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Dall’intervista inedita a Giuseppe Pelosi pubblicata in Appendice al libro

14,60 Progetto grafico: David Pearson www.davidpearsondesign.com

www.chiarelettere.it I S B N 978-88-6190-058-5

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788861 900585

“SE TU UCCIDI QUALCUNO IN QUESTO MODO O SEI PAZZO O HAI UNA MOTIVAZIONE FORTE. SE GLI ASSASSINI SONO RIUSCITI A SFUGGIRE ALLA GIUSTIZIA PER TRENT’ANNI, PAZZI NON SONO CERTAMENTE... AVEVANO UNA RAGIONE IMPORTANTE PER FARE QUELLO CHE HANNO FATTO. E NESSUNO LI HA MAI TOCCATI.

Giuseppe Lo Bianco Sandra Rizza PROFONDO NERO

Giuseppe Lo Bianco è caposervizio all’Ansa di Palermo. Ha scritto anche per “Il Giornale di Sicilia” e “L’Ora” e oggi collabora con “L’espresso” e “Micro-Mega”. Sandra Rizza ha lavorato come cronista giudiziaria all’Ansa di Palermo. Ha esordito a “L’Ora” e scritto anche per “Panorama”, “La Stampa” e “il manifesto”. Oggi collabora con “L’espresso” e “MicroMega”. Insieme hanno scritto RITA BORSELLINO. LA SFIDA SICILIANA (2006) e IL GIOCO GRANDE. IPOTESI SU PROVENZANO (2006), pubblicati da Editori Riuniti. Sono autori de L’AGENDA ROSSA DI PAOLO BORSELLINO (Chiarelettere 2007, tre edizioni, 25.000 copie).

PROFONDO

NERO MATTEI, DE MAURO,PASOLINI.UN’UNICA

PISTA ALL’ORIGINE DELLE STRAGI DI STATO

Giuseppe Lo Bianco Sandra Rizza

Eccolo il mistero italiano. Il giornalista De Mauro e lo scrittore Pasolini avevano in mano le informazioni giuste per raccontare la verità sul volto oscuro del potere in Italia, con nomi e cognomi. Erano gli anni Settanta. Il primo stava preparando la sceneggiatura del film di Francesco Rosi sulla morte di Enrico Mattei, il presidente dell’Eni che osò sfidare le compagnie petrolifere internazionali. Il secondo stava scrivendo il romanzo PETROLIO, una denuncia contro la destra economica e la strategia della tensione, di cui il poeta parlò anche in un famoso articolo sul “Corriere della Sera” (“Cos’è questo golpe”). De Mauro e Pasolini furono entrambi ammazzati. Entrambi avrebbero denunciato una verità che nes-suno voleva venisse a galla: e cioè che con l’uccisione di Mattei prende il via UN’ALTRA STORIA D’ITALIA, un intreccio perverso e di fatto eversivo che si trascina fino ai nostri giorni. Sullo sfondo si staglia il ruolo di Eugenio Cefis, ex partigiano legato a Fanfani, ritenuto dai servizi segreti il vero fondatore della P2. Il “sistema Cefis’’ (controllo dell’informazione, corruzione dei partiti, rapporti con i servizi segreti, primato del potere economico su quello politico), mette a nudo la continuità eversiva di una classe dirigente profondamente antidemocratica, così come aveva capito e cercato di raccontare Pasolini in PETROLIO, romanzo politico che invece fu letto solo in chiave letteraria, con attenzione soprattutto ai particolari erotici. Le carte dell’inchiesta del pm Vincenzo Calia, conclusasi nel 2004, gli atti del processo De Mauro in corso a Palermo, nuove testimonianze (tra cui l’intervista inedita a Pino Pelosi, che per la prima volta fa i nomi dei suoi complici) e un’approfondita ricerca documentale hanno permesso agli autori di mettere insieme i tasselli di questo puzzle occulto che attraversa la storia italiana fino alla Seconda Repubblica. Rimane una domanda: dove è finito l’Appunto 21 di PETROLIO misteriosamente scomparso?


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PRINCIPIO ATTIVO Inchieste e reportage

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Michele Ainis, Avventura Urbana Torino, Andrea Bajani, Gianni Barbacetto, Stefano Bartezzaghi, Oliviero Beha, Marco Belpoliti, Daniele Biacchessi, David Bidussa, Paolo Biondani, Tito Boeri, Caterina Bonvicini, Beatrice Borromeo, Alessandra Bortolami, Giovanna Boursier, Carla Buzza, Olindo Canali, Davide Carlucci, Luigi Carrozzo, Andrea Casalegno, Antonio Castaldo, Carla Castellacci, Massimo Cirri, Fernando Coratelli, Pino Corrias, Gabriele D’Autilia, Andrea Di Caro, Franz Di Cioccio, Gianni Dragoni, Giovanni Fasanella, Massimo Fini, Fondazione Fabrizio De André, Goffredo Fofi, Massimo Fubini, Milena Gabanelli, Vania Lucia Gaito, Pietro Garibaldi, Mario Gerevini, Gianluigi Gherzi, Salvatore Giannella, Francesco Giavazzi, Stefano Giovanardi, Franco Giustolisi, Didi Gnocchi, Peter Gomez, Beppe Grillo, Guido Harari, Ferdinando Imposimato, Karenfilm, Giorgio Lauro, Marco Lillo, Felice Lima, Giuseppe Lo Bianco, Saverio Lodato, Carmelo Lopapa, Vittorio Malagutti, Giorgio Meletti, Luca Mercalli, Lucia Millazzotto, Angelo Miotto, Letizia Moizzi, Giorgio Morbello, Alberto Nerazzini, Raffaele Oriani, Sandro Orlando, Antonio Padellaro, Pietro Palladino, David Pearson (graphic design), Maria Perosino, Renato Pezzini, Telmo Pievani, Paola Porciello (web editor), Marco Preve, Rosario Priore, Emanuela Provera, Sandro Provvisionato, Luca Rastello, Marco Revelli, Gianluigi Ricuperati, Sandra Rizza, Marco Rovelli, Claudio Sabelli Fioretti, Andrea Salerno, Laura Salvai, Ferruccio Sansa, Evelina Santangelo, Michele Santoro, Roberto Saviano, Matteo Scanni, Roberto Scarpinato, Filippo Solibello, Riccardo Staglianò, Bruno Tinti, Marco Travaglio, Elena Valdini, Carlo Zanda

Autori e amici di

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“Pensavo che Cefis facesse il golpe e invece se n’è andato.” Enrico Cuccia.

PRETESTO 1 f pagina 266


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“Forse l’abbattimento dell’aereo di Mattei è stato il primo gesto terroristico nel nostro Paese.” Amintore Fanfani.

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“Noi con la polizia ritenevamo, con assoluta certezza, che De Mauro era stato eliminato perché aveva scoperto qualcosa di eccezionalmente rilevante sulla morte di Enrico Mattei.” Dal verbale del pm Ugo Saito, titolare dell’inchiesta sulla scomparsa di De Mauro.

“No, non fu un incidente. Pier Paolo fu giustiziato. Qualcuno aveva deciso che dovesse morire.” Sergio Citti, «Corriere della Sera», 7 maggio 2005.

PRETESTO 3 f pagine 152, 191


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“Per me i partiti sono come taxi. Salgo, pago la corsa e scendo.� Enrico Mattei.

PRETESTO 4 f pagina 46


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“L’uccisione di Mattei per il pm Vincenzo Calia porta la firma del made in Italy. La firma di persone e strutture profondamente radicate nelle nostre istituzioni e nell’Eni.”

“La Loggia P2 è stata fondata da Eugenio Cefis che l’ha gestita fino a quando è rimasto presidente della Montedison.” Nota riservata del Sismi agli atti dell’inchiesta di Pavia del pm Vincenzo Calia.

PRETESTO 5 f pagine 99, 256


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Š Chiarelettere editore srl Soci: Gruppo Editoriale Mauri Spagnol Spa Lorenzo Fazio (direttore editoriale) Sandro Parenzo Guido Roberto Vitale (con Paolonia Immobiliare Spa) Sede: Via Guerrazzi, 9 - Milano 978-88-6190-058-5 Prima edizione: febbraio 2009

ISBN

www.chiarelettere.it BLOG / INTERVISTE / LIBRI IN USCITA

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Giuseppe Lo Bianco, 49 anni, caposervizio aggiunto all’Agenzia Ansa di Palermo. Cronista giudiziario da ventitré anni, ha lavorato al «Giornale di Sicilia» e a «L’Ora» negli anni caldi della guerra di mafia, dal blitz del settembre 1984 dopo le dichiarazioni di Buscetta, che originò il primo maxiprocesso alle cosche, ai misteri delle stragi mafiose, ai processi Andreotti e Contrada. È convinto che la mafia, trasformatasi da associazione a delinquere in sistema democraticamente rappresentato, costituisca la prima, autentica, emergenza del Paese. Collabora con «MicroMega». Corrispondente de «L’espresso» dalla Sicilia, ha scritto con Franco Viviano La strage degli eroi, Edizioni Arbor, Palermo 1996. Con Sandra Rizza Rita Borsellino. La sfida siciliana, Editori Riuniti, Roma 2006, Il gioco grande. Ipotesi su Provenzano, Editori Riuniti, Roma 2006 e L’agenda rossa di Paolo Borsellino, Chiarelettere, Milano 2007. Sandra Rizza, 46 anni, per un decennio cronista giudiziaria all’Ansa di Palermo, ha imparato il mestiere negli stanzoni de «L’Ora» di Palermo, negli anni caldi della guerra di mafia, passando presto dalle cronache di ordinaria marginalità sociale alla cronaca nera e giudiziaria. Ha collaborato con «il manifesto» seguendo le udienze del maxiprocesso, e firmando servizi di approfondimento sul tema del garantismo, sul pentitismo e sugli aspetti «sociologici» del fenomeno mafia, a partire dal ruolo delle donne all’interno dei clan. Ha collaborato con «La Stampa», ed è stata corrispondente dalla Sicilia del settimanale «Panorama» negli anni delle stragi 1992-93. Oggi collabora con «MicroMega» e «L’espresso». Ha scritto Rita Atria. Una ragazza contro la mafia, editrice La Luna, Palermo 1993. Con Lo Bianco ha scritto Rita Borsellino. La sfida siciliana, Editori Riuniti, Roma 2006, Il gioco grande. Ipotesi su Provenzano, Editori Riuniti, Roma 2006 e L’agenda rossa di Paolo Borsellino, Chiarelettere, Milano 2007.


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Sommario

Protagonisti e comparse

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Avviso al lettore

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Prologo

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Il caso Mattei

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Una palla di fuoco, p. 25 - Il corsaro nero, p. 32 - I partigiani, p. 36 - Il «matteismo», p. 43 - La trappola, p. 53 - Le minacce, p. 57 Primo viaggio in Sicilia, p. 62 - Secondo viaggio in Sicilia, p. 65 Conto alla rovescia, p. 73 - La morte di Mattei, p. 80 - Il rientro di Cefis all’Eni, p. 86 - I sospetti su Cefis, p. 92 - Un delitto made in Italy, p. 97 - La rivoluzione impossibile, p. 104 - L’enigmatico Verzotto, p. 108 - L’amico siciliano, p. 115

La scomparsa di De Mauro

121

Il sequestro, p. 123 - Mister X, p. 129 - La pista Mattei, p. 136 - La clessidra, p. 143 - Lo stop alle indagini, p. 149 - Così muore un giornalista, p. 155 - Il «colpo» di De Mauro, p. 163 - Il romanzo di Zullino, p. 169 - Il mandante, p. 175 - Il processo di Palermo, p. 183


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Il delitto Pasolini

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Gli anni Settanta, p. 187 - Le pizze di Salò, p. 191 - La Banda della Magliana, p. 196 - Pelosi cambia versione in tv, p. 200 - Lo scoop di Oriana Fallaci, p. 203 - La pista Sansone, p. 208 - L’ultima inchiesta, p. 212 - Pelosi fa i nomi, p. 215 - Il mistero di Johnny, p. 222 La pista nera, p. 228 - Petrolio, p. 234 - Questo è Cefis, p. 241 - Il romanzo delle stragi, p. 247 - Lampi sull’Eni, p. 250 - Da Cefis a Gelli, p. 256

«Cos’è questo golpe?» di Pier Paolo Pasolini

269

Epilogo

273

Appendice

277

Una strana sensazione Intervista con Giuseppe Pelosi all’Idroscalo Roma, 12 settembre 2008

279

Decreto di archiviazione dell’inchiesta sulla morte di Enrico Mattei

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Ringraziamenti

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Nota

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A Pier Paolo Pasolini


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È una storia da dimenticare è una storia da non raccontare è una storia un po’ complicata è una storia sbagliata... È una storia vestita di nero è una storia da basso impero è una storia mica male insabbiata è una storia sbagliata. Fabrizio De André - Massimo Bubola, Una storia sbagliata1 1980

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Sulla morte di Pier Paolo Pasolini.


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Protagonisti e comparse

Enrico Mattei, presidente dell’Eni, morto il 27 ottobre 1962 nella sciagura aerea di Bascapé. Vuole rivoluzionare la politica petrolifera italiana. Secondo un’inchiesta giudiziaria, viene ucciso in un «complotto italiano» coperto da numerosi depistaggi. Irnerio Bertuzzi, pilota del Morane Saulnier 760, l’aereo privato di Mattei. Muore con il presidente nella sciagura di Bascapé. William McHale, giornalista americano. È al seguito del presidente dell’Eni in Sicilia per un reportage. Muore con Mattei e Bertuzzi nel disastro aereo. Greta Paulas, moglie di Mattei. Confessa di aver visto il marito piangere dopo l’ennesima minaccia di morte. Italo Mattei, fratello di Enrico. Si convince che il secondo viaggio in Sicilia del presidente dell’Eni è una trappola. Rosangela Mattei, figlia di Italo, nipote di Mattei. A lei il ministro di Grazia e Giustizia Oronzo Reale fa sconvolgenti dichiarazioni sulla morte del presidente dell’Eni. Angelo Mattei, nipote di Enrico Mattei, racconta ai giudici che il presidente dell’Eni scoprì Cefis intento a frugare nella sua cassaforte, e lo cacciò. Rino Pachetti, ex partigiano, addetto alla sicurezza dell’Eni. Sam Waagenaar, giornalista, inviato del «Saturday Evening Post». Ha seguito Mattei nel primo viaggio in Sicilia. Mario Ronchi, colono di Bascapé. Prima che l’aereo di Mattei si schianti al suolo vede «una palla di fuoco» in cielo. Sarebbe la prova del sabotaggio. Ma poi ritratta tutto. Eugenio Cefis, numero due di Mattei. Si dimette nel gennaio 1962, rientra all’Eni subito dopo la morte del presidente, modificando radicalmente la politica petrolifera. Per i servizi segreti è il fondatore della P2.


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Graziano Verzotto, nel 1955 è addetto alle pr dell’Eni in Sicilia, alle politiche del 1967 viene eletto senatore, carica da cui si dimette il 19 dicembre 1969 per assumere la presidenza dell’Ente minerario siciliano. Franco Briatico, responsabile relazioni esterne dell’Eni, uomo di Cefis. Angelo Fornara, ingegnere dell’Eni, fedelissimo di Cefis. Vincenzo Cazzaniga, presidente della Esso. Carlo Massimiliano Gritti, collaboratore di Cefis all’Eni. Addetto alle relazioni con i servizi segreti. Italo Mattei racconta che fu Gritti a tentare di convincerlo che il fratello era morto in seguito a un incidente aereo. Raffaele Girotti, amministratore delegato della Snam nell’ottobre del 1962, quando Mattei precipita con il suo aereo a Bascapé. È indicato come un fedelissimo di Cefis. Marcello Boldrini, presidente dell’Eni subito dopo la morte di Mattei. Soverchiato dalla più forte personalità di Cefis, in realtà si occupa solo di pubbliche relazioni. Franco Di Bella, capocronista del «Corriere della Sera». Tesserato P2, diventerà anni dopo il direttore del quotidiano. Gualtiero Nicotra, cugino di Verzotto. Presidente della fallimentare compagnia aerea Alis, promette al pilota Bertuzzi di assumerlo e di fare di lui un importante manager dell’aria. Giuseppe D’Angelo, Dc, nel 1962 è il presidente della Regione Sicilia. È un agguerrito avversario di Vito Guarrasi (vedi sotto), che con il governo Milazzo aveva mandato la Dc all’opposizione. Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano «L’Ora» di Palermo, ex repubblichino, scompare a Palermo il 16 settembre 1970 con il metodo della «lupara bianca», mentre indaga sulla morte di Mattei. Franco Rosi, regista cinematografico. Ha commissionato a De Mauro una ricerca sull’ultimo viaggio di Mattei in Sicilia perché vuole fare un film sulla morte del presidente dell’Eni. Vittorio Nisticò, direttore de «L’Ora». Vito Guarrasi, avvocato, eminenza grigia della politica siciliana. Secondo Verzotto, è un uomo di Cefis a Palermo. È considerato il Mister X del caso De Mauro. Antonino Buttafuoco, detto «la Spingarda». Dopo il sequestro De Mauro cerca di carpire ai familiari informazioni riservate sulle indagini. Viene arrestato ma poi scarcerato.


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Protagonisti e comparse

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Nino Salvo, Dc, potente esattore siciliano, rinviato a giudizio per mafia nel maxiprocesso del 1984. Secondo un pentito, seppe da Guarrasi che De Mauro indagava sulla morte di Mattei e lo segnalò al boss Bontade chiedendogli di intervenire. Elda Barbieri De Mauro, moglie del giornalista scomparso. Con il cognato Tullio, incontra più volte il commercialista Buttafuoco, fino ad allontanarlo per il suo comportamento ambiguo. Junia e Franca De Mauro, figlie del giornalista scomparso. La prima tiene un diario nel quale annota tutte le «anomalie» che ruotano attorno al sequestro del padre. La seconda è l’ultima ad averlo visto vivo. Pier Paolo Pasolini, scrittore, poeta, regista. Intellettuale «scomodo», omosessuale dichiarato, viene assassinato in circostante misteriose all’Idroscalo di Ostia, a Roma, la notte tra il 1° e il 2 novembre 1975. Giuseppe Pelosi, detto «Pino la Rana». Confessa di aver ucciso, da solo, lo scrittore in seguito a una lite esplosa durante un rapporto omosessuale a pagamento. Ma nel suo racconto molte cose non quadrano. Giuseppe Mastini, detto «Johnny lo Zingaro», malvivente romano e pluriomicida. In carcere si vanta di aver partecipato al delitto Pasolini con altri detenuti, ma poi davanti al giudice nega. Secondo alcune testimonianze, da detenuto, mantiene contatti con ambienti della destra eversiva. Giuseppe Borsellino, detto «Braciola», e Franco Borsellino, detto «Bracioletta». Sono due balordi del Tiburtino. Confidano al maresciallo Sansone di aver ucciso Pasolini con Johnny e Pelosi. Poi dicono che era uno scherzo. Sono morti di Aids. Faustino Durante, perito che ha effettuato un’indagine necroscopica sul corpo di Pasolini, dimostrando che la ricostruzione secondo cui Pelosi fu l’unico a colpire il regista è del tutto inverosimile. Nino Marazzitta e Guido Calvi, avvocati di parte civile della famiglia Pasolini. Più volte hanno invocato la verità sul delitto dell’Idroscalo. Graziella Chiarcossi, cugina di Pasolini, abita con lui nel periodo del delitto all’Idroscalo. Luciano Garofano, comandante del Ris dei carabinieri di Parma. Sostiene che, analizzando le tracce di sangue rimaste sui vestiti di Pasolini, oggi si potrebbe chiarire la dinamica del delitto. Sergio Citti, discepolo di Pasolini, poi regista. Convinto che Pasolini fu attirato in un agguato premeditato all’Idroscalo con la scusa della restituzione delle «pizze» di Salò, che erano state rubate. Licio Gelli, capo della P2. Indicato da una nota riservata dei servizi come il successore di Cefis nelle trame sotterranee del potere italiano.


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I magistrati e gli investigatori Ferdinando Li Donni, questore di Palermo nel 1970. Boris Giuliano, capo della Sezione omicidi della Squadra mobile di Palermo nel 1970. Ucciso dalla mafia. Bruno Contrada, capo della Sezione investigativa della Squadra mobile di Palermo nel 1970. Vent’anni dopo sarà arrestato e condannato per mafia. Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel 1970 comandante della Legione carabinieri di Palermo. Ucciso dalla mafia. Giuseppe Russo, nel 1970 capitano dei carabinieri. Ucciso dalla mafia. Vito Miceli, originario di Trapani. Nel 1970 è capo del Sid, il servizio informazioni della Difesa. Nino Mendolia, capo della Squadra mobile di Palermo nel 1970. Pietro Scaglione, nel 1970 procuratore di Palermo. Viene ucciso il 5 maggio 1971, alla vigilia di una sua deposizione nel processo milanese per diffamazione a Guarrasi. Ugo Saito, nel 1970 pubblico ministero di Palermo. Conduce le indagini sul sequestro De Mauro. Mario Fratantonio, nel 1970 giudice istruttore a Palermo dell’inchiesta De Mauro. Giacomo Conte, giudice istruttore del pool antimafia a Palermo. Nel 1991 apre la seconda inchiesta sulla scomparsa di De Mauro, poi archiviata. Vincenzo Calia, procuratore aggiunto di Genova. È il pm che a Pavia, nel 1994, ha aperto una nuova inchiesta sulla morte di Mattei, mettendo per la prima volta in relazione l’uccisione del presidente dell’Eni con la scomparsa di De Mauro e l’omicidio Pasolini. Antonio Ingroia, pm di Palermo. Nel 2001 apre la terza inchiesta sulla scomparsa di De Mauro. Chiede e ottiene il rinvio a giudizio del boss Totò Riina. Giancarlo Trizzino e Angelo Pellino, presidente e giudice a latere della Corte d’assise di Palermo che processa il boss Totò Riina per l’uccisione di De Mauro. Renzo Sansone, maresciallo dei carabinieri. Infiltrato nella malavita del Tiburtino, raccoglie le confidenze dei fratelli Borsellino. Italo Ormanni e Diana De Martino, il primo è stato procuratore aggiunto a Roma, la seconda è tuttora pm. Sono i titolari dell’ultima inchiesta sull’uccisione di Pasolini, aperta nel 2005 in seguito alle dichiarazioni televisive di Pelosi e successivamente archiviata.


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Avviso al lettore

Caro lettore, prendi fiato: stai per fare un salto nel tempo, una corsa a ritroso nella storia italiana, per scoprire il mistero del complotto che potrebbe aver provocato la morte di Enrico Mattei, il presidente dell’Eni precipitato nel 1962 con il suo aereo nella campagna pavese di Bascapé. Ma stai per scoprire qualcosa di più. Che quel complotto sarebbe stato orchestrato «con la copertura degli organi di sicurezza dello Stato», e poi occultato in un intreccio di omertà e depistaggi pronti a ricompattarsi ogni volta che, nella storia del Paese, qualcuno minaccia di rivelarne il segreto. Per questo motivo sarebbe sparito nel nulla a Palermo il giornalista Mauro De Mauro, eliminato in circostanze misteriose per volontà di un mandante invisibile. Per questo motivo lo scrittore Pier Paolo Pasolini, ucciso ufficialmente in un’assurda lite tra «froci», sarebbe rimasto vittima di un agguato studiato a tavolino. Come si legano i tre delitti? Un filo nero come il petrolio avvolge la fine di Mattei, De Mauro e Pasolini. È quanto afferma, nella sua complessa inchiesta giudiziaria sulla fine di Mattei, il pm Vincenzo Calia, costretto dopo nove anni di indagini a concludere il fascicolo con una richiesta di archiviazione per non aver raccolto prove sufficienti a inchiodare i colpevoli alle loro responsabilità. L’inchiesta è stata dunque archiviata.1 Ma il gip Fabio Lambertucci, pur chiudendo


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il caso, non ha potuto non evidenziare «il merito indiscusso in chiave di ricerca storiografica dell’indagine condotta dalla Procura di Pavia». Lo stesso Lambertucci, infatti, ha riconosciuto l’esistenza di una catena inquietante di fatti apparentemente inesplicabili che hanno seguito la morte del presidente dell’Eni, leggendoli come «possibili depistaggi», ma in assenza di prove sufficienti ha rilevato che «sulla cruciale vicenda della scomparsa di Enrico Mattei, potranno d’ora in avanti esercitarsi al più gli storici». Attenzione: questa è una precisazione importante. Il mestiere di storico e quello di giudice sono irriducibili e non potranno mai essere identificati. Carlo Ginzburg ha rilevato che «uno storico ha il diritto di scorgere un problema, là dove un giudice decide il “non luogo a procedere”»2. E così, mentre per il giudice il «caso Mattei» ha trovato un punto d’arrivo nell’archiviazione e non può essere oggetto di ulteriore approfondimento, per lo storico la medesima vicenda, fitta di misteri e interrogativi tuttora non risolti, costituisce e continuerà a costituire un caso da indagare. Il giudice e lo storico, insomma, non possono che seguire percorsi ben diversi: il primo giudica solo sulla base di prove e di indizi, il secondo ricostruisce anche sulla base di ipotesi. Lo storico (e, nel nostro caso, anche il giornalista) procede dunque per deduzioni, ed è legittimato a sottolineare le contraddizioni e le smagliature delle ricostruzioni ufficiali, purché le sue ipotesi e i suoi interrogativi vengano onestamente presentati come tali. Ed eccoci al nostro racconto. Quella che segue, caro lettore, è una ricostruzione basata su fatti raccolti dalle carte giudiziarie, su documenti d’archivio, su libri, reportage e interviste. Una storia «sbagliata» che va ben oltre la verità giudiziaria finora raggiunta. Pagina dopo pagina, percorrendo il labirinto di tre casi mai risolti, riuscirai a guardare l’Italia come nessuno l’ha mai vista, da Pasolini in poi: un Paese dove la natura criminale del pote-


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Avviso al lettore

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re ostacola da sempre l’esercizio della giustizia, dove il sistema dei ricatti incrociati costituisce la triste regola del passato, ed è la logica premessa di un presente caratterizzato dalla legittimazione democratica di nuovi autoritarismi che minacciano, ancora una volta, la tenuta delle istituzioni. ___________________________________________ 1

Cfr. il decreto di archiviazione del 17 marzo 2004 disposto dal gip Fabio Lambertucci. Il documento è riportato integralmente nell’appendice. 2 Cfr. C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri, Feltrinelli, Milano 2006.


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Prologo

Roma, 2 novembre 1975. L’una e mezzo. È notte fonda. Sul lungomare Duilio di Ostia c’è un’auto dei carabinieri di pattuglia. All’improvviso, arriva un’Alfa 2000 Gt, una bella macchina sportiva grigio argento, che passa sfrecciando in senso vietato. Ma chi è questo pazzo? Un carabiniere la vede, si raddrizza di colpo, si mette al centro della strada, tira su la paletta dell’alt. Ma l’Alfa non si ferma. I militari saltano sulla gazzella e scatta l’inseguimento. Raggiungono l’Alfa, la affiancano contro il guardrail e la costringono a fermarsi. Ma di colpo l’Alfa riparte, sgommando. Il carabiniere in fretta e furia corre in macchina e ricomincia l’inseguimento. La caccia al misterioso automobilista si conclude in pochi minuti. I militari ci mettono un niente per raggiungere di nuovo il fuggitivo, e questa volta l’appuntato ha in mano il mitra. Ma chi c’è su quella macchina sportiva? Dall’auto di lusso salta fuori un ragazzetto, un «pischello», un adolescente secco e allampanato, con i riccetti e un piccolo taglio sulla fronte, che cerca ancora di scappare, a piedi, caracollando sui suoi stivaletti con il tacco, ma viene subito acciuffato. E ammanettato. Come ti chiami? Pelosi Giuseppe, di anni diciassette, detto Pino, qualche precedente per furto. Perché scappi? Non ho la patente. Non ha nemmeno diciott’anni. E poi, quell’auto, l’ha rubata. E che ci fai a Ostia, Pelosi? Il «pischello» risponde che c’è andato per accompagnare un amico, poi ha visto i carabinieri ed è scappato. Perché sei ferito, Pelosi? Il ragazzo dice che


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ha battuto la testa contro il volante mentre scappava con l’auto sportiva. Non è niente, spiega, non mi fa male. Di chi è quella bella macchina rubata? I carabinieri guardano la carta di circolazione: è l’auto di Pier Paolo Pasolini. Questo Pelosi ha rubato la macchina di un personaggio noto. Sono le cinque del mattino quando il «pischello» viene portato nel carcere minorile di Casal del Marmo. «Dateme l’anello – dice Pelosi – il mio anello, l’ho perso.» È un anello prezioso. Pelosi Giuseppe ora lo rivuole. Dice ai carabinieri di tornare alla macchina, di cercare questo anello d’oro, bello grosso, con una pietra rossa e la scritta «United States Army». I carabinieri cercano, ma non trovano niente. L’anello sull’Alfa non c’è. Pelosi viene portato in carcere e la macchina argentata viene parcheggiata in una rimessa. Prima di lasciarla lì, i carabinieri si accorgono che a bordo c’è un pullover verde, un vecchio maglione usato e sdrucito. Si trova sul sedile posteriore, assieme al giubbotto e al maglione di Pino Pelosi. E c’è anche un plantare, uno solo, per una scarpa destra, numero 41. Nient’altro. Il caso, all’alba di domenica, sembra chiuso. Ma in carcere, appena arrivato, Pelosi fa al compagno di cella una rivelazione: «Ho ammazzato Pasolini». Alla foce del Tevere c’è un’area degradata che si chiama Idroscalo. È una baraccopoli, un agglomerato di case abusive, con il tetto in lamiera, che stanno in piedi per scommessa. Alle 6.30 del mattino la signora Maria Teresa Lollobrigida, proprietaria con il marito di una di quelle baracche, è appena arrivata. Si guarda intorno, non c’è nessuno, vede una grossa macchia tra le pozzanghere, pensa sia un sacco dell’immondizia, e si mette a imprecare. «Ma li mortacci…» Poi si avvicina per toglierlo di mezzo. Solo allora si accorge che si tratta di un cadavere. La signora resta impietrita: torna alla baracca, chiama il marito e insieme avvisano la polizia. Il cadavere sta al centro di un campetto da calcio. Intorno al corpo ci sono pezzi di legno pieni di sangue, ciocche di capelli e un anello, un


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anello con una pietra rossa e la scritta «United States Army». Qualche metro più in là, tra le pozzanghere e il fango, c’è una camicia di lana, a righe, tutta sporca di sangue. E pure una tavoletta rossa di sangue. Per terra, tracce di pneumatici che corrono dalla porta del campetto fino al corpo senza vita. Anzi, a guardarle bene, quelle tracce salgono sul tronco del cadavere, lo attraversano da parte a parte. La macchina lo ha schiacciato. «Mamma mia, ma che gli hanno fatto a ’sto disgraziato?» Il corpo è una poltiglia di sangue e carne spappolata. È steso a pancia in giù, con una canottiera e un paio di calzoni con la cerniera aperta. Chiunque abbia occhi per guardarlo si rende conto che quell’uomo è stato picchiato in modo feroce: ci sono lesioni e contusioni sulla testa, sulle spalle, sul dorso e sull’addome, fratture alle falangi della mano sinistra e dieci costole spezzate. È stato massacrato di botte. Alle 7.30 arriva il capo della Squadra mobile di Roma, Fernando Masone. Alle dieci del mattino l’attore Ninetto Davoli riconosce il cadavere: è quello del suo amico Pier Paolo Pasolini. La polizia ha trovato il corpo di Pasolini. I carabinieri la sua auto rubata. Sono il prologo e l’epilogo della stessa storia di sangue e di morte. Di lì a poco Pelosi, in carcere, confessa: «Mi trovavo con gli amici Salvatore, Claudio e Adolfo, a piazza dei Cinquecento». Il suo racconto è lungo, articolato, preciso. Comincia alle ore 22.30 della sera precedente, sabato, davanti al bar, un chioschetto della stazione Termini. Attenzione a questo racconto pieno di lacune, di buchi, di elementi inspiegabili, perché questa è la ricostruzione che da trent’anni, anzi ormai da trentaquattro anni, costituisce l’unica verità giudiziaria sulla morte di Pier Paolo Pasolini. Sabato 1° novembre 1975. Sono le 22.30. Pelosi è con gli amici, fuma, chiacchiera, passa il tempo. Si avvicina un’Alfa 2000 Gt grigio metallizzata. Scende un uomo e chiede a uno dei ragazzi, Adolfo: «Che ne dici? Facciamo un giro?». Adolfo dice di no. L’uomo allora si avvicina a Pelosi e ripete: «Ehi, tu,


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vuoi venire a fare un giro con me che ti faccio un regalo?». Pelosi è un «pischello», un ragazzetto, ma è un tipo sveglio, sa cosa vuole quell’uomo, sa che lo sta «rimorchiando». Però ci sta. «Ce vengo», dice. E sale in auto con lui. L’uomo chiede a Pelosi come si chiama. Il ragazzo risponde: «Pino». Poi dice che ha fame. L’ora di cena è passata da un pezzo, ma l’uomo conosce un posto, una trattoria che è ancora aperta. Forse faranno più tardi del previsto. Pino chiede all’uomo di tornare un momento al bar della stazione, deve farsi dare le chiavi di casa e della macchina, che ha lasciato a un amico. L’Alfa ricompare davanti al chioschetto. Pelosi chiede all’amico Claudio le chiavi e gli dice che può prendere lui la macchina, con il doppione, basta che poi gliela lasci sotto casa. L’uomo e Pino ora vanno verso la trattoria Biondo Tevere, dove il primo sembra molto conosciuto. Tutti lo salutano, perché quell’uomo è Pier Paolo Pasolini, uno famoso, ma Pino dice che non lo sa, per lui è soltanto un signore gentile, che si chiama Paolo. Pino mangia di gusto, un piatto di spaghetti, poi chiede un petto di pollo. Nel frattempo Paolo gli fa un sacco di domande. Restano a chiacchierare seduti in trattoria fino alle 23.30, poi salutano e vanno via, fermandosi a fare benzina in un self service e quindi avviandosi verso Ostia. Paolo spiega al riccetto che se lui è d’accordo andranno in un luogo isolato, per fare «qualcosa». Così dice, e poi lui gli darà ventimila lire. Pino sorride e acconsente. A mezzanotte l’Alfa si ferma nel campetto di calcio dell’Idroscalo. Paolo si sfila gli occhiali, li posa nel portaoggetti dell’auto, poi si abbassa e comincia un rapporto orale con Pelosi, che però di colpo si ferma. Il racconto di Pelosi da questo momento entra nel vivo: è la storia di una lite tra «froci». La storia di Pino che all’improvviso non ci sta più, esce dalla macchina, si allontana; e di Paolo che, insoddisfatto, arrabbiato, gli va dietro. Che cosa è successo? Cosa vuole quel signore gentile dal «pischello»? Dice Pelosi che l’uomo gli ha chiesto


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«qualcosa», una cosa che il ragazzo assolutamente rifiuta di fare, e il rifiuto lo ha fatto imbestialire. Ha preso un bastone e ora lo minaccia, con occhi cattivi. Pino si spaventa e scappa, l’uomo gli corre dietro. Corrono per circa cinquanta metri, ma Pino ha quegli stivaletti, e il terreno è pieno di buche e di pozzanghere. Il ragazzo scivola a terra. L’uomo lo raggiunge e lo colpisce alla testa con il bastone. Allora Pino vede per terra una tavoletta, la afferra e la spacca sulla testa di Paolo, poi gli dà due calci, lo colpisce anche in faccia, con altri calci. Quello è pazzo di furore. Pino ora ha paura, non capisce più niente, tiene stretta la tavoletta e picchia finché Paolo non cade a terra. Poi sale in macchina e cerca la via di fuga. Mentre schiaccia il piede sull’acceleratore di quell’auto di lusso che non sa guidare, sente un sobbalzo: pensa di aver preso in pieno una cunetta o una buca. Pochi metri più avanti, si ferma. C’è una fontanella. Pino scende dall’Alfa, si sciacqua le mani e la faccia, e infine riparte. Poco dopo, sul lungomare, i carabinieri lo vedono correre contromano e azionano la sirena. La lite tra «froci» che ha ucciso Pier Paolo Pasolini è tutta qui. È il racconto di Pelosi agli inquirenti che il giorno dopo il delitto hanno già in mano un lungo, articolato e dettagliato verbale. Quella domenica la notizia della morte di Pasolini, battuta dalle agenzie di stampa, colpisce l’Italia come un pugno. Chi è morto? L’autore di Teorema, Ragazzi di vita, Mamma Roma; lo scrittore, il regista, il poeta. Il «frocio». E com’è morto? È morto da «frocio», ucciso a botte da un ragazzo di vita che aveva adescato per fare sesso, in auto, in cambio di poche lire. Che schifo. L’Italia dei benpensanti si scandalizza. Ma la polizia rassicura tutti. L’assassino ha confessato. L’assassino è al sicuro in una cella. Il caso è chiuso. In questa storia non c’è nulla che quadri. A cominciare dai primi rilievi. All’Idroscalo, la polizia trova accanto al corpo di Pasolini decine di curiosi, ragazzetti, baraccati; stanno lì a calpestare le tracce del pestaggio, e nessuno pensa di cacciarli via. Poco più tardi, alle nove, una squadretta di ragazzini in


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maglietta gioca a calcio sul campetto vicino al cadavere. Ci sono giornalisti, fotografi, «pischelli», tutta gente che cammina sul luogo del delitto e rende impossibile, più tardi, l’esame di eventuali tracce di passi o di pneumatici. Più che un’indagine è un caos. Per non parlare dell’Alfa 2000 Gt di Pasolini, che resta nel garage dei carabinieri fino al giovedì successivo, quando finalmente viene consegnata alla Scientifica. Per quattro giorni l’auto resta aperta e sotto la pioggia, finché non viene parcheggiata al riparo di una tettoia e, nella manovra, l’autista va a schiantarsi su un palo. Su quell’auto ci sono ancora un maglione verde e un plantare numero 41 che non appartengono a Pasolini. Il maglione è vecchio e logoro, la famiglia non lo riconosce, e di plantari Pasolini non ne ha mai portati. Non appartengono neanche a Pelosi; nella macchina ci sono finiti sicuramente il giorno dell’omicidio, perché il giorno prima l’auto è stata lavata. C’è anche una macchia di sangue sul tetto dell’Alfa: è segno che qualcuno si è appoggiato con la mano sporca per aprire la portiera di destra, quella del passeggero. La famiglia del regista affida la perizia necroscopica al professor Faustino Durante, medico chirurgo, docente dell’Istituto di Medicina legale dell’Università di Roma. Il perito scopre che Pasolini è morto perché la sua auto gli è passata sopra, fratturandogli dieci costole e lo sterno, lacerandogli il fegato e facendogli scoppiare il cuore. Prima, però, è stato massacrato di botte. Come? Nel campetto dell’Idroscalo ci sono due paletti e due tavolette insanguinati. Ma per il professor Durante, Pasolini è stato colpito con qualcosa di molto più pesante. La cosa più strana è che il presunto assassino, il «pischello» Pelosi, è pulito. Ha soltanto una macchia di sangue su un polsino, un’altra sui calzoni. Non può essere che Pasolini non abbia reagito all’aggressione, eppure Pelosi, a parte una piccola ferita sulla fronte, non ha lesioni, né escoriazioni. E allora? Quanti erano? Chi ha aiutato Pino a massacrare Pasolini? Pelosi dice di aver fatto tutto da solo. Ma come? È un ragazzetto di diciasset-


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te anni, è alto un metro e settantuno, pesa solo sessanta chili. La stampa si concentra sul «giallo Pasolini». Dopo uno degli interrogatori, i poliziotti trascinano Pelosi nel carcere di Regina Coeli. Il ragazzetto ha gli occhi gonfi, forse ha pianto, forse lo hanno pestato, i giornalisti lo chiamano, lo bombardano di foto, uno gli urla: «Pino, ma che hai fatto all’occhi? Me pari ’na rana». Si guadagna, da allora, il soprannome di Pino la Rana. È magro, è confuso, è proprio un pischello. È stato lui a ridurre Pasolini in quel modo con un pezzetto di legno fradicio? E quello non si è nemmeno difeso? Il processo a Pino Pelosi, imputato di «omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo» si apre il 2 febbraio 1976 davanti al Tribunale per i minorenni di Roma. La famiglia di Pasolini, con gli avvocati Guido Calvi e Nino Marazzita, si costituisce parte civile. A presiedere il tribunale è Alfredo Carlo Moro, il fratello del presidente della Dc Aldo Moro. Il giudice respinge la richiesta di considerare Pino Pelosi incapace di intendere e di volere avanzata dalla difesa sulla base della perizia del professor Aldo Semerari, un criminologo legato agli ambienti eversivi durante la strategia della tensione che poi verrà ucciso dalla camorra. Il 26 aprile 1976 il tribunale condanna Pelosi a nove anni, sette mesi e dieci giorni, e a trentamila lire di multa per atti osceni, furto aggravato e omicidio volontario nella persona di Pasolini Pier Paolo. Ma i giudici non credono alla sua versione. «Ritiene il collegio – scrive Alfredo Carlo Moro – che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all’Idroscalo il Pelosi non era solo.» L’imputato e il procuratore generale si appellano alla sentenza. Il 4 dicembre 1976 la sezione per i minorenni della Corte d’appello di Roma assolve Pino Pelosi dall’imputazione di atti osceni e furto, ma conferma la condanna per omicidio. Questa volta, però, riesaminati tutti gli elementi, la nuova Corte ritiene «estremamente improbabile, per tutte le cose dette, che Pelosi possa avere avuto uno o più complici». A massacrare e uccidere Pier Paolo


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Pasolini, quella notte all’Idroscalo, c’è soltanto lui, Pino il riccetto. L’omicidio è l’esito sconclusionato della solita lite tra «froci» e marchettari. Il 26 aprile 1979 la Corte di cassazione conferma la sentenza. Pasolini è stato ammazzato da Pino Pelosi. Punto e basta.1 Il processo è finito, ma il mistero dell’Idroscalo è appena cominciato. Per comprenderlo fino in fondo, dobbiamo fare un salto indietro nel tempo. Come nei film di fantascienza. Un salto indietro di tredici anni. Ora ci troviamo su un campo di frumento, nel buio di una serata piovosa, a un chilometro scarso dalla pista di Linate, Milano. Quando, nel cielo, compare tra le nubi una «palla di fuoco». ___________________________________________ 1

Le sequenze della notte dell’Idroscalo e la cronologia del processo contro Pino Pelosi sono ricostruite sulla traccia dell’articolo di Gianni Borgna e Carlo Lucarelli Così morì Pasolini, pubblicato su «MicroMega», 6, 2005.


Dall’intervista inedita a Giuseppe Pelosi pubblicata in Appendice al libro

14,60 Progetto grafico: David Pearson www.davidpearsondesign.com

www.chiarelettere.it I S B N 978-88-6190-058-5

9

788861 900585

“SE TU UCCIDI QUALCUNO IN QUESTO MODO O SEI PAZZO O HAI UNA MOTIVAZIONE FORTE. SE GLI ASSASSINI SONO RIUSCITI A SFUGGIRE ALLA GIUSTIZIA PER TRENT’ANNI, PAZZI NON SONO CERTAMENTE... AVEVANO UNA RAGIONE IMPORTANTE PER FARE QUELLO CHE HANNO FATTO. E NESSUNO LI HA MAI TOCCATI.

Giuseppe Lo Bianco Sandra Rizza PROFONDO NERO

Giuseppe Lo Bianco è caposervizio all’Ansa di Palermo. Ha scritto anche per “Il Giornale di Sicilia” e “L’Ora” e oggi collabora con “L’espresso” e “Micro-Mega”. Sandra Rizza ha lavorato come cronista giudiziaria all’Ansa di Palermo. Ha esordito a “L’Ora” e scritto anche per “Panorama”, “La Stampa” e “il manifesto”. Oggi collabora con “L’espresso” e “MicroMega”. Insieme hanno scritto RITA BORSELLINO. LA SFIDA SICILIANA (2006) e IL GIOCO GRANDE. IPOTESI SU PROVENZANO (2006), pubblicati da Editori Riuniti. Sono autori de L’AGENDA ROSSA DI PAOLO BORSELLINO (Chiarelettere 2007, tre edizioni, 25.000 copie).

PROFONDO

NERO MATTEI, DE MAURO,PASOLINI.UN’UNICA

PISTA ALL’ORIGINE DELLE STRAGI DI STATO

Giuseppe Lo Bianco Sandra Rizza

Eccolo il mistero italiano. Il giornalista De Mauro e lo scrittore Pasolini avevano in mano le informazioni giuste per raccontare la verità sul volto oscuro del potere in Italia, con nomi e cognomi. Erano gli anni Settanta. Il primo stava preparando la sceneggiatura del film di Francesco Rosi sulla morte di Enrico Mattei, il presidente dell’Eni che osò sfidare le compagnie petrolifere internazionali. Il secondo stava scrivendo il romanzo PETROLIO, una denuncia contro la destra economica e la strategia della tensione, di cui il poeta parlò anche in un famoso articolo sul “Corriere della Sera” (“Cos’è questo golpe”). De Mauro e Pasolini furono entrambi ammazzati. Entrambi avrebbero denunciato una verità che nes-suno voleva venisse a galla: e cioè che con l’uccisione di Mattei prende il via UN’ALTRA STORIA D’ITALIA, un intreccio perverso e di fatto eversivo che si trascina fino ai nostri giorni. Sullo sfondo si staglia il ruolo di Eugenio Cefis, ex partigiano legato a Fanfani, ritenuto dai servizi segreti il vero fondatore della P2. Il “sistema Cefis’’ (controllo dell’informazione, corruzione dei partiti, rapporti con i servizi segreti, primato del potere economico su quello politico), mette a nudo la continuità eversiva di una classe dirigente profondamente antidemocratica, così come aveva capito e cercato di raccontare Pasolini in PETROLIO, romanzo politico che invece fu letto solo in chiave letteraria, con attenzione soprattutto ai particolari erotici. Le carte dell’inchiesta del pm Vincenzo Calia, conclusasi nel 2004, gli atti del processo De Mauro in corso a Palermo, nuove testimonianze (tra cui l’intervista inedita a Pino Pelosi, che per la prima volta fa i nomi dei suoi complici) e un’approfondita ricerca documentale hanno permesso agli autori di mettere insieme i tasselli di questo puzzle occulto che attraversa la storia italiana fino alla Seconda Repubblica. Rimane una domanda: dove è finito l’Appunto 21 di PETROLIO misteriosamente scomparso?


Dall’intervista inedita a Giuseppe Pelosi pubblicata in Appendice al libro

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Giuseppe Lo Bianco è caposervizio all’Ansa di Palermo. Ha scritto anche per “Il Giornale di Sicilia” e “L’Ora” e oggi collabora con “L’espresso” e “Micro-Mega”. Sandra Rizza ha lavorato come cronista giudiziaria all’Ansa di Palermo. Ha esordito a “L’Ora” e scritto anche per “Panorama”, “La Stampa” e “il manifesto”. Oggi collabora con “L’espresso” e “MicroMega”. Insieme hanno scritto RITA BORSELLINO. LA SFIDA SICILIANA (2006) e IL GIOCO GRANDE. IPOTESI SU PROVENZANO (2006), pubblicati da Editori Riuniti. Sono autori de L’AGENDA ROSSA DI PAOLO BORSELLINO (Chiarelettere 2007, tre edizioni, 25.000 copie).

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