La paga dei padroni

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Giorgio Meletti è responsabile della redazione economica del Tg La7. Ha lavorato al “Corriere della Sera”, dove si è occupato in prevalenza dell’industria pubblica e degli incroci tra economia e politica. Ha curato con Luca De Biase, BIDONE.COM (Fazi 2001), storia della bolla internet all’italiana.

Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat,“la Repubblica”, settembre 2006.

14,60 Progetto grafico: David Pearson www.davidpearsondesign.com

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“MI SONO LIMITATO A DIRE QUELLO CHE PENSO E CHE MOLTI DOVREBBERO GIÀ SAPERE... È INUTILE PICCHIARE SU CHI STA ALLA LINEA DI MONTAGGIO PENSANDO DI RISOLVERE I PROBLEMI... QUANDO SI PERDONO 3 MILIONI DI EURO AL GIORNO E UNO PENSA CHE SIA COLPA DEGLI OPERAI, VUOL DIRE CHE HA SALTATO QUALCHE PONTE SULLA SUA STRADA.”

Gianni Dragoni Giorgio Meletti LA PAGA DEI PADRONI

Gianni Dragoni è inviato de “Il Sole 24 Ore”. Si occupa di temi legati all’industria pubblica, le privatizzazioni, i bilanci delle società di calcio. Cura la rubrica PAY WATCH, che analizza le retribuzioni dei manager delle società quotate.

LA PAGA DEI

PADRONI BANCHIERI, MANAGER,IMPRENDITORI.COME E QUANTO GUADAGNANO I PROTAGONISTI

DEL CAPITALISMO ALL’ITALIANA Gianni Dragoni Giorgio Meletti

I numeri fanno impressione. Mentre la Borsa nel 2007 ha perso l’8 per cento circa, gli stipendi dei manager sono saliti del 17 per cento. Idem per il 2006. Intanto le retribuzioni medie dei lavoratori non crescono e sono tra le più basse d’Europa. Aumento di stipendio senza risultati: ecco la nuova formula del capitalismo vincente. Se l’Impregilo nel 2004 e nel 2005 ha perso centinaia di milioni, l’amministratore delegato Pier Giorgio Romiti ha ricevuto negli stessi anni compensi per più di 2 milioni di euro. COSÌ FAN TUTTI. Manager, banchieri e capitani d’industria restano immuni da responsabilità. Se c’è qualcosa che non va la colpa è sempre della politica o del mercato internazionale. Questo è un viaggio nel capitalismo italiano raccontato attraverso le retribuzioni (e le prestazioni) della nostra classe dirigente. Un sistema granitico, di signorie e vassallaggi. I nomi sono sempre gli stessi da anni: Ligresti, Pesenti, Berlusconi, Tronchetti Provera, Moratti, Agnelli, Colaninno, Romiti, De Benedetti, Caltagirone, Benetton... E poi c’è Mediobanca, l’epicentro del potere finanziario da sempre, la scatola nera del privilegio. La parola chiave è una sola: obbedienza. Allora lo stipendio milionario è assicurato. Come insegna la saga infinita dei dirigenti pubblici, spostati da una parte all’altra, sempre con buonuscite record, e dopo aver accumulato, molto spesso, perdite disastrose. E quella dei capitalisti senza capitali, che controllano una società con un’altra società, un’altra ancora, un’altra... Così hanno diritto a pochi dividendi, ma il potere è loro, basta una firma ed ecco che scatta il compenso d’oro. La politica si può criticare. Ma guai a criticare loro, gli imprenditori. Guai a criticare Confindustria, oggi governata da Emma Marcegaglia. Eppure almeno una domanda va fatta: perché se Confindustria Sicilia decide di espellere chi paga il pizzo lo stesso trattamento non vale per chi ammette di aver pagato tangenti? Nel marzo 2008 Antonio Marcegaglia, numero uno della Marcegaglia Spa, ha patteggiato undici mesi di reclusione, pena sospesa, per corruzione.



PRINCIPIO ATTIVO Inchieste e reportage


Michele Ainis, Avventura Urbana Torino, Andrea Bajani, Gianni Barbacetto, Stefano Bartezzaghi, Oliviero Beha, Marco Belpoliti, Daniele Biacchessi, David Bidussa, Paolo Biondani, Caterina Bonvicini, Alessandra Bortolami, Giovanna Boursier, Carla Buzza, Olindo Canali, Davide Carlucci, Luigi Carrozzo, Andrea Casalegno, Carla Castellacci, Massimo Cirri, Fernando Coratelli, Pino Corrias, Gabriele D’Autilia, Andrea Di Caro, Giovanni Fasanella, Massimo Fini, Fondazione Fabrizio De André, Goffredo Fofi, Massimo Fubini, Milena Gabanelli, Vania Gaito, Mario Gerevini, Gianluigi Gherzi, Salvatore Giannella, Francesco Giavazzi, Stefano Giovanardi, Franco Giustolisi, Didi Gnocchi, Peter Gomez, Beppe Grillo, Ferdinando Imposimato, Karenfilm, Giorgio Lauro, Marco Lillo, Felice Lima, Giuseppe Lo Bianco, Carmelo Lopapa, Vittorio Malagutti, Luca Mercalli, Lucia Millazzotto, Angelo Miotto, Letizia Moizzi, Giorgio Morbello, Alberto Nerazzini, Raffaele Oriani, Sandro Orlando, Pietro Palladino, David Pearson (graphic design), Maria Perosino, Renato Pezzini, Telmo Pievani, Paola Porciello (web editor), Marco Preve, Rosario Priore, Emanuela Provera, Sandro Provvisionato, Luca Rastello, Marco Revelli, Gianluigi Ricuperati, Sandra Rizza, Marco Rovelli, Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Salerno, Laura Salvai, Ferruccio Sansa, Evelina Santangelo, Michele Santoro, Roberto Saviano, Matteo Scanni, Filippo Solibello, Riccardo Staglianò, Bruno Tinti, Marco Travaglio, Carlo Zanda.

Autori e amici di

chiarelettere


“Concordo con le critiche alle alte remunerazioni della classe dirigente. Io mi ritengo esente...” Cesare Geronzi, ex presidente di Capitalia, attuale presidente di Mediobanca. Nel 2007 ha ricevuto un “premio alla carriera” di 20 milioni di euro.

PRETESTO 1 f pagina 244


“Abbiamo trovato il migliore amministratore possibile, l’abbiamo spostato su Alitalia.” Silvio Berlusconi, Porta a Porta, 11 gennaio 2006. Si riferisce a Giancarlo Cimoli, ex amministratore delegato Alitalia, la compagnia che nel 2006 registrerà perdite per 626 milioni di euro. Stipendio di Cimoli, anno 2006: 1 milione e mezzo di euro.

“Dimenticate l’antica massima che nulla rende vincenti come il successo: oggi la regola prevalente per i top manager è che niente rende quanto un fallimento.” Warren Buffett, riconosciuto nel 2008 dalla rivista Forbes come l’uomo più ricco del mondo.

PRETESTO 2 f pagine 183, 207


“Impregilo muove nel mondo circa 19mila persone. Se ognuno riuscisse a risparmiare un solo euro al giorno, l’azienda ne trarrebbe un beneficio di circa 4 milioni di euro all’anno. Tutti possono evitare una telefonata o fare, in cantiere, qualche chilometro in meno con un mezzo.” Pier Giorgio Romiti, ex amministratore delegato di Impregilo, società che ha perso 88 milioni di euro nel 2004 e 358 milioni nel 2005. Nel 2004 Pier Giorgio Romiti ha totalizzato compensi per 2 milioni e mezzo di euro.

PRETESTO 3 f pagina 147


“Correte di più, stringete i denti, e allora dagli spalti vi applaudiranno, perché voi andrete e segnerete. Come fece Napoleone a Waterloo.” Luca Luciani, direttore generale Telecom Italia. Era convinto che Napoleone a Waterloo avesse vinto. Stipendio 2007: 844mila euro.

“In Italia l’introito di una banca su ogni conto corrente è in media di 204 euro, contro 186 in Germania, 124 in Francia, 40 in Spagna. E contro una media europea di 133 euro. Solo in Lussemburgo le banche sono più care, 265 euro.”

PRETESTO 4 f pagine 111, 253


“Nel 2005 il bilancio delle Ferrovie dello Stato ha dichiarato una perdita di 472 milioni di euro… La paga dell’amministratore delegato Elio Catania è stata di un milione e 930mila euro, di cui 350mila per il raggiungimento degli obiettivi assegnati.”

PRETESTO 5 f pagina 209


Š Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo editoriale Mauri Spagnol Spa Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare Spa) Sede: Via Guerrazzi, 9 - Milano ISBN 978-88-6190-057-8 Prima edizione: ottobre 2008 Seconda edizione: ottobre 2008 Terza edizione: ottobre 2008

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Gianni Dragoni Giorgio Meletti

La paga dei padroni

chiarelettere


Gianni Dragoni è nato a Fusignano (Ravenna) il 26 ottobre 1957. Si è laureato in giurisprudenza all’Università La Sapienza di Roma. È inviato de «Il Sole 24 Ore», dove lavora dal 1985. Vive a Roma. Ha cominciato l’attività giornalistica all’agenzia Ansa, nel 1982, all’archivio elettronico, poi come cronista parlamentare. Giornalista specializzato in economia, in particolare su temi legati all’industria pubblica, le privatizzazioni, i bilanci delle società di calcio, su «Il Sole 24 Ore» cura tra l’altro la rubrica «Pay watch», che analizza le retribuzioni dei manager delle società quotate. Giorgio Meletti è nato a Cagliari il 25 maggio 1958. È laureato in storia all’Università di Pisa. Vive a Roma dove è attualmente responsabile della redazione economia del Tg La7. Da venticinque anni giornalista specializzato in economia, ha lavorato per «La Nazione», «Paese Sera», «Il Secolo XIX», «Fortune», «Il Mondo» prima di fermarsi per dieci anni al «Corriere della Sera», dove si è occupato in prevalenza dell’industria pubblica e degli incroci tra economia e politica. Ha insegnato Economia e gestione delle imprese, come professore a contratto all’Università di Pisa. Ha curato con Luca De Biase Bidone.com, storia della bolla Internet all’italiana, pubblicato nel 2001 da Fazi.


Sommario

Istruzioni per l’uso Gli stipendi d’oro nel Paese in recessione L’Italia dei padroni Lavoratori improduttivi, impiegati fannulloni, piccoli imprenditori evasori… E i manager?

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PRIMA PARTE

Il potere senza denaro

27

Pirelli-Telecom: ritratto del capitalismo italiano L’ascesa di Tronchetti Provera e le buonuscite record di Buora e Ruggiero

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Cose di casa Agnelli Romiti, Gabetti, Grande Stevens: la famiglia non si tocca. La svolta di Marchionne

48

Come funziona il potere economico Patti di sindacato e scatole cinesi: tecniche legalizzate di comando

71

Da Cuccia a Geronzi: il caso Mediobanca Storie e retroscena del club più esclusivo d’Italia

80

I banchieri, crocevia del capitalismo Geronzi, Bazoli, Passera, Profumo, Arpe

104

SECONDA PARTE

Famiglie che contano, tra casi giudiziari e laute ricompense

127

Quel che resta del salotto buono I Pesenti, i Ligresti, i Romiti, i De Benedetti

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I nuovi arrivati I Berlusconi, i Benetton, i Caltagirone

155

La bolla degli immobiliaristi Puri Negri, Zunino e l’appoggio delle banche

170

TERZA PARTE

I dipendenti d’oro

183

Come nascono le buste paga da record Gamberale e la società Autostrade, Lina e l’Impregilo, Bifulco e la Lottomatica

185

Quando lo stipendio lo decide il ministro Scaroni e l’Eni, Cimoli e l’Alitalia, Catania e le Ferrovie dello Stato

196

Azionisti poveri, manager ricchi Tatò, Conti e l’Enel; Tabacchi, Vedovotto e la Safilo; Colaninno, Sabelli e la Piaggio; i fratelli Moratti, la Saras e l’Inter

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EPILOGO

237

Questioni di stile Dal caso di Luca Luciani alla vicenda Marcegaglia: voci dalla blogosfera

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Post scriptum Andrea Pininfarina, un imprenditore

257

PER SAPERNE DI PIÙ

259

Gli stipendi in rete

261

La classifica dei manager più pagati

263

Ringraziamenti

269

Indice dei nomi

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l a pag a d e i pa d ro n i



A Matteo e Carlotta A Debora



- Ho studiato matematica, signor Galilei. - Questo può tornarci utile, se vi induce ad ammettere che due e due possono anche fare quattro. Bertolt Brecht, Vita di Galileo



Istruzioni per l’uso

Nove milioni e 427mila euro. È quanto la banca Unicredit ha dato come compenso per il 2007 all’amministratore delegato Alessandro Profumo. Non sorprende che il cinquantunenne banchiere genovese sia stato il manager italiano più pagato dell’anno. In poco tempo ha fatto del vecchio Credito Italiano una delle più forti e innovative banche d’Europa e si è conquistato sul campo una eccellente reputazione professionale. Profumo ha guadagnato oltre 25mila euro al giorno. Secondo l’Ires, il centro studi della Cgil, nel 2007 i lavoratori dipendenti italiani hanno percepito in media 24.890 euro lordi. Dunque il numero uno dell’Unicredit ha incassato ogni giorno quanto un lavoratore medio in un anno. Un normale operaio o impiegato, per mettere insieme quanto Profumo in dodici mesi, dovrebbe lavorare 365 anni. In altri termini, una dinastia di lavoratori medi impiegherebbe almeno dieci generazioni a pareggiare il conto. Nel 2007 i profitti del gruppo Unicredit sono cresciuti del 9 per cento, il dividendo distribuito agli azionisti dell’8 per cento, mentre il valore di mercato delle azioni è sceso del 17 per cento. La retribuzione di Profumo è invece aumentata del 39 per cento. Per la Borsa di Milano il 2007 è stato negativo. L’indice Mibtel, che misura il valore di mercato delle azioni quotate, ha perso il 7,8 per cento. I cento manager più pagati hanno avuto invece, secondo la classifica pubblicata da «Il Sole 24


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Ore», un aumento retributivo del 17 per cento sull’anno precedente (circa otto volte l’inflazione) e hanno messo insieme in tutto 403 milioni di euro, in media 4 milioni a testa. Anche nel 2006 i compensi dei cento manager più pagati erano cresciuti del 17 per cento rispetto all’anno precedente. Perché? Questo libro si propone di entrare in un mondo che solitamente predilige il segreto ed evita, per quanto possibile, di mostrare i suoi comportamenti ed esporli alla discussione. Un mondo che ama farsi scudo del latinorum della finanza, fatto di parole inglesi roboanti, di fronte alle quali è difficile non sentirsi inadeguati. Chi sgrana gli occhi davanti a espressioni come equity swap, stock option o due diligence fatica a sentirsi legittimato alla critica. Chi resta interdetto di fronte al gergo bilancistico, e comincia a barcollare quando gli vengono snocciolati il margine operativo lordo, le parti correlate, l’ammortamento e l’immobilizzazione immateriale, o sigle come ebit, ebitda e roe, penserà che questa non è cosa per lui. Invece i concetti base della vita economica sono semplicissimi. Quando qualcuno vende qualcosa a qualcun altro (un oggetto, un servizio o il proprio lavoro), ci sono tre possibilità: o fanno un buon affare entrambi, o uno rifila il bidone all’altro, o tutti e due fanno una fesseria. I capitani d’industria, comprensibilmente, accreditano sempre la prima ipotesi, salvo quando litigano e finiscono in tribunale, e allora confessano che si è verificata la seconda. La terza ipotesi è poi più frequente di quanto non si creda, e i due che hanno fatto la fesseria cercano il modo di farla pagare a qualcun altro. Tutto qui, e niente paura. Questo viaggio nel capitalismo italiano, raccontato attraverso le retribuzioni dei manager e dei loro «padroni», è basato su dati ufficiali e pubblici, analizzati secondo una logica puramente economica, relegando tra i sottintesi la convinzione che alla base di ogni fatto economico e sociale ci sia anche, sempre, una questione etica.


Istruzioni per l’uso

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Una nuova oligarchia I super stipendi sono la manifestazione di un nuovo potere economico. Non la più importante, ma la più evidente. Basti pensare al caso di Bob Nardelli, numero uno della Home Depot, colosso americano della distribuzione di elettrodomestici e articoli per la casa. Nardelli si è dimesso all’inizio del 2007 travolto dalle polemiche sulla discrepanza tra i suoi emolumenti (124 milioni di dollari in sei anni) e i risultati raggiunti. Si è preso una liquidazione di 210 milioni di dollari. In totale quindi ha incassato 334 milioni di dollari (più di 200 milioni di euro) per sei anni di lavoro durante i quali le azioni Home Depot hanno perso il 5 per cento del valore. Nei paesi sviluppati è in corso la sostituzione della vecchia classe dominante dei «padroni» con una nuova oligarchia di poche decine di migliaia di individui: i manager delle società quotate in Borsa. L’idea di una democrazia economica basata sull’azionariato diffuso sembra rivelarsi un’illusione. Per un verso i capitali sono molto concentrati. Secondo i calcoli del banchiere-economista francese Jean Peyrelevade,1 10-12 milioni di individui (lo 0,2 per cento della popolazione mondiale) detengono la metà del patrimonio finanziario dell’umanità. Questo piccolo gruppo di «veramente ricchi» risulta però troppo numeroso e disperso per pesare davvero sul governo delle aziende: non dispone di sufficienti informazioni e comunque non ha modo di farsi sentire davvero. Il tema ormai tiene banco sui giornali di tutto il mondo. In Italia è stato considerato finora demagogico. Lo stesso Profumo ha spiegato durante un convegno: «Anche mia madre, quando legge le cifre del mio stipendio, mi chiama per lamentarsi che guadagno troppo. (...) Ma se affrontiamo queste problematiche in modo populista non avremmo aziende che crescono e che creano ricchezza. Io potrei andare a lavorare all’estero domani, credo senza grandi problemi. È giusto che sia pagato con uno stipendio in linea con i manager di altre aziende che fanno il mio stesso mestiere».


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Ma davvero strapagare i top manager consente di avere «aziende che crescono e che creano ricchezza»? Negli Stati Uniti la risposta è arrivata nel 2004 dal libro di due importanti studiosi di diritto societario, Lucian Bebchuk e Jesse Fried, di cui basta citare il titolo: Stipendio senza risultati. Le promesse mancate delle retribuzioni dei manager.2 La formula «stipendio senza risultati» si può applicare anche all’Italia, dove le retribuzioni dei manager sembrano aver strappato ai salari operai di un tempo il titolo di «variabile indipendente»: crescono senza alcun rapporto con il costo della vita e con i progressi delle aziende. Secondo una ricerca della società di consulenza Watson Wyatt, condotta su 230 aziende italiane, nel 2006 solo il 7 per cento dei manager non ha ottenuto il premio di risultato, cioè quella parte variabile della retribuzione che dipende dal raggiungimento di determinati obiettivi. Il 93 per cento dei manager ha raggiunto i traguardi fissati e ha intascato il bonus. Sandro Catani, capo della Watson Wyatt per l’Italia, ha dichiarato al settimanale «Il Mondo»: «Non è credibile che a capo delle aziende italiane ci sia un’intera categoria così talentuosa. In sostanza credo che in Italia i bonus vengano distribuiti più per rango che per merito, agli alti livelli è quasi obbligatorio dare un premio. Il variabile è diventato una specie di fisso, un valore di fatto permanente nella retribuzione». I condottieri della crescita zero Le statistiche sull’economia italiana parlano chiaro: la cosiddetta «crescita zero» si presenta come una tendenza strutturale. Nel decennio 1997-2007 il prodotto interno lordo (pil) dell’Italia è cresciuto mediamente dell’1,1 per cento all’anno, quello dell’Europa dell’1,8 per cento. Il nostro pil pro capite è nettamente sotto la media europea e superiore solo a quello di Grecia e Portogallo. La produttività del lavoro nell’industria, cioè la ricchezza creata dal singolo lavoratore nell’unità di tempo, è ferma dal 1995, mentre negli Stati Uniti è cresciuta nello stesso


Istruzioni per l’uso

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periodo mediamente del 3,1 per cento all’anno. L’Italia sta creando molti posti di lavoro, ma di bassa qualità. Da vent’anni gli investimenti industriali italiani aumentano a un ritmo che è la metà della media europea. Non ci sono «aziende che crescono»: le imprese con oltre mille dipendenti erano 455 nel censimento del 1991, sono diventate 548 in quello del 2001, ma il numero medio degli occupati è diminuito, il che significa che le grandi imprese – decisive per trainare il Paese – sono sempre meno grandi. Dal 2000 al 2007 la produzione industriale è diminuita del 4 per cento. La quota italiana delle esportazioni mondiali è scesa negli ultimi dieci anni dal 4,3 al 3,7 per cento (la Germania, pur assediata come tutti dalla concorrenza cinese, è riuscita a salire dal 9,2 al 9,6 per cento). Non si investe in ricerca e a non spendere sono le aziende. Secondo gli ultimi dati calcolati dalla Confindustria, lo Stato italiano stanzia per la scienza, in rapporto al pil, più della Spagna e dell’Irlanda (due economie fortissime) e quanto Olanda, Gran Bretagna e Giappone. Invece gli imprenditori investono nei laboratori di ricerca la metà dei colleghi inglesi, olandesi e irlandesi, e un quinto rispetto ai giapponesi. Il risultato è stato descritto dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, in un discorso all’Università di Torino il 26 ottobre 2007: «Il recente aumento dell’occupazione si è associato a una minore produttività del lavoro: è diminuito il ritmo di crescita dell’intensità di capitale, sono divenute profittevoli occupazioni a basso valore aggiunto». Contrariamente a quello che si sente spesso raccontare, negli ultimi dieci anni il costo del lavoro in Italia è cresciuto meno della media europea. È ancora Draghi che parla: «I livelli retributivi sono in Italia più bassi che negli altri principali paesi dell’Unione Europea». Altri dati impressionanti vengono da uno studio di Mediobanca su un campione di 2015 grandi aziende. Il valore aggiunto prodotto dalle imprese private è sceso dal 27,6 per cento del fatturato nel 1997 al 22,7 nel 2006. Chi non avesse


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chiaro il concetto di valore aggiunto può aiutarsi con questo esempio: nel 1997 un paio di scarpe vendute a 100mila lire ne erano costate 73mila tra salari e materie prime, e c’era un margine di 27mila lire creato dal lavoro di trasformazione fatto in fabbrica; nel 2006 lo stesso paio di scarpe, venduto a 100 euro, è costato 78 euro tra salari e materie prime, e il margine di valore creato dal lavoro non ha superato i 22 euro. In altri termini, il valore aggiunto al costo di materie prime e salari si è ridotto, in dieci anni, di quasi un quarto. Vuol dire che il lavoro degli italiani crea meno valore. Inoltre, escludendo il comparto energia, avvantaggiato dai profitti generati dal caro-petrolio, il complesso delle aziende manifatturiere e dei servizi ha avuto nel 2006 un rendimento netto del capitale inferiore al costo medio del capitale stesso. Semplificando, significa che si prendono soldi in banca, li si investono e si produce un guadagno che non basta neppure a pagare gli interessi. Gli analisti di Mediobanca sintetizzano il fatto in una formula agghiacciante: «Distruzione di valore». Le due Italie Il tema dei «costi della politica», che da qualche anno appassiona il Paese, fa riferimento a un onere per la comunità nazionale stimato in 4 miliardi di euro all’anno. Confrontiamo questo dato con un altro. Le famiglie italiane avevano al 31 dicembre 2007, secondo i calcoli della Banca d’Italia e di Borsa italiana, investimenti diretti in Borsa (senza contare i fondi comuni d’investimento) per almeno 200 miliardi di euro. Nei primi sei mesi del 2008, quando l’indice Mibtel ha perso oltre il 20 per cento, è ragionevole stimare che gli italiani che hanno investito i loro soldi nelle aziende quotate abbiano perso almeno 40 miliardi di euro, dieci volte i costi della politica. E peraltro dal 2000 al 2006 il numero delle famiglie con investimenti in Borsa e in fondi comuni, anziché crescere, è sceso dal 21 al 14 per cento del totale: si è dissolto un terzo del fenomeno da tutti considerato decisivo per la modernizzazione del capitalismo.


Istruzioni per l’uso

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Il 31 maggio 2008, leggendo le sue «Considerazioni finali» all’assemblea annuale della Banca d’Italia, Draghi ha descritto l’esistenza di due Italie: quella delle imprese che vanno avanti e quella delle imprese sedute: «Il nodo della produttività non si scioglie, da più di dieci anni. Nonostante le difficoltà interpretative causate da un quadro statistico in movimento, anche negli ultimi due anni si conferma un divario nella dinamica della produttività rispetto ai nostri principali concorrenti. Le imprese esposte alla concorrenza internazionale non sono rimaste inerti. Come segnalammo in questa sede lo scorso anno, parti del sistema produttivo hanno iniziato a ristrutturarsi. (...) Ma nel complesso del sistema produttivo, gran parte del quale è al riparo dalla concorrenza internazionale, la produttività media ancora non progredisce. È essenziale che le imprese proseguano nel rinnovamento strutturale. Non è difendendo monopoli o protezioni che, alla lunga, si genera ricchezza: ma investendo, innovando, rischiando». Che ci sia una borghesia industriale che non investe, non innova e non rischia, lo vedono tutti, lavoratori e disoccupati, padri e figli. E non solo perché i soldi a fine mese non bastano più. C’è un fenomeno che le statistiche non misurano: chi un lavoro ce l’ha ammette di trarne sempre meno soddisfazione. Sempre più spesso i lavoratori accusano chi comanda di «pensare ad altro». Il declino italiano viene di norma attribuito agli eterni difetti nazionali, genericamente. Ma come non chiedersi se non dipenda anche dai limiti dell’imprenditoria? Questo libro parla di un capitalismo sempre meno capace di generare ricchezza, costretto a giocare in difesa per puntellare un sistema di potere morente. 1 2

J. Peyrelevade, Capitalismo totale, Isbn, Milano 2008. L. Bebchuk, J. Fried, Pay without Performance. The Unfulfilled Promise of Executive Compensation, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2004.



Giorgio Meletti è responsabile della redazione economica del Tg La7. Ha lavorato al “Corriere della Sera”, dove si è occupato in prevalenza dell’industria pubblica e degli incroci tra economia e politica. Ha curato con Luca De Biase, BIDONE.COM (Fazi 2001), storia della bolla internet all’italiana.

Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat,“la Repubblica”, settembre 2006.

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Gianni Dragoni è inviato de “Il Sole 24 Ore”. Si occupa di temi legati all’industria pubblica, le privatizzazioni, i bilanci delle società di calcio. Cura la rubrica PAY WATCH, che analizza le retribuzioni dei manager delle società quotate.

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PADRONI BANCHIERI, MANAGER,IMPRENDITORI.COME E QUANTO GUADAGNANO I PROTAGONISTI

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I numeri fanno impressione. Mentre la Borsa nel 2007 ha perso l’8 per cento circa, gli stipendi dei manager sono saliti del 17 per cento. Idem per il 2006. Intanto le retribuzioni medie dei lavoratori non crescono e sono tra le più basse d’Europa. Aumento di stipendio senza risultati: ecco la nuova formula del capitalismo vincente. Se l’Impregilo nel 2004 e nel 2005 ha perso centinaia di milioni, l’amministratore delegato Pier Giorgio Romiti ha ricevuto negli stessi anni compensi per più di 2 milioni di euro. COSÌ FAN TUTTI. Manager, banchieri e capitani d’industria restano immuni da responsabilità. Se c’è qualcosa che non va la colpa è sempre della politica o del mercato internazionale. Questo è un viaggio nel capitalismo italiano raccontato attraverso le retribuzioni (e le prestazioni) della nostra classe dirigente. Un sistema granitico, di signorie e vassallaggi. I nomi sono sempre gli stessi da anni: Ligresti, Pesenti, Berlusconi, Tronchetti Provera, Moratti, Agnelli, Colaninno, Romiti, De Benedetti, Caltagirone, Benetton... E poi c’è Mediobanca, l’epicentro del potere finanziario da sempre, la scatola nera del privilegio. La parola chiave è una sola: obbedienza. Allora lo stipendio milionario è assicurato. Come insegna la saga infinita dei dirigenti pubblici, spostati da una parte all’altra, sempre con buonuscite record, e dopo aver accumulato, molto spesso, perdite disastrose. E quella dei capitalisti senza capitali, che controllano una società con un’altra società, un’altra ancora, un’altra... Così hanno diritto a pochi dividendi, ma il potere è loro, basta una firma ed ecco che scatta il compenso d’oro. La politica si può criticare. Ma guai a criticare loro, gli imprenditori. Guai a criticare Confindustria, oggi governata da Emma Marcegaglia. Eppure almeno una domanda va fatta: perché se Confindustria Sicilia decide di espellere chi paga il pizzo lo stesso trattamento non vale per chi ammette di aver pagato tangenti? Nel marzo 2008 Antonio Marcegaglia, numero uno della Marcegaglia Spa, ha patteggiato undici mesi di reclusione, pena sospesa, per corruzione.


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