Sante ragioni

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Pamphlet, documenti, storie REVERSE


Autori e amici di

chiarelettere Avventura Urbana Torino, Andrea Bajani, Gianni Barbacetto, Stefano Bartezzaghi, Oliviero Beha, Marco Belpoliti, Daniele Biacchessi, David Bidussa, Paolo Biondani, Caterina Bonvicini, Alessandra Bortolami, Giovanna Boursier, Carla Buzza, Olindo Canali, Davide Carlucci, Luigi Carrozzo, Carla Castellacci, Massimo Cirri, Fernando Coratelli, Pino Corrias, Gabriele D’Autilia, Andrea Di Caro, Giovanni Fasanella, Massimo Fini, Fondazione Fabrizio De AndrÊ, Goffredo Fofi, Massimo Fubini, Milena Gabanelli, Vania Gaito, Mario Gerevini, Gianluigi Gherzi, Salvatore Giannella, Francesco Giavazzi, Stefano Giovanardi, Franco Giustolisi, Didi Gnocchi, Peter Gomez, Beppe Grillo, Ferdinando Imposimato, Karenfilm, Giorgio Lauro, Marco Lillo, Felice Lima, Giuseppe Lo Bianco, Carmelo Lopapa, Vittorio Malagutti, Luca Mercalli, Lucia Millazzotto, Angelo Miotto, Letizia Moizzi, Giorgio Morbello, Alberto Nerazzini, Sandro Orlando, Pietro Palladino, David Pearson (graphic design), Maria Perosino, Renato Pezzini, Telmo Pievani, Paola Porciello (web editor), Marco Preve, Rosario Priore, Emanuela Provera, Sandro Provvisionato, Luca Rastello, Marco Revelli, Gianluigi Ricuperati, Sandra Rizza, Marco Rovelli, Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Salerno, Ferruccio Sansa, Evelina Santangelo, Michele Santoro, Roberto Saviano, Matteo Scanni, Filippo Solibello, Bruno Tinti, Marco Travaglio, Carlo Zanda.



PRETESTO 1

f a pagina 273

“Un’autorità morale diventa soggetto politico, ma non accetta di essere giudicata con criteri politici… Fa appello alle norme imperative di un supposto diritto naturale, ma non accetta le evidenze della natura. Pretende per sé il monopolio non soltanto della fede, bensì del ‘retto ragionare’, ma non accetta che i suoi argomenti sofistici siano passati al vaglio della ragione. E noi tutti siamo diventati senza accorgercene... una comunità in libertà vigilata.”


f a pagina 10 “Questo non è un libro anticlericale, anche se non vi sarebbe nulla di male… Qualsiasi potere, qualsiasi casta, più o meno sacerdotale, è bene che abbia un leale e vigile oppositore che la tenga lontana da tentazioni di impunità.”

f a pagina 96

“Il diritto canonico prevede… che un matrimonio celebrato in Chiesa… possa essere giudicato falso. Non tutti sono però autorizzati a giudicare: per questo c’è il tribunale della Sacra Rota. Lo Stato italiano riconosce le sentenze di questo tribunale religioso ed extraterritoriale… Nel mondo civile le unioni si formano e si sciolgono, ma il passato non si annulla. Il matrimonio cattolico, invece, o è eterno o non è mai avvenuto.”


PRETESTO 2

f a pagina 91

“Purtroppo… non possiamo chiudere le biblioteche del male, né distruggere le sue cineteche che si riproducono come virus letali.” Angelo Amato, segretario della Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede


f a pagina 203

“L’esenzione ICI decade per tutte le ‘attività di natura esclusivamente commerciale’… Se all’interno di una lussuosa clinica privata c’è una cappella votiva dove i devoti si riuniscono una volta alla settimana per attività religiose, il complesso smette di essere esclusivamente commerciale. Geniale. Un albergo di lusso nel centro di Roma può sempre avere una sezione definita ‘ostello per pellegrini’. Geniale.”

f a pagina 254 “Alla finitezza della condizione umana non c’è rimedio, e noi rispettiamo tutte le religioni per il conforto che possono portare alle persone di fronte alla malattia e alla morte. Ma è una ben misera concezione dell’essere umano quella di chi ancora oggi alimenta la paura e l’ignoranza per farsi giudice delle nostre decisioni. A ben vedere, questa non è una concezione né teologica né antropologica, è una concezione politica.”


© Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo Editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: Via Guerrazzi, 9 - Milano ISBN

978-88-6190-010-3

Prima edizione: novembre 2007 www.chiarelettere.it BLOG / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA

Per l’illustrazione a pagina III, copyright © Altan/Quipos. Si ringrazia per la gentile concessione.


Carla Castellacci Telmo Pievani

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Carla Castellacci vive a Roma in un quartiere dove le strade principali portano il nome di un papa o di un cardinale, e dove si parcheggiano le auto sui passaggi pedonali e le moto sui marciapiedi. Questa condizione poteva spingerla a indagare il rapporto tra sottosviluppo del senso civico e sudditanza verso lo Stato Pontificio. Invece si è laureata in biologia maturando un interesse per la medicina, dove «giusto» è ciò che funziona nel maggior numero di casi. Se avesse preso medicina avrebbe probabilmente maturato un interesse per la biologia, dove «giusto» è ciò che spiega il maggior numero di fatti osservati. Ha preso un master in Science, Culture and Communication a Bath, in Inghilterra, poi ha iniziato a lavorare come indipendente nella comunicazione scientifica. È una assidua frequentatrice di chiese, per i tesori d’arte che custodiscono, a parziale compensazione di ciò che paghiamo con l’otto per mille. Di questo libro ha scritto le parti su Nascere, Vita di relazione, Figli e Morire. Telmo Pievani insegna Filosofia della Scienza in un giovane e promettente ateneo milanese. Si è specializzato oltreoceano, dove ha studiato alcuni aspetti dell’evoluzione biologica con Niles Eldredge all’American Museum of Natural History di New York. Tornato in Italia, è stato inseguito anche qui dal bizzarro dibattito fra evoluzionisti e creazionisti. È l’autore di Homo sapiens e altre catastrofi (Meltemi, 2002), Introduzione alla filosofia della biologia (Laterza, 2005), La teoria dell’evoluzione (Il Mulino, 2006), Creazione senza Dio (Einaudi, 2006), In difesa di Darwin (Bompiani, 2007). Onora la sua seconda passione come segretario del Consiglio Scientifico del Festival della Scienza di Genova. Ha fondato con alcuni amici Pikaia, il portale italiano dell’evoluzione. Ha curato l’edizione italiana dell’opera monumentale di Stephen J. Gould, La struttura della teoria dell’evoluzione (Codice, 2003, pp. 1732), ed è sopravvissuto. Collabora a riviste e giornali, fra i quali «Le Scienze», «Micromega» e «L’Indice dei Libri». Sua moglie, Cinzia, gli ha regalato due bimbi meravigliosi, Giulia e Luca. Un opuscolo di destra lo ha definito, con suo grande orgoglio, «il barboncino di Darwin». Del libro che state per leggere ha scritto l’Introduzione, la Conclusione e le parti relative a Educazione e scuola, Bioetica e Vita civile.


Sommario

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Introduzione

sante ragioni NASCERE

Vite indifese Difendiamo la vita. Ma la vita di chi?

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EDUCAZIONE E SCUOLA

La laicità in croce La religione nella scuola italiana? Facoltativamente obbligatoria

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VITA DI RELAZIONE

Affari di famiglia Unioni sacre e unioni profane. Come non si coniuga la diversità

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FIGLI

La legge del concepito Quando il Parlamento volle fare miracoli

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BIOETICA

La bioetica all’italiana e la scomparsa della logica Valori non negoziabili, per tutti, per legge

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VITA CIVILE

Il senso civico della casta ecclesiastica Le religioni sono uguali, ma una è molto più uguale delle altre

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MORIRE

Introvabili vie di uscita Quando l’accanimento non conosce fine

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Conclusione

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s a n t e r ag i o n i



Introduzione In Italia lo Stato costituzionale, alla cui base sta il «principio supremo» di laicità […] si confronta con una «potenza spirituale» e temporale che si minimizzerebbe assai, se si dicesse che gli è alla pari. L’articolo 7 stabilisce che lo Stato e la Chiesa (cattolica) sono, ciascuno nel proprio àmbito, indipendenti e sovrani. Ma questa non è una fotografia della realtà. A dispetto della sua formulazione, è una norma programmatica, un obiettivo che deve essere quotidianamente realizzato. Gustavo Zagrebelsky

Giovanni Nuvoli faceva l’agente di commercio e l’arbitro di calcio. Aveva cinquantatré anni. È morto il 23 luglio 2007 di sclerosi laterale amiotrofica (SLA), una gravissima e per ora incurabile patologia degenerativa che colpisce alcune cellule del midollo spinale, i motoneuroni, procurando a chi ne soffre un’atrofia muscolare progressiva che porta alla paralisi dei quattro arti e dei muscoli preposti alla deglutizione e alla parola. Nuvoli però non è morto, precisamente, per questa malattia. La SLA è così cinica e perversa da non offrire alla sua vittima un colpo di grazia risolutivo. È lenta e inesorabile, non ti lascia andar via facilmente. Ti rinchiude in un sarcofago corporeo e ti costringe a osservare fino in fondo il modo in cui madre natura può trasformare un essere umano in una silenziosa, larvale e remota parvenza di se stesso. Nuvoli quando correva sui campi di calcio pesava circa ottantacinque chili, per un metro e ottantaquattro di altezza. All’ospedale di Sassari e poi sul letto di agonia ad Alghero, nella casa trasformata in una sala di rianimazione, era arrivato a pesarne poco più di trentacinque. Per molto tempo aveva comunicato con la moglie Maddalena per


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mezzo del battito delle ciglia, indicando le lettere dell’alfabeto su una lavagna in plexiglas. Gli avevano anche applicato un sintetizzatore vocale. Attraverso questi strumenti tecnologici aveva ripetutamente e pubblicamente comunicato, in modo lucido, il desiderio di morire senza più soffrire, addormentandosi dolcemente. A suo tempo non chiedeva neppure il distacco della macchina, ma soltanto di non ricevere più i medicinali, di interrompere una pratica che riteneva ormai un inutile accanimento. Le aveva tentate tutte, per risparmiarsi le ultime torture di un’esistenza che considerava ormai divenuta semplice sopravvivenza in un involucro a lui estraneo. Le autorità, per evitare che un anestesista potesse interrompere la ventilazione meccanica come era accaduto con Piergiorgio Welby nel 2006, lo tenevano d’occhio. Inutilmente, visto che per quel gesto caritatevole il medico di Welby fu poi prosciolto dall’accusa di «omicidio del consenziente». Il 10 luglio erano intervenute ad Alghero persino le forze dell’ordine per scongiurare il distacco del respiratore. Così a quest’uomo non è rimasta altra scelta che morire di inedia, rifiutando, dal 16 luglio in poi, di assumere cibo e acqua. Nella sonda collegata allo stomaco non è più passato alcun tipo di alimento. Si è spento per deperimento, lentamente, di ora in ora, circondato dai suoi familiari. Il fisico ha resistito fino alla notte del 23 luglio. Per avere una morte «naturale», per avere una morte perfettamente legale, senza pattuglie delle forze dell’ordine che bussano alla porta, Giovanni Nuvoli ha scelto di morire di consunzione. Forse non riusciamo nemmeno a immaginare cosa proveremmo se una situazione simile capitasse a un nostro caro, ma di certo la nostra ragione e un pizzico di immedesimazione ci portano a concludere che non abbiamo rispettato appieno la sua libertà, la sua dignità e la sua volontà di porre fine a sofferenze divenute intollerabili. Visto che l’incertezza della legge talvolta sa essere addi-


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rittura paradossale, quando il corpo ha cessato di vivere nessuno ha avuto il coraggio di spegnere il respiratore, che Nuvoli non aveva voluto fin dall’inizio e che chiamava ironicamente «mio fratello». Così il suo petto è andato avanti a battere, imperterrito, irreale, macabro, per alcune ore ancora nella notte. Sorella macchina ha fatto il suo mestiere fino alla fine, riempiendo e svuotando i polmoni con la stupida e oscena ripetitività di quel soffio sibilante e sinistro.

Il partito della «vita» Questi i nudi fatti, che ciascuno può soppesare come meglio ritiene nella propria coscienza. Se davvero, come ci ricorda il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, «l’uguale dignità di tutti gli esseri umani» è il fondamento della democrazia e della laicità, casi come questo pongono un serio interrogativo sulla situazione italiana. Dal punto di vista legislativo il problema in Italia consiste in un persistente vuoto giurisdizionale. Il diritto posto a base della richiesta di Nuvoli, cioè di rifiutare le cure mediche, è solidamente garantito: è previsto a livello internazionale dall’articolo 5 della Convenzione di Oviedo e a livello nazionale dall’articolo 32, comma 2, della Costituzione italiana. Tuttavia, permangono molte incertezze su come un medico possa dare seguito alla richiesta di un paziente di interrompere un trattamento e sulle modalità per raccogliere e certificare la volontà dei pazienti, spesso in questi casi paralizzati e impossibilitati a esprimersi liberamente. In sostanza, esiste il diritto ma regna la confusione su come e quando lo si possa applicare. Risultato: un uomo muore di consunzione, davanti ai familiari, perché un diritto costituzionale non gli viene riconosciuto. Una soluzione dirimente ci sarebbe, si chiama «testamento biologico» o «dichiarazione anticipata di volontà», ma per-


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sino una misura minimale come questa nel nostro paese fatica a tradursi in norma. Alcuni nostri concittadini, appartenenti alla principale confessione religiosa italiana, sembrano invece avere le idee chiare su casi come quello di Giovanni Nuvoli. Lo storico e battagliero presidente del Movimento per la Vita Carlo Casini dichiara: «Da un punto di vista giuridico l’unico dato veramente certo è che la vita umana è un bene non disponibile. Di conseguenza dubito molto che si possa parlare di un diritto umano a rifiutare le cure».1 Forse per fugare i suoi angosciosi dubbi basterebbe rileggere la Costituzione italiana all’articolo 32: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Per il momento pare che sia ancora in vigore. Il filosofo morale Francesco D’Agostino, ex presidente del Comitato Nazionale di Bioetica, si è fatto invece un’idea molto bizantina della vicenda: «Non credo che Giovanni Nuvoli si sia voluto far morire di fame, credo piuttosto che il suo rifiuto del cibo e il decesso che ne è conseguito siano da addebitare allo stato avanzato della malattia che rende il corpo estremamente fragile».2 Un’altra mossa retorica cara a chi ama benedire la sofferenza redentrice (degli altri) è l’accusa di strumentalizzazione politica. Si tratta di vicende personali drammatiche, da trattare con pudore, si suole ripetere da entrambi gli schieramenti politici con pelosa commiserazione: non dobbiamo trasformarle in bandiere per campagne politiche di parte. Si potrebbe anche essere d’accordo, ma l’argomento è poco pertinente: qui si tratta infatti di una situazione concreta, che prescinde da qualsiasi militanza ideologica, riguardante un essere umano in carne e ossa, il quale chiede il riconoscimento di un diritto. Possiamo negarglielo, argomentando, ma non possiamo impedire che il suo caso sia di esempio per altri. È dunque una vicenda pubblica, da discutere apertamente in comunità, giacché


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concerne la difesa di un diritto individuale che può valere per chiunque. Un ulteriore argomento adottato in questi casi per non riconoscere un diritto – l’argomento forse più odioso e scorretto – è quello di chi artatamente cerca di invertire i ruoli fra liberali e illiberali. Così commenta enfaticamente la morte di Nuvoli Gianni Gennari sull’«Avvenire» del 26 luglio 2007: «Il problema non è disfarsi della vita, ma accompagnarla sempre, e la vera contraddizione è di chi, strumentalizzando ogni cosa, non capisce più la differenza tra accompagnare chi muore e ucciderlo. Confonde la vita e la morte, e vuole che la sua confusione detti legge a tutti! Grazie, no!». La prosopopea infiammata del partito della «vita», e del dolore (degli altri), gioca brutti scherzi. Naturalmente tutti sappiamo bene che né Giovanni Nuvoli né chi difendeva i suoi diritti intendeva dettar legge a nessuno. Stavano soltanto chiedendo una possibilità, lasciando del tutto liberi gli altri – compresi altri malati di SLA di orientamento differente – di fare le proprie scelte. Semmai è vero esattamente il contrario: una confusione legislativa ha negato a un uomo un diritto, con le forze dell’ordine – umanamente imbarazzate – a far la spola fra l’uscio di casa e il capezzale. Infine, un altro espediente sofistico del partito confessionale bipartisan italiano – inventato molto più di recente, con il sapor della scappatoia – è quello delle, benemerite, cure palliative. Lasciamo stare i testamenti biologici, si dice, e investiamo nelle terapie che alleviano il dolore. Giustissimo, ovviamente. Ma la logica ci impone due osservazioni. Primo: non si era detto per secoli, e ancora si dice, che il dolore purifica? Non si sono dovute (e si devono ancora) vincere resistenze religiose persino all’introduzione dell’anestesia epidurale per il parto negli ospedali pubblici? Ma non sottilizziamo e apprezziamo almeno che si sia fatto un passo avanti. È interessante notare però come in que-


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sti casi non vi sia mai il riconoscimento esplicito del mutato orientamento. Raramente troviamo scritto, per esempio, «ci siamo sbagliati nel fare battaglie per decenni contro la medicina lenitiva, pensando che il dolore (degli altri) avesse una funzione nobilitante e catartica, come sta scritto in qualche sacra scrittura». La tecnica mediatica è semplice ed efficace: le cure palliative adesso sono un argomento utile per evitare di affondare in temi più delicati, e scordiamoci il passato. Secondo: finanziare le cure palliative è forse in alternativa al riconoscimento del diritto fondamentale di un individuo a rinunciare a cure mediche che ritiene in cuor suo inutili o personalmente inaccettabili? Morire per non vedersi amputata una gamba si può. Morire per non farsi fare una trasfusione di sangue si può. Morire per non dover soffrire inutilmente, in una condizione di paralisi totale e di dipendenza da un respiratore, invece no. Quale contrapposizione vi sarebbe fra il rifiuto di un trattamento medico e il diritto all’utilizzo della medicina più avanzata per soffrire il meno possibile? A una persona razionale questi dovrebbero sembrare due diritti egualmente importanti, e niente affatto in competizione o in sostituzione l’uno dell’altro. Uno Stato civile e progredito dovrebbe offrire ai suoi cittadini, in teoria, il maggior numero di opzioni lecite di scelta, evitando per quanto possibile di imporre al singolo orientamenti etici di parte. Comunque sia, per alcuni, laddove non si segua questo palliativo retorico delle cure palliative si finisce dritti nell’omicidio. Il gioco si fa duro e spuntano le parole grosse: «cultura della morte», «atteggiamento necrofilo nei confronti dei malati», e così via. Carlo Casini su Welby non ha dubbi, si tratta di un atto deliberato per uccidere: «Si è così determinata deliberatamente l’immediata e inevitabile morte del malato che avrebbe potuto sopravvivere a lungo».3 Ecco, appunto, il problema è proprio che Welby e


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Nuvoli avevano dichiarato al mondo intero di non avere più intenzione di sopravvivere più a lungo in quel modo. Volevano porre fine a una tortura e noi stiamo affermando, senza l’ombra di un’incertezza morale, che quello non solo non era un loro diritto, ma che i loro eventuali complici commettono un reato punibile per legge. In ultima istanza, un peccato previsto da una specifica confessione religiosa fra le altre – voler disporre liberamente della propria vita quando in realtà appartiene a Dio – trasformato in precetti da un dottore della Chiesa in occasione di un qualche concilio medioevale un millennio e mezzo fa, viene tradotto in un reato nel 2007.

Questo non è un libro sulla fede Possiamo ritenere che in questo atteggiamento vi sia ben poca pietas cristiana, ma non è questo il punto. Possiamo semmai aggiungere, di passaggio, che forse in Italia si farebbe un buon servizio al pluralismo democratico se si desse talvolta voce, in questi dibattiti, anche alla legittima indignazione morale che molti cittadini provano dinanzi ad affermazioni così intransigenti e inumane. Portare una tonaca o dichiararsi adepti di una religione non implica affatto, sappiamo bene, l’essere automaticamente immuni da comportamenti immorali e riprovevoli. Ma nemmeno questa ovvietà rappresenta il punto della questione. Ciò che più ci preme analizzare qui sono gli effetti di questi comportamenti sulla vita di tutti, indipendentemente dall’appartenenza religiosa, e sugli spazi di libertà che ciascuno conserva riguardo alle scelte fondamentali circa la propria esistenza. In altri termini, la domanda di fondo da cui nasce questo libro non è affatto se la religione sia una cosa buona o cattiva in sé. Né ci sfiora il dubbio di negare che temi come quelli appena evocati implichino la necessità di una se-


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ria e rigorosa riflessione etica. Attorno al concetto di «eutanasia», per esempio, si addensano rischi etici reali e molto seri: qualcuno potrebbe interpretarlo in modo troppo generale e applicarlo a casi e a metodi che lo travalicano. La domanda di fondo che ci interessa qui è molto più semplice, contingente e concreta: che paese è quello in cui può materializzarsi, nell’anno 2007, una storia come quella di Giovanni Nuvoli? A quale tipo di comunità apparteniamo oggi, che possa rimuovere dalla coscienza, o giustificare come necessaria, una vicenda di questo genere? E ancora, che tipo di dibattito pubblico è quello in cui possiamo trovare argomenti contraddittori e ambigui, ma ammantati di «razionalità», come quelli prima esemplificati? Prima di iniziare sgombriamo il campo da alcuni possibili fraintendimenti. Questo non è un libro anticlericale, anche se non vi sarebbe nulla di male. All’anticlericalismo andrebbe riconosciuta in Italia qualche credenziale in più, non solo per il consenso crescente che riscuote – ampiamente taciuto dai media – ma anche per il legittimo e utile contraddittorio che produce nei confronti del sovrannaturalismo diffuso. Qualsiasi potere, qualsiasi casta, più o meno sacerdotale, è bene che abbia un leale e vigile oppositore che la tenga lontana da tentazioni di impunità. Ancor meno questo vuole essere un libro sulla fede, sentimento personalissimo di ciascuno, sui fenomeni religiosi, sulle sacre scritture o sul catechismo. Non è insomma un libro sulla complessità del cattolicesimo né sulla teologia. Non è per la verità nemmeno un libro sulla Chiesa intesa come plurale, eterogenea e pulsante comunità di credenti. Non è un libro di ricostruzioni storiche di controversie fra Stato e Chiesa, e a ben guardare non è neppure un libro sulle gerarchie ecclesiastiche in quanto tali. Non ci occuperemo quindi di molti temi pur interessanti: della Conferenza di Ratisbona del settembre 2006 e


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dei suoi effetti sul mondo islamico; dell’afasia del cattolicesimo democratico; della sferzata al dialogo ecumenico arrivata il 10 luglio 2007 con la proclamazione, da parte della Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, della Chiesa cattolica come «unica Chiesa di Cristo», con esclusione delle comunità cristiane nate dalla Riforma; della reintroduzione opzionale della messa in latino per riassorbire lo scisma lefreviano; di quanto siano più comprensivi, umani e «progressisti» altri cardinali. Sono tutti aspetti che rispettosamente non affronteremo. Ci occuperemo, invece, delle posizioni di numerosi e potenti uomini di Chiesa contemporanei, o di uomini di fede che al magistero della Chiesa si attengono, su questioni che riguardano la vita di tutti. Non pensiamo che le loro idee siano quelle della Chiesa tout court, ma non reputiamo neppure che il loro interventismo parapolitico sia minoritario o poco influente. Il punto cruciale per noi è che le loro tesi portano oggi un particolare accento su due caratteristiche salienti. La prima è che tendono a essere sempre più tradotte in indicazioni legislative obbligatorie per tutti i cittadini, grazie alle pressioni efficaci di una maggioranza parlamentare trasversale che segue diligentemente gli orientamenti sempre più vincolanti e precisi della Conferenza Episcopale Italiana. La seconda è che esse vengono frequentemente presentate, soprattutto da Ratisbona in poi, non più come dogmi di fede indiscutibili e oggetto di devota e cieca credenza, bensì come autentiche manifestazioni di «razionalità» o di «ragionevolezza». Anzi, di una razionalità «più ampia», «superiore». Si è persino scomodato l’aggettivo «illuministica». La fede si incentrerebbe infatti sulle certezze, evidenti alla ragione, del diritto naturale. Dalla presunta «razionalità della fede», o dalla premessa che la fede sia il compimento del «retto ragionare», deriva un impianto schiettamente ideologico di lettura della con-


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temporaneità. Lo si vede chiaramente nel revisionismo scientifico e nel revisionismo storico al centro di alcune recenti campagne di opinione. Il primo conduce a negare l’evidenza di conquiste scientifiche acquisite, come la teoria dell’evoluzione darwiniana.4 Il secondo conduce a ricostruzioni della figura storica di Gesù che da un lato si ammantano della razionalità critica del metodo storico, dall’altro vendono come dati acquisiti della ricerca storica quelle interpretazioni letteraliste e fondamentaliste dei testi sacri che proprio la ricerca storica più accreditata ha da tempo giudicato inconsistenti. Tuttavia, da un altro punto di vista, questa duplice matrice della pervasività sociale e della razionalità è in qualche modo benvenuta. Se infatti quelle idee condizionano direttamente la nostra vita e se davvero sono espressioni della razionalità universale umana, siamo allora autorizzati a prenderle in considerazione per ciò che intendono essere e ad analizzarle, appunto, usando gli strumenti dell’indagine razionale. Potremo dunque confrontarle con l’evidenza dei fatti, giudicare la fondatezza delle loro premesse di partenza, verificarne la coerenza interna. Potremo insomma esaminarle e discuterle da un punto di vista logico e argomentativo. Ci attendono dunque, come si addice a una razionalità aperta e fallibile, molti dubbi e poche risposte.

Scivoloni naturalistici In concreto, vediamo dove si infrange questo ardito «nuovo illuminismo» quando si tratta di affrontare casi che attengono empiricamente alla vita di singoli esseri umani. Torniamo brevemente ai casi di Welby e di Nuvoli. La sacralità e l’intangibilità della vita vengono difese, si è detto, ricorrendo a un presunto diritto «naturale». L’uomo non può sostituirsi a Dio – sentiamo ripetere – e quindi alla natura, attraverso la quale la sua volontà si ipostatizza e si


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esplica. Per questo esiste un intero catalogo di comportamenti che sarebbero «contro-natura», e non soltanto «contro-Dio». Di epoca in epoca, i chierici ci hanno spiegato che sono contro-natura l’omosessualità, la masturbazione, la contraccezione, il sesso prima del matrimonio, e così via. Sarebbero al contrario «naturali» un certo tipo di famiglia, di comportamenti sessuali e di relazioni fra uomo e donna. Qui però i problemi di coerenza logica e razionale si moltiplicano, per diversi motivi. Se ricorriamo all’evidenza empirica, vediamo che in natura – se di questo stiamo parlando – la norma è esattamente all’opposto: promiscuità sessuale, molteplicità di comportamenti sessuali e di modelli di «famiglia». Talvolta vi è persino disgiunzione fra sesso e riproduzione. Se proprio vogliamo usare la natura come metro morale, nulla è più innaturale dell’astinenza sessuale forzata per l’intera durata della vita. Semmai vale il punto di vista inverso, la comparsa di caste sacerdotali improduttive e sterili è un fenomeno di evoluzione culturale, figlio a sua volta dell’invenzione dell’agricoltura, della sedentarietà e di altri processi naturali intervenuti nell’evoluzione della specie Homo sapiens. È bene poi ricordare che la sacralità del «diritto naturale» non è affatto una concezione filosofica scontata per il cattolicesimo. La natura smette infatti di essere prioritariamente il luogo della caduta, della colpa, del peccato, ed è sempre più la natura voluta dal Dio creatore. Ne derivano così l’idea della natura violata dall’ingegneria genetica e «manipolata» dagli scienziati, il lamento secolare circa una naturalità «sacra» violata dalle azioni umane, l’abusato luogo comune della superbia «prometeica». La vecchia concezione della natura corruttibile in quanto tale, della natura come luogo immanente delle peregrinazioni terrestri in attesa di una redenzione, non si adatta bene all’interventismo temporale e a incursioni etiche tuttologiche. Non è un caso che, per converso, abbia perso molto appeal, nei


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documenti dottrinari ufficiali, il concetto di trascendenza assoluta. Meglio un paradossale «bio-teologismo» che individua di volta in volta i suoi totem sacri qui e ora – l’embrione, un certo modello di famiglia, la cellula staminale – in base alle contingenze del dibattito pubblico e ai venti mutevoli del potere.5 Poco importa se poi, con buona pace della coerenza circa il mondo «naturale», sono considerati (per fortuna) «conformi alla legge morale» e «grande conquista della scienza» i trapianti di organi da soggetti ancora in vita. La sottile linea rossa della naturalità si sposta in funzione del momento storico. Gli «xenotrapianti» di organi transgenici da animali a esseri umani sono una tecnica, non priva di rischi peraltro, la cui «innaturalità» non ha eguali, eppure sono stati approvati da papa Wojtyla nel 2000. Anche chi è ben lieto di questo placet non può non notare che il partito della «vita» non ha agitato in questo caso lo spettro di mostruose chimere uomo-animale, mentre lo fa sempre quando si sperimentano tecniche di produzione di embrioni misti per fini di ricerca. Perché il castello di sabbia svanisca, basta andare nello specifico. I casi di Welby e di Nuvoli in questo contesto rappresentano una contraddizione stridente per i nostri pensatori confessionali. Si vuole infatti difendere il principio della intangibilità, coatta, di una vita resa del tutto artificiale dalle macchine. Qui si vuole in sostanza garantire la sacralità di un’esistenza – o di una tortura, dipende dai punti di vista (laddove forse il punto di vista del titolare di quella esistenza dovrebbe essere prioritario) – completamente innaturale. Welby e Nuvoli in fondo chiedevano, in piena e libera coscienza, di interrompere quella che consideravano, appunto, un’inutile e dolorosa violenza contro la natura, presentatasi sotto le sinistre vesti della sclerosi laterale amiotrofica. Chiedevano che si facesse proprio la volontà della natura o se preferiamo, nella visione di un cre-


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dente (come Nuvoli peraltro si professava), che si facesse la volontà del Signore. Secondo i nostri teologi, invece, in questa sottospecie il principio non sussiste. La ventilazione meccanica è naturale, il polmone artificiale è naturale. Potenza degli ossimori.

«Doveva aspettare il suo momento» Le sottigliezze del sedicente «diritto naturale» sarebbero anche, si dice, il frutto necessario dell’unico vero e «retto ragionare». Vediamo allora dove ci conduce questa bizzarra forma di «razionalità» analizzando un’altra questione significativa: il paradosso dei funerali religiosi rifiutati a Piergiorgio Welby nel dicembre 2006 e concessi a Giovanni Nuvoli nel luglio 2007. È chiaro che ciascuna confessione religiosa è liberissima di concedere i funerali, secondo il proprio rito, a chi vuole. Se decide di concederli ai peggiori assassini, ai mafiosi e a dittatori sanguinari, e non a un malato di SLA, avrà i suoi criteri e ciascuno li valuta per quello che sono. Il diniego vale nel momento in cui vi è una richiesta da parte di un credente di quella confessione: la moglie nel caso di Welby; l’interessato stesso nel caso di Nuvoli. È un problema privato, ma possiamo valutare i criteri pubblicamente avanzati per fondare la differenza di trattamento. Si sarebbe potuto facilmente giustificare la scelta sostenendo che Welby non era credente, mentre Nuvoli sì. Punto: un’insindacabile questione interna a quella Chiesa. Invece no: anche qui si vogliono scomodare argomenti apparentemente «razionali». Una prima distinzione suona quasi plausibile, volendo essere indulgenti e facendo la tara a tutto il carico di ipocrisia insito in queste capziose tassonomie teologiche. Si concedono i funerali religiosi ai suicidi perché si presume misericordiosamente che il loro gesto sia stato inconsulto, frutto di un improvviso e fatale raptus in-


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cosciente. Non si concedono viceversa i funerali religiosi a quei suicidi, come si presume Welby, che hanno espresso anticipatamente e deliberatamente l’intenzione di compiere l’insano gesto. Ora, tralasciamo di considerare, solo per brevità, la contraddizione palese a tale principio che si realizza ogniqualvolta vengono concessi i funerali a suicidi che hanno lasciato lettere di addio, prova evidente di premeditazione. Ma tra Welby e Nuvoli? Dove sta la differenza? Entrambi avevano pubblicamente espresso il desiderio di interruzione del trattamento sanitario. Ebbene, secondo il vicariato di Roma e secondo i numerosi teologi intervenuti a margine di questa colossale gaffe perpetrata ai danni del buon senso, la differenza sarebbe stata duplice. In primo luogo, la «tecnica» utilizzata: attiva nel primo e passiva nel secondo. Ecco cosa ha dichiarato monsignor Mauro Cozzoli, ordinario di Teologia morale alla Pontificia Università Lateranense: «Nel caso di Welby ci troviamo di fronte a eutanasia attiva, dal momento che un medico ha aiutato un paziente a morire. Nel caso di Nuvoli si tratta, invece, di eutanasia passiva dovuta alla sospensione degli alimenti al paziente. Entrambe le forme sono da considerarsi moralmente inaccettabili, perché la vita umana non è una cosa di cui disporre e di cui disfarsi quando non risponde più alle attese riposte in essa».6 Probabilmente si vuole intendere che nel caso di Welby c’è stata un’azione causale diretta, nel caso di Nuvoli una semplice «omissione». A parte il fatto che anche le omissioni possono essere «causa» a tutti gli effetti di un evento, dinanzi a un paziente immobilizzato e impotente, che di suo non può fare nulla, che differenza c’è fra staccare il respiratore e staccare la sonda degli alimenti? Dopo essere stati sedati, in un caso si muore di soffocamento, nell’altro di consunzione. Comunque sia, l’atto in sé di interrompere un supporto artificiale vitale è il medesimo. Quindi non solo è capziosa nella fattispecie la distinzione fra eutanasia


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attiva e passiva – non trattandosi forse di eutanasia né in un caso né nell’altro, bensì di sospensione di un trattamento ritenuto, dal diretto interessato, spropositato rispetto ai benefici – ma l’argomentazione è infondata. Un accanimento terapeutico su ciò che resta della logica. Ecco ora la gelida e arida motivazione addotta dal vicariato di Roma il 22 dicembre 2006 per giustificare il rifiuto dei funerali religiosi a Welby: «In merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il defunto Dott. Piergiorgio Welby, il vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie perché, a differenza di casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del Dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica (vedi il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2276-2283; 2324-2325)». È giustamente una questione di coerenza: non è che il vicariato non ha «voluto» concedere le esequie, non ha «potuto». Invece per tutti i suicidi che lasciano interi papiri sulle loro intenzioni di farla finita – e per Nuvoli che aveva persino scritto al Presidente della Repubblica – ha «potuto». Misteri della fede. O forse misteri della politica, perché dinanzi alle esequie concesse a Nuvoli alcuni teologi, messi alle strette dalla lampante contraddizione, hanno ammesso la seconda, reale, ragione. Sentiamo monsignor Rino Fisichella: negare i funerali a Welby è stato «un atto di responsabilità e di fedeltà al nostro credo». Infatti «quello di Piergiorgio Welby è diverso dai tanti casi di suicidio nei quali è estremamente difficile poter accertare le motivazioni e il grado di consapevolezza di chi si toglie la vita. Per Welby invece era chiarissima: c’è stata un’ostinata reiterazione nel chiedere la propria morte, un’esplicita consapevolezza nel negare i princìpi fondamentali della fede cristiana riguardanti il valore della vita e il senso della sofferenza». Finalmente ci sia-


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mo: quella ostinata richiesta. Il problema è che Welby ne ha fatto una campagna politica pubblica, per di più in periodo di elezioni, Nuvoli un po’ meno. Bastava dirlo subito. Non resta che prendere atto, deduttivamente, che per questa confessione religiosa il grado di pubblicità e di «politicizzazione» dato alla volontà di compiere un gesto peccaminoso incide sulla sostanza peccaminosa dell’atto medesimo. Se compiuto in privato, le probabilità di essere perdonati aumentano. Concorda sull’etica della flagellazione obbligatoria e silenziosa delle carni il cardinale Ersilio Tonini: «Il suicidio di Welby è stato concepito e realizzato con l’obiettivo di promuovere una legge sull’eutanasia».7 Ancor più netto il direttore dell’«Avvenire», Dino Boffo: «Anche Welby doveva aspettare il suo momento». Peccato che il magistrato della Repubblica che ha assolto il medico anestesista non sia dello stesso avviso, poiché l’articolo 51 del Codice penale prevede la non punibilità per chi adempie a un dovere, in questo caso il dovere del medico di dare seguito alla richiesta del malato di interrompere le terapie. Viene così rispettato e ribadito il diritto all’autodeterminazione del malato, sancito dall’articolo 32 della Costituzione e ancora in attesa di essere posto in essere da una legge sul testamento biologico. Ma forse anche quella «deve aspettare il suo momento». Veniamo infine alla motivazione filosofica di fondo del partito confessionale: la vita, in senso astratto, non sarebbe a disposizione di chi la possiede, cioè dei vivi. Ciascuno di noi non sarebbe titolare della propria vita, perché solo (il loro) Dio lo è. Ora, ammettiamo per assurdo che la questione metafisica stia proprio in questi termini: come si può declinare un simile principio sovrannaturalistico nell’ordinamento giuridico di uno Stato che, per il momento, non è ancora di matrice confessionale? Se il mio Dio magari un po’ più liberale del tuo, vede la questione in modo diverso,


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come la mettiamo? E poi, schiacciare in questo modo la coscienza individuale sotto il tallone della legge di Dio non significa squalificare proprio quel luogo di libera volontà in cui dovrebbe risiedere lo spirito? Se poi ricordiamo che l’intangibilità della vita non è stata affatto, per secoli, un principio etico rispettato da quella Chiesa – dato che non è nemmeno ben chiaro come la pensino su questo punto gli stessi autori del testo sacro di riferimento – su quale base dovremmo riconoscere tutta questa indiscussa autorità morale? I concili che hanno sancito questi dogmi si sono contraddetti più volte l’un l’altro, e così i pontefici, perché dovremmo fidarci? Magari poi cambiano idea un’altra volta, chiedono scusa e intanto abbiamo perso un sacco di tempo. Come ci comportiamo con un cittadino che, metti caso, non appartiene ad alcuna confessione religiosa, non capisce questa etica dell’afflizione prescrittiva e non ha alcuna intenzione di «aspettare il suo momento» fra atroci sofferenze? Non sarebbe meglio prescindere da ganci sovrannaturali, da controversie dottrinarie, e mettersi d’accordo fra esseri umani liberi e uguali, qui e ora, indipendentemente da cultura e religione di provenienza? A onor del vero, non vi sarebbe bisogno di alcuna fede per decidere tutti insieme che la guerra non è sempre uno strumento intelligente per risolvere i conflitti, che non si tortura la gente, che la pena di morte è un atto indegno, e che forse i Welby di questo mondo avevano il diritto di morire in modo dignitoso. Se ne discute, e mentre se ne discute la fede forse aiuta, o forse no. Ora immaginiamo il nostro interlocutore ideale e veniamo al dunque. Il nostro punto di osservazione è il seguente: alla luce di quelle argomentazioni irrazionali e illogiche prima evocate – ma vedremo innumerevoli altri esempi di questo illuminismo alla rovescia – e alla luce del tentativo di tradurle fedelmente in indicazioni legislative vincolanti per tutti, può il nostro cittadino italia-


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no aconfessionale e di buon senso considerarsi davvero libero in questo paese nel 2007? Siamo fino in fondo, compiutamente, un paese laico? Proviamo a vedere, iniziando dalla nascita. 1

www.zenit.org, 24 luglio 2007. www.aduc.it, 24 luglio 2007. 3 www.zenit.org, 24 luglio 2007. 4 Per una disamina del recente libro Creazione ed evoluzione (Schöpfung und Evolution, Sankt Ulrich Verlag, Augsburg, 2007) in cui papa Benedetto XVI e il cardinale di Vienna Christoph Schönborn aderiscono esplicitamente al neocreazionismo d’oltreoceano, sia lecito rimandare a O. Franceschelli, T. Pievani, «L’outing di Ratzinger contro il darwinismo», in «Micromega», 5-2007, pp. 111-127. 5 Come ha scritto Alberto Melloni, direttore della Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna, ciò che ferisce molti credenti oggi è «la riduzione del cattolicesimo a sindacato dei valori, la trasformazione della partecipazione alla divina liturgia in un’occasione per schierare ideologicamente le proprie nostalgie pseudotridentine, la sostituzione di una tradizione di erudizione e cultura con una serie di ideologumeni dietro i quali l’ignoranza pigra s’accomoda serena, il tutto accompagnato da una drastica riduzione dell’atto di fede a test d’una passività interiore, nella quale la fede non può alla lunga resistere, la carità si dissecca in fund raising e la speranza si eclissa» («Il relativismo della Chiesa di Ratzinger», in «Micromega», 4-2007, p. 29). 6 www.aduc.it, 24 luglio 2007. 7 www.aduc.it, 8 febbraio 2007. 2



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