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Autori e amici di
chiarelettere
Giovanni Fasanella Gianfranco Pannone
Il sol dell’avvenire
Š Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo Editoriale Mauri Spagnol Spa Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare Spa) Sede: Via Guerrazzi, 9 - Milano 978-88-6190-076-9 Prima edizione: marzo 2009
ISBN
www.chiarelettere.it BLOG / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA
Sommario
I testimoni
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Introduzione
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Avviso al lettore
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Parte prima. La preparazione
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Parte seconda. Le riprese
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Parte terza. Il dopo
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Appendice La rassegna stampa
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I testimoni
Alberto Franceschini (Franz), Reggio Emilia, 26 ottobre 1947. Nonno fondatore del Pci e partigiano comunista, papà custode della Camera del lavoro di Reggio, egli stesso militante della Federazione giovanile comunista, Franceschini, tra il 1969 e il 1970, è stato uno degli animatori dell’Appartamento. Studente universitario, nel 1970 disertò la leva obbligatoria, si trasferì a Milano ed entrò nella clandestinità. Fondatore delle Brigate rosse con Renato Curcio nello stesso anno, partecipò subito ad alcuni attentati simbolici tra Milano e Torino; poi, con Curcio e Mara Cagol, ispirò e organizzò il rapimento del giudice Mario Sossi a Genova. Arrestato con Curcio nel 1975, ha scontato diciotto anni di carcere e si è dissociato dalle Br nel 1983. Oggi vive a Roma ed è direttore di una cooperativa di servizi sociali dell’Arci. Ha scritto alcuni libri significativi sulla sua esperienza da brigatista. Oltre a Che cosa sono le Br, nel 2004, con Giovanni Fasanella, dieci anni prima Mara, Renato ed io, sugli anni vissuti con Mara Cagol e Renato Curcio. Paolo Rozzi (Poldo), Reggio Emilia, 27 ottobre 1946. Presidente del IV Municipio di Reggio. Proviene da una famiglia di partigiani comunisti, che annovera una zia staffetta partigiana e militante del Pci clandestino. Conclusa l’esperienza dell’Appartamento, non scelse la lotta armata ed entrò nel Partito comunista. Ricorda gli anni dell’Appartamento senza nostalgia, ma non rinnega quell’esperienza che lo portò a un passo dalla clandestinità e dalla lotta armata. Dell’Appartamento, era il «grafico»: si occupava del giornale interno al gruppo e dei tazebao. Nel 1970 partecipò al convegno nel ristorante di Costaferrata. Pur nutrendo molti dubbi sulla necessità della lotta armata, poco dopo partecipò ad alcune riunioni
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Il sol dell’avvenire
nella sede milanese del Movimento politico metropolitano di Renato Curcio. Ma non andò oltre. Abbandonò i compagni dell’Appartamento e rientrò nel partito. Oggi milita nel Pd, di cui a Reggio Emilia è stato tra i fondatori. Tonino Loris Paroli, Casina (Re), 17 gennaio 1944. Figlio di un partigiano comunista, alla fine degli anni Sessanta era operaio metalmeccanico alla Lombardini di Reggio e rappresentante sindacale della Cgil, molto seguito dalla base. Sposato, con un figlio, fu l’ultimo dei militanti reggiani dell’Appartamento a entrare in clandestinità, nel 1974, aderendo alle Brigate rosse. Fu tra i brigatisti che nel 1975 organizzarono l’evasione di Curcio dal carcere di Cuneo. Arrestato nello stesso anno, Paroli scontò sedici anni. Pur riconoscendo gli errori della lotta armata, non si è mai pentito né dissociato dalle Br ed è rimasto in rapporti di amicizia con Prospero Gallinari, oggi in stato di semilibertà. Paroli vive a Reggio, dove ha uno studio di pittore nel centro storico. I suoi quadri sono stati esposti nel reggiano e in varie gallerie italiane. Tuttora attivo politicamente, anche se si considera un cane sciolto, frequenta il Centro sociale Aquarius e partecipa assiduamente ai dibattiti politici sulla sinistra, organizzati in città. Annibale Viappiani (Viap), Montecchio (Re), 15 agosto 1951. Operaio specializzato, delegato sindacale e membro della Federazione nazionale metalmeccanici della Cgil (Fiom). Di formazione anarchica e libertaria, conclusa l’esperienza dell’Appartamento, non entrò nelle Br. Ha dichiarato, però, che agli inizi degli anni Settanta fu davvero a un passo dall’entrare in clandestinità. D’altro canto, era molto legato a Fabrizio Pelli, un anarchico reggiano, poco più grande di lui, che nel 1967, insieme ad altri giovanissimi ribelli, aveva sparato, senza colpirlo, a un avvocato dirigente nazionale del Partito liberale, Alberto Farioli. Pelli e i giovani della sua banda furono arrestati. Usciti due mesi dopo dal carcere ed espulsi dalla Federazione anarchica italiana, entrarono nella Fgci, per poi passare all’Appartamento. Agli inizi degli anni Settanta, Pelli entrò nelle Br. Morì prematuramente in carcere qualche anno dopo. Viappiani, invece, aveva già intrapreso una carriera sindacale nella Fiom/Cgil. Roberto Ognibene, Reggio Emilia, 12 agosto 1954. Cresciuto in una famiglia di socialisti, entrò nelle Br nel 1972, e due anni dopo venne arrestato. Fu coinvolto in un conflitto a fuoco con i cara-
I testimoni
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binieri, il 14 ottobre del 1974, a Robbiano di Mediglia, nell’hinterland milanese. Le forze dell’ordine avevano scoperto un covo delle Br, in un anonimo appartamento. Dopo aver arrestato i due terroristi che erano nell’abitazione, rimasero in attesa del terzo, Roberto Ognibene. Questi, mentre saliva le scale per entrare nel covo, intuì che qualcosa non andava e tentò la fuga. Ma cadde perdendo gli occhiali. E a terra, estratta la pistola, sparò colpendo a morte il maresciallo dei carabinieri Felice Maritano. Nello scontro, Ognibene rimase gravemente ferito. Anche se due anni prima si era già trasferito a Milano, a Reggio la notizia della sparatoria provocò molta sorpresa: il giovane era sempre stato uno studente modello, ritenuto intelligente e carismatico tra i suoi coetanei. Ognibene venne condannato a ventotto anni di carcere e scontò la pena quasi per intero. Dissociatosi dalle Br nel 1986, usufruì del regime di semilibertà. Oggi è sposato con l’ex brigatista Nadia Mantovani e ha una figlia maggiorenne. Vive e lavora a Bologna in una cooperativa di servizi sociali. Adelmo Cervi, San Polo (Re), 24 agosto 1943. Figlio di Aldo Cervi, uno dei sette fratelli uccisi dai nazifascisti nel dicembre 1943, è cresciuto con il nonno Alcide a Campeggine, in quella che è oggi la Casa museo dei Cervi. Dal 1968 al 1970 ha studiato in Russia, dove il Partito lo aveva mandato, temendo un suo avvicinamento ai ragazzi dell’Appartamento. Anche se non ha mai lasciato il Pci – di cui, poi, è stato militante fino alle esperienze del Pds, dei Ds, per approdare infine al Partito democratico – nel 1970, tornato dalla Russia, mantenne stretti collegamenti con i giovani del gruppo dell’Appartamento, alcuni dei quali già passati in clandestinità. Tra questi, Loris Tonino Paroli e Gallinari. Pur considerandosi fin da ragazzo un ribelle (un po’, come ama ricordare, per seguire le orme del padre Aldo), non ha mai aderito alle Brigate rosse. Pensionato, fa parte del consiglio direttivo dell’Associazione partigiani (Anpi) di Reggio. Ha l’hobby della bicicletta ed è solito percorrere centinaia di chilometri, lungo i luoghi sacri della Resistenza emiliana. Corrado Corghi, Reggio Emilia, 1920. Ex partigiano cattolico con un ruolo attivo nei servizi segreti della Resistenza, poi docente universitario, nonché ex segretario regionale e membro del Consiglio nazionale della Democrazia cristiana. Nel 1968, in contrasto con la posizione ufficiale sulla guerra in Vietnam, abbandonò il partito. Cattolico del dissenso vicino al pensiero di Giuseppe Dossetti, aveva legami con i movimenti giustizialisti del Sud America. Anche per questo motivo, oltre che per la sua posizione sulla guerra in Vietnam, fu per
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i ragazzi dell’Appartamento una figura di riferimento, al punto che alcuni di loro ebbero modo, tra il 1969 e il 1970, di incontrarlo in più occasioni nella sua casa. Per conto del Vaticano, ha avuto un ruolo di rilievo nelle trattative per la liberazione di alcuni sequestrati eccellenti: l’intellettuale francese Régis Debray, nel 1967, in Bolivia; e il giudice Mario Sossi, nel 1975, a Genova. Durante il caso Moro, offrì la propria consulenza per trovare una via d’uscita. Ma senza risultati. Peppino Catellani, Reggio Emilia. Ex partigiano, negli anni Sessanta e Settanta era responsabile della vigilanza del Pci di Reggio Emilia. Un compito di particolare delicatezza, data la natura di quell’organismo, a metà strada tra un servizio di sicurezza interno del partito e un servizio informazioni. Fu proprio lui, agli inizi degli anni Settanta, a «tener d’occhio» i ragazzi dell’Appartamento, a cominciare da Franceschini. E fu ancora lui, una volta intuite le scelte estreme che stavano compiendo, a «convocare» alcuni di loro, offrendogli una via d’uscita prima che fosse troppo tardi. Alcuni accettarono. Altri, Franceschini e Paroli, non vollero sentir ragioni. Oggi, Catellani è dirigente dell’Anpi provinciale.
Introduzione
Questo è innanzitutto il diario di un lungo ostracismo contro un film ritenuto «politicamente scorretto». Certo, sapevamo che era un’operazione a rischio, come tutte le operazioni che affrontano per la prima volta temi a lungo rimossi. Ma chi poteva immaginare che saremmo stati costretti a difenderci ancor prima che il film uscisse nelle sale? È bastato un semplice annuncio del tema trattato perché contro Il sol dell’avvenire si scatenasse una vera e propria guerra preventiva, combattuta dai nostri nemici a volte in modo subdolo e silenzioso, a volte in modo assordante e in campo aperto. Un ministro della Repubblica, politici di destra e di sinistra, familiari di vittime del terrorismo, giornalisti e intellettuali sono scattati contro il film prima ancora di averlo visto. Come mossi da un riflesso condizionato, pretendendo di avere una sorta di esclusiva sul dolore, sul diritto all’indignazione e sulla corretta interpretazione storica. Gli annali del cinema italiano annoverano pochi precedenti come il nostro. Stabilite le giuste proporzioni, il più clamoroso è Bronte, cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, il bellissimo film di Florestano Vancini sulla repressione di Nino Bixio nella Sicilia appena liberata dai garibaldini, anche quello vittima di censure preventive, nel 1972. Curioso che a
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Il sol dell’avvenire
quasi quarant’anni di distanza si sia ripetuto qualcosa di simile con Il sol dell’avvenire. Allora era il Risorgimento, il nervo sensibile. Questa volta, la genesi del terrorismo di sinistra. Segno evidente che non si è ancora in grado di affrontare con la giusta distanza le pagine più oscure del nostro passato. Certo, questo diario è innanzitutto il racconto tragicomico dell’intera vicenda del film, dalla preparazione alla distribuzione nelle sale. Ma, a ben vedere, potrebbe essere qualcosa di più, e di peggio: lo specchio di una sindrome degenerativa in cui è sprofondato un Paese incapace di curare le ferite della storia. La cultura dell’«indicibilità» che ha finito per trasformarsi in una vera e propria patologia. Il «passato che non passa», secondo un’espressione diventata quasi un luogo comune, ma che ben fotografa l’anomalia di una comunità ancora prigioniera di emozioni, stati d’animo e sentimenti antichi e violenti. Un magma incandescente che, alla minima sollecitazione, sale su, rompe la crosta protettiva e invade tutto quanto con la sua furia distruttiva. Perché ci si è illusi che, per rendere inoffensivo quel «materiale incendiario», bastasse relegarlo negli scantinati più profondi della memoria collettiva, invece di elaborarlo e interpretarlo. «Disturbo post-traumatico da stress.» Viene definito così quel complesso di reazioni patologiche che si sviluppano a causa di una rimozione prolungata di un evento doloroso. Chi ne è colpito fa di tutto, anche inconsapevolmente, per evitare il contatto con qualsiasi cosa che rievochi il trauma subito. Tende, insomma, a cancellare persino il ricordo dell’evento per paura di rivivere quelle stesse situazioni. Si illude, così facendo, di avere eliminato il suo problema. In realtà, emozioni e stati d’animo continuano a ribollire, esplodendo ciclicamente: la rimozione non libera dallo stato di angoscia; al contrario, costringe a vivere all’infinito le stesse identiche situazioni dolorose provate al momento del trauma.
Introduzione
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In fondo, l’Italia non è mai uscita del tutto dalla stagione degli Anni di piombo proprio per questo. La verità è che quasi nessuno ha voluto davvero fare i conti – e sino in fondo – con quella tragedia, con il suo carico di lutti e di sofferenze, ma anche di profondi sensi di colpa. Già, è proprio così, a pensarci bene. L’atteggiamento di buona parte del mondo della cultura, dell’arte, dell’informazione e della politica continua a oscillare tra la rimozione del «vissuto traumatico» e la demonizzazione dei suoi protagonisti negativi. È accaduto anche nel nostro caso. Da un lato, in molti ci hanno chiesto: «Ma che senso ha riparlare di questa storia?». Dall’altro, siamo stati rimproverati di aver concesso un diritto di parola anche agli ex terroristi, dei criminali tout court e per sempre. Se riflettiamo attentamente, non possiamo fare a meno di notare che ad agire, in entrambi i casi, è proprio una sorta di senso di colpa, un forte impulso ad allontanare il «mostro» il più possibile da sé, per non guardare dentro le storie politiche e le culture che l’hanno prodotto. Il guaio è che l’«evento traumatico» – gli Anni di piombo e la storia da cui sono scaturiti – non è stato elaborato. Il Paese, così, non ha potuto ancora «farsene una ragione», non ha capito perché è successo, e perché è successo proprio all’Italia. Il fenomeno, dunque, resta ancora oggi senza una spiegazione. Mentre proprio la sua comprensione sarebbe la giusta terapia, la cura capace di depotenziarlo degli aspetti distruttivi lasciando spazio solo al dolore, di strapparlo alla cronaca per consegnarlo alla memoria e alla storia. Giovanni Fasanella Gianfranco Pannone