Io sono il mercato

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“QUANDO MAI IL GENIO È APPARSO RISPETTABILE?” Elizabeth Barrett Browning

Questa è la storia di uomini normali, insospettabili padri di famiglia saliti al vertice del narcotraffico internazionale. Una storia “criminale”, raccontata da uno dei protagonisti, che svela le astuzie del sistema cocaina, ma anche la vita e le abitudini dei grandi trafficanti. I pesci grossi, quelli che non ingoiano gli ovuli né trasportano la droga nei doppi fondi delle valigie, ma nei cargo, nei container, a tonnellate alla volta. Uno sguardo dall’interno. Un nuovo punto di osservazione per capire come l’economia illegale riesce a infiltrarsi nell’economia legale e a condizionarla. Perché la coca, oltre i cliché hollywoodiani e le notizie diffuse da tv e giornali, è un affare straordinariamente redditizio che finanzia guerre, conferisce potere e ridisegna i rapporti internazionali. Luca Rastello è giornalista de “la Repubblica” e direttore responsabile di Osservatoriobalcani.org. Specializzato in economia criminale e relazioni internazionali, ha diretto “Narcomafie” e “L’Indice”, e ha lavorato come inviato per il settimanale Diario. Ha scritto per Einaudi LA GUERRA IN CASA (1998) e per Bollati Boringhieri il romanzo PIOVE ALL’INSÙ (2006). www.chiarelettere.it I S B N 978-88-6190-027-1

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788861 900271

12,00 Progetto grafico: David Pearson www.davidpearsondesign.com

Luca Rastello IO SONO IL MERCATO

“LA SITUAZIONE È PARADOSSALE. SI PROMULGANO LEGGI SEMPRE PIÙ SEVERE CONTRO IL RICICLAGGIO NELLE BANCHE LEGALI MA AL TEMPO STESSO L’INFILTRAZIONE DEL CAPITALE CRIMINALE NELL’ECONOMIA LEGALE ASSUME PROPORZIONI SEMPRE PIÙ INQUIETANTI.” Jean Ziegler

COME TRASPORTARE COCAINA A TONNELLATE E VIVERE FELICI

IO SONO IL MERCATO Luca Rastello TEORIA, METODI E STILE DI VITA DEL PERFETTO NARCOTRAFFICANTE



Pamphlet, documenti, storie REVERSE


Autori e amici di

chiarelettere Michele Ainis, Avventura Urbana Torino, Andrea Bajani, Gianni Barbacetto, Stefano Bartezzaghi, Oliviero Beha, Marco Belpoliti, Daniele Biacchessi, David Bidussa, Paolo Biondani, Tito Boeri, Caterina Bonvicini, Beatrice Borromeo, Alessandra Bortolami, Giovanna Boursier, Carla Buzza, Olindo Canali, Davide Carlucci, Luigi Carrozzo, Andrea Casalegno, Carla Castellacci, Massimo Cirri, Fernando Coratelli, Pino Corrias, Gabriele D’Autilia, Andrea Di Caro, Franz Di Cioccio, Gianni Dragoni, Giovanni Fasanella, Massimo Fini, Fondazione Fabrizio De André, Goffredo Fofi, Massimo Fubini, Milena Gabanelli, Vania Lucia Gaito, Pietro Garibaldi, Mario Gerevini, Gianluigi Gherzi, Salvatore Giannella, Francesco Giavazzi, Stefano Giovanardi, Franco Giustolisi, Didi Gnocchi, Peter Gomez, Beppe Grillo, Guido Harari, Ferdinando Imposimato, Karenfilm, Giorgio Lauro, Marco Lillo, Felice Lima, Giuseppe Lo Bianco, Saverio Lodato, Carmelo Lopapa, Vittorio Malagutti, Giorgio Meletti, Luca Mercalli, Lucia Millazzotto, Angelo Miotto, Letizia Moizzi, Giorgio Morbello, Alberto Nerazzini, Raffaele Oriani, Sandro Orlando, Antonio Padellaro, Pietro Palladino, David Pearson (graphic design), Maria Perosino, Renato Pezzini, Telmo Pievani, Paola Porciello (web editor), Marco Preve, Rosario Priore, Emanuela Provera, Sandro Provvisionato, Luca Rastello, Marco Revelli, Gianluigi Ricuperati, Sandra Rizza, Marco Rovelli, Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Salerno, Laura Salvai, Ferruccio Sansa, Evelina Santangelo, Michele Santoro, Roberto Saviano, Matteo Scanni, Roberto Scarpinato, Filippo Solibello, Riccardo Staglianò, Bruno Tinti, Marco Travaglio, Elena Valdini, Carlo Zanda.


PRETESTO 1

f a pagina 16

“Quello che viene proposto qui non è uno sguardo sul mondo criminale, ma uno sguardo criminale sul mondo.”


PRETESTO 2

f a pagina 51

“Molti pensano che la roba arrivi in Europa nei sottofondi nascosti di valigie, negli ovuli inghiottiti dai corrieri... Non è così. Oggi i piccoli corrieri servono soprattutto a essere sacrificati sull’altare delle buone relazioni con le polizie occidentali.”


f a pagina 127

“Devi fare in modo di non essere controllato. Questo è possibile solo se la roba viaggia nei carichi di grandi aziende, note in tutto il mondo, insospettabili.”

f a pagina 12

“Se il narcotraffico venisse debellato, l’economia degli Stati Uniti subirebbe perdite comprese tra il 19 e il 22 per cento, mentre quella messicana vedrebbe un crollo del 63 per cento.”


Š Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol S.p.A. Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare S.p.A.) Sede: Via Guerrazzi, 9 - Milano ISBN

978-88-6190-027-1

Prima edizione: febbraio 2009 www.chiarelettere.it BLOG / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA


Luca Rastello

Io sono il mercato

chiarelettere


Luca Rastello è nato a Torino il 9 luglio 1961. È giornalista, lavora per «la Repubblica» ed è direttore responsabile di Osservatoriobalcani.org. Specializzato in economia criminale e relazioni internazionali, è stato direttore di «Narcomafie» e del mensile «L’Indice», e ha lavorato come inviato per il settimanale «Diario». Oltre che nei Balcani, di cui si è occupato nel volume La guerra in casa (Einaudi 1998) e in vari saggi – alcuni dei quali in Introduzione al mondo nuovo. Scenari, attori e strategie della politica internazionale (a cura di Fabio Armao e Anna Caffarena, Guerini 2006), in Kosovo 1999-2000: la pace intrattabile (a cura di Francesco Strazzari, Asterios 2000) e su varie riviste fra cui «Limes» e «Lo straniero» – ha lavorato in Asia centrale, Caucaso, Corno d’Africa e in Centro e Sudamerica, in particolare in Argentina, Bolivia, Venezuela e Antille olandesi. Per molti anni ha collaborato a progetti di cooperazione con le Agenzie della Democrazia locale nei paesi balcanici e con l’Italian Consortium of Solidarity. Oltre ai testi citati, ha all’attivo il romanzo Piove all’insù, edito da Bollati Boringhieri.


Sommario

Preludio con teologo Introduzione

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io sono il mercato Prima lezione. Il problema

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La crisi del sistema-corruzione anni Ottanta e la guerra dei cartelli colombiani

Seconda lezione. Metodi per il movimento spicciolo

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L’avvento dei “cartellini” e dei piccoli corrieri, le “mule”

Terza lezione. I trasporti continentali

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Da Cuba alla Via sud: il traffico per l’Europa piega a meridione

Quarta lezione. La soluzione

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Agire autonomamente: io, manager dei grandi trasporti

Quinta lezione. La pietra filosofale

133

Muoversi “al buio” usando la copertura di aziende famose e insospettabili

Epilogo

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i o s o n o i l m e rc ato


Guardami. Io sono il mercato. Sono il mondo com’è. Alla fine, se mi avrai seguito con attenzione, sarai in grado di mettere su da solo i tuoi affari. Prima di iniziare, però, ti racconto una storia.


Preludio con teologo

Questa storia termina all’aeroporto internazionale Maiquetía di Caracas. Padre Antonio vive in un barrio molto povero della capitale. La sua parrocchia è fatta di quattro pali, due assi da cantiere e una copertura di lamierino ondulato da tettoie. La frequentano solo disgraziati. Padre Antonio campa a malapena. Ma – purtroppo per lui – è una persona istruita, un teologo. Uno che nelle notti di angoscia pensa: «Sono qui da sei anni e tengo Nostro Signore in una cassetta da frutta con un po’ di carta stagnola intorno». D’accordo: Dio non ha una casa e la sua casa è dovunque, ma il povero padre Antonio pensava che almeno un po’ di bellezza fosse necessaria per rendergli omaggio. Pensava che il bene comprende la bellezza. Vero è – così si diceva – che anche la povertà può essere sublimata in bellezza assoluta. In quanto persona istruita, padre Antonio un giorno fu invitato a una conferenza a Bogotà, un grande raduno che prevedeva anche tre pomeriggi di esercizi spirituali. Ovviamente non aveva un soldo per il viaggio, e gli toccò battere cassa alla curia, ente parsimonioso, se mai ve ne furono. All’aeroporto di Bogotà, nonostante le scarse finanze, padre Antonio cercò un taxi per andare in centro, ma i taxi erano tutti stracarichi, con la gente attaccata agli sportelli; così vanno le cose da quelle parti. E dunque eccolo lì il nostro padre, fermo come un pandoro sul piazzale degli arri-


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vi. Un pandoro in tonaca attira l’attenzione, però, così un tizio si fa avanti e gli offre un passaggio. Padre Antonio accetta, probabilmente perché non sa che cosa passa per la testa del suo benefattore. Qualcosa come: «Ho un prete di fianco. Chi vuoi che mi fermi?». Ovviamente il tizio ha il cofano pieno di coca, vede il sacerdote perso e prende la palla al balzo. Le strade di Bogotà sono intasate, c’è tempo per fare amicizia e conversare. I due legano, il tizio ascolta, si interessa, e padre Antonio gli racconta il barrio, la chiesa, la fame, la terra scivolosa delle alture che alla prima pioggia se ne va giù verso valle con tutte le baracche dei suoi parrocchiani. L’altro si commuove, e il frate, che a suo modo non è del tutto ingenuo, pensa che forse ha preso all’amo un donatore. «Quando torna a Caracas, padre?» «Fra tre giorni.» «Le lascio il mio numero. Mi chiami, l’accompagno io all’aeroporto.» È fatta, pensa il sacerdote: tre giorni di esercizi spirituali e due passaggi, e probabilmente alla fine ci scappa anche una piccola offerta. Un bel guadagno per uno che in tasca non ha altro che un pagherò intestato alla segreteria vescovile. Solo che l’offerta non è per niente piccola, almeno nelle dimensioni in cui è abituato a pensare un prete di periferia: all’imbarco, sulla via del ritorno, gli scivolano in mano cinquemila dollari tondi tondi. Il parroco non crede ai suoi occhi, incomincia a vedere un pavimento per la sua chiesa, una bella gettata di cemento, con le fondamenta e tutto, e almeno per qualche anno sarà certo che la parrocchia non se ne andrà a valle con il fango. Naturalmente i soldi del colombiano finiscono subito, ma padre Antonio ha conservato il numero di telefono del suo benefattore, lo chiama, lo ringrazia, chiede. E una volta di più l’altro lo stupisce: «Vengo io a Caracas, padre, ci vediamo lì».


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È senz’altro una persona devota. Il parroco gli mostra la colata di cemento, illustra i suoi progetti, fa capire di avere bisogno di aiuto. L’altro fa finta di pensarci su, in realtà ci ha già pensato: «Posso aiutarti, padre. Ma il mio aiuto potrebbe offendere la tua coscienza». È già passato al tu. «Soldi non te ne posso dare. Ma ti posso dare di meglio. Coca. La migliore che c’è. Guarda che te la regalo!» Ovviamente il frate subito inorridisce, ma la tentazione è grande quanto il problema della sua coscienza. Intorno a lui c’è gente malata, fame, violenza, nessun controllo. Alla sua mente si affaccia un paragone da teologo: come è stata costruita San Pietro a Roma? Con i soldi che cadono dalla cassetta dell’elemosina e l’anima che sale beata al paradiso? No: lui lo sa che le grandi opere d’arte del Rinascimento stanno in piedi perché sono impastate del sangue della povera gente. La stessa che soffre tutto intorno a lui nelle fangaie del barrio. Eppure la basilica romana ora c’è. Ed è un esempio per il mondo. Di più: un conforto, un rifugio per quegli stessi che ne hanno portato il peso sulle spalle. Gli ultimi. È il simbolo stesso della cristianità, il messaggio più rivoluzionario di tutti i tempi scolpito per sempre nel colonnato, nelle cupole, nei grandi altari. Padre Antonio non vuole costruire una basilica, non cerca opere d’arte. Tutto quello che desidera è una chiesa decente. Oltre a questo, sa bene che le sue pecorelle già comprano coca in giro, e chissà con che schifezze è tagliata. Controllarle potrebbe essere un bene. Un modo per limitare i danni. Potrei dargliela io. E i soldi con cui me la pagherebbero li metterei nella cassetta, al loro servizio. La chiesa sarebbe lì a ricordare loro la retta via, la salute ne trarrebbe beneficio e l’anima anche. Che differenza c’è, alla fine, fra i miei soldi e quelli di Leone X?


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Il bello è che il prete aveva ragione. E il trafficante di Bogotà era davvero un uomo pio. E davvero gli forniva la coca migliore del mondo: la perla. La perla. Si chiama così perché appena la metti sul palmo della mano assume una consistenza quasi oleosa, con una sfumatura di colore cangiante. Uno spettacolo. Roba così se la possono permettere in pochissimi. Li conti a decine in tutto il mondo. Non la fanno i grandi produttori, soltanto contadini che lavorano in proprio. Si produce in piccole quantità, richiede foglie mature, vecchie, non le foglioline appena nate con cui si fanno i grossi raccolti, che sono verzoline chiare. Quindi per fare la perla ci vuole tempo, è necessario limitarsi a un minore sfruttamento della pianta, accontentarsi di un solo raccolto l’anno anziché tre. E l’arbusto da cui esce la foglia è una pianta spontanea. Se la perdi non la ripianti tanto facilmente. Ha foglie più grandi delle piante da vivaio, quindi ben visibili dall’alto. E cresce solo ad alte quote, dove l’ossigeno è minore. Non puoi metterla in filari se non vuoi essere bombardato dai defoglianti nordamericani. Quindi nasce solo in appezzamenti piccolissimi. E poi richiede di essere asciugata al sole, non al microonde. Ben due volte: sia come foglia sia come pasta di coca. La pasta poi viene pressata a mano come una volta, e non con la fitopressa per asciugare il caolino – la terra da vasi – che ormai usano tutti i produttori. La perla è incompatibile con la fretta. E la fretta è la maledizione del grande narco. Tutto subito, e pagamenti cash, al brinco rabioso si dice in Sudamerica. Quindi macerazione in vasconi all’ingrosso, acido cloridrico, etere per favorire la volatilità delle impurità, acidi vari per estrarre l’alcaloide, tagli, asciugatura al microonde? No, la perla si fa a mano, con l’aiuto del sole, e si impacchetta con olio purissimo, commestibile. Calce di prima qualità per catalizzare l’alcaloide e produrre ossigeno. Poi la calce va tolta; di solito si fa con acido cloridrico e ammoniaca – è un metodo


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veloce che lascia un colorito giallo e brucia parte del principio attivo – mentre la perla si lavora solo con acetone ed etere. L’acetone brucia soltanto quello che va bruciato, le impurità, lo fa in modo naturale, lascia un colore roseo. L’etere volatilizza e dà la sfumatura perlacea, e la sostanza si riduce: quando si precipita la calce, tutto avviene nella pasta. Quel che resta è al massimo un 6 o 7 per cento di base. A questo punto il processo va ripetuto, con la pazienza di un vecchio alchimista. Quindi il tutto viene bollito, lasciato macerare per tre giorni e infine di nuovo seccato. Al sole, ovvio. Solo di lavorazione hai impiegato almeno dieci giorni dal momento del raccolto, contro i tre della grande produzione. Hai prodotto tutti gli odori del mondo e quindi, se la tua fattoria non è ben lontana da tutto, ti sei messo in gravi pericoli: hai lasciato fuoriuscire vapori tossicissimi conservando solo il meglio della sostanza. E hai corso anche il rischio dell’«opera al nero»: con la lavorazione a mano è più facile che la sostanza resti bruciata dagli acidi e venga fuori nera e dura come una pietra. A quel punto sei rovinato: hai buttato il raccolto. Dalla nera puoi al massimo ricavare il crack o la «base libera», da inalare con l’asciugamano in testa come quando hai il raffreddore: roba micidiale, buona solo per i negri di Los Angeles. O per gli haitiani, che ci fanno palle col catrame. Roba da epidemia, pura dal 30 al 50 per cento al massimo, recupero di scarti che all’ingrosso non vuole nessuno. La perla è una meraviglia invece: minimo 96 per cento, ma produrla è un costo, un rischio e una rinuncia. Va remunerata bene. Per esempio, c’è un contadino che la produce nella Sierra Guajira. Meravigliosa. Lo strapaghi ma è bene che non ne faccia più di tre chili l’anno, per non snaturare il mercato e per non abbassare la qualità a vantaggio della quantità e della velocità di lavorazione. Slow food della giungla. Padre Antonio non riesce a smettere di pensare: «Questa coca invece di andare in giro per il mondo ad abbrutirlo e


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scatenare il male, verrebbe sacrificata, sarebbe d’aiuto ai poveri, farebbe sentire meno infelici gli ammalati, costringerebbe i parrocchiani a stare vicino al loro buon pastore». Un vero agnello vegetale. Anche il narco è entusiasta. «Non ti do della fede, amico mio – pensa – ma ti do qualcosa che può aiutare la fede. E ti do la possibilità di una vita decorosa per te e per il tuo quartiere maledetto dagli uomini.» Con un affare così, alla fine, un posticino in paradiso ci scappa anche per il trafficante. La mente del povero sacerdote si macera nei dubbi, ma alla fine i benefici sono infinitamente superiori ai costi. E in più al francescano – ovvio, francescano, ordine loico più di ogni altro – è venuta l’idea decisiva, quella che fa scattare il meccanismo: non distribuirà la coca, non la manderà in giro a fare danni. La farà consumare in parrocchia, sotto controllo. Una santa shooting gallery. E per di più d’élite: vi si consuma la migliore droga mai prodotta dall’uomo. E in condizioni di assoluta sicurezza. Del trasporto si occuperà lui personalmente, non vuole che le sue pecorelle siano coinvolte in affari ambigui. Del resto i soldi per i viaggi aerei non sono più un problema, la chiesa di quartiere nasce ed è solida, la comunità prospera, il paradiso quasi in terra. Sembra persino che non occorra più morire per raggiungere il Signore. Padre Antonio vola ogni tanto a Bogotà, ha realizzato una tonaca con apposita cucitura negli orli, ben foderata, la roba la confeziona in panetti bislunghi che cuce all’interno del saio. Tutto sembra andare per il meglio, nessuno sbirro oserebbe mai far annusare una veste santa dal suo cagnaccio, e poi all’aeroporto padre Antonio è persona nota ormai. Si sa che prende parte con fervore agli esercizi spirituali in tutto il continente. Le macchine, invece, loro non hanno un’anima. Figurarsi poi macchine stupide come una scala mobile, congegni rozzi che puoi trovare in qualsiasi supermercato del Terzo mondo. O aeroporto. Nastri metallici da poco prezzo, fatti


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con lamiere appena migliori di quelle che coprivano la vecchia parrocchia di padre Antonio. Pezzi di latta male incastrati l’uno nell’altro, capaci di agganciare l’orlo di una veste lunga, tirarlo, trascinare a terra il malcapitato che la indossa, lacerarla, bucarla, far uscire tutto quel ben di Dio e spargerlo, bianco come una perla purissima, accecante come un sole del Caribe, per tutta la hall dell’aeroporto. Al processo padre Antonio fu condannato. Non se ne poteva proprio fare a meno: era capitato davanti a tutti, centinaia di occhi avevano visto, i giornali e la tv si erano buttati a pesce su quella storia. Ma in carcere curarono di farlo stare il meno possibile. In fin dei conti c’è un giudice a Caracas. Ed è anche lui un uomo pio, capace di comprendere le ragioni profonde di quello che è successo. Così il frate lo mettono dentro e poi, zitti zitti, lo lasciano andare subito. A suo favore ci sono decine di testimonianze: offriva soltanto il consumo, non c’era vendita. Padre Antonio non era un trafficante. Non era in concorrenza con chi vende al dettaglio, e neanche con chi vende all’ingrosso. Al massimo era in concorrenza con chi vende il paradiso a prezzi molto più alti del suo, per esempio con la morte corporale. Ma sono problemi che un buon teologo francescano sa come affrontare.


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Questa è la storia di uomini normali, insospettabili padri di famiglia saliti al vertice del narcotraffico internazionale. Una storia “criminale”, raccontata da uno dei protagonisti, che svela le astuzie del sistema cocaina, ma anche la vita e le abitudini dei grandi trafficanti. I pesci grossi, quelli che non ingoiano gli ovuli né trasportano la droga nei doppi fondi delle valigie, ma nei cargo, nei container, a tonnellate alla volta. Uno sguardo dall’interno. Un nuovo punto di osservazione per capire come l’economia illegale riesce a infiltrarsi nell’economia legale e a condizionarla. Perché la coca, oltre i cliché hollywoodiani e le notizie diffuse da tv e giornali, è un affare straordinariamente redditizio che finanzia guerre, conferisce potere e ridisegna i rapporti internazionali. Luca Rastello è giornalista de “la Repubblica” e direttore responsabile di Osservatoriobalcani.org. Specializzato in economia criminale e relazioni internazionali, ha diretto “Narcomafie” e “L’Indice”, e ha lavorato come inviato per il settimanale Diario. Ha scritto per Einaudi LA GUERRA IN CASA (1998) e per Bollati Boringhieri il romanzo PIOVE ALL’INSÙ (2006). www.chiarelettere.it I S B N 978-88-6190-027-1

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