiti di sinistra, soprattutto nel PCI. A metà degli anni cinquanta l’Italia è ancora per molti aspetti un paese sottosviluppato, ma nel periodo tra 1958 e il 1963 prende il via il cosiddetto miracolo italiano grazie al quale l’Italia diventa una delle nazioni più industrializzate. Le cause di questo boom sono molteplici ma è soprattutto il basso costo del lavoro che consente ai settori più avanzati dell’industria italiana di essere competitivi sul mercato internazionale. Molti cittadini emigrano dal sud verso il nord e dalle campagne verso le città, determinando un’espansione piuttosto caotica dei centri urbani.


2.2 L’architettura della Ricostruzione L’architettura del secondo dopoguerra in Italia, nonostante le molteplici contraddizioni al suo interno, è fondata sulla necessità di doversi confrontare con il problema della ricostruzione e con la successiva rinascita economica del paese. Dopo le distruzioni dei bombardamenti, gli architetti italiani, dovendo inserire edifici nuovi in tessuti storicamente consolidati, tentano di adattare i caratteri del razionalismo al bisogno, sentito anche dall’istanza popolare, di non dimenticare la tradizione. In Italia, il rapporto tra modernità e tradizione si traduce nell’aspirazione all’essenzialità e alla semplificazione linguistica. Le cause di questa aspirazione, sottolinea Biraghi, derivano dall’avere combattuto e perso la guerra e da una frugalità radicata nella civiltà contadina. È da notare come questa aspirazione fosse sorta già prima della guerra, Pagano infatti vedeva nell’architettura rurale italiana il giusto strumento per dare all’architettura moderna del nostro paese un carattere concreto e aderente al luogo, alle forme, ai materiali, a quei fattori che determinano la tradizione radicata nel territorio del nostro paese. Nell’opera di architetti come Quaroni, Albini, Gardella e Mollino è possibile rintracciare, anche se con accenti diversi, la ripresa di quella stessa volontà attraverso edifici progettati e costruiti negli anni che seguono il conflitto. L’architettura italiana dopo il 1945 vive una stagione di fermento, testimoniato dal nascere di iniziative editoriali nuove e dal formarsi di gruppi e associazioni di architetti. Mentre a Roma ci si concentra ancora sulla ricerca di inclinazioni popolari (arrivando alle espressioni del linguaggio neo-realista, basato sulla volontà di aspirazione al realismo e alla comunicazione), a Milano, ricercando una continuità, si segue invece la via aperta da Persico e Pagano, da Terragni e dai giovani razionalisti: si tratta in entrambi i casi di dare significato alla modernità


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non dimenticando i caratteri dell’identità nazionale. In queste esperienze viene condivisa la necessità di dare alla disciplina un fondamento ‘etico’ che riassuma i valori della Resistenza, e in molti casi la tradizione ‘recente’, quella di Persico e Pagano, è letta in maniera schematica come unitaria. Di questa tradizione viene raccolto l’ideale più che le forme costruite. Nel 1945 viene redatto il Piano AR (Architetti Riuniti) per Milano, che affronta la ricostruzione della città lombarda, proponendo un sistema urbano in cui nuove strutture si integrino al patrimonio esistente e in particolare nel centro storico, sottoposto ad un generale restauro, nel tentativo di preservarlo dalla speculazione. Il piano AR è, secondo Franco Albini, [il risultato di una collaborazione fervida iniziata nel 1944, dopo le distruzioni effettuate dai bombardamenti, nel periodo della resistenza precedente la liberazione, da parte di un gruppo di architetti, tra questi Bottoni ed io stesso, legati da una comune tendenza…Nel 1944 questo nostro gruppo di lavoro era consapevole che, come dice la relazione al piano, un piano regolatore che determini non solo il disegno della città, ma il metodo atto al raggiungimento di fini sociali, era condizione necessaria ad una ordinata opera di ricostruzione…ed era inoltre l’unico argine che si poteva offrire ai cittadini contro l’azione disgregatrice degli speculatori. Le premesse del piano affermavano l’inseparabilità del piano urbanistico cittadino dal piano del territorio.]5 Il piano AR rappresenta l’occasione in cui alcune proposte per la casa, la città e il territorio tendono a connettere il patrimonio di ricerche faticosamente maturato con le esigenze di una nuova professionalità che si vuole libera da condizionamenti. Nello stesso anno viene fondato il ‘Movimento di Studi per l’Architettura’ che riunisce oltre agli architetti protagonisti di quel Piano (Albini, Belgiojoso, Bottoni, Cerutti, Gardella, Mucchi, Palanti, Peressutti, Pucci, Putelli e Rogers), altre personalità tra cui Figini e Pollini, De Carlo, Gregotti, Viganò, Zanuso. 5 F.Albini “In memoria di Piero Bottoni”, in M.Montuori Lezioni di progettazione. 10 maestri dell’architettura italiana, Electa, Milano 1989


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Gli architetti del MSA appoggiano il Moderno in maniera critica, è infatti rilevante il dibattito che nasce sul significato di ‘tradizione’. Scrive Albini: [La tradizione, come disciplina, è argine alle licenze fantasiose, alla provvisorietà della moda, ai dannosi errori dei mediocri.]6 A Roma, qualche anno più tardi, Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi progettano il quartiere Tiburtino (costruito tra il 1949 e il 1954) recuperando forme insediative pre-moderne e tecniche artigianali di costruzione: i bassi fabbricati sono costruiti con tetto a falde, rivestimenti in intonaco, serramenti in legno e ringhiere in ferro battuto…tutti elementi che rendono esplicito il riferimento ad una tradizione popolare. [L’intento è esaltare l’artigianalità che costituisce il modo obbligato di produzione del complesso, salutandola come antidoto antialienante.]7 Viene espresso il desidero di utilizzare un linguaggio facilmente accessibile, in opposizione all’astrazione delle opere di architetti come Terragni e Libera. I quartieri Ina-casa, sono un caso emblematico per ciò che riguarda il rapporto con la tradizione, in quanto espressione dell’esigenza sociale di ripresa dopo gli orrori della guerra e di ricerca di un’identità comunitaria. Il piano di Gestione Ina-casa, diventato legge nel Febbraio del 1949 con il titolo Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per lavoratori, era nato con l’obiettivo di risolvere la disoccupazione e allo stesso tempo la richiesta di alloggi. Lo scopo del piano Fanfani era inoltre frenare ad un livello pre-industriale il settore edilizio, in funzione dello sviluppo delle piccole imprese facendo dell’intervento pubblico un incentivo per l’intervento privato. Il tentativo, messo in atto dagli architetti attraverso le forme innovativamente organiche dei quartieri progettati ai margini delle città, alla fine subisce gli effetti del vero processo di riorganizzazione che sta investendo il territorio italiano: il Tiburtino, nato immerso nella campagna, viene a trovarsi in mezzo 6

F.Albini “Dibattito sulla tradizione in architettura”, in M.Baffa, C.Morandi, S.Protasoni, A.Rossari Il movimento di studi per l’Architettura 1945-1961, Editori Laterza, Roma-Bari 1995 7 M.Tafuri Storia dell’architettura italiana. 1944-1985, Einaudi, Torino 1986


[L.Quaroni, M.Ridolfi e altri Quartiere Tiburtino, Roma 1950-54]


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ad un indistinto urbanizzato, conseguenza visibile del reale espandersi della città, dominato dalla logica degli interessi delle localizzazioni produttive, un processo che quindi progressivamente si sottrae alla cultura del progetto architettonico. Come questo anche gli altri quartieri Ina-casa si sottraggono quindi agli inquadramenti di piano o comunque li condizionano, poiché la speculazione edilizia li raggiunge sfruttando le infrastrutture create dall’amministrazione pubblica. Un altro importante fulcro di dibattito del dopoguerra, che si crea parallelamente a quello del MSA è costituito dall’APAO (Associazione per l’architettura organica) legato in particolare dalla figura di Bruno Zevi, che si concretizza a partire dal 1945 nelle pubblicazioni di Zevi (Verso un’architettura organica) e nella fondazione della rivista Metron. Dopo aver completato gli studi in America, Zevi diffonde in Italia la lezione organica di Wright e di Aalto, mettendo in primo piano la necessità da parte degli architetti di essere capaci di liberare le forme e di riportarle ad una dimensione ‘umana’: diventa protagonista, nello scambio tra progettazione e fruizione, lo spazio. [Zevi propone il ribaltamento dell’interpretazione critica, fino allora più diffusa, che considerava Wright solo un ‘precursore’ dell’architettura moderna, mentre lo storico romano presenta l’architettura organica come l’evoluzione naturale di quella razionale e insiste sulla nuova visione dello spazio che procede “dall’interno”, ed è la matrice da cui derivano alcuni veri e propri “topoi” dell’architettura moderna, come il piano libero e l’esterno come riflesso dell’interno. Le argomentazioni connesse a tale proposta critica – l’attenzione al rapporto con l’ambiente e ai fattori psicologici, la complessità delle problematiche e la ricchezza del linguaggio – scalfiscono in maniera significativa il fronte razionalista. Si creano dinamiche nuove, che attraverso il confronto e l’intreccio tra le aspirazioni organiche e le proposte del neo-realismo (senza trascurare l’influenza dell’empirismo nordico) generano alcune delle tendenze più vive e interessanti del periodo.]8 8

A.Rossari “Un percorso antiformalista tra modernità e tradizione”, in F.Bucci, F.Irace (a cura di) Zero Gravity. Franco Albini Costruire le modernità, Electa, Milano 2006


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Anche se l’influenza dell’APAO è scarsa, Zevi riesce a riportare in Italia l’architettura internazionale, tentando di continuare la ‘Nuova Tradizione Moderna’ in modo più aperto e creativo. Nel caso del programma portato avanti da Adriano Olivetti (che aveva patrocinato nel 1936-37 il piano per la Valle d’Aosta, anticipando l’approccio ‘regionalista’ del piano AR), la verifica della continuità tra contesto ambientale e il costruire non viene tradotta da un unico oggetto architettonico: l’obiettivo è la trasformazione dell’ambiente di lavoro dell’impresa di Ivrea, si tratta di tradurre in concreto, grazie al costruito, un’idea imprenditoriale ‘illuminata’ e il desiderio di dare alla ditta una nuova immagine ‘sociale’, che investe però tutta la città e il territorio circostante. [Il legame stabilito tra l’industria di Adriano Olivetti e la regione del Cavanese misurano, lungo tutti gli anni cinquanta, la concretezza dell’alleanza tra capitale e lavoro alla base del progetto comunitario di Olivetti. Un progetto che si configura innanzitutto come tensione verso una ricomposizione di un equilibrio sociale, prima ancora che politico, tra processi di modernizzazione e ambiente locale, e che solo in un secondo momento si traduce in forma architettonica.]9 Esemplificativo è il progetto per la mensa aziendale di Gardella (1953-1959). Come altre architetture olivettiane si rapporta alla natura in senso organico: l’articolazione planimetrica segue l’andamento del terreno e rapportandosi con il bosco circostante. [Al contrario della prospettiva di auspicate e progettate riforme, che costituisce l’a-priori spaziale del razionalismo architettonico, la condizione spaziale di Gardella è circoscritta alla zona che forma l’ambiente sensibile dell’edificio e ai fatti reali - pendenze, alberi, costruzioni- con i quali l’oggetto costruito dovrà necessariamente entrare in relazione (…); l’edificio non è altro, in ultima analisi, che la definizione formale di una situazione (…) si tratti di boschi, di colline o di cielo, di un nobile complesso monumentale, o soltanto di scialbe 9 G.Durbiano, M.Robiglio Paesaggio e Architettura nell’Italia contemporanea, Donzelli Editore, Roma 2003


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case borghesi allineate lungo una via cittadina, quei dati vengono come riassorbiti nella forma architettonica, che a sua volta ne risulta permeata o saturata.]10 Per Gardella - come Albini e altri legati all’ambiente milanese - il richiamo alla tradizione è quindi giocato non a livello di stile, ma all’interno di un approccio ragionevole più che razionalista nel costruire forme chiare e in rapporto con il luogo. Ambiente e storia diventano strumenti privilegiati per la riflessione progettuale, il fine del nuovo edificio è stabilire una relazione nuova con la realtà sociale. Ernesto Nathan Rogers sottolinea, attraverso una serie di editoriali pubblicati su Casabella, che il Movimento Moderno ha portato non uno stile, identificabile con l’International Style bensì un metodo [che ha tentato di stabilire nuove e più chiare relazioni tra i contenuti e le forme entro la fenomenologia di un processo storico-pragmatico, sempre aperto, che, come esclude ogni apriorismo nella determinazione di quelle relazioni, così non può essere giudicato per schemi.]11 I suoi scritti costituiscono il più importante punto di riferimento per la cultura architettonica degli anni Cinquanta e Sessanta. Si tratta, per Rogers, di dare all’architettura un nuovo grado di modernità, non riducendo le opere dei maestri moderni alle semplici proposte formali, interpretando il fenomeno architettonico come espressione sia di continuità che di

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G.C.Argan “Umanesimo di Ignazio Gardella”, in Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano 1965 E.N.Rogers “Continuità o Crisi?”, in Casabella-continuità n. 215, Aprile-Maggio 1957


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crisi. Rogers riflette sul significato di tradizione, che altro non è se non la presenza unificata delle esperienze, ciò il considerare la testimonianza di chi è venuto prima, il non ricominciare da zero nel pensare l’architettura. Il recupero della tradizione è da intendersi non come continuità di stile o in senso formalistico, ciò che si vuole recuperare dalla storia è la capacità di apportare un metodo; i principi del Movimento Moderno, allo stesso modo, devono essere adattati ad ogni realtà concreta, i materiali e le tecnologie devono essere scelti in base ad ogni contesto. Si legge infatti su Casabella: [Noi avremo amministrata ben l’eredità dei maestri e continuato il senso del loro messaggio, se avremo dato una struttura sempre più reale alla nostra cultura architettonica, e se, esplorando meglio da un lato il senso della tradizione e dall’altro quello del futuro, chiariremo particolarmente le vedute del presente al beneficio sempre più ampio dei contemporanei.]12 Il tentativo di Rogers è quello di armonizzare le opere con ciò che lui stesso definisce come pre-esistenze ambientali: il nuovo non viene subordinato all’antico, o in generale all’ambiente oppure ad un tessuto consolidato, poiché le pre-esistenze sono assunte come ‘predeterminazioni’, valori che definiscono e segnano il limite dell’interpretazione artistica dell’architetto, che è chiamato a progettare e a rendere il suo lavoro più comprensivo dei valori culturali del luogo in cui s’inserisce.

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E.N.Rogers Editoriali di architettura, Einaudi, Torino 1968


2.3 La modernità nelle Alpi L’architettura italiana della seconda metà del XX secolo ha affrontato, come abbiano visto, in maniera articolata il rapporto tra nuove architetture e preesistenze, tra costruzione e sito naturale. Tutta la vicenda architettonica italiana è leggibile attraverso questa tematica: la necessità di progettare in un contesto naturale e culturale ricchissimo, in un luogo ben lontano dalla possibile fondazione di un ordine totalmente nuovo, è stata la peculiarità del pensiero architettonico italiano nel dibattito internazionale. La montagna dà spazio a questo tema con più decisione rispetto ad altri contesti: qui l’architettura non può non ‘fare i conti’ con il paesaggio e l’orografia, e allo stesso tempo non può prescindere dalla tradizione costruttiva, che interpreta in maniera non banale il rapporto tra funzione e costruzione. Le condizioni ‘imposte’ al progettista dall’ambiente, diventano ‘vincoli’ imprescindibili all’interno del processo intellettuale e tecnico: la progettazione non può essere separata dalla realizzazione e dai metodi costruttivi attuabili in quel dato contesto, e in questo processo profondamente ‘unitario’ sono evitati accuratamente i formalismi inutili, e come dimostrano alcuni, si scade meno facilmente nella citazione mimetica della tradizione. Luciano Bolzoni e Maurizio Carones, pubblicando su Domus (n. 782, Maggio 1996) l’Itinerario sulla modernità in Valle d’Aosta, sottolineano che anche le architetture montane risentono di quel punto di vista ‘urbano’ proprio dell’architettura moderna, tale sguardo urbano trasforma la percezione stessa di questi luoghi montani, che trasferiscono i loro insediamenti in funzione delle esigenze turistiche emergenti; Champoluc, da luogo secondario passa ad essere meta privilegiata per i cittadini ‘in vacanza’. Il modo ‘urbano’ di guardare alla montagna si fa riconoscibile nel tema dell’abitazione (la ‘casa di vacanze’ o ‘seconda


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casa’ costituisce, come nella città contemporanea, il fatto centrale della progettazione), e anche in quello delle soluzioni costruttive, poiché ogni scelta, proponendosi come interpretazione dell’ ‘approccio moderno’, eredita dalla tradizione le soluzioni ormai collaudate del contesto in cui si trova ad operare. L’architettura spontanea e rurale aveva affascinato anche i grandi maestri moderni, ad esempio nel 1926 Le Corbusier analizza il tipo della ‘maison bretonne’ nel suo Almanach d’architecture moderne. Anche in Italia, grazie al lavoro di Marconi e Giovannoni, nasce un filone specifico dell’architettura moderna che guarda all’architettura rurale come patrimonio più autentico della modernità, arricchendola con temi legati al paesaggio, al territorio e alla tradizione costruttiva locale. La montagna è un ‘contesto’ unico che esige una sensibilità costruttiva completamente diversa da quella usata in pianura, qui lo ‘sfondo’ naturale non può essere tralasciato. Nell’architettura tradizionale montana il costruire è legato alla disponibilità di spazio e di materie prime, secondo una logica progettuale molto lucida, in cui non sono ammessi il superfluo e il ridondante. Lo sviluppo e lo sfruttamento turistico del ventesimo secolo, creando modelli di insediamento completamente differenti da quelli tradizionali, hanno contribuito a modificare un contesto rimasto praticamente invariato per secoli. Le costruzioni realizzate prima del ventesimo secolo rispecchiano ancora una struttura sociale basata sulla vicinanza fra gli uomini come garanzia di sopravvivenza e di sostentamento, una struttura sociale pressoché omogenea (tutti gli abitanti condividono lo stesso stile di vita) che dà vita a nuclei abitati omogenei. Come già accennato, si può leggere nel ventesimo secolo una differenza sostanziale: la montagna fa suo un modo di vivere importato


[L.B.Belgiojoso, P.Bottoni Piano Regolatore della Conca del Breuil, 1936-37]


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dalla massa cittadina che ha creato nuove forme di fruizione (come l’alpinismo, che inizia a diffondersi dall’inizio del secolo tra le classi sociali più ricche), imponendo la realizzazione di nuove tipologie (rifugi, impianti di risalita, stazioni di funivie…). Significativa è la vicenda di Cervinia: la costruzione nella zona delle centrali idroelettriche a partire dagli anni venti e la necessaria infrastrutturazione per l’approvvigionamento dei cantieri costituiscono il punto di partenza per la trasformazione della conca dell’alpeggio del Breuil. Dal 1935 vengono costruiti i primi edifici moderni, la funivia Breuil-Plan Maison e il primo impianto di risalita. Cereghini e Albertini progettano numerosi edifici a Cervinia, come l’Albergo del Sole (193536) a cui Mollino farà riferimento per la sua Casa del Sole (1947-55). Lo stesso Cereghini aveva portato avanti con Diego Brioschi uno Studio per il Piano Regolatore del Breuil, di poco precedente al Piano Regolatore della Conca del Breuil (1936-37) redatto da Ludovico Barbiano di Belgiojoso e Piero Bottoni, parte del Piano Regolatore della Valle d’Aosta voluto da Adriano Olivetti. Il piano di Cereghini risale al 1935 e rappresenta un tentativo urbanistico per una nuova organizzazione turistica e sportiva della conca alpina, ma secondo Belgiojoso e Bottoni, il piano non si preoccupa di porre abbastanza vincoli per la tutela del paesaggio e per ciò che riguarda il volume del costruito, destinando inoltre un’area troppo ristretta all’edificazione degli alberghi. Il piano del 1936-37 prevedeva infatti la completa definizione delle zone di rispetto del paesaggio, il tracciamento definitivo delle nuove strade, l’ampliamento del centro alberghiero, la definizione planimetrica - volumetrica e la destinazione delle nuove costruzioni. Più tardi, nel periodo compreso, tra il 1954 e il 1961 saranno Mollino, Binel, Graffi e Campo ad occuparsi della redazione del Piano Regolatore di BreuilCervinia e Valtournenche. Ma alla fine Mollino rinuncerà all’incarico, nella lettera al dott. Fabiano Savioz - Assessore del Turismo, Antichità


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e Belle Arti della Regione autonoma della Valle d’Aosta, riassume in tre ragioni principali l’impossibilità di arrivare ad una redazione definitiva: [- Le continue richieste del Comune di varianti al piano già risolto, discusso e concordato, e ciò per ragioni indipendenti da interessi collettivi. – L’invito a studiare soluzioni letteralmente pericolose in relazione alle delicatissime condizione della zona. – Il continuo perpetrarsi dell’anarchia edilizia a favore di interessi privati, anarchia che ha causato l’impossibilità di realizzazione del piano da noi studiato e ancora la necessità di una completa rielaborazione non solo dello studio definitivo da noi già eseguito, ma di ogni preliminare studio di aggiornamento.]13 Negli anni ’50 si sono manifestate tendenze diverse in materia di nuova architettura in montagna: se da un lato la logica del vendere (e quindi costruire) genera un’urbanizzazione sfrenata, dall’altro si afferma l’opera di un gruppo abbastanza consistenze di architetti, caratterizzata da una capacità compositiva e da un rigore costruttivo straordinari. Il rapporto che essi instaurano con la montagna va oltre al semplice legame che lega il professionista all’oggetto del suo incarico: questi architetti [appartengono ad una categoria molto singolare, quella dell’utente della montagna in senso lato. L’evidente relazione tra l’incarico professionale e l’inserimento in un certo tipo di società spiega la profonda conoscenza dei temi affidati ai singoli architetti.]14 L’esempio più eloquente di questo è Carlo Mollino: per lui il lavoro in montagna è la naturale e logica conseguenza di una passione per quel contesto con cui stabilisce un rapporto ‘da utente’ molto particolare. Nel 1951 pubblica Introduzione al discesismo, un manuale tecnico sul discesismo sciistico, di cui è maestro, su cui si legge: […tecnica è un complesso di norme su base scientifica (meccanico-fisica, logica, ecc.) onde praticare col massimo rendimento un’arte, un mestiere, una indagine conoscitiva o alcunché di pratico…], una brano che ‘suona’ come una dichiarazione sull’architettura, come sottolinea Bolzoni. 13

C.Mollino, Torino 18 Febbraio 1961. Progetti diversi, Archivio Mollino – Politecnico di Torino L.Bolzoni Architettura moderna nelle Alpi italiane, Quaderni di Cultura Alpina, Priuli &Verlucca Editori, Pavone Canavese (Torino) 2000

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[C.Mollino Introduzione al discesismo, 1951]


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Dal 1952 al 1956 si tengono a Bardonecchia i convegni dell’Istituto di Architettura Montana, un’associazione che promuove l’architettura montana più pura attraverso lo studio del linguaggio espressivo legato alla tradizione, organizzando riunioni in cui, oltre alle discussioni, si viveva in prima persona il contesto montano, anche attraverso l’attività dello sci. L’intento di questa associazione, che nel corso degli incontri approfondisce numerosi temi specifici in materia di costruzioni montane, è chiarito da questa dichiarazione di Albini: [Non credo che l’Istituto di Architettura Montana possa redigere dei regolamenti, ma piuttosto discutere i problemi, specialmente problemi generali; e cercare di interessare un cerchio di pubblico più vasto possibile, in modo da sviluppare un’opinione pubblica su questi argomenti, (l’opinione pubblica, quando ha possibilità di partecipare su un piano culturalmente elevato, è la migliore difesa) di far sì che le persone, che per carica o per professione debbono occuparsi di questi problemi, ne sentano nel giusto senso la responsabilità.]15 I professionisti impegnati in montagna sono gli stessi progettisti che operano nel diverso ambito della città. La riflessione sul rapporto tra architettura moderna e contesto rappresenta il luogo di studio e sperimentazione che associa l’esperienze costruttive, tecniche e sociali dell’ambiente urbano e di quello montano. A parte in qualche caso, in cui il progetto trae la sua identità dalla ripresa di una tipologia tradizionale, non si prescinde da un riferimento alla città: il nuovo edificio viene percepito come una ‘porzione’ di città anche dal committente che chiede al progettista una ‘seconda casa’ per trascorrere le vacanze. Un caso eloquente di quando detto è l’uso di una tipologia, come quella del condominio, che dà vita ad una modalità abitativa tipicamente urbana. Allo stesso tempo l’architetto impiega le proprie conoscenze tecniche per realizzare le soluzioni costruttive più adatte al contesto alpino e inserisce nel suo progetto riflessioni ed elementi già 15 F.Albini ‘Intervento al IV Convegno di Architettura Montana’, in Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e Architetti in Torino, Marzo 1955


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collaudati nelle costruzioni del luogo. Questo atteggiamento da parte di alcuni progettisti viene così riassunto da Bolzoni: [I temi dell’architettura montana vengono affrontati dagli autori con la lucida consapevolezza che le problematiche legate alla nuova edilizia alpina non si possono, e non si devono, risolvere né con la mimesi strutturale né con la citazione forzata dei linguaggi vernacolari; seppur con declinazioni proprie degli autori e sempre compressa in ambiti temporali relativi al periodo di appartenenza, ogni opera rivela la conoscenza dei temi progettuali, il rispetto delle norme e degli ambienti pre-esistenti, ma soprattutto la personale elaborazione da parte del progettista del proprio credo architettonico, per poterlo correttamente inserire nell’ambito montano, senza però stravolgere le proprie e soggettive convinzioni tecniche ed architettoniche, cresciute negli anni con gli edifici realizzati in città.]16 Un ulteriore passaggio da sottolineare è l’attenzione usata dai progettisti nei confronti degli ambienti interni. Questo ‘sguardo integrale’ costituisce un apporto fondamentale al progetto moderno in montagna, poiché la concezione dell’edificio non si arresta al livello generale dell’organismo edilizio, e proprio nei particolari degli spazi interni si rivelano le scelte personali degli architetti, la loro soggettiva idea di ambiente. Nei progetti montani il poco spazio disponibile costringe i progettisti a inventare soluzioni molto studiate, che sfruttino nel migliore dei modi le aree a disposizione. Inevitabilmente il progetto degli interni entra in rapporto con l’ambiente esterno che circonda l’edificio. La relazione con il paesaggio naturale diventa quasi ineludibile: l’interno può diventare un punto di osservazione privilegiato sul ‘fuori’, e allo stesso tempo non vengono trascurati gli aspetti tecnici e funzionali (per esempio, si vogliono sfruttare al meglio gli effetti dell’irraggiamento solare). Anche per ciò che riguarda la progettazione degli arredi è riscontrabile il dialogo con la tradizione: alcune tipologie sono rielaborate, certi materiali e metodi costruttivi vengono recuperati. 16 L.Bolzoni Architettura moderna nelle Alpi italiane, Quaderni di Cultura Alpina, Priuli &Verlucca Editori, Pavone Canavese (Torino) 2000


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in Costruire in montagna. Architettura e storia Edizioni del Milione, Milano 1956

M . C er e ghi n i C a r a t t e r i d e l l e a b i t a z i o n i a l p i n e a t t u a l i , 19 5 6

[La casa di montagna la preferiamo armonizzata col paesaggio, quasi mimetizzata, connaturata con esso. E più si confonde coi tronchi vivi dei larici e degli abeti, più è intonata al colore delle rocce circostanti, più essa acquista quel senso di intimità e di preziosa modestia che la rendono cara a chi cerca rifugio sui monti. La costruzione, mano a mano s’innalza e viene a fare parte del paesaggio, prende un ruolo attivo che deve far meditare l’architetto. (…) Il montanaro costruisce la sua casa con una tenacia e un amore che commuovono: egli sa che iniziando i lavori inizia una lotta faticosa con gli elementi negativi della natura; la sua vittoria è frutto di una grande passione e di mutuo rispetto delle tradizioni. (…) si attiene alla tradizione, e se gli pare di poter applicare qualche novità lo fa soltanto dopo aver constatato che ne valga veramente la pena. Il montanaro non è uno sportivo che arrischia volentieri. Scuote la testa quando arriviamo noi con le novità…La bellezza di una casa è per il montanaro strettamente collegata al concetto di tradizione intesa come continuità di certe norme di impiego dei sassi, delle malte, del legno. (…) volendo fare le cose per bene non dobbiamo disprezzare le tradizioni locali. In esse troveremo, se sapremo scrutarle, tanti sani principi, e apprenderemo lezioni durature. Andiamo su ad aprire grandi finestrate, ad impiantare spaziose terrazze, a collocare camini e termosifoni, ma prima sentiamo un po’ dai montanari come ci si debba comportare col vento, col clima locale e coi materiali che abbiamo a portata di mano. Solitamente dobbiamo soddisfare oltre che la necessità di persone che vivono perennemente nell’ambiente alpino, anche quelle di gente che viene in montagna solamente d’estate o d’inverno e che è abituata al comfort delle case cittadine: dobbiamo fare in modo che si possa vivere senza eccessiva nostalgia di quegli elementi comodi e risorse a cui la gente civile è ormai legata da tempo.]



3. C a rlo

Mo llin o (19 0 5 -197 3 )

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[Carlo Mollino alla presentazione del progetto del Teatro Regio]


3.1 Lo studente e il ‘figlio d’arte’ [Carlo Mollino: personaggio diabolico. Quando parla escono dalla sua bocca lame Gillette, rasoi, scimitarre, pezzi di vetro, giardini incantati e fiori mostruosi dai colori mai visti. Dice di esser nato a Torino, ma si sussurra che sia saraceno fino al midollo. La sua vita è un alternarsi di torbida incubazione e di feroce e implacabile azione. (…) sicuro del fatto suo, quando si imbarca in qualche avventura, anche se disperata, ama condurla a fondo con lealtà e senza indecisione. Quando vuole qualcosa la ottiene a qualunque costo (…). In architettura è un “puro” e professa una estetica fatta di equilibri magici e di rapporti commoventi. Il cliente muore e l’opera rimane, rimane nei secoli, disse un giorno. Noi temiamo che dovrà passare la sua vita a uccidere clienti. Dicono che con l’architettura farà i milioni come li avrebbe fatti facendo il pirata, ma noi non ci stupiremmo di vederlo un giorno o l’altro finire in un circo equestre a dar spettacolo di sbarra e trapezio.]17 Questo è il ritratto che fanno di Carlo Mollino i suoi compagni di studi. Già da queste righe appare come un personaggio difficilmente decifrabile, che sfugge alle interpretazioni. Figlio unico di un padre ingegnere, da cui eredita la passione per la montagna, nasce a Torino nel 1905. [Torino è il primo laboratorio dell’architettura italiana ‘moderna’, in cui si confrontano coloro che si interessano ‘privatamente’ di architettura, siano essi pittori, scultori, teorici o dilettanti, e coloro che ricercano una specifica professionalità.]18 Eugenio Mollino contribuisce attraverso il lavoro del suo studio professionale a questo ‘laboratorio’: qui il figlio porta a termine diverse esperienze di collaborazione, già dai tempi dell’università. Formazione accademica e pratica nel campo lavorativo si intrecciano fin dall’inizio nella vita del giovane Mollino, 17 18

“Noi laureandi”, Veglia di architetti, 8 aprile IX, Fedetto, Torino 1931 G.Ciucci Gli architetti e il fascismo. Architettura e città 1922-1944, Einaudi, Torino 1989


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[Carlo Mollino simula una discesa all’interno del suo studio]


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che dopo l’iscrizione al Regio Politecnico di Torino, passa alla Facoltà di Architettura dove si laurea nel 1931. La scuola torinese è improntata a un volontà di rinnovamento, portata avanti da alcuni professori tra cui Mario Ceradini, che promuove l’abbandono delle tradizioni stilistiche e un’apertura all’architettura contemporanea moderna. Nel corso degli studi Mollino si mette a confronto con temi differenti, sono molto significative le tavole degli ex-tempore universitari poiché dimostrano già un approccio molto personale al progetto, frutto di una sempre più cosciente integrazione di linguaggi diversi ed esigenze funzionali-spaziali. Attraverso i corsi accademici è inoltre invitato a riflettere sui temi del regionalismo, dell’architettura spontanea e vernacolare. Attorno al 1930, esegue un vero e proprio ‘reportage’ sull’architettura valdostana, una rassegna di appunti grafici su architetture in legno, oggetti d’uso quotidiano, elementi d’arredo e motivi decorativi. Mollino registra le soluzioni meccaniche e tecnologiche, i serramenti, i nodi strutturali e le distribuzioni spaziali, tentando di coglierne la intrinseca valenza non solo funzionale ma anche estetica. Anche la discussione della tesi di laurea dimostra l’adesione del futuro architetto alla tendenza torinese di arricchire il razionalismo con le soluzioni plastiche del secondo futurismo: il progetto prevede la trasformazione di un intero isolato a Torino, tra via Palazzo di Città e via Porta Palatina e rappresenta il banco di prova per l’inserimento all’interno del contesto della città storica consolidata, del repertorio figurativo funzionalista, di cui Mollino vuole dimostrare l’adeguatezza. Nei primi anni dopo il conseguimento della laurea, è fondamentale il lavoro svolto nello studio del padre Eugenio poiché nelle opere svolte da Mollino in maniera indipendente negli anni successivi rimane leggibile l’insegnamento paterno: l’interesse costante per l’innovazione tecnologica, l’affidabilità tecnica e la coerenza nel


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rapporto tra composizione e impianto strutturale, l’attenzione per il disegno dei dettagli di ogni parte del progetto. Carlo riesce pian piano a ritagliarsi uno spazio professionale specifico, quasi di nicchia, con una committenza molto meno numerosa di quella paterna, ma anche meno convenzionale nel gusto. Il primo lavoro portato a termine in autonomia rispetto allo studio del padre è la sede della Federazione fascista degli Agricoltori a Cuneo (1933-34), in cui è notevole la cura nel definire i minimi dettagli coerentemente all’impostazione formale complessiva. Altro passo fondamentale verso una ricerca indipendente dai canoni della nuova architettura è costituito dagli studi per una Chiesa a Passignano sul Trasimeno. La rigorosa disciplina professionale dialoga con l’innovazione attraverso il disegno dell’elemento strutturale convesso della copertura, attraverso travi reticolari a doppia curvatura. Emancipandosi quindi da un linguaggio condiviso, tradizionale o moderno, il percorso di Mollino diventa espressione individuale, in cui i confini di una forma soggettiva sono segnati dal dover ricorrere ad una tecnica oggettiva.

[Carlo Mollino con il padre Eugenio]


3.2 1942-43: la ‘casa ideale’ Un’ulteriore occasione in cui Mollino porta avanti la sua individuale e autonoma posizione sull’architettura risale al 1942. La rivista Domus dà inizio alla pubblicazione (tra l’Agosto del 1942 e il Maggio del 1943) di una serie di progetti sul tema ‘la casa e l’ideale’, un tema che desta due approcci contrastanti: da una parte la pura evasione dalla tormentata realtà del presente, dall’altra il ritorno all’elaborazione del problema dal punto di vista che già era stato del razionalismo italiano. La proposta rivolta ad alcuni architetti consiste chiaramente nel [raccontare (…) con intima confidenza, l’ideale progetto di una loro casa di sogno (…) Ad uno strano momento d’ozio sono stati invitati questi occupati professionisti, a disegnar e calcolare mura, pareti, soffitti, drammi di forme opposte a una pur amata natura, a disegnar l’impossibile, a spingere, così come dovesse essere attuata, la visione al punto dove, appena vista, ne nasce la nostalgia, come di una cosa già perduta, irrimediabilmente.]19 La riflessione proposta da Domus (alla cui direzione Melchiorre Bega, Massimo Bontempelli e Giuseppe Pagano si sono sostituiti a Gio Ponti) è completamente distaccata dal dramma che sta coinvolgendo l’Italia e l’Europa, e rappresenta il definitivo tentativo di revisione del rigore funzionalista e la volontà di rottura dai dettami puramente razionalisti. Al ‘tentativo’ fin qui descritto è sotteso il richiamo ad un’architettura che superi il preponderante legame con la tecnica, e la condanna alla sempre più decisa compromissione dei progettisti con la politica, già ben visibile con il netto passaggio al monumentalismo delle grandi opere di Stato, testimoniato dalla Triennale del 1942. Tra gli architetti coinvolti (BBPR, Zanuso, Cattaneo…) solo pochi non prevedono una collocazione extraurbana, tra quei pochi spicca Mollino con la sua “casa in collina”, il cui relativo isolamento la rende una sorta di ‘osservatorio’ sulla città, 19

Nota d’apertura ai progetti sulla ‘casa ideale’, in Domus n. 176, Agosto 1942


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sottolineando il carattere urbano dell’abitazione. L’evasione di Mollino non coincide, a differenza di quella dei suoi colleghi, ad una nostalgia per una natura incontaminata: [non desidero affatto cambiare l’ambiente nel quale vivo e lavoro (…) L’ambiente è il più neutro che io possa desiderare: non mi disturba, non mi eccita a sbagli, ma mi lascia libero di essere solo con la mia fantasia, chiamiamola il mio paesaggio interiore.]20 La ‘casa sulla collina’ è in realtà una torre composta di otto piani, ognuno occupato da una diversa funzione, dai piani bassi a quelli alti si passa dagli spazi di servizio a quelli dedicati alla meditazione solitaria, alla pratica delle arti, si arriva anche alla camera oscura attraverso un percorso quasi ‘simbolico’ dentro queste singole stanze sovrapposte. Il movimento è essenziale nell’idea abitativa di Mollino, forse ciò deriva dalla sua passione per la velocità, come nella ‘casa-capriata’ da cui si scende solo con gli sci o nella ‘casa-hangar’ dove non si parcheggia l’automobile ma l’aereo. L’evasione di Mollino non prevede alcun rimpianto per l’epoca pre-moderna, non vi è ombra di ripudio per la tecnica, che anzi viene sottolineata come necessaria: i diversi piani sono collegati tra loro da un ascensore, è inoltre possibile accedere alla casa con l’automobile, entrando dal garage posto sotto il livello della strada. Un anno più tardi (1944) Gio Ponti, ora alla guida della rivista Stile, sollecita la pubblicazione di un altro progetto di Mollino, la ‘casa sull’altura’ accompagnata da una lettera-confessione dell’architetto torinese all’amico Ponti, in cui si legge: [tralasciando il pretesto della casa sull’altura, vorrei parlarti del mio sentimento del nostro tempo che non è già più quello pur fecondo e motore di opere bellissime e concrete, che si può riassumere nella parola ‘funzionale’ o in tante altre sorte parallele. (…) Mito ben valido, quello tecnicista, a darci opere d’arte (e le abbiamo bellissime) ma ormai insufficiente e ben sfatato.]21 Mollino è preoccupato di sottolineare l’importanza di un ritorno alla fantasia dell’invenzione 20 21

C.Mollino “Lettera d’accompagnamento al progetto”, in Domus n. 185, Maggio 1943 C.Mollino “Disegno di una casa sull’altura”, in Stile n. 40, Aprile 1944


[C.Mollino Casa in collina Studio e biblioteca all’ultimo piano, 1942-43] a fianco [C.Mollino Casa in collina Vista prospettica dalla collina torinese, 1942-43]


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non intesa per ‘evasione’ (come era successo nella proposta lanciata da Domus), ma come necessità che viene prima di ogni giustificazione tipologica e funzionale. Questo nuovo modo di intendere potrebbe ricadere in un generalizzato eclettismo ma l’architetto mette in luce come proprio da quell’eclettismo, inteso come gusto individuale prima che collettivo, sono nate opere autentiche, che hanno preso vita [da quella rapidità e contemporaneità di informazione nel tempo e spazio, elasticità di reazione, possibilità di assimilazione non mitica delle più remote o attuali culture ed esperienze di sensibilità, opere che esprimono appunto l’individua realtà di questo volto comune che è il nostro mondo, il nostro gusto.]22 La fantasia è fare proprio ciò che è venuto prima e ciò che è contemporaneo, per questo motivo l’eclettismo può non diventare fine a sé stesso, poiché l’adesione ad una forma non si riduce per Mollino in puro canone estetico. L’ambiente in cui Mollino si trova ad operare è quasi esclusivamente quello torinese e piemontese, della cui tradizione più autentica si fa continuatore.

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C.Mollino “Disegno di una casa sull’altura”, in Stile n. 40, Aprile 1944


3.3 Architetture in montagna Mollino dimostra un particolare interesse per l’architettura rurale, e valdostana in particolare, già dall’inizio degli anni trenta. Prima di concludere gli studi porta a termine un rilievo della cultura edilizia e artigianale montana, raccogliendo in 40 tavole i disegni di abitazioni, stalle, strumenti di lavoro e oggetti quotidiani: un’indagine che il futuro architetto spinge fino al dettaglio costruttivo e ai metodi di costruzione e assemblaggio. L’interesse di Mollino per l’architettura tradizionale verrà trasmesso attraverso l’insegnamento e reso concreto tramite la fondazione dell’Istituto di Architettura Montana, in cui difenderà una posizione precisa contro ogni tentazione mimetica o folkloristica, come si legge nella sua relazione presentata a Bardonecchia, durante il III Convegno di Architettura Montana nel 1954. 23 Il lavoro di rilievo finalizzato alla stesura di un saggio sull’architettura valdostana, rimarrà una fonte costante d’ispirazione anche per la dimostrazione della logicità e della razionalità raggiunte dall’architettura spontanea. Altro riferimento fondamentale è costituito dalle realizzazioni di Welzenbacher, Baumann e Holzmeister in Austria, per i quali l’architettura rurale aveva costituito un pretesto per portare avanti principi atti ad aggiornare il dibattito sull’architettura ‘razionale’. L’architetto torinese risulta essere un innovatore anche se un legame forte lo lega alla tradizione. Lo spunto al progettare viene, in particolare, da condizioni legate al contesto in cui si trova ad operare: le condizioni climatiche estreme, i luoghi impervi, la spettacolarità del paesaggio, o anche le caratteristiche insolite dell’incarico. Nel progettare edifici affacciati su paesaggi montani molti elementi concorrono ad 23

C.Mollino, “Tabù e tradizione nella costruzione montana”, in Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e Architetti in Torino n. 4, Aprile 1954


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esaltare la proiezione degli spazi e delle viste verso l’esterno circostante, ad esempio i balconi a mensola o i volumi aggettanti. L’intento viene raggiunto, non solo attraverso la generale struttura statico-costruttiva e la complessiva immagine dell’edificio, ma anche grazie allo studio dei percorsi interni che spesso anticipano l’affacciarsi sul paesaggio, permettendo una fruizione dell’esterno ‘a sorpresa’.

[C.Mollino Schizzi per una villa in montagna]


[C.Mollino, Rilievo Tavola 9, 1930 circa]


C . M ol l i n o Ta b ù e t r a d i z i o n e n e l l a c o s t r u z i o n e m o n t a n a , 195 4

[Ancora oggi volontà e disposizioni più o meno apertamente auspicano la costruzione montana informata al folklore e al mimetismo nel paesaggio. Sono decisamente contrario a queste istanze nate con il gusto romantico in uno con quello sempre vivo dell’eclettismo. Volere un’architettura folkloristica vuol dire ripetere un modo che gli stessi costruttori di baite, gli stessi maestri artigiani che col legno e la pietra costruirono autentiche architetture, oggi non vorrebbero più accettare. A questo proposito non è affatto da approvare l’imposizione o l’invito a inserire elementi formalmente tradizionali per iniziativa di quegli enti o commissioni che sovraintendono o “supervisionano” le nuove costruzioni montane. Questo invito al folklore, pur nato con la lodevole intenzione di evitare il peggio, sfocalizza gli elementi vitali della costruzione e tronca proprio un processo storico-costruttivo che altro non è che quella tradizione che si vuole giustamente salvare. Tradizione è continuo e vivente fluire di nuove forme in dipendenza del divenire irripetibile di un rapporto tra causa ed effetto, è fiume armonioso e differente in ogni ansa e non acqua stagnante o ritorno. Oggi imitare forme e adombrare strutture di antiche costruzioni nate da possibilità materiali e particolari destinazioni, ora scomparse o mutate, equivale a costruire la scenografia di una realtà inesistente, uscire, anziché inserirsi, nella tradizione. Le nuove costruzioni montane debbono avere un’autonomia e una sincerità propria che tragga la sua ragion d’essere da una completa visione di un problema attuale del costruire in montagna. (…) Il problema non è affatto squisitamente particolare, ma bensì è parallelo a quello, stanco quanto ozioso, dell’inserimento delle nuove architetture in un complesso urbanistico più o meno famoso per le architetture “storiche” che lo compongono. Discuterlo significa ritornare a vecchie argomentazioni polemiche per poi concludere in paradosso, cioè che se le generazioni precedenti avessero sempre avuto il nostro falso rispetto per la tradizione non


vi sarebbe stato luogo per alcuna architettura all’infuori di quella iniziale dei cavernicoli. (…) Anche esaminando la situazione al profilo puramente tecnicoeconomico è immediatamente constatabile la difficoltà, se non l’impossibilità, di usare attualmente materiali del luogo e ripetere antiche strutture. (…) Infine è interessante esaminare particolarmente la pretesa di mimetizzazione della costruzione montana con il paesaggio, problema appunto oggetto dell’attuale convegno. Pare improvvisamente il paesaggio montano, luogo della nostra errante contemplazione, o meglio rapido passaggio, sia diventato tabù, luogo sacro e intoccabile come non mai nei tempi passati. La nostra natura deve apparirci come era prima della creazione dell’uomo, deve scomparire il più possibile la traccia della nostra presenza. (…) La negazione a priori dell’ostensione di tutto quanto è espressione del nostro mondo attuale, ritenere a priori che tutto quanto oggi costruiamo sia causa di deturpazione del paesaggio è altra pretesa romantica che tristemente denuncia che consideriamo il nostro quotidiano come condanna e insieme il nostro desiderio permanente di evasione verso tempi e simulacri di forme di vita che consideriamo perdute: in una parola, la negazione di noi stessi. (…) Lo “stile” dell’architettura montana non si può predeterminare attraverso una arbitraria imposizione dettata da un’abitudine mentale letteraria e astratta insieme. A ogni problema costruttivo, in funzione dell’ubicazione e della destinazione, corrisponde una soluzione che si deve risolvere in architettura autentica e che, come tale, automaticamente si inserisce in bellezza nel paesaggio. (…)]

Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e Architetti in Torino


[C.Mollino, Rilievo Tavola 26, 1930 circa]



4. St a zi on e

del l a s l i tto v i a L a g o N e r o , S a u z e d ’O u lx 19 4 6 -47

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[C.Mollino Pilastro d’appoggio e scala d’accesso alla terrazza, 1946-47]


4.1 Il progetto Passo ora ad analizzare alcune delle più importanti opere molliniane, tutte situate nel contesto alpino: l’esempio principale su cui si sofferma la mia riflessione è quello della ‘Stazione della slittovia al Lago Nero’, un’opera che recentemente è stata recuperata, permettendo quindi lo studio fin nei dettagli costruttivi di quello che era il progetto dell’architetto e che risulta particolarmente significativa perché qui, più che altrove, Mollino prende ispirazione direttamente dal luogo e dalla sua personale passione per la montagna e il discesismo, superando qualsiasi possibile preoccupazione di coerenza in senso ‘letterale’ ai principi del Movimento Moderno; [il modo migliore di essere autenticamente internazionali è quello di essere autenticamente locali], diceva Mollino. La progettazione e la realizzazione di questo edificio si collocano in un momento molto particolare della sua attività: l’architetto ha portato a compimento, alla fine degli anni trenta, alcune opere di successo come l’“Ippica”, “Casa Miller” e “Casa Devalle”, ed è tra il 1945 e il 1947 contemporaneamente impegnato in diversi progetti sia a Torino che nell’ambito montano, nella pubblicazione su Domus di altri progetti, nella realizzazione di scenografie con Italo Cremona, di diversi brevetti, e nella redazione di una serie di saggi sull’architettura, l’arte e la città. Sotto la guida dell’industriale e finanziere Piero Dusio, dal 1941 la Società Slittovie di Salice d’Ulzio (il nome di Sauze d’Oulx dal 1937 al 1945) porta avanti un ambizioso “Piano di valorizzazione turistica” della zona, che intende dare all’area di Sauze d’Oulx un sistema organico di mezzi di comunicazione turistici, che ha la Stazione della slittovia al Lago Nero come crocevia dei collegamenti realizzati dai


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nuovi impianti di risalita. Le autorizzazioni necessarie vengono inoltrate all’amministrazione pubblica, ma la situazione rimane ‘bloccata’ anche a causa dell’avvento della guerra. Qualche anno più tardi, nel 1945 un’altra Società, la CLOTES - Industrie Turistico Alberghiere, sempre di proprietà di Piero Dusio, commissiona a Mollino la Stazione della slittovia e una villa a Sauze d’Oulx, a cui l’architetto inizia a lavorare ancor prima dell’arrivo della lettera d’incarico. Mentre si procede quindi alla pianificazione per l’espansione edilizia della zona di Sauze d’Oulx, nel 1946 Mollino sviluppa alcuni progetti preliminari per la costruzione di un ‘bar solarium e albergo al Lago Nero’, dopo aver fatto eseguire un rilievo topografico accurato al geometra Barbier, che gli fornisce oltre al disegno delle curve di livello, un’analisi dei ‘venti dominanti e sottodominanti’ e le esatte posizioni della vecchia e della nuova stazione (20/40 metri a monte rispetto alla preesistente). Nella prima fase della progettazione Mollino concentra il suo interesse sulla parte funzionale dell’edificio, cioè sul locale dei macchinari dello ‘slittone’ e sul posto di comando del manovratore (messi in asse con la pista del curioso mezzo di risalita), da cui l’intero edificio prenderà forma. I primi disegni ‘geometrici’ sono già in scala 1:100 e rendono leggibili i punti fissi da cui poi Mollino si muove per le successive riflessioni, al pian terreno i macchinari per il traino dello ‘slittone’, al primo piano il posto del manovratore e sul lato opposto un terrazzo, che nelle prime ipotesi poggia su un terrapieno.


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Gli schizzi successivi danno indicazioni più dettagliate riguardo la disposizione spaziale delle diverse funzioni ospitate all’interno della stazione: a differenza della stazione esistente, intesa solamente come locale tecnico per le manovre dello ‘slittone’, l’edificio di Mollino vuole essere un momento di sosta per gli sciatori provenienti dalle piste circostanti, offrendo i servizi del bar e del ristorante. Mollino ha più volte visitato l’area accedendovi tramite la risalita dello ‘slittone’ e ha conosciuto il sito con lo ‘sguardo’ dello sciatore, un punto di vista che si riflette sul modo di progettare: [gli sciatori, sbarcati dallo slittone o provenienti dalle piste che circondano la stazione, possono attraversare il portico posto al piano terreno e accomodarsi nella terrazza accessibile indipendentemente con una scala esterna posta sul lato nord-est, o nel barristorante. In altri schizzi (…) la funzione della Stazione come un punto di sosta, fruibile da ogni lato in ‘drive-thru’ con gli sci, è ancora più chiara. (…) Mollino comincia a modellare infatti la terrazza e il marciapiede con forme inclinate e arrotondate rispetto all’ambiente rigorosamente squadrato della sala macchine, posto in asse con la pista della slittovia, che aveva condizionatola prima soluzione, seguendo invece le sinuose linee di flusso delle piste, tracciate dinamicamente con frecce direzionali (…), da cui la Stazione potrà essere vista dai punti più differenti (dall’alto, per chi arriva dal Triplex e scende lungo il ‘canalone’ che conduce alla Capanna Kind; dal basso, per chi arriva con la slittovia; dai due lati, infine per chi percorre la pista ‘29’.]24 La terrazza che ora l’architetto immagina ‘a sbalzo’ passa ad essere uno spazio sempre più ampio rispetto all’iniziale ballatoio d’accesso al bar. Lo sbalzo è risolto prima con un unico pilastro a fungo e poi con due, introducendo inoltre la vetrata, ripresa da alcuni progetti precedenti risalenti al 1937. Mentre viene formulata la definitiva soluzione planimetrica, l’architetto disegna i prospetti e la complessiva volumetria della costruzione, facendo già riferimento alle tecnologie da 24

G.Brino, Carlo Mollino. La Capanna Lago Nero, Idea Books, Milano 2005


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[C.Mollino Primi schizzi del pian terreno, con l’indicazione delle piste da sci attorno alla Stazione; Schizzo ‘multiplo’ della Stazione con viste dal lato dell’arrivo della Slittovia, della Capanna Kind e dal Triplex, 12.07.1946]


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utilizzare; dice Mollino scrivendo le note per le immagini inviate a Domus, da pubblicare nel numero 226 del 1948 [La struttura è una razionale combinazione degli elementi tradizionali della costruzione in legno massiccio e leggera, con quella del cemento armato], che viene pensata per la terrazza. Mollino prepara cinque varianti per il disegno dei prospetti, verificando quale sia la soluzione più soddisfacente rapportandosi al sito, a cantiere già avviato. Il metodo di lavoro prevede contemporaneamente lo sviluppo del progetto in studio e la costante verifica (circa una volta a [C.Mollino Progetto ‘municipale’, Prospetto Nord, Prospetto Sud, 16.06.1946]


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settimana) in cantiere: come era già successo per la sua formazione, teoria e pratica non appartengono a due momenti separati. Dopo aver consegnato un primo ‘progetto municipale’ nel giugno del 1946, Mollino rivede il tetto e la terrazza, continuando la sua ricerca. Sul lato ‘a valle’ la copertura diventa più tradizionale, acquistando la forma della tipica doppia falda, più tardi viene eliminata anche la falda inclinata verso l’alto del lato nord come testimoniano i disegni successivi, in cui è inoltre ripresa l’idea della ‘vetrata-parabrezza’. Tre settimane [C.Mollino Progetto ‘municipale’, Prospetto Est, Prospetto Ovest 16.06.1946]


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[C.Mollino Progetto ‘pre-esecutivo’, Prospetto Ovest con gronde a sbalzo e vetrata ‘parabrezza’, 09.07.1946; Prospetto Sud, 09.07.1946; variante del Prospetto Sud con pilastri ‘a fungo’, 22.07.1946]


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dopo questo ‘progetto municipale’ Mollino termina la stesura di una soluzione ‘esecutiva’ (i disegni, in scala 1:100 sono datati 9 luglio 1946), in cui riordina tutte le modifiche da lui pensate: il tetto è cambiato, la terrazza e la scala d’accesso sono ancora protette da un parapetto pieno in cemento armato e i pilastri sono formati da setti rastremati, ma la forma, ancora un po’ spigolosa non si discosta troppo da quella che sarà la versione definitiva. Nella stesura del progetto del 22 luglio compare invece la vetrata del solarium, elemento che rimanda molto al gusto moderno. L’idea della terrazza-solarium ‘in punta di piedi’, prende forma definitiva. Mollino la immagina come una specie di ‘lingua’, che esce dalla sala ristorante costituendo il suo naturale prolungamento. In un’altra serie accurata di disegni tutte le linee e tutti gli elementi principali del prospetto vengono verificati dal punto di vista delle proporzioni, tutte incentrate sull’inclinazione del terreno a valle della

[C.Mollino Prospetto Ovest con studio delle proporzioni basate sull’angolo di 18° e sul suo complementare, 22.07.1946]


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stazione di 18 gradi, e del suo angolo complementare. Sul sito vengono verificati i vani di passaggio degli impianti, mentre si realizza la struttura in cemento armato. Le tavole del progetto ‘esecutivo’ vengono redatte tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 1946 con disegni in scala 1:50 e dettagli costruttivi in scala 1:10 o rappresentati direttamente attraverso degli schizzi, che riguardano soprattutto la terrazza e la soluzione del parapetto e della relativa evacuazione dell’acqua dalla terrazza che sarà definitivamente risolta, in rapporto anche con la parte vetrata e con i suoi montanti metallici, con una ringhiera tubolare che segua la curvatura del perimetro della soletta a sbalzo, che viene quindi ulteriormente sottolineata. L’architetto elimina in corso d’opera il parapetto previsto in cemento armato sostituendolo con la ringhiera tubolare i cui montanti sono fissati alla soletta tramite staffe e bulloni passanti ai montanti stessi, che irrigidiscono comunque la soletta nel punto più critico dello sbalzo, ma con un notevole vantaggio estetico. Anche i pilastri a fungo assumono la forma definitiva snellendosi progressivamente e diventando più sinuosi. La modernità della terrazza si riallaccia alla tradizione con lo studio della pavimentazione ad ‘opus incertum’, realizzato con gli spezzoni delle lastre di pietra di Luserna, posati a secco su uno strato di sabbia, tecnica scelta per prevenire le conseguenze degli sbalzi di temperatura a cui la pavimentazione è sottoposta. Gli ‘spezzoni’ sono bloccati da un cordolo in pietra, formato da elementi sagomati secondo l’andamento del bordo della terrazza, sottolineato anche da due lunghe panchine lineari, che hanno per schienale la stessa ringhiera tubolare, che possono accogliere gli sciatori desiderosi di prendere il sole. Un lucernario in vetro-cemento interrompe la soletta del terrazzo nel punto di maggior spessore, con una soluzione simile a quella già prevista per l’edificio dell’ “Ippica”. La stesura della versione definitiva dell'edificio è accelerata dalle necessità ‘impiantistiche’, nel sottotetto, reso accessibile da una scala centrale dalla sala del ristorante, Mollino ipotizza di disporre delle a fianco [C.Mollino Schizzo della scala con il diagramma della distribuzione dei carichi e particolare dellscala del ‘Circolo dell’Ippica’; Disegno della scala d’accesso alla terrazza, con studio della connessione tra la ringhiera della scala e quella della terrazza]


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[C.Mollino Schizzi della copertura con studio della gronda; Dettaglio della gronda in legno di larice]


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camerette singole o doppie nel lato sud o nord dove ci sono finestre normali e un ampio dormitorio nella parte centrale, che prende luce dal lucernario posto al livello del colmo. Altri elementi su cui si concentra l’attenzione di Mollino sono i serramenti e la gronda, la cui versione definitiva sarà caratterizzata da un tronco in legno di larice si sezione semicircolare utilizzato come struttura autoportante, opportunamente scavato (riallacciandosi alla gronda del repertorio tradizionale che attinge dalle architetture alpine che ha avuto modo di conoscere in maniera approfondita) e rivestito nella parte interna da lamiera zincata. Il rivestimento della copertura viene realizzato con lose in pietra di Luserna (di lato circa 1m, e con spessore di 3-5 cm), con due caratteristici spigoli smussati, disposte a file regolari e fissate singolarmente con staffe di acciaio. Mollino insiste anche sulla realizzazione della scala di accesso alla terrazza: riprendendo una delle scale realizzate nell’”Ippica” (pensata con gradini di marmo imbullonati ad una bandella metallica continua), disegna i due correnti in legno, destinati a portare i gradini, sagomandoli in funzione del diagramma dei carichi. Studia inoltre la connessione della ringhiera con quella della terrazza riuscendo nel doppio intento di dare autonomia alle relative parti salvandone la continuità. Dice Brino riguardo al dettaglio costruttivo che interessa questa scala: [L’idea di connettere in modo strutturalmente collaborante il legno con il ferro e, in questo caso, con il cemento armato, risolta in modo così geniale dal punto di vista costruttivo e formale, riassume meglio di qualsiasi manifesto la concezione ‘moderna’ dell’architettura di Mollino.]25 Quando ormai la costruzione è terminata (fine 1947), l’architetto studia i modelli di diversi mobili ma, nonostante il carattere esecutivo dei disegni, gli arredi non vengono realizzati. L’inaugurazione avviene nel 1947, ma lo sviluppo repentino della zona sottostante ne determina l’abbandono intorno al 1963, quando lo slittone viene messo fuori servizio per ragioni di sicurezza. 25

G.Brino, Carlo Mollino. La Capanna Lago Nero, Idea Books, Milano 2005


4.2 Il cantiere La particolare posizione del sito, a 2400 metri di quota, non lo rende accessibile per mezzo di strade. Questa particolare condizione influenza fortemente la progettazione e il cantiere stesso. Il trasporto dei materiali può essere effettuato solo attraverso una teleferica che partendo da Clotès, supera Sauze d’Oulx e percorre la stessa linea della slittovia. Esclusa la struttura in cemento armato, i restanti elementi costruttivi principali possono essere fabbricati prima a Torino e poi trasportati via teleferica e montati ‘a secco’. Mollino concepisce una costruzione ‘per componenti’. I lavori del cantiere iniziano nel luglio del1946 e continuano fino a metà agosto dell’anno successivo, con l’interruzione della stagione invernale. La slittovia infatti è già funzionante e viene utilizzata dagli sciatori, anche se la Stazione non è ancora completamente terminata. La fase di progettazione ‘esecutiva’ avviene quindi a cantiere avviato, attraverso i disegni rimasti si capisce come Mollino modifichi continuamente il progetto in corso d’opera fino a raggiungere la forma definitiva. L’architetto verifica personalmente le soluzioni pensate in studio, visitando il cantiere molto frequentemente, ed è quindi in grado di rapportare il suo progettare con i problemi riscontrati in cantiere. Un esempio che restituisce in maniera significativa questa interazione tra pratica e teoria è quello dei tiranti e puntoni metallici inseriti nel prospetto ‘a valle’, come ulteriore sostegno allo sbalzo della copertura, in aiuto al puntone inclinato in legno scanalato. L’inserimento di questi elementi costituisce un rimedio al collassamento che coinvolge durante la costruzione la parte a sbalzo del ‘rescard’ in legno. Lo sbalzo, che sugli altri lati dell’edificio è affidato ad elementi in cemento armato, qui è sorretto da una serie di travetti in legno, incastrati negli spigoli ‘a mezzo spessore’ (secondo la tradizionale tecnica del blockbau) con


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[C.Mollino La Stazione dal lato dell’arrivo dello ‘slittone’, 1947]


[C.Mollino Prospetto ‘a valle’ con i moderni tenditori metallici]


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quelli delle pareti est ed ovest. Questi travetti e l’ulteriore mensola in mezzeria, che sostiene l’enorme puntone in legno inserito come sostegno dell’estremità del colmo a sbalzo, non sono quindi sufficienti a reggere il peso di una copertura come questa, che essendo anche poco inclinata deve sopportare più a lungo il carico dovuto alla neve. La pendenza prevista per le falde della copertura è, come è già stato accennato, di 18 gradi. Mollino all’amico Gio Ponti nel 1944 scrive riguardo ai tetti nelle case di montagna: [O si porta la neve (sistema delle baite) per tutto l’inverno, collaborazione di questa a mantenere alta coibenza, oppure lo si fa in lamiera e perciò la neve si scarica ad ogni nevicata], per la Stazione l’architetto aveva scelto la prima soluzione. Per le parti ad intonaco viene scelta una versione torinese del ‘Terranova’, più resistente e costituito da cemento bianco, calce aerea, polvere di marmo e quarzo. [Come puoi constatare è venuta proprio come avevo voluto: volante sulla radura] così Mollino scrive ad un’amica, Ada Minola, per cui ha completato da poco i lavori di un’abitazione a Torino, nell’agosto del 1947. Contemporaneamente però l’interruzione dei finanziamenti da parte di Piero Dusio non permette a Mollino di vedere completata la sua opera anche negli impianti e nelle finiture interne che aveva previsto. Dal 1948 viene aperto un bar ma l’edificio rimane comunque privo di impianti di riscaldamento e idrosanitario. Le scale di collegamento del ristorante al sottotetto, e quelle tra il ristorante e lo scantinato non vengono mai realizzate nonostante siano stati predisposti i vani di passaggio. L’acceso al bar avviene tramite la scala della terrazza e il sottotetto diventa un deposito di servizio e l’alloggio provvisorio del gestore, che probabilmente vi accedeva tramite una semplice scala a pioli.


4.3 Una lettura critica I componenti tradizionali dell’architettura alpina vengono trasfigurati in una nuova cifra attraverso l’inserimento di tecnologie moderne. La capanna viene realizzata in legno ad incastro secondo la tradizione montana ma è sostenuta da un basamento e da delle travi in cemento armato. I parapetti della terrazza, la quinta in vetro temperato, che offre riparo dal vento e i tenditori metallici del prospetto ‘a valle’ sono elementi da considerare ‘moderni’. L’ampio terrazzo in cemento a spessore crescente emerge dalla massa scura del legno con slancio dinamico, conferendo alla costruzione un plasticismo totalmente libero. La forma curvilinea del terrazzo a sbalzo, appoggiato al terreno da quei due coni modellati, è messa in antitesi rispetto alle travi squadrate del basamento. Dal linguaggio razionalista viene inoltre ripresa la finestra a nastro, rimessa però in contrasto con le finestre più piccole del sottotetto, destinato all’alloggio. Attraverso uno spaccato prospettico del montaggio strutturale della stazione Mollino rivela la sua rivisitazione moderna del tradizionale Blockbau di legno: il primo piano è interamente attraversato da una struttura a portico con travi in aggetto, il piano del tetto è realizzato con una serie di capriate in calcestruzzo a geometria variabile che realizzano la complessa geometria delle falde, le pareti del perimetro sono ridotte a semplici tamponamenti, senza una funzione statica. [Uno degli edifici più tridimensionali dell’architettura moderna italiana. Non soltanto è difficile coglierlo di fronte, ma la sua volumetria – così lontana dalla bidimensionalità della pittura o del disegno – impone di girargli intorno come se si trattasse di una scultura. Questa evoluzione antirinascimentale, questo ripudio della ‘facciata’ unica perfetta alla ricerca di un’unità di armonia e di bellezza che si estende a tutte le fronti dell’edificio,


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[C.Mollino Schema di montaggio dell’edificio ‘per componenti’]


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[“Station de ski au Lac Noir”, in L’Architecture d’Aujourd hui n. 21, Dicembre 1948]


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è particolarmente confortante in un paese dove esiste troppa architettura di facciata. Mollino ha concepito questo rifugio in tre dimensioni, l’ha realizzato con elementi tradizionali e ha ottenuto un superbo risultato plastico]26 dice di quest’opera Kidder-Smith nel 1950. Come già ho sottolineato, la soluzione in copertura, dove le due falde a capanna ad andamento tradizionale incrociano la singola falda a ‘salire’, rende differente la vista dell’edificio da ognuno dei suoi lati. Con il prospetto rivolto ‘a valle’ Mollino persegue un inserimento mimetico nel paesaggio, solo il divaricamento accentuato verso l’alto e i tenditori metallici del tetto tradiscono l’immagine del Blockbau tradizionale. L’aspetto del fronte ‘a monte’ è invece decisamente ‘moderno’: la terrazza dalla forma sinuosa, si appoggia ai solidi appoggi ‘a fungo’, la parete vetrata è incorniciata da due soli pilastri. Sono i prospetti laterali con l’elaborato gioco delle tre falde del tetto a risolvere l’accostamento di questi due ‘estremi’: [il ‘moderno’ s’insinua a cuneo tra lo spiovente rovescio del Blockbau, che a sua volta è attraversato da una ‘moderna’ apertura a nastro e poggia su ‘moderne’ mensole in calcestruzzo armato, rastremate verso le estremità. La stazione al Lago Nero è soprattutto la concretizzazione più elaborata e riuscita dell’uso sapiente che Mollino fa della rielaborazione di linguaggi appartenenti a tradizioni diverse, quasi un collage iconografico.]27 Anche in Movimento Comunità del Novembre del 1948 quest’opera è letta come [‘trasfigurazione’ della baita intesa non in senso folkloristico ma in sintesi con il senso dell’architettura di oggi.] Il complesso lavoro di Mollino non è quindi un inutile gioco espressivo ma è frutto di un ‘sovvertimento’ molto sapiente dei codici esistenti, quello moderno e quello della tradizione.

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G.E.Kidder Smith Guida all’architettura moderna in Europa, Comunità Edizioni, Milano 1964 C.Chiorino, B.Reichlin “Dal piroscafo sulla neve alla grande disillusione”, in S.Pace (a cura di) Carlo Mollino architetto 1905-1973 Costruire le modernità, Electa, Milano 2006 27


4.4 Altre opere significative Progetto centro sportivo in verticale “Quota 2006” Cervinia (Aosta) 1945-47 [Questa costruzione è un “villaggio elastico” in acciaio, in opposizione al concetto folkloristico del villaggio in estensione orizzontale. Dato che la tecnica moderna consente queste costruzioni e l’economia (…) l’accompagna, questa è la via giusta, e l’architettura, che ne deriva è la forma logica di una sostanza.]28 Nel 1945 mette mano al progetto per il Centro sportivo verticale a quota 2600. L’edificio, che si trova a ridosso di un pendio scosceso, è sormontato dalla ‘capanna’ dello Sci Club e dalla scuola di sci con bar e terrazza, intesa come la ‘piazzetta del villaggio’ che una passerella traliccio mette in collegamento diretto con i campi da sci. Il passaggio attraverso il Centro sportivo permette una sorta di iniziazione: [è un grande filtro in cui si entra ancora cittadini e si esce sciatori], commenta Mollino. La forma complessiva è data dall’accostamento di parti distinte, il cui componente principale è il blocco abitazioni, con alloggi in duplex e di 1-2-3 camere, su otto piani. Diverse soluzioni in pianta diventano possibili grazie alla struttura modulare che permette di avere tramezzi non fissi. Il livello interrato e i primi due piani sono occupati da negozi di prima necessità, dai servizi comuni (lavanderia con stireria, locali di manutenzione e impianti) e dal ristorante.

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“Una costruzione di oggi a Cervinia che deve entusiasmare tutti gli sciatori; Centro sportivo in verticale 'Quota 2600'; Stazione della slittovia al Lago Nero”, in Domus n. 226, 1948


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[C.Mollino Centro sportivo in verticale ‘Quota 2600’ 1945]


Casa del Sole per la Società delle Funivie del Cervino Cervinia (Aosta) 1947-55 L’edificio, a pochi metri dall’Ostello Pirovano di Franco Albini, nasce come albergo-rifugio per gli sciatori, a pochi passi dagli impianti che portano alle piste del vicino ghiacciaio. Il prospetto principale è caratterizzato dalla presenza degli elementi strutturali che collegano obliquamente i balconi esterni. La dimensione dei balconi aumenta progressivamente verso l’alto, grazie al gioco degli incastri e degli aggetti fra i puntoni strutturali e i balconi stessi, impedendo la caduta della neve ai livelli sottostanti. Il retro dell’edificio è rivestito in legno, con finestre sottili senza davanzali, mentre i due lati corti sono costruiti in pietra. La tipologia a cui fa riferimento Mollino è quella verticale propria del condominio cittadino, la Casa del Sole dimostra infatti come si possa costruire nell’ambiente alpino senza intaccare il contesto sia naturale che costruito, e senza scadere inoltre nel ‘mimetismo’. Sulla copertura una villetta praticamente autonoma, quasi un rifugio riparato che lo stesso Mollino abiterà.

[C.Mollino Schizzo per gli interni della Casa del Sole]


[La Casa del Sole, Fotografia di O.Barbieri]


Stazione di arrivo della funivia al FŜrggen per la Cervino Spa Breuil-Cervinia (Aosta) 1950-53 Il progetto, che con uno solo sbalzo di 2900 metri (il massimo fino ad allora raggiunto) prevede di collegare la cresta del Fūrggen a quota 3497 metri, testimonia la volontà di Mollino di misurarsi con situazioni estreme. La stazione è letteralmente ancorata alla roccia e la sua posizione implicava la soluzione di particolari problemi strutturali e di costruzione. Ricorriamo alle parole dello stesso Mollino per descrivere l’edificio: [Oltre alle strutture di ancoraggio del macchinario, l’edificio consta di tre piani (sala di aspetto e servizi-alloggi per finanza e carabinieri e ristorante) in muratura, sovrastanti dal salone ristorante a struttura metallica con tetto e pannelli in estrusi di alluminio. Tale struttura è a sbalzo sulle sottostanti piattaforme di arrivo delle cabine. Esternamente una struttura metallica costituita da quattro montanti a traliccio a doppio ginocchio, sorregge le piattaforme di sbarco, le sovrastanti terrazze a tettoia e lo sbalzo terminale. Al piano terreno, attraverso la sala di aspetto, si accede ad una galleria di roccia che si apre sul ghiacciaio, punto di collegamento a noti itinerari alpinistici e soprattutto sciistici di discesa.]29 La possibilità di progettare un’architettura così estrema è vissuta da Mollino come una vera e propria sfida: la tecnica portata alle estreme conseguenze diventa uno strumento di conoscenza, determinando la forma dell’edificio. Mollino porta avanti uno studio maniacale sulla riconoscibilità della forma attraverso una ricerca strutturale. Il progetto subisce numerose modifiche in fase di realizzazione, portando ad un’opera molto diversa da quella pensata e disegnata dall’architetto.

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C.Mollino, “La stazione della funivia del Fūrggen”, in Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e Architetti in Torino, n. 3, Marzo 1953


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[C.Mollino Stazione di arrivo F큰rggen Schizzi di sezione 1950-53]


Casa per Luigi Cattaneo sull’altopiano di Agra Luino (Varese) 1952-53 [Tradizione è continuo e vivente fluire di nuove forme in dipendenza del divenire irripetibile di un rapporto tra causa ed effetto, è fiume armonioso e differente in ogni ansa e non acqua stagnante o ritorno.]30 La casa sull’altopiano è il concretizzarsi di questo pensiero. Mollino riprende la concezione strutturale che ha fatto sua nella costruzione delle ville montane, con un impianto longitudinale che si conclude nello sbalzo della terrazza. Tutto il corpo di fabbrica, che si protende in avanti, è sostenuto da una struttura di supporto che come un’unica trave a sbalzo appoggiata su due pilastri, sagomati secondo gli sforzi. Al piano sopraelevato si accede tramite la scala e la rampa a gradoni che conducono al terrazzo. Mollino progetta anche gli elementi di arredo, particolarmente significativo è il camino, rivestito internamente in maiolica di color verde e all’esterno concepito come una vera e propria scultura.

30

C.Mollino, “Tabù e tradizione nella costruzione montana”, in Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e Architetti in Torino, n. 4, Aprile 1954


[Mollino fotografato al cantiere della Casa sull’altopiano, Luino (Varese) 1953] a fianco [C.Mollino Sedia per la Casa sull’altopiano]



Regesto delle opere di Mollino nel contesto montano 1930 Rilievi di architetture valdostane 1930-37 Studi per un albergo in zona Cervino 1932 Concorso per aziende agricole in alta montagna Case in montagna per “La casa bella” Studio del tema della residenza stagionale in montagna Progetto di albergo in montagna con Celeghin, Sale (Torino) 1937 Negozio “Casa degli Sport” per Leo Gasperi, Cervinia (Aosta) 1937-46 Progetto di albergo per la Società Italturismo di Pietro Dusio, Clotès (Torino) Studio a più riprese del tema dell’edificio a sbalzo dal pendio. 1939 Studio di casa ad alloggi nei pressi della funivia per Aldo Lora Totino, Cervinia (Aosta) 1940 Progetto della “Capanna Kind” per la Società Italturismo, Sauze d’Oulx (Torino) 1940-41 Progetto di una cappella per la Società anonima Funivie Cervino, Cervinia (Aosta) 1943 Progetto schema di alloggi operai per la Guinzio & Rossi, Verres (Aosta) 1945-47 Progetto centro sportivo in verticale “Quota 2006”, Cervinia (Aosta) Un vero e proprio villaggio in verticale per soddisfare le crescenti richieste turistiche. 1946 Casa per Dino Lora Totino, Cervinia (Aosta) Progetto per Capanna Mautino, Cesana (Torino) Progetto per l’ampliamento di una casa per B. Schenone, Sauze d’Oulx (Torino) Progetto per l’Albergo Biancaneve, Sauze d’Oulx (Torino) Progetto di una villa per Piero Dusio, Sauze d’Oulx (Torino)


1946-47 Stazione della slittovia Lago Nero per Piero Dusio, Sauze d’Oulx (Torino) 1947 Progetto di una villa per il signor Carando, Sauze d’Oulx (Torino) Studio sul tema della casa capriata 1947-55 Casa del Sole per la Società delle Funivie del Cervino, Cervinia (Aosta) 1950 Stazione Museroche per la funivia del Breuil, Cervinia (Aosta) Progetto per scuola comunale invernale – colonia estiva in montagna 1950-51 Progetto per scuola-colonia, Marguerettaz-Plassier, Pré Saint Didier (Aosta) 1950-53 Stazione di arrivo della funivia al Fuerggen per la Cervino Spa, Breuil Cervinia (Aosta) 1950-61 Piano Regolatore di Cervinia e Valtournanche 1951 Concorso Vetroflex-Domus Varianti sul tema della casa unifamiliare per vacanze in montagna, al mare, al lago e in brughiera, da costruirsi con i materiali coibenti e fonoassorbenti della Vetroflex. Mollino riprende il modello della casa a capriata per la casa in montagna. Progetto di una casa per Renato Chabod, Pila (Aosta) Progetto esternato Scuola Suore San Giuseppe, Aosta Casa per la Federazione Italiana Sport Invernali, Madonna di Campiglio (Trento) 1951-53 Casa ad alloggi per la Regione Autonoma Valle d’Aosta, viale Maternità, Aosta Casa per Stefano Linot, Bardonecchia (Torino) 1952 Progetto di una casa ad alloggi, strada Gran San Bernardo, Aosta Progetto di una villa per Fabio Conci, Villazzano (Trento)


1952-53 Progetto di un albergo della stazione per Carlo Rizzardi, Aosta Ricostruzione Albergo Royal, Courmayeur (Aosta) Casa per Luigi Cattaneo sull’altopiano di Agra, Luino (Varese) 1953 Progetto di una casa dei maestri di sci per Dino Lora Totino, Cervinia (Aosta) Progetto di un albergo di montagna per Laura Navillod, Antey St. André (Aosta) Concorso per il Palazzo della Regione, Trento 1953-54 Progetto Casa Capriata Casa in legno con ossatura costituita da tre capriate, per la X Triennale. 1956-57 Progetto Condominio – Albergo Cristallo, Sauze d’Oulx (Torino) Edificio a torre con prospetto sfaccettati su impianto triangolare. Concorso Palazzo della Regione, Aosta 1962 Casa Olivero per Giorgio Olivero, La Thuile (Aosta) Cappella ex voto Garelli, Champoluc (Aosta) 1962-63 Studio per schema di albergo in montagna in prefabbricato 1963-65 Casa Garelli per Clotilde Garelli, Champoluc (Aosta) Ricostruzione della baita Taleuc e rinnovamento della tipologia del ‘rascard’. 1965-69 Piano Regolatore generale di Sauze D’Oulx (Torino) 1966-68 Progetto della casa della scuola maestri di sci, Sestrière (Torino)



5. Fr a n c o

A lb in i ( 19 0 5 -1977 )

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[Franco Albini e Franca Helg con i collaboratori dello studio Milano 1968]


5.1 L’adesione alla modernità Albini nasce nel 1905 a Robbiate (Como), dove trascorre l’infanzia fino allo scoppio della prima guerra mondiale, dimostrando fin da piccolo il suo talento per il disegno. La famiglia si trasferisce a Milano, qui Franco ottiene il diploma di maturità classica al Berchet e s’iscrive più tardi alla facoltà di Architettura civile del Regio Politecnico. In quegli anni è ancora preponderante l’insegnamento del disegno dal vero e di quello geometrico, e ha un ruolo significativo lo studio delle ‘architetture tradizionali’. Laureatosi nel 1929 con i futuri colleghi Renato Camus e Giancarlo Palanti, inizia l’attività professionale nello studio Ponti e Lancia. I lavori di quegli anni ricalcano ancora uno stile novecentista, anche se non mancano eccezioni che evidenziano un intento evolutivo verso forme più lineari, come nel caso dei mobili progettati per l’appartamento del noto aviatore Ferrarin, tra il 1931 e il 1933. [Linee ferme e semplici, correttissime, allusioni ornative di un garbo e di una discrezione alle glorie aviatorie del padrone di casa (quanti mai retori della modernità avrebbero dimenticato che la casa di un aviatore non è il suo aeroplano)…Essi (gli arredi) sono significativi in questo momento che tutti, e con maggior furia i peggiori, si stanno volgendo alle forme dette ultramoderne. (…) modernità non deve significare buttarci in braccio a delle novità qualsiasi (…)]31, così Gio Ponti interpreta su Domus il lavoro svolto da Albini, il cui graduale processo di semplificazione si rende sempre più evidente anche nelle opere successive, tra cui l’arredamento del bar per l’Aeroclub di Milano. [Il superamento della maniera art déco e l’evoluzione delle forme verso una progressiva semplificazione era già presente nelle prime opere, ma il senso dei lavori di Albini dopo il 1933 non si comprende senza conoscere la fede quasi mistica che mio padre nutriva per il ruolo sociale del lavoro 31

G.Ponti “Casa Ferrarin a Milano”, in Domus, n. 50, Febbraio 1932


[F.Albini Arredamento del bar per l’aeroclub di Milano, 1932]


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dell’architetto: ne parlava spesso come ragione dell’esistenza. Credeva nell’arte come espressione di libertà, nell’amore verso il fatto ad arte, verso l’artigianato e le regole del costruire, verso la materia usata con parsimonia, decantata e depurata progressivamente in un processo di riduzione e di sfida fino al limite della resistenza.]32 Dopo una conversazione con Edoardo Persico si accosta al razionalismo e al gruppo dei redattori di Casabella, lascia quindi lo studio di Ponti e inizia l’attività in proprio. Gli architetti che gravitano attorno a Pagano e Persico portano avanti, tra gli anni ’30 e ’40 a Milano, la sperimentazione dei principi e degli obiettivi maturati nelle ricerche europee, rivolgendo particolare attenzione al tema dell’edilizia residenziale popolare. Questo ‘campo di sperimentazione’ è caratterizzato da una parte da standard molto ridotti (si tratta di alloggi composti da una, due e tre stanze, con due letti per camera con superfici utili contenute, e impianti ridotti al minimo), ma dall’altra è totalmente liberato da quelle morfologie insediative e da quegli apparati decorativi che, presi dal modello della residenza borghese di inizio secolo, continuavano ad essere fin ad allora imitati. Il primo aspetto emergente di questa ricerca sull’abitazione popolare è la messa a punto di schemi tipologici elementari, governati da semplici principi aggregativi e distributivi, anche se all’interno di un ambito in cui la scarsità delle risorse è spinta al limite. Il secondo aspetto, come spiega Matilde Baffa,33 riguarda la regola insediativa con cui vengono disposti gli edifici: allineati secondo l’asse eliotermico e opportunamente distanziati per ragioni climatiche e di insolazione, ma secondo un ordine geometrico che non è fine a se stesso, capace di istituire uno spazio misurato, ordinato nelle zone periferiche delle città. Da tutto ciò deriva una distribuzione rigorosa e coerente degli alloggi, nonostante indici di affollamento derivanti da uno standard ‘ultrapopolare’, e che nulla hanno a che fare con la cultura dell’ Existenzminimum. 32

M.Albini “Evoluzione di una poetica” M.Baffa “La casa e la città razionalista”, in F.Bucci, F.Irace (a cura di) Zero Gravity. Franco Albini Costruire le modernità, Electa, Milano 2006

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All’interno di questa esperienza di adesione alla modernità s’inseriscono numerosi progetti di Franco Albini. Il primo è il quartiere “Francesco Baracca” in zona San Siro, all’interno del “Concorso per un gruppo di case popolari da erigersi in Milano”, a cui partecipa con Renato Camus, Giancarlo Palanti e Ladislao Kovacs. A questo progetto segue quello per il concorso bolognese del 1934 “Case per famiglie numerose”. Significativo è sottolineare come la dotazione di servizi in questi quartieri ricalchi le condizioni degli insediamenti ‘storici’ (servizi integrativi e complementari a quelli presenti negli alloggi), ma allo stesso tempo sono praticamente assenti gli spazi collettivi per attività sociali, presenti nei progetti precedenti. Una tale circostanza si spiega per la scarsità delle risorse ma forse anche per l’esigenza crescente di controllare qualsiasi tipo di aggregazione collettiva. Due anni più tardi viene concepito da Albini, Palanti e Camus il quartiere “Fabio Filzi” per l’Istituto Fascista Autonomo Case Popolari (Ifacp) a Milano. Pagano al riguardo scrive su Casabella-costruzioni: [Nel disordinato mosaico delle abitazioni milanesi questo quartiere Fabio Filzi rappresenta una rarissima eccezione. Case aperte su tutti i lati al posto delle solite caserme con il cortile chiuso; case fatte per la salute degli abitanti e non per far da paravento ai marciapiedi stradali: case bene allineate e razionalmente disposte in una composizione armoniosa e disciplinata al posto dei soliti campionari della vistosità novecentesca. Questo miracolo, se non è l’unico, è però – per Milano e forse anche per l’Italia – quello in cui nel modo più felice si sono accordati i motivi superiori dell’estetica con le ragioni dell’igiene, dell’economia e della funzionalità. (…) una lezione di urbanistica inequivocabilmente chiara ed esemplare.]34, il quartiere infatti sembra proporsi come modulo-modello ripetibile. Qualche mese prima (Ottobre 1939), ancora Pagano aveva pubblicato il progetto della Villa Pestarini, di chiara ascendenza europea, chiarendo che la capacità di Albini è quella di rendere ogni elemento della 34

G.Pagano “Un’oasi di ordine”, in Casabella-costruzioni, n. 144, Dicembre 1939


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sua architettura aderente a uno [schema apparentemente freddo e assoluto, ma in realtà vivo della cosciente volontà di un ideale artistico tenacemente perseguito.]35 L’affermazione di Pagano è particolarmente significativa poiché ci rivela quale fosse l’identità ‘moderna’ di questo architetto: un’identità vissuta, poiché il legame forte che in Albini lega la fantasia dell’arte e la realtà del mestiere, rende ‘atteggiamento’ la teoria. Altri quartieri progettati sono il “Gabriele D’Annunzio” (sempre in zona san Siro) e l’“Ettore Ponti” (nella periferia Sud-Est), che seguono il progetto di “Milano Verde”, vero manifesto della città razionalista. Altri aspetti della produzione di Albini che rendono ancora più leggibile la sua ‘modernità’ sono quelli legati al progetto degli allestimenti. Albini, chiamato da Pagano, aveva esordito nel 1933 alla V Triennale di Milano, da allora terreno privilegiato di sperimentazione, con la Casa a struttura d’acciaio in collaborazione con lo stesso Pagano e altri. Nel corso degli anni ‘30 gli allestimenti alla Triennale e i padiglioni temporanei alla Fiera di Milano e in altre manifestazioni fieristiche sono le palestre che gli permettono di sperimentare nuove soluzioni, sondando in alcuni casi articolate volumetrie curve (come nel Padiglione Ina alla Fiera del Levante, 1934) e, più spesso, spazi cartesiani ordinati da griglie geometriche, telai metallici e pannelli traslucidi in vetro o tessuto (come nei Padiglioni Ina alla Fiera Campionaria di Milano e a quella del Levante, 1935). Da queste sperimentazioni matura, all’inizio degli anni ‘40, il duplice carattere della ricerca di Albini: da una parte la sperimentazione sul sistema espositivo realizzato in serie, dall’altra straordinarie invenzioni, come quella del controsoffitto forato, nei due allestimenti del Padiglione della Montecatini alla Fiera Campionaria di Milano del 1940.

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G.Pagano “Una casa a Milano dell’architetto F.Albini”, in Casabella-costruzioni, n. 142, Ottobre 1939


[F.Albini Quartiere ‘Ettore Ponti’ per Ifacp, Milano 1939]


5.2 La lezione della tradizione Il razionalismo di Albini è, secondo Roberto Gabetti, [impregnato di novità e di riferimenti culturali assestati.]36 Quando si parla di recupero della tradizione e di adesione ai caratteri organici in ciò che ha fatto Albini, molti prendono come riferimento il Rifugio Pirovano a Cervinia (1946-49). Quest’opera riguarda un intervento in un contesto caratterizzato da forti connotati ambientali e naturali: si tratta, per l’architetto, di guardare al problema del rapporto con il luogo in maniera più sapiente e ponderata. Albini riflette esattamente su questo problema, poiché non cade in un atteggiamento mimetico nei confronti di ciò che il contesto ‘contiene’ ma arriva a formulare una soluzione che, non dimenticando l’apporto della tradizione, tenta l’inserimento di linguaggi nuovi, moderni. Occorre chiarire un punto: cosa intende Albini per tradizione? Albini si interroga sul suo significato in architettura anche negli successivi alla costruzione di questo edificio, come dimostrano l’esperienza della IX Triennale (1951) e questo suo intervento del 1955:[Alla tradizione do il senso di continuità di cultura tra presente e passato. Non ci sono salti o rotture nei fatti umani (…) La tradizione credo rappresenti la continuità di civiltà – continuità storica – moto continuo di vita, entro i limiti della natura umana (…) La continuità degli avvenimenti non è per se stessa tradizione: lo diventa quando è nella coscienza degli uomini. La tradizione non vive nelle opere, negli oggetti, nelle azioni degli uomini, tout-court: è tradizione quando gli uomini che vivono nel presente ne hanno coscienza e la riconoscono come propria in quelle opere e in quelle azioni..(…) L’architettura nel momento attuale, credo tenda verso la realtà, abbandonando le posizioni idealiste, le teorie, i principi, gli schemi: tende 36

R.Gabetti “Elzeviro poltrone”, in M.Petranzan, U.Tubini (a cura di) La tensione del fare. Il tema e le sue variazioni, Quaderni di architettura 1, n. 2, 1988


[F.Albini Dettagli degli incastri della parete a ‘rascard’ per l’Albergo Rifugio Pirovano]


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verso la realtà presente, che è la risultante di numerose componenti attuali e passate, e di questa realtà vuole prendere coscienza (…)]37 La tradizione è un patrimonio da interpretare, è parte del presente. L’opera di oggi, pur facendo parte della modernità, deve prendere coscienza di questo presente, guardando alla tradizione. Essere moderni non è fare qualcosa di nuovo cominciando da zero, poiché lo studio e il recupero di tecniche e di metodi costruttivi già consolidati ne rivelano la fondatezza e la logica, aspetti da cui non è possibile prescindere se si vuole far nascere ‘una nuova tradizione’; per esempio, occorre riacquistare dalle generazioni passate quella capacità di appropriazione ideale delle proprietà possedute dai materiali. Dentro una prospettiva come quella illustrata finora, il contesto alpino diventa un luogo ‘di verità’, dove la scarsità di risorse fa diventare ogni scelta un’attenta risposta ad un bisogno reale e concreto. Albini analizza con cura la tipologia del ‘rascard’ nei suoi aspetti funzionali e nei suoi elementi tecnici. Un esempio di quanto detto ci viene da Augusto Rossari: [Albini predispone opportuni accorgimenti nella posa dei serramenti, dei condotti degli impianti (giunti elastici ecc. ) per assorbire il sensibile abbassamento delle pareti verticali, pari al tre-quattro per cento, determinato dal ritiro delle tavole di legno del ‘rascard’, sottoposto a una notevole compressione e a un progressivo essiccamento. Ed è proprio attraverso questo rigoroso lavoro di rilettura delle tecniche tradizionali che Albini riesce ad evitare il trabocchetto dell’imitazione vernacolare.]38

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F.Albini, “Un dibattito sulla tradizione in architettura (...) 14 giugno 1955”, in Casabellacontinuità n. 206, Luglio-Agosto 1955 A.Rossari “Un percorso antiformalista tra modernità e tradizione”, in F.Bucci, F.Irace (a cura di) Zero Gravity. Franco Albini Costruire le modernità, Electa, Milano 2006 38


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Le svariate letture critiche fatte su quest’opera (realismo, organicismo, recupero della tradizione valdostana, rapporto con il paesaggio) dimostrano come Albini con il suo Rifugio s’inserisca in un dibattito sulla tradizione che coinvolgeva da qualche tempo la cultura architettonica italiana. Il problema della ricostruzione aveva costretto ad un’accelerazione in questo senso, stimolando la riflessione sulla concezione dell’urbanistica e dell’architettura. Il razionalismo deve necessariamente confrontarsi con un paese in gran parte rurale, che costruisce ancora con tecniche artigianali ed è caratterizzato da una situazione sociale arretrata. [(…) Secondo alcuni esponenti del Movimento moderno di tradizione non bisognava neanche parlare, mentre per me la tradizione era un terreno che bisognava esplorare con estrema urgenza, perché altrimenti si piombava nell’internazionalismo architettonico], diceva De Carlo.39 Un rinnovato interesse per la tradizione non porta all’abbandono del razionalismo, e l’affrontare questo tema genera metodi progettuali differenti: come già accennato, Rogers fa riferimento ai valori delle ‘pre-esistenze ambientali’, mentre a Roma vengono riprese le forme ‘simbolo’ di ciò è popolare. L’intento di Albini è invece leggere un repertorio tecnico rimasto ancora sconosciuto, per recuperarlo e perfezionarlo. È significativo sottolineare questo aspetto poiché l’interpretazione della storia avviene soltanto in funzione delle ragioni obiettive e interne al progetto.

39 G.De Carlo “Una scelta di campo” in M.Baffa, C.Morandi, S.Protasoni, A.Rossari Il Movimento di Studi per l’Architettura 1945-1961, Editori Laterza, Roma-Bari 1995


5.3 ll mestiere dell’architetto ‘artigiano’ [Gli interessi per l’architettura diventano esclusivi (…). Passa ore a pensare in silenzio, a togliere, a cancellare qualcosa, a segnare piccoli spostamenti su disegni preparati dai collaboratori. (…) Passa molto tempo al tavolo da disegno degli studenti che non si preoccupa di conoscere se non attraverso le cose che progettano. Si accorge delle loro fisionomie e della loro voce solo quando distoglie gli occhi dai disegni in cui ravvisa un piccolo pensiero, un raccordo non previsto, un segno intelligente di attenzione per l’architettura. (…) Non tollera confusione: ambiguità, contorsioni intellettuali e le logorroiche spiegazioni di progetti in cui non ravvisa da subito un pensiero architettonico.]40 Il ritratto fatto da Piva, collaboratore di Franco Albini dal 1962 in poi, mette in luce una personalità attenta, decisa e apparentemente intransigente riguardo al proprio mestiere di progettista. Un altro aspetto della personalità di Albini che voglio sottolineare è quello legato alla concezione che l’architetto ha del suo lavoro, un aspetto che ancora incide su come egli vive il legame alla tradizione. Durante i primi anni dopo essersi laureato, lavora con Gio Ponti, affacciandosi al progetto con un approccio graduale, che ha origine nella ‘piccola scala’. L’esperienza del progettare mobili e oggetti lo mette a contatto diretto innanzitutto con i materiali e le loro possibilità di trasformazione e in secondo luogo entra necessariamente in stretta relazione con gli artigiani. È attraverso il dialogo con il mondo artigianale, ricco depositario di saperi pratici, che Albini inizia a sviluppare un’esigente attenzione al dettaglio, una crescente volontà per un progettare concreto, tutto teso al fare e una sensibilità spiccata per il costruire ‘a regola d’arte’. La ‘regola d’arte’ [è l’imperativo intrinseco che guida il gesto dell’artigiano; presuppone il perfetto dominio della tecnica come strumento di fedele traduzione in un 40

A.Piva, V.Prina Franco Albini 1905-1977, Electa, Milano 1998 C.Conforti “Franco Albini: architetture di utilità”, in F.Bucci, F.Irace (a cura di) Zero Gravity. Franco Albini Costruire le modernità, Electa, Milano 2006 41


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linguaggio formale del pensiero creativo; istituisce una feconda tensione tra idea e manufatto, tra arte e artigianato.]41 Questa sensibilità che è possibile leggere in Albini, ma anche in tanti altri architetti di quel periodo, come Scarpa, Mollino, Gardella e Michelucci, ha forse determinato la produzione edilizia in Italia, non permettendo che si affrancasse mai del tutto dai metodi costruttivi artigianali. In Albini è particolarmente evidente quanto detto se si osserva come le sperimentazioni sui materiali, che l’architetto mette in campo per la realizzazione di mobili, interni, allestimenti temporanei, si misura con lavorazioni all’avanguardia (come la saldatura elettrica per le strutture metalliche) ma in realtà questo tipo di approccio non è finalizzato ad una possibile organizzazione razionale a larga scala. Fin dagli anni ’30 però, quando ancora la cultura della serie non si è imposta nei metodi produttivi industriali, Albini lavora in una prospettiva ‘seriale’, ma in senso ‘tipologico’. Per la lampada Mitragliera, si concentra sulla nozione di ‘tipo’: dà un nuovo significato all’oggetto, ne capovolge il tiro spogliandolo della sua natura di arma da fuoco, e attraverso la variazione dei materiali e dei dettagli arriva a produrre una ‘serie’ di prototipi diversi che in realtà declinano la medesima idea progettuale. [Nitore progettuale, precisione ed irresistibile desiderio di inventare erano caratteristiche che mai lo abbandonavano nella pratica quotidiana. Nel suo studio (…) ho appreso, attraverso l’invenzione di oggetti d’uso (…) quell’atteggiamento di ricerca che prescindeva dalle scale di intervento estendendo a tutte le fasi del lavoro, un metodo di indagine che corrispondeva, a suo dire, ad una e ad una sola ‘logica’. (…) ogni lavoro, per lui, acquisiva certezza per la corrispondenza fra le premesse e il loro sviluppo, ed era indifferente a valori che non fossero interni ad una loro tecnologia.]42 42

A.Cortesi “L’Architettura delle connessioni. Franco Albini”, in E.Faroldi, M.P.Vettori Dialoghi di Architettura, Alinea Editrice, Firenze 1995



6. Alber go

Rifugio Pir ovano, Cer vinia 1948-52

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[F.Albini Albergo Rifugio Pirovano, 1948-52]


6.1 Il progetto Il progetto prende l’avvio nel 1948, due anni dopo che Giuseppe Pirovano commissiona a Franco Albini un’abitazione con annessa una scuola sciistica. Di origini bergamasche, Pirovano è maestro di sci e guida alpina. Assieme alla moglie Giuliana Boerchio realizza la Scuola di Sci Pirovano, che per un breve periodo avrà sede a Cervinia. La prima soluzione risalente al Marzo del 1948 è costituita da una piccola ‘baita’ a tre piani più sottotetto, con l’asse longitudinale dell’edificio parallelo al pendio, costruita in muratura portante con struttura a C, che occupa tre lati. Il quarto lato è lasciato aperto con il solaio in legno che sporge a caratterizzare il fronte sud-est: costruito con un portico, in corrispondenza del soggiorno interno del pian terreno, e con il loggiato superiore appoggiato a quattro esili pilastri cilindrici rastremati verso l’alto. Il loggiato individua la zona notte la cui distribuzione è organizzata attraverso un corridoio su cui si affacciano la cucina, il guardaroba e i servizi sul lato nord-ovest, e le due camere singole e la stanza matrimoniale sul lato sud-est. Le camere sono disposte diagonalmente e incastrate l’una nell’altra, ogni ‘cellula’ si trova così ad essere definita da una propria zona d’ingresso: questa soluzione è resa leggibile anche nel prospetto esterno poiché il loggiato assume il caratteristico profilo ‘a dente di sega’. Il tema delle cellule affiancate e oblique è mutuato dal progetto per il mercato Sukharevka a Mosca, redatto da Mel’nikov nel 1924. La soluzione era già stata adottata da Albini nel progetto di negozi provvisori su via Alciato e piazza Fontana, nel 1945. Su uno dei due prospetti laterali è addossato il volume delle scale di distribuzione. La soluzione successiva a questo primo disegno prevede delle travi principali disposte in maniera trasversale (perpendicolari a quelle a fianco [F.Albini Prospetto Sud-Est, 18.03.1948; Pianta del primo piano, 18.03.1948; Pianta del primo piano 09.04.1948]


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del disegno precedente). Il soggiorno con la grande stufa rimane al piano terreno, mentre al primo piano due cellule sono ruotate, mentre la stanza matrimoniale lo è solo parzialmente. La distribuzione avviene invece attraverso una scaletta interna. La terza soluzione, chiamata ‘Casetta a Cervinia’ risale all’aprile del ’48 e prevede che l’edificio sia appoggiato su un basamento attraversato da piccole forature che portano la luce al seminterrato, destinato ad alloggio dei maestri, a deposito e laboratorio di riparazione per gli sci con i relativi servizi. Al piano terreno, passando dal portico dell’accesso principale si accede alla sala riunioni della scuola; la zona notte continua ad essere costruita attraverso l’accostamento di ‘cellule’ ruotate, con gli angoli sporgenti in corrispondenza dei pilastrini, il cui numero è salito a cinque mentre lo spazio sul lato nord-ovest diventa un unico ambiente destinato a soggiorno, con cucina, zona pranzo e un piccolo bagno.

[F.Albini Prospetti laterali, soluzione con colonne verso valle, 04.12.1948]


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La collocazione dell’edificio cambia in maniera radicale nella variante del Dicembre del 1948: Albini colloca infatti l’edificio sul pendio scosceso, lasciando ‘verso valle’ i pilastri e costruendo la parte superiore come un ‘rascard’ totalmente in legno. L’asse longitudinale è ora ruotato verso valle, generando un prospetto diverso, caratterizzato dalla baita superiore in legno, dal doppio loggiato e frontone, che si appoggia sui tre grandi pilastri. Due negozi occupano il primo livello, l’alloggio dei maestri il secondo, un locale di servizio da cui si accede alla baitaabitazione al terzo. Al piano superiore della baita l’architetto colloca la scuola di sci. Una lunga trave, appoggiata a tre elementi sagomati, costituisce l’elemento di mediazione tra la struttura in legno del solaio della baita e i pilastri, che alla base sono racchiusi dal volume vetrato dei negozi, che lascia intravedere la parte a terra dei pilastri stessi. ‘A monte’ il prospetto è dato dal volume superiore della ‘baita’, appoggiato a cinque basi rastremate che lo separa dal suolo. Gli incastri tipici del ‘rascard’ caratterizzano tutti i prospetti, costruiti quindi con fasce orizzontali interrotte dalle teste sporgenti delle travi principali di ogni solaio. Un ulteriore passo verso la soluzione definitiva è quello fatto con la proposta del Marzo 1949: la costruzione della pianta basata sulla logica dell’accostamento di ‘cellule’ ruotate e sfalsate coinvolge l’intero edificio e non solo la zona verso sud-est. Albini utilizzata cellule rettangolari aumentate di dimensioni e più complesse, ad esempio l’accesso alla zona notte del secondo piano avviene tramite piccole scalette poste a metà di ogni ‘cellula’. Nelle tavole di Marzo è inoltre possibile leggere la prevista possibilità di un ampliamento attraverso due ulteriori ‘cellule’. Nei disegni redatti dall’architetto due mesi dopo (Maggio 1949) appare per la prima volta la denominazione ‘Albergo a Cervinia’: l’asse longitudinale ritorna ad essere parallelo al pendio mentre i due piani della zona letto corrispondono alla baita superiore, dal tetto a due falde continue, appoggiata ora ai quattro grandi pilastri tramite elementi


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cilindrici rastremati con piatto superiore, riprendendo quegli elementi della tradizione costruttiva del luogo, simili a ‘funghi’. Dal Luglio 1949 al Maggio 1950 sono elaborate le tavole che portano alla versione definitiva che sarà poi costruita. Nelle prime ipotesi il tetto è ancora costruito con due falde continue, più tardi (Marzo 1950) il tetto inizia ad essere concepito scomposto in tre falde sovrapposte l’una all’altra e corrispondenti ai tre elementi (le ‘cellule’ a cui ho accennato) che compongono l’edificio, ‘a monte’ invece rimane un’unica falda che segue il perimetro ‘a dente di sega’ dell’edificio sottostante. Albini si concentra e spende molte energie nella formulazione dei dettagli costruttivi: il più significativo è quello dell’appoggio delle pareti trasversali a ‘rascard’ sulle travi maestre in legno; questo dettaglio è costruito con due elementi in

[F.Albini Particolare dell’appoggio delle pareti trasversali sulle travi principali, 05.07.1950]


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ferro a C saldati in forma di H, corrispondenti all’altezza dei travetti laterali, che formano un’intercapedine dove corrono i tubi di scarico e di riscaldamento. Nell’Agosto del 1951 Albini disegna il pennone in legno con tiranti metallici per la bandiera e l’insegna pubblicitaria. Tra il Giugno del 1952 e l’Ottobre studia un ampliamento sul pendio a monte del rifugio con parziale affaccio sul piazzale sovrastante: un edificio in pietra a vista, con tetto a falde e grandi abbaini. L’ipotesi di un ampliamento è ripresa da Albini, con Franca Helg, tra il Luglio del 1955 e il Luglio del 1960, quando vengono proposte due ulteriore campate che però non verranno mai realizzate. L’edificio attuale, diviso in appartamenti, ha subito forti modifiche sia all’esterno (in particolare nei prospetti laterali) che all’interno.

[Albergo-Rifugio Pirovano, Cervinia. Fotografia di M.Introini 29.06.2006]


6.2 L’edificio costruito Per descrivere la versione definitiva del progetto che porta alla realizzazione dell’edificio riprendo le parole usate dallo stesso Albini in un articolo apparso su Domus nel Giugno del 1952. L’articolo è particolarmente significativo poiché l’architetto non tralascia di descrivere in maniera minuziosa le scelte compiute non solo a livello formale, ma anche dal punto di vista costruttivo, arrivando ad elencare i materiali utilizzati. Albini giustifica la scelta dei prospetti ‘a dente di sega’ con la precisa volontà di seguire l’andamento planimetrico del terreno. Nonostante sia chiaro l’intento di relazionare l’edificio al luogo e alla sua conformazione, quanto ho detto finora, dimostra come la soluzione definitiva sia raggiunta dopo numerosi e continui tentativi (Albini, soprattutto nelle prime ipotesi, modifica più volte la direzione dell’andamento longitudinale dell’edificio). [Quest’albergo per ragazzi è sopra un ripido pendio tra il piazzale delle funivie e la strada. È su cinque piani utilizzabili, compreso il terreno e il sottotetto. I primi tre parzialmente interrarti dalla parte del pendio, sono in muratura di pietra a vista fuori terra e in calcestruzzo per la parte interrata (rivestite all’interno da lastre di eternit e da tavolato di forati, con camere d’aria). La struttura portante verso valle è fatta da pilastri conici in muratura di pietra, all’alpina. Al terzo piano e sottotetto emergono interamente e sono costruiti alla ‘rascard’ in tavolato di larice. La sagomatura dei tavoloni ne favorisce l’incastro ed è stata riempita di lana di vetro. Le pareti interne di ‘rascard’ sono nude, le perimetrali rivestite di tavolette di abete verticali: nella camera d’aria sono stesi fogli di cartone catramato e coltri di lana di vetro. Di legno è pure la fronte verso valle della parte in muratura, dietro ai pilastri: non essendo questa portante, è stata costruita secondo l’uso tradizionale, con tavole verticali


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maschiate e coprigiunti, all’interno corrono gli strati isolanti di cartone catramato, lana di vetro e tavolette di abete. La costruzione superiore in legno posa su quelle in muratura per mezzo di ‘funghi’ in legno di testa con capitello di pietra espanso nella direzione dell’appoggio della trave. Lo schema planimetrico dell’Albergo per Ragazzi di Cervinia, a denti lungo i lati maggiori, deriva dal desiderio che l’edificio segua le linee di livello del terreno, e contemporaneamente che le finestre delle camere da letto, sulle fronti opposte, ricevano in misura quanto più possibile equivalente, i raggi del sole, tenendo conto dell’orientamento, dell’intercettazione delle montagne circostanti. Nel suo organismo distributivo, l’edificio appare costituito dalla ripetizione al terzo piano di una cellula fondamentale che determina tutte le altri parti dell’edificio. Essa è costituita da una coppia di camere da letto, da un corridoio di disimpegno, da due servizi (bagno ad un’estremità, gabinetto all’altra), da due scale inserite tra le camere, che stabiliscono il collegamento col piano inferiore, interamente occupato dal soggiorno e pranzo, e col piano sottotetto, occupato da altre camere per comitive ragazzi. L’accostamento delle cellule per il riposo notturno, e l’aver dotato ogni camera da letto di due porte, permette di collegare ogni camera con l’uno o con l’altro dei corridoi adiacenti, raggruppando in modo diverso le camere da letto a seconda del numero dei ragazzi e ragazze, di grandi e piccini, o di comitive presenti nell’albergo. Ogni camera (attualmente sono quattro di questo tipo) è corredata da quattro letti sovrapposti a due a due, da quattro armadi, uno per ogni ospite e da un lavabo. Le camere verso la fronte sud, una matrimoniale e due a letto singolo, sono destinate alla famiglia del conducente. Un balcone, sul quale si aprono le camere da letto, circonda per tre lati l’edificio. La stanza del soggiorno e pranzo occupa lo spazio di transizione tra la parte dell’edificio in muratura e la parte in legno, sfruttando con una finestra panoramica tutta attorno alla stanza, il distacco generato dai ‘funghi’.


[F.Albini Scaletta d’accesso dal soggiorno al terzo piano] a fianco [F.Albini Il soggiorno pranzo al secondo piano]


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Una vetrata racchiude una zona centrale della stanza, destinata come piccolo ufficio del conducente e come ausilio nel servizio del pranzo. Al centro scendono le scalette di collegamento con le cellule del riposo notturno, e dal piano inferiore salgono la scala di accesso principale, che unisce il soggiorno con l’anticamera, e la scala di servizio, che penetra nell’office sottostante. L’arredamento è costituito da due camini di arenaria, da armadi a muro, scaffalature di abete naturale e fodrine colorate, da tavoli di abete massiccio e sedili di platano massiccio, da poltrone ‘tripoline’ con tele colorate. Il soggiorno comunica, verso nord, con un balcone che dà sulla vista del Cervino e con una scala esterna che dà accesso al piazzale e alla strada sottostante e, verso sud, con una vasta terrazza che si raccorda col terreno contiguo. Il primo piano è occupato dall’anticamera, da cui parte la scala al soggiorno, preceduta da un ingresso, dove riporre sci e bastoni, dal guardaroba, dalla cucina, accessibile anche direttamente dall’esterno, dall’office, da una dispensa semi-fredda e da una fredda, da un gabinetto per gli ospiti e da uno per il personale, con bagno, da un deposito di combustibile e da un minuscolo laboratorio di sciolinatura. Tra la cucina e la stanza di soggiorno e pranzo soprastante è installato un monta-piatti. Il piano terreno è occupato dal locale della caldaia e da negozi.]43

43

F.Albini “Albini in città, Albini in montagna”, in Domus n. 271, Giugno 1952


6.3 Una lettura critica Quest’opera rappresenta la più profonda sintesi dei valori espressi dal razionalismo con la ricerca condotta personalmente da Albini riguardo all’architettura spontanea e organica, nella ripresa dell’interesse per l’architettura rurale che era già stato di Pagano. Albini è cosciente del fatto che la ripresa dell’architettura organica abbia portato al riconsiderare certi processi tecnici tradizionali e un approccio ‘artigianale’ al progettare, in opposizione alla rivoluzione ‘a rovescio’ di coloro che guardando improvvisamente indietro pensano di essere all’avanguardia. Il legame alla tradizione è esplicitato anche in una lettera inviata da Albini nel 1948 alla Commissione Edilizia del Comune di Valtournenche: [(…) si è cercato di riallacciarsi alle caratteristiche dell’architettura valdostana adottandone motivi e procedimenti costruttivi caratteristici come il rascard, le colonne in muratura, la costruzione in pietrame per i piani inferiori, il distacco tra la costruzione in muratura e la costruzione in pietrame (…)] La lettura più incisiva di quest’opera ci viene dal suo stesso autore. L’articolo scritto per Edilizia Moderna nel 1951 chiarifica una volte per tutte quale sia l’intento sotteso al lavoro compiuto, spiegando in maniera concreta come la tradizione entra nel suo orizzonte progettuale: [Come reazione alla situazione urbanistica esistente, l’edificio (…) da me realizzato in collaborazione con Luigi Colombini, si propone il problema dell’ambientamento nel paesaggio alpino, valendosi di quelle esperienze dell’architettura antica della Valle d’Aosta tuttora attuali e aderenti allo spirito moderno; e in reazione all’impiego ottuso di metodi costruttivi e di materiali, come cemento armato, blocchetti di calcestruzzo, tetti di lamiera, difficilmente assimilabili all’ambiente se non impiegati con una sensibilità attenta, la programmatica limitazione ai mezzi costruttivi tradizionali e ai


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materiali naturali vuole accentuare l’esigenza di un profondo adeguamento alla natura e al costume del luogo. Non occorre certamente precisare che non si vuol parlare di architettura folcloristica, ma di un’architettura che non sia ambientalmente, e quindi urbanisticamente, indifferenziata e, ancora una volta, si vuol dire che l’architettura moderna non consiste nell’uso di materiali e di procedimenti costruttivi nuovi, ma tutti i mezzi costruttivi sono validi in tutti i tempi purché logici e ancora efficienti. (…)]44 Eugenio Gentili, estimatore di Albini e custode dell’ortodossia razionalista, rimane quasi sconcertato davanti a quest’opera: [per la singolarità stessa del tema è tuttavia difficile leggere ciò che veramente sia Albini],45 mentre secondo Francesco Tentori si tratta quasi di una ‘mistificazione’: […tuttavia, onestà costruttiva e qualità figurativa a parte, io non sono mai riuscito a distinguere del tutto il Pirovano dall’albergo di finti trulli costruito di recente ad Alberobello.]46 Albini sembra creare uno scarto all’interno dello schema interpretativo che ancora legge come omogenea e senza rotture la produzione architettonica che si rifà al movimento moderno. L’edificio realizzato mostra un Albini inedito rispetto ai progetti di allestimenti realizzati prima della guerra e anche rispetto alle Gallerie di Palazzo Bianco a Genova dello stesso periodo (1949-51), l’atmosfera di astrazione è stata qui sostituita da. un particolare carattere materico, assente nelle altre opere, che deriva dalla ricerca dell’ambientamento nel contesto alpino. Augusto Rossari sottolinea però che la componente materica era già apparsa in alcune opere precedenti: muri di pietra compiaono nella ‘Stanza per un uomo’ alla VI Triennale (1936), o nell’edificio della mensa e degli spogliatoi per le Officine Elettrochimiche Trentine a Calusco d’Adda (1940-43). 44 45 46

F.Albini, “Albergo per ragazzi a Cervinia”, in Edilizia Moderna, n. 47, Dicembre 1951 E.Gentili “La sede dell’INA a Parma”, in Casabella - continuità, n. 200, Febbraio – Marzo 1954 F.Tentori “Opere recenti dello studio Albini-Helg”, in Zodiac, n. 14, Aprile 1965


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La progettazione dell’Albergo-rifugio Pirovano parte dall’analisi e dall’attenta utilizzazione del procedimento costruttivo delle baite valdostane, composte da un blocco ligneo, sovrapposto ad un altro in pietra e da esso distanziato mediante dei supporti a fungo, reinterpretati dalla tradizione, giungendo ad una soluzione inequivocabilmente moderna mediante anche l’inserimento di alcuni elementi di novità. Ancora una volta ricorro alle parole dello stesso Albini per chiarire questo punto: [La costruzione a ‘rascard’, nell’impiego tradizionale, si imposta sopra la costruzione in muratura, o direttamente, come per lo più nelle abitazioni, o mediante un caratteristico elemento di trapasso a forma di fungo (…). La chiarezza della funzione di giunto tra un tipo di costruzione e l’altro, il forte valore plastico e lo straordinario taglio panoramico che si viene a creare tra la parte inferiore e la incombente parte superiore dell’edificio, portano questo tradizionale elemento ad essere immediatamente accolto dalla sensibilità moderna; l’audacia degli aggetti ottenuti con mezzi elementari e il gioco delle balconate corrisponde pure al gusto moderno; la soluzione dei camini isolati, coerente con la costruzione in legno, coincide con la tendenza moderna a definire le funzioni e a esprimerle con elementi architettonici distinti; i pilastri in muratura, che portano in alto la parte in legno dell’edificio e ai quali talvolta si innestano impalcati intermedi, precorrono il desiderio moderno di esprimere la struttura portante.]47

47

F.Albini, “Albergo per ragazzi a Cervinia”, in Edilizia Moderna, n. 47, Dicembre 1951


[F.Albini Gallerie comunali di Palazzo Bianco, Genova 1949-51]


6.4 Altre opere significative A differenza di quanto fatto per Mollino, per il quale ho analizzato altre opere degne di nota inserite nel contesto alpino, ho deciso di studiare altre opere di Albini in cui è più significativo il rapporto instaurato con il contesto e la tradizione, anche se appartengono ad un periodo successivo della produzione dell’architetto milanese: il progetto di una residenza unifamiliare per Olivetti nel Cavanese, l’edificio per uffici dell’Ina a Parma e il magazzino de La Rinascente a Roma.

Progetto di villa Olivetti Ivrea (Torino) 1955-56 È forse in questo progetto che si rende più leggibile una ‘suggestione organica’ in Albini. Del lavoro è rimasto l’intero iter progettuale, compresi gli schizzi iniziali. Albini disegna due soluzioni preliminari diverse, dopo uno studio accurato del sito e delle sue curve di livello. La prima ipotesi prevede due corpi disposti su un’altura a formare un angolo di circa 120 gradi, secondo il principio usato da Wright per le sue usonian houses. La seconda invece è costruita sull’aggregazione e l’articolazione di forme circolare all’interno delle quali Albini alloggia le diverse funzioni da quelle della casa a quelle degli spazi esterni. La soluzione definitiva in pianta [si genera da un nucleo esagonale allungato, contente il soggiorno-pranzo, gemmando a raggiera le camere da letto con bagno, separate l’una dall’altra da canali visivi e di luce che mettono in rapporto lo spazio centrale con il paesaggio.(…) Spazio che fluisce quindi da un ambiente all’altro senza soluzione di continuità come aveva teorizzato il maestro americano.]48 48 A.Rossari “Un percorso antiformalista tra modernità e tradizione”, in F.Bucci, F.Irace (a cura di) Zero Gravity. Franco Albini Costruire le modernità, Electa, Milano 2006


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La casa si adatta al terreno, si apre ad un leggero dislivello, si articola lasciando aperte le sue estremità in un fluire tra esterno e interno, natura e costruito. Il tetto costruito in tegole, imitando la convessità della collina, contribuisce alla sensazione di unità e di radicamento al terreno. Qualche anno più tardi Albini realizza la Villa Allemandi a Punta Ala (1959), che molto deve al progetto descritto. In questo esempio, le tecnologie tradizionali ancora valide vengono riassorbite nel progetto che esprime comunque la sua modernità.

[F.Albini Progetto di villa Olivetti, Ivrea 1955-58]


Edificio per uffici dell’Ina Parma 1950-54 In questo intervento, come nel caso de La Rinascente, Albini si confronta con il problema del l’inserimento in un contesto urbano con valenze storiche rilevanti. Il ritmo dei pilastri di facciata e i setti di mattoni a vista costruiscono il fronte, che si raccorda con la cortina edilizia esistente; l’architetto si esprime, nei confronti della tradizione, andando a leggere i ‘sedimenti morfologici resistenti’ nel tessuto urbano. Il riferimento più esplicito in termini di allusione strutturale e di linguaggio è al vicino Battistero. L’edificio è costruito secondo un principio di gerarchia delle facciate: è esposto ad ovest e a sud, ma si affaccia su una via piuttosto stretta (la scarsa insolazione sulla via laterale ha portato a vetrare i piani inferiori con serramenti che in progetto erano inclinati verso l’alto per ricevere la maggior quantità di luce possibile, e per favorire l’effetto delle lamelle delle tende veneziane, usate come riflettori di luce). I prospetti sono segnati da una griglia strutturale composta da pilastri verticali continui, che progressivamente si rastremano versi l’alto, piegandosi a mensola per sorreggere il coronamento dell’edificio, costituito dal cornicione aggettante e dal piano-attico. Se al piano terra lo spazio è scandito dai grandi portali sagomati che racchiudono le vetrine, nella parte centrale, all’interno della maglia strutturale, il prospetto principale e parte del prospetto secondario sono ritmati dai segni verticali dati dalle finestre a tutt’altezza, alternate alle fasce verticali dei tamponamenti in mattoni faccia a vista, il primo piano è invece completamente vetrato. L’utilizzo in funzione non portante del mattone faccia a vista viene svelato nelle testate delle murature verticali, dove l’edificio è separato dalle abitazioni contigue. L’unico angolo arretrato rispetto al fronte segna la presenza dell’elemento


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chiave dell’edificio, la scala ellittica che si snoda all’interno di un volume poligonale. Si legge nella relazione del progetto redatta da Albini: [Schema distributivo. Piano terreno: può essere diviso in quattro negozi aventi tutti l’ingresso dalla via principale. Ogni negozio avrà un proprio servizio e una scaletta di comunicazione coi propri magazzini nel sotterraneo. Sulla via secondaria è l’ingresso ai piani superiori. Primo piano: è dedicato agli uffici dell’Agenzia dell’Istituto Nazionale Assicurazioni. L’atrio dà comunicazione alla sala per il pubblico e a un salottino di ricevimento. Lungo la fronte verso la via principale possono trovare posto i locali per il direttore e i produttori con un proprio gruppo di servizi; verso la via secondaria è sistemato un grande locale per gli impiegati dell’Agenzia con una capienza fino a 10 impiegati. Piano tipo: può essere divisibile in tre gruppi di uffici, ciascuno dotato di servizi igienici e spogliatoi e di un’anticamera con un atrio comune d’ingresso. La divisione interna degli uffici è prevista con pareti trasformabili costituite da elementi componibili sopra un modulo di 80 cm. La divisione interna è dunque elastica e sarà stabilita secondo le necessità. (…) Ultimo piano: è occupato dall’alloggio per la famiglia del custode e da un altro alloggio.]

[F.Albini Edificio per uffici dell’Ina, sullo sfondo il Battistero, Parma 1950-54]


Grandi magazzini La Rinascente Roma 1957-61 Su incarico della famiglia Borletti, viene progettato questo edificio che, localizzato al di fuori delle tradizionali zone commerciali, segna un nodo per la futura espansione urbana. Come già detto per il progetto precedente, anche a Roma l’edificio dialoga con la città mediante la ricerca di misure e volumi adatti alla dimensione degli spazi urbani circostanti, infatti, come spiega Franca Helg, [l’edificio della Rinascente, lungo la via Salaria chiude la strada e ricompone piazza Fiume.]49 Albini arriva a creare un equilibrio molto significativo tra tecnica costruttiva, funzionalità commerciale, forma espressiva e figurazione urbana. La soluzione progettuale realizzata prevede un’ossatura in acciaio composta da lunghe travi che corrono longitudinalmente e da putrelle trasversali che, come travature secondarie, rimangono leggibili in facciata insieme ai montanti verticali. La scelta costruttiva di una struttura metallica portante si inserisce compiutamente nella tradizione ottocentesca dei grandi magazzini, iniziata a Parigi da Paul Sedille con i suoi magazzini Au Printemps (1836-1900) e tiene conto delle non facili condizioni del sottosuolo. I prospetti sono ulteriormente realizzati attraverso l’utilizzo dei pannelli di tamponamento in graniglia di granito e marmo rosso, alcuni dei quali – quelli a sezione poligonale – contengono le condutture di condizionamento, a determinare un disegno composto da elementi verticali che progressivamente aumentano di numero dal piano terra verso l’ultimo livello. Le fasce orizzontali che, alloggiano le canalizzazioni orizzontali, segnano ogni piano, e unitamente alla grande fascia di coronamento (a cui corrisponde il ‘binario’ per la manutenzione e la pulizia) alludono alle forme e alle proporzioni dei grandi palazzi rinascimentali della città. [È sotteso quindi un passaggio progettuale e concettuale da affinità con il testo più immediato a raffinati legami e rimandi 49

F.Helg “Intervista all’architetto Franca Helg sulla Rinascente di Roma”, in L.Fiori, M.Prizzon Albini-Helg. La Rinascente, Editrice Abitare Segesta, Milano 1982


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[F.Albini Dettaglio del rivestimento esterno dei Grandi Magazzini La Rinascente, Roma 1957-61]


[F.Albini La scala dei Grandi Magazzini La Rinascente vista dal basso, Roma 1957-61]


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ad un contesto più esteso, alla città di Roma in generale, utilizzando peraltro un linguaggio contemporaneo.]50 L’estroversione dell’ossatura metallica portante è il frutto di una chiara volontà espressiva, la spina portante con i pilastri tubolari è completamente dissimulata anche nell’interno, dove i quattro cilindri strutturali sono trasformati in singolari supporti espositivi. La facciata verso piazzale Fiume è completamente cieca ad eccezione delle ampia vetrata centrale. Il fronte verso il cortile è caratterizzato dalla grande parete vetrata segnata dalla scansione dei serramenti, che lascia intravedere le rampe della scala mobile. Come nell’edificio dell’Ina a Parma, anche qui la scala (in ferro) è un elemento nodale. Albini la colloca in angolo con la via secondaria, costruendo un elemento verticale ellittico all’interno di un involucro poligonale. Questo elemento fondamentale è reso leggibile dall’esterno grazie alla vetrata continua che l’architetto progetta in angolo all’edificio.

50

A.Piva, V.Prina Franco Albini 1905-1977, Electa, Milano 1998


Regesto delle opere di Albini nel contesto montano 1936 Progetto di villino Starnini, Bellinzona (Svizzera) 1946-48 Progetto di casetta per Giuseppe Pirovano, Cervinia (Aosta) 1948-52 Albergo-rifugio per ragazzi per Giuseppe Pirovano, Cervinia (Aosta) 1950 Inizia la collaborazione con Franca Helg. 1952 Casa a Cervinia (Aosta) Organizzata su un unico piano, realizzata con pietra faccia a vista. 1955 Progetto di Albergo-Rifugio per Giuseppe Pirovano, Stelvio (Bolzano) 1959 Progetto di stazione - Rifugio Nagler per Giuseppe Pirovano, Stelvio (Bolzano)


1962 Inizia la collaborazione con Antonio Piva. 1963-73 Centro Breuil-Oriondè, Cervinia (Aosta) 1964 Inizia la collaborazione con Marco Albini. 1965-70 Case ad appartamenti Marone, Courmayeur (Aosta) Su tre livelli, composte da tre unità abitative sfalsate in pianta e in alzato. 1968 Consulenza per baita con mobili in serie - XIV Triennale di Milano 1968-78 Progetto di Casa Baselli Bertani, Cervinia (Aosta) 1972 Progetto di villa Marone, Courmayer (Aosta)


Conclusione


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Il punto di partenza per provare a fissare una conclusione di quanto ho detto finora è un confronto diretto tra Mollino e Albini: se fino ad adesso si sono chiarite le posizioni di entrambi in maniera abbastanza indipendente, si vuole ora mettere in relazione il loro modo di intendere la modernità e la tradizione. Questa ‘lettura’ parte da un preciso elemento costruttivo, parte fondamentale della tradizionale costruzione a ‘rascard’: il cosiddetto ‘bolero’ valdostano. La mia riflessione prende spunto da quanto scritto da Bruno Reichlin su Casabella.51 Mollino ha portato avanti per tutta la sua carriera uno studio personale e molto approfondito della cultura costruttiva montana (partendo dai rilievi fatti ancora studente), continuando a promuovere un’attenzione particolare nei confronti dell’architettura tradizionale, grazie all’insegnamento e alla fondazione dell’Istituto di Architettura Montana. Albini si confronta con la tematica della tradizione costruttiva montana in casi più rari, tra cui il Rifugio Pirovano rimane l’esempio costruito più significativo. Nonostante le opere realizzate sulle Alpi siano, nel caso dell’architetto milanese, meno numerose, è comunque possibile constatare una lettura della tradizione diversa da quella espressa da Mollino, ma ugualmente eloquente e chiarificatrice. Il tradizionale elemento del ‘bolero’ consiste solitamente in un ceppo in legno sormontato da un sorta di ruota in pietra. Nel rileggere questo componente Mollino disegna un monolite sintetizzando il volume nella forma ‘a fungo’. Mollino, a differenza dell’opinione corrente tra gli specialisti in materia che collocano l’origine del ‘bolero’ nell’esigenza di difendere i granai dai roditori, fa risalire questo elemento alle antichissime costruzioni a palafitte delle paludi padane, elemento poi trapiantato nel ‘rascard’ valdostano dalla popolazione del Walser, come particolare decorativo più che funzionale (a sostegno di questa ipotesi Mollino prende come esempi alcuni ‘rascard’ in cui il ‘bolero’ compare 51

B.Reichlin “Mollino sulle Alpi”, in Casabella n. 588, 1992


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solo nel prospetto principale). La rilettura dell’architetto torinese si concretizza a Champoluc, nel progetto di una casa di vacanze per la famiglia Garelli. Il proprietario, appassionato di costruzioni rurali, fa realizzare la nuova casa con il materiale ricavato dallo ‘smontaggio’ di un antico ‘rascard’. Mollino si limita ad una generale ristrutturazione interna per la parte lignea, mentre progetta ‘da zero’ il basamento in pietra, la scala esterna in calcestruzzo e i ‘boleri’, sancendo in maniera definitiva la sua interpretazione in senso ‘stilistico’ e derivativo. Albini esterna la sua concezione ‘moderna’ di ‘rascard’ nell’Albergo Rifugio Pirovano: nella sua soluzione del ‘bolero’ la ruota è ridotta a lastra, più spessa al centro e disposta parallelamente alla direzione delle travi. Albini arriva a questo esito partendo da una lettura dell’elemento tradizionale in chiave puramente ‘funzionale’. Delle funzioni originali, in particolare, preserva e accentua solamente quella strutturale: il ‘fungo’ non fa altro che ripartire in modo migliore il carico delle travi. Reichlin vede nel lavoro di Franco Albini il concretizzarsi delle tesi sull’architettura rurale esposte da Pagano qualche anno prima, nel testo-manifesto della Triennale di Milano del 1936: [Soprattutto la spregiudicata coerenza funzionale e tecnica sono evidentemente leggibili in queste opere di architettura rurale. La funzionalità è sempre stato il fondamento logico dell’architettura. Soltanto la presunzione di una società innamorata delle apparenze poté far dimenticare questa legge eterna ed umana nello stesso tempo. Oggi questa legge è stata riscoperta e difesa non solo per ragioni estetiche, ma anche per un bisogno morale di chiarezza e di onestà.] Mollino e Albini dimostrano una capacità particolare per quanto riguarda il progettare: entrambi rispondono a principi funzionali e ‘razionali’, ma non esauriscono la loro adesione alla modernità nella traduzione meccanica di un criterio teorico di valenza universale.


[C.Mollino Particolare di Casa Garelli, Champoluc (Aosta) 1963-65]


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I ‘principi moderni’ dialogano ed entrano in relazione sia con una realtà concreta (quella del contesto), che con un’intera cultura costruttiva (patrimonio della tradizione). Mollino ripercorre e scava nella tradizione per farla sua, per re-inventarla, assimilarla. Rendere contemporaneo ciò che è passato, è accettare come ‘campo d’azione’ della fantasia, dell’invenzione il patrimonio consegnatoci dalla tradizione. Non è giusto operare come se niente fosse stato fatto: il guardare alla storia rende capaci di rispondere più coscientemente ai problemi del presente, proprio perché s’individuano l’origine e si colgono le ragioni dell’esistere di ogni elemento costruttivo realizzato, di ogni materiale impiegato, di ogni soluzione spaziale adottata. Di questa volontà di ‘fra proprio’ ciò che è venuto prima mi colpiscono in particolare due aspetti: il primo è che l’interesse per la tradizione viene vissuto come l’esito di una personalissima passione per tutto ciò che riguarda la montagna; il secondo invece è che, questa curiosità produce non una ripetizione stilistica ‘passiva’ ma una capacità inventiva ricchissima. Conoscere la tradizione è toccare con mano, è vedere da vicino secondo i diversi punti di vista consentiti: non solo quello del costruttore o del progettista, ma anche quello del turista e dello sciatore. Fare nel presente esperienza della montagna a tutto campo, per poter interpretare la tradizione e per essere profondamente capaci di reinventarla secondo un carattere moderno. Non è azzardato dire che, forse per Mollino questo rapporto così stretto con il luogo e il suo patrimonio costituisce una componente fondamentale, ineliminabile del suo essere un architetto ‘moderno’. Albini guarda alla tradizione come ad un deposito stratificato di conoscenze acquisite con il tempo dal fare dell’uomo. A differenza di Mollino, che porta avanti la disciplina in maniera più autonoma, Albini è a tutti gli effetti un esponente del Moderno anche se occorre sottolineare


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che la sua è una personalità ‘razionalista a-tipica’: [le variazioni e gli ‘scarti’ appaiono spesso nel suo percorso architettonico, pur nel rigore che tutti riconoscono alla sua ricerca. Una luce diversa si proietta quindi sulla sua ‘conversione’ al razionalismo, avvenuta nel 1932, dopo un drammatico confronto con Edoardo Persico. Essa appare cioè tutt’altro che un’adesione stilistica ma, piuttosto, fedele proprio al nucleo centrale dell’insegnamento di Persico, un antiformalismo che non dà mai alcun partito compositivo per scontato: forse la sostanza più vera della personalità di Albini.]52 La convinzione e la decisione con cui Albini vive il suo essere architetto è un aspetto che reputo molto significativo. Nel suo ‘mestiere’ l’insegnamento della tradizione è duplice: da una parte è il recupero di tecniche, metodi e conoscenze materiali, dall’altra è la ripresa di un modo ‘artigianale’ di procedere dentro la pratica progettuale. La cura del dettaglio, la ricerca portata avanti per un costruire che sia ‘a regola d’arte’ implica non ridurre la modernità a dei principi da rispettare e ‘costringe’ l’architetto a trovare un’identità che sia solo sua. Albini parte certamente dalla modernità, ma è capace di renderla significativa grazie ad un approccio progettuale come quello descritto finora.

52

A.Rossari “Un percorso antiformalista tra modernità e tradizione”, in F.Bucci, F.Irace (a cura di) Zero Gravity. Franco Albini Costruire le modernità, Electa, Milano 2006


Bibliografia


L ib ri

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A. Sartoris Introduzione alla Architettura Moderna, Hoepli, Milano 1944 • B.Zevi Storia dell’architettura moderna, dalle origini al 1950, Einaudi, Torino 1950 • M.Cereghini Costruire in montagna. Architettura e storia, Edizioni del Milione, Milano 1956 • G.E.Kidder Smith L'Italia costruisce, Edizioni di Comunità, Milano 1955 • G.E.Kidder Smith Guida all’architettura moderna in Europa, Edizioni di Comunità, Milano 1964 • E.N.Rogers Editoriali di architettura, Einaudi, Torino 1968 • H.J.Hansen Architettura in legno, Vallecchi, Firenze 1969 • G.Brino Carlo Mollino. Architettura come autobiografia, architettura, mobili, ambientazioni 1928-1973, Idea Books, Milano 1985 • M.Tafuri Storia dell’architettura italiana. 1944-1985, Einaudi, Torino 1986 • G.Ciucci Gli architetti e il Fascismo, architettura e città 1922-1944, Einaudi, Torino 1989 • M.Tafuri, F.Dal Co Architettura contemporanea, Electa, Milano 1992 • K.Frampton Storia dell’architettura moderna, Zanichelli , Bologna 1993 • G.Ciucci, F.Dal Co Architettura italiana del ‘900, Electa, Milano 1993 • E.Faroldi, M.P.Vettori Dialoghi di Architettura, Alinea Editrice, Firenze 1995 • E.Tamagno Carlo Mollino. Esuberanze soft, Universale di architettura n.2, Testo & Immagine, Torino 1996 • A.Piva, V.Prina Franco Albini 1905-1977, Electa, Milano 1998 • L.Bolzoni Architettura moderna nelle Alpi italiane, Quaderni di Cultura Alpina, Priuli &Verlucca Editori, Pavone Canavese (Torino) 2000 • G.Durbiano M.Robiglio Paesaggio e Architettura nell’Italia contemporanea, Donzelli Editore, Roma 2003 • G.Brino Carlo Mollino. La Capanna Lago Nero, Idea Books, Milano 2005 • V.Prina Franco Albini – Albergo Rifugio Pirovano a Cervinia, Momenti di Architettura Moderna, Alinea Editrice, Firenze 2005 • L.Benevolo Storia dell’architettura moderna, Editori Laterza, Roma-Bari 2006 • J.M.Montaner Dopo il movimento modernol’architettura della seconda metà del Novecento, Editori Laterza, RomaBari 2006 • L.Spinelli (a cura di) I luoghi di Franco Albini. Itinerari di architettura, Electa, Milano 2006 • M.Biraghi Storia dell’architettura contemporanea II. 1945-2008, Einaudi, Torino 2008


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Riviste e Periodici

“Una costruzione di oggi a Cervinia che deve entusiasmare tutti gli sciatori; Centro sportivo in verticale 'Quota 2600'; Stazione della slittovia al Lago Nero”, in Domus n. 226, 1948 • “La Stazione della Slittovia al Lago Nero”, in Movimento Comunità n. 2, 15 Novembre 1948 • “Station de ski au Lac Noir”, in L’Architecture d’Aujourd hui n. 21, Dicembre 1948 • C.Mollino “Dalla funzionalità all’utopia nell’ambientazione”, in Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e Architetti in Torino n. 1, Gennaio 1949 • C.Mollino “Utopia e ambientazione I”, in Domus n. 237, 1949 • C.Mollino “Utopia e ambientazione II”, in Domus n. 238, 1949 • F.Albini “Albergo per ragazzi a Cervinia”, in Edilizia Moderna n. 47, Dicembre 1951 • F.Albini “Albini in montagna, Albini in città”, in Domus n. 271, Giugno 1952 • C.Mollino L.Belgiojoso, I.Gardella, A.Cavallari Murat, “Fedeltà o evasione dalla funzionalità o dalla razionalità?”, in Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e Architetti in Torino n. 7, Luglio 1952 • C.Mollino “La stazione della Funivia del Fuerggen”, in Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e Architetti in Torino n. 3, Marzo 1953 • “Auberge pour jeunes à Cervinia”, in L’Architecture d’Aujourd hui n. 48, Luglio 1953 • C.Mollino “Tabù e tradizione nella costruzione montana”, in Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e Architetti in Torino n. 4, Aprile 1954 • E.N.Rogers “La responsabilità verso la tradizione”, in Casabella-continuità n. 202, 1954 • “Dibattito sulla tradizione in architettura”, in Casabella-continuità n. 206, 1955 • E.N.Rogers “Continuità o Crisi?”, in Casabella-continuità n.215, Aprile-Maggio 1957 • P.Portoghesi, P.Marconi “Gli anni difficili del movimento moderno”, in Comunità n. 87, 1961 • A.C.Quintavalle “Architettura e ambiente in un progetto di Franco Albini”, in Comunità n. 95, Dicembre 1961 • G.Brino “Carlo Mollino”, in Lotus n. 16, Settembre 1977 • R.Gabetti “Sul lago una casa di Carlo Mollino”, in Abitare n. 230, Dicembre 1984 • L.Bolzoni “Un progetto inedito di Carlo Mollino”, in Domus n. 698, 1988 • B.Reichlin “Mollino sulle Alpi”, in Casabella n. 588, 1992 • C.Olmo (a cura di), “La ricostruzione in Europa nel secondo dopoguerra”, in Rassegna n. 54/2, Giugno 1993 • L.Bolzoni “Carlo Mollino e la montagna”, in Ottagono n. 117, Dicembre 1995 • L.Bolzoni, M.Carones “Il moderno in Valle d’Aosta. 1945-1970” Itinerario n.123, in Domus n. 782, Maggio 1996


C a t a lo g h i

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F.Irace (a cura di) Carlo Mollino, 1905-1973, Torino 05 Aprile- 30 Luglio 1989, Electa, Milano 1989 • L.Moretto (a cura di) Architettura Moderna Alpina in Valle d’Aosta, Aosta 12 luglio – 12 Ottobre 2003 Musumeci Editore, Quart 2003 • F.Bucci, F.Irace (a cura di) Zero Gravity. Franco Albini Costruire le modernità, Milano, 28 Settembre - 26 Dicembre 2006, Electa, Milano 2006 • S.Pace (a cura di) Carlo Mollino architetto 1905-1973. Costruire le modernità, Torino 13 Ottobre 2006 - 07 Gennaio 2007, Electa, Milano 2006 • F.Ferrari, N.Ferrari (a cura di) Carlo Mollino. Arabeschi, Torino 20 Settembre 2006 – 07 Gennaio 2007, Electa, Milano 2006


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