Christian Zucconi. Garbage Memory

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CHRISTIAN ZUCCONI GARBAGE MEMORY PISTOIA SOTTERRANEA® ISTITUTO RICERCHE STORICHE ARCHEOLOGICHE A cura di Francesca Giunti e Michela Tucci 10 maggio 2013 - 10 giugno 2013 I più grandi dolori sono quelli di cui noi stessi siamo la causa. (Sofocle) Ispirandosi all’antico utilizzo dei sotterranei di Pistoia, dove nell’acqua della gora che qui sotto scorreva si gettavano le ceramiche ospedaliere ormai rotte o infette cosicché tutto venisse nascosto, portato via e ripulito, le opere di Zucconi qui esposte ci ricordano che ancora oggi l’uomo tende a dimenticare, rifiutare la memoria scomoda: dolore, male, sofferenza, morte. Zucconi ha dato vita ad un viaggio all’interno della memoria rifiutata, evocativa di quelle dure esperienze che hanno segnato la Storia indelebilmente e che sono in grado di toccare lo spirito del visitatore — luogo nascosto ma appena presente e pulsante sotto l’epidermide come lo spazio di Pistoia Sotterranea. È un richiamo al passato, un invito all’indagine nel male delle guerre, nei dolori della Storia, attraverso la quale l’uomo potrà costruire il proprio futuro su fondamenta solide come gli imponenti voltoni del percorso sotterraneo che, dal 1277, sostengono l’Ospedale del Ceppo in un continuo dialogo tra il passato nascosto e la vita presente. Masquerade, immagine simbolo di questa mostra, ricorda uno dei periodi della storia umana più dolorosi e rifiutati: i campi di concentramento in cui la vita si ferma — corpi fissati nel marmo, figure senza tempo pietrificate dalla paura. Mezzi busti, corpi mutilati indagati da Zucconi con fermezza chirurgica, diventano i corpi feriti dalla guerra che, in ogni luogo e in ogni tempo, continuano crudeli a combattersi colpendo anche innocenti creature. Al termine del percorso sotterraneo, dove l’installazione video di un etereo bambino filmato da Mustafa Sabbagh ci riporta verso la luce, la superficie, si giunge nel suggestivo anfiteatro anatomico, dove il Cristo deposto, perdendo ogni sacralità, è mostrato quale uomo morto che, prima del viaggio eterno, viene esposto su un freddo tavolo anatomico.

Garbage Memory è una mostra che porterà il visitatore ad esplorare, anche con sofferenza, il proprio io e a non dimenticare mai, anche quando dimenticare è più facile e meno doloroso di ricordare. Francesca Giunti Michela Tucci Non c’è dentro, né spirito, né fuori o coscienza, nient’altro che il corpo così come lo si vede, un corpo che non cessa di essere, anche quando cade l’occhio che lo vede. E questo corpo è un fatto. Io. (Antonin Artaud, Suppôts et Supplications) La discarica della memoria che Zucconi allestisce nei sotterranei di Pistoia ha in sé qualcosa di perturbante. Tra mura sudate e giocattoli abbandonati, le opere si intervallano come stazioni di un calvario dell’infanzia e del subcosciente. È un viaggio claustrofobico, all’interno di un sottosuolo fisico e allegorico, un percorso che si smarrisce nelle zone ombrose e celate di una sorta di inconscio collettivo, in quell’archetipo del sangue perennemente rimosso che alimenta vita, violenza e fecondazione. Questo spazio reale e mentale richiede nuove forme e nuove assiologie: con coraggio e coerenza Zucconi si confronta in modo largamente inedito con il rovescio brutale di una modernità sterilizzata, dismettendo in qualche altra discarica personale l’iconografia classica e biblica e la rivisitazione dei valori della tradizione figurativa rinascimentale percorsi in precedenza. Sculture come Masquerade, Birth, Rape o Insertion/Erection sono las pinturas negras di Zucconi. Nel raccontarci un’infanzia rifiutata e lacerata tanto individuale quanto collettiva, Zucconi esplora una nuova concezione della corporeità


strappata al travertino persiano, ora materica e martoriata, ora svuotata e violentata, ora mascherata e mistificata. L’uso di chiodi, catene, radici, capelli, garze, vernici o ancora la presenza di innesti o forme di costrizione metalliche vanno a violentare la nobiltà del marmo e le forme statuarie codificate, rendono sensibile la carnalità delle opere lacerandone o incidendone la pelle; contemporaneamente, i corpi svuotati con processi di autoscopia mettono a nudo l’intimità stessa dell’essere cosa viva. È uno slittamento stilistico silenzioso ma netto quello intrapreso dallo scultore piacentino, un mutamento senza nome che sta portando le sue opere a incarnare i fantasmi di una modernità desolante. Le due figure infantili di Bitter almonds sembrano dirci: “siamo ombre bianche vittime di una purificazione intossicante”, innocenti sottoposti ad un processo di igienizzazione del corpo cui corrisponde una sterilizzazione degli affetti. Anche il virtuosismo tecnico si fa più sottile e celato, al servizio di una brutalità espressiva tutta nordica, la quale richiama lo spasimo nell’arte di un Matthias Grünewald piuttosto che una qualche maniera michelangiolesca. Cosa rimane dunque della rivoluzione kenoclastica di Zucconi, di quell’operare nel ventre della scultura per ampliarne le potenzialità tecniche ed espressive? Dopo la ricerca di un linguaggio incardinato in una tradizione artistica e mediato attraverso lo svuotamento delle forme classiche, dopo la rilettura personale dell’esemplarità di figure mitiche e bibliche per indagare la relazione tra scultura, uomo e modernità, assistiamo ora ad un colossale Götterdammerung, dove ogni mito è caduto e l’uomo si confronta direttamente solo con se stesso. Restano gli istinti allo stato essenziale, le pulsioni in atto, senza più filtri o mediazioni simboliche. Ecco uno stupro, un’erezione, un parto, ecco la crudezza del quotidiano, dove trova altresì posto una infinita pietà, anch’essa spogliata da qualsiasi riferimento escatologico.

È questa l’eredità ultima dell’uomo, lo sgretolamento dell’infanzia di fronte all’ineluttabilità dei fatti umani, e questo è il tentativo di Zucconi di ricucire in una dimensione di memoria condivisa il troppo umano forzosamente obliato e rifiutato. Il ritorno all’essenzialità del corpo si manifesta anche nello zoomorfismo che caratterizza alcune sculture, nelle quali il richiamo alla carne macellata dell’animale conserva e ripropone la sofferenza della carne viva. Così, per un’opera come Birth potrebbero valere le parole che Gilles Deleuze dedica all’arte di Francis Bacon: “ogni uomo che soffre è carne macellata. La carne macellata è la zona comune all’uomo e alla bestia, la loro zona di indiscernibilità”. Il parto di Zucconi è un’immagine assoluta e implacabile, intollerabile nella sua necessità. La riduzione dei corpi a forme animalesche ci suggerisce una istintualità di fondo che ha smarrito uno scopo, una ripetitività arida e ferina, frutto di una riproduzione meccanizzata. Una medesima sensazione di sterilità ritorna in Masquerade: le zone erogene delle quattro figure infantili sono martoriate, i seni sono chiodi e i peni radici, quasi a proclamare una sessualità che non appartiene più all’individuo ma è ormai ridotta ad un innesto culturale. Il richiamo iconico dell’opera alla realtà meccanicistica dei campi di sterminio rimarca la sottomissione del singolo alle logiche repressive dell’apparato sociale. Sempre di una imposizione violenta Zucconi ci racconta attraverso Rape, opera ambigua di costrizione e seduzione, corpo desiderato e corpo abusato. Lo scultore domina i meccanismi di feticizzazione attraverso lo sguardo, muovendosi consapevolmente sul crinale che separa sacralizzazione artistica e prosaicizzazione, iconolatria e pornografia, aspirazione al trascendente e declassamento della forma a banale nudità. Zucconi cerca l’occhio feticizzante, capace di creare effetti di realtà: è un occhio magico, arcano, che trova piena espansione proprio in questo percorso espositivo antimuseale, in un sottosuolo dove la for-


za delle sculture non è sacrificata alla censura culturale dei sensi e la dimensione estetica è riportata a quella estesica, libera da apparati congegnati per lo scarico del potenziale delle immagini. La cura dell’allestimento permette a Zucconi di trapiantarci dei sensi attraverso le sue opere: non solo vediamo, ma tocchiamo, annusiamo e ascoltiamo le vite che il marmo racconta, sulla nostra pelle sentiamo il dolore di una violenza o la maestà di un’erezione. Insertion/Erection può sembrare la nemesi di Rape, la potenza vitale che si manifesta nella sua pienezza, ma allo stesso tempo, come avviene invece in Masquerade, è una figura a sua volta stuprata dall’inserzione di una verga metallica che nuovamente sancisce la spersonalizzazione dell’atto sessuale. L’ambiguità dell’opera – così come dell’intero labirintico viaggio nell’inconscio della rimozione – costringe alla ricerca costante di una coerenza tra l’eccesso di umanità e la crudeltà, da intendersi secondo Antonin Artaud “nell’accezione di appetito di vita, di rigore cosmico, di necessità implacabile, nel significato gnostico di turbine di vita che squarcia le tenebre, nel senso di quel dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere”. A illuminare il percorso e indicare un possibile punto di uscita è l’immagine radiosa di un bambino: il video di Mustafa Sabbagh cattura e ci ridona uno squarcio di purezza. La spazzatura è alle nostre spalle; l’infanzia tuttavia non è percorribile a ritroso ed è sempre perdita. Il bianco è attributo dell’innocenza e della freddezza, e il bambino può diventare il demone bloccato nei ghiacci del nostro più profondo inferno. Il buio delle viscere lascia infine spazio alla luce del quotidiano: si esce dal budello sotterraneo per entrare nell’Ospedale del Ceppo, luogo in cui l’essenza dell’uomo è messa a nudo e si inscena il conflitto tra la degenerazione del corpo e la sua scientifica preservazione. L’autopsia è un’operazione su tessuti morti un tempo vivi, carne macellata ora neutralizzata dalla freddezza clinica. Nella sala in cui è

ospitata, Ataraxia diviene emblema di una indagine interiore all’uomo – “il cranio aperto” come in un verso della Morgue di Gottfried Benn – cercando la perfetta pace dell’animo. Nell’incantevole teatro anatomico Zucconi ci mostra l’ultima eredità del metodo kenoclastico: con l’autopsia a cui assoggetta la Depositio Christi lo scultore ci offre la possibilità di trovare un punto di vista anche interno al corpo, l’unico fatto, prova di esistenza, contenitore e discarica della memoria che è l’io. L’opera, ormai desacralizzata, si presta ad una muta riflessione sul destino che accomuna l’intera umanità, poiché nelle viscere del figlio dell’uomo solo l’uomo troviamo. Filippo Ozzola


CHRISTIAN ZUCCONI Nasce a Piacenza (Italia) e fin da bambino si avvicina alla scultura collaborando con il Laboratorio Corsanini di Carrara e l’Officina Martello di Broni. Lavorando a Milano con la storica Compagnia del Disegno di Alain Toubas, espone in prestigiosi spazi pubblici come la Pinacoteca del Castello Visconteo di Legnano (2007), il Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco di Milano (2010), i Musei Civici di Palazzo Farnese di Piacenza (2011) e il Museo dell’Opera del Duomo di Prato (2012) con curatori quali Rudy Chiappini e Luca Beatrice. MUSTAFA SABBAGH Nasce ad Amman (Giordania) e studia architettura all’Università di Venezia. Formatosi a Londra come assistente di Richard Avedon, nel 2007 collabora con il prestigioso Central Saint Martins College of Art and Design. Pubblica diversi lavori in numerose testate (The Face; Vogue; L’Uomo Vogue; Arena...) ed espone in prestigiosi spazi pubblici come il Museo Boldini di Ferrara (2012) e privati. Nel 2013 Peter Weiermair lo include tra i quaranta fotografi viventi più influenti al mondo.

Piazza Giovanni XXIII PISTOIA www.irsapt.it

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