christian ZUCCONI
Rudy Chiappini
Christian Zucconi rivoluzione kenoclastica sculture
Fotografie di Mauro Davoli
Christian Zucconi rivoluzione kenoclastica Sculture
Museo d’Arte Antica, Castello Sforzesco, Milano
6 marzo - 25 aprile 2010
alla cara memoria di Piero e Stefano
Mostra a cura di Rudy Chiappini Responsabile coordinamento e gestione mostre Domenico Piraina Sindaco Letizia Moratti
Coordinamento mostra Roberta Ziglioli
Assessore alla Cultura Massimiliano Finazzer Flory
Organizzazione Giuliana Allievi Luisella Angiari Filomena Della Torre Patrizia Lombardo Christina Schenk Diego Sileo Giulia Sonnante
Direttore Centrale Cultura Massimo Accarisi Direttore Settore Musei Claudio Salsi
Responsabile Amministrazione Renato Rossetti Responsabile Servizio Castello Giovanna Mori Staff Antonia Franzò Arlex Mastrototaro Emanuela Sivalli Gilberto Zedda
Amministrazione Laura Piermattei Sonia Santagostino Luisella Vitiello Responsabile Comunicazione e Promozione Luciano Cantarutti Comunicazione e promozione Francesca La Placa Maria Trivisonno Comunicazione visiva Dalia Gallico Art Lab Coordinamento tecnico Luciano Madeo Patrizia Lombardo Annalisa Santaniello Assistenza Operativa Palma Di Giacomo Maria Loglisci Giuseppe Premoli
Con il patronato di
Fotografie di Mauro Davoli Progetto di Alain Toubas
Con il sostegno tecnico di
Organizzazione Mario Paroli Crediti fotografici Mauro Davoli Emanuele Ferrari Alessandro Bersani Franca Bosi Molinari Luca Nicoletti Progetto grafico e web designer Luca Biagini Ufficio Stampa Mostra
Ufficio stampa Comune di Milano Francesca Cassani
e il sostegno di
Con la collaborazione di L’artista ringrazia
Presidente Gian Guido Folloni
Comune di Gragnano Trebbiense
Sindaco Andrea Barocelli Assessore alla Qualità Urbana Riccardo Dioli
Cecilia Boselli, assistente Tonino Zucconi, assistente di studio Adelmo, Luca e Patrizia, Domenico e Annunciata per il concreto aiuto. Enrico Pedrini, Michele Merli, Laura e Luca, la piccola Alessia, Silvana e il fratello Mario
La mostra di Christian Zucconi Italia è senza dubbio un evento rilevante nel panorama artistico lombardo. Siamo, infatti, di fronte ad uno dei più eclettici scultori di arte contemporanea capace di porsi in continuità con gli scultori del passato, restituendo in chiave moderna esperienze e percezioni del corpo umano. In tal senso nelle sculture di Zucconi ci sorprende la capacità di pensare nuove forme a partire da una continua e appassionata osservazione della “materialità” dell’uomo. Con questa mostra – che si svolge nella suggestiva cornice degli incantevoli spazi del Castello Sforzesco – Milano ancora una volta si apre alla bellezza e alla genialità creativa, grazie alla propria dinamicità e capacità di ascolto. In particolare l’esposizione di Christian Zucconi conferma quell’attenzione all’arte contemporanea che la Regione Lombardia da sempre coltiva, nella convinzione che una delle sfide principali di ogni tempo sia l’educazione alla bellezza.
Roberto Formigoni
Presidente della regione Lombardia
Milano e l’arte formano un connubio antico. Nello stesso tempo la nostra città esprime una straordinaria vocazione all’arte contemporanea e alle sperimentazioni dei giovani talenti. Lo testimonia la mostra dedicata alle opere di Christian Zucconi, artista emergente, promettente interprete della scultura italiana, che parte da un’ispirazione classica, michelangiolesca, per approdare a quella che lui ha definito come “Rivoluzione kenoclastica”. La tecnica kenoclastica di Zucconi consiste nella distruzione e nello svuotamento di un’opera finita e nella sua successiva ricomposizione. L’artista rilegge la lezione di Michelangelo facendola propria e restituendoci opere drammatiche, violente, assolutamente contemporanee, ma che sembrano esistere da sempre negli spazi del Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco. Milano, custode dell’ultimo capolavoro di Michelangelo, la Pietà Rondanini, ospita adesso al Castello Sforzesco le prime opere kenoclastiche di Zucconi. Questa mostra crea un parallelo tra il grande maestro e il “giovane allievo”: non vuole essere un confronto, ma la dimostrazione di un rapporto di continuità, di scambio, di relazione ininterrotta tra l’artista di ieri e quello di oggi. L’arte è una forma d’espressione potente, libera, capace di superare confini di tempo e di spazio: Milano, città aperta e in continuo divenire, è il luogo ideale per riconoscere, accogliere, valorizzare genialità e bellezza.
Letizia Moratti
Sindaco della città di Milano
…Come in uno stato di perpetua oscillazione tra il frenare in avanti e il frenare all’indietro […] La sicurezza, persin terribile nell’impatto plastico, più si mette in discussione e più si rivela e si chiarisce. Giovanni Testori, La cenere e la carne
Non solo parole negli Scritti sulla scultura del Novecento di Testori. Qui, infatti, fra le immagini del limite e dell’illimite, dell’esistenza e del nulla, della cenere e della carne si coglie una fra le tante e diverse anime di questa complessa arte delle forme. E, al di là della tecnica che Testori magistralmente sa indagare, è precisamente il tema della carne ad accomunare la scrittura di Testori e la poetica di Zucconi. Il corpo smembrato e ricomposto è, in particolare, per l’artista piacentino, oggetto e soggetto d’analisi là dove la prospettiva viene capovolta e il vuoto viene ad assumere una consistenza dal sapore fisico oltre che metafisico. Del resto Kenoclastia, dal greco kenos (vuoto) e klao (spezzo), è il termine da lui impiegato per mettere in luce un procedimento tecnico e concettuale che muove allo scavo della materia e dell’anima. E con quattordici sculture che incarnano e dis-incarnano tale principio l’esposizione presenta in uno dei luoghi michelangioleschi – il castello Sforzesco di Milano che custodisce la celebre Pietà Rondanini – l’evoluzione e la messa, per così dire, in pratica dell’assunto del maestro fiorentino del “levare il superfluo”. Zucconi pare reinterpretare tale visione della scultura in pietra spingendo fino alle conseguenze più lontane questa specifica tecnica. In questa tensione si destabilizzano, così, i confini fra il finito e l’infinito, il complesso equilibrio fra l’eterno e l’effimero, la relazione fra lo spazio e il tempo. Esempi emblematici: Marsia, Salomé, Giuditta, Crucifixio. Materiali antichi come il travertino incontrano una concezione moderna delle figure e ci parlano dei grandi temi e delle grandi domande dell’uomo, della vita, della morte. La scultura veicola, allora, impressioni di straniamento, spaesamento, struggimento. Abbracciare questo modo di vivere l’arte significa scegliere di salpare, affrontando le perigliose acque della passione, per tentare di raggiungere l’impossibile (ma al tempo stesso necessario) approdo della bellezza, lungo arcipelago della nostra breve esistenza. Perché quello attraverso le opere di Zucconi è un viaggio che si decide con la mente, gli occhi, l’ascolto di un respiro. Il tutto in un incantato silenzio. Davvero più eloquente di molte assordanti voci. Incamminati in un percorso estetico di riflessione, di scoperta dell’interiorità, nel mistero del sacro e dell’umano, nell’anelito della libertà.
Massimiliano Finazzer Flory
Assessore alla Cultura del Comune di Milano
Stare di fronte alle figure di Chistian Zucconi è compiere un viaggio nella memoria. Il percorso è complesso, molteplice, evocativo, atavico e rivoluzionario al tempo stesso. Ogni vera rivoluzione, infatti, è sempre frutto di una memoria antica, spesso inquieta e inappagata. Qualcosa che è già in noi, ma attende il compimento: ciò che è veramente umano non si trova nel futuro ma nell’origine. Non è un viaggio attorno, ma dentro l’uomo. Il suo è uno scavo, nel senso letterale, alla ricerca dell’umanità interiore che a chi guarda si traduce in sentimenti: il dolore, l’affetto, la familiarità, la stanchezza, l’abbandono, la grazia, la disperazione, la gioia. E poi l’età – vecchiaia e giovinezza – e la fatica del vivere. Un viaggio ulteriore affiora di fronte a uomini e donne che Zucconi ha letteralmente estratto dalla pietra sanguinante. È accaduto a me che da molti anni, per lavoro, percorro le sponde del Mediterraneo. In uno sguardo, quasi in un inconsapevole attimo, ho rivisto le tante storie che su queste coste si sono compiute nei secoli e che scultori d’antiche e nuove civiltà hanno raffigurato e posto nelle città di allora. Nella pietra nuova di Christian Zucconi ricompare il cammino delle civiltà che hanno animato queste coste. Si potrebbe quasi dire che ricompaiono le figure, spesso corrose dal tempo, emerse dagli scavi, presenti tra le rovine, recuperate nella ricerca delle nostre radici che ho visto a Leptis Magna, Hatra, Palmira, Roma, Baghdad, Damasco, Algeri. Gli uomini di Zucconi siamo noi, figli di questo mare percorso da greci, egizi, fenici, romani; da cristiani e musulmani. I gesti di quella pietra sono i nostri; nostre le rughe, gli sguardi, l’ansia e la pena. In sintesi, la sua arte, in tutti i sensi straordinaria, è un invito a scoprire chi siamo, da dove veniamo; per sapere come e dove andare rimanendo uomini.
Gian Guido Folloni
Presidente di ISIAMED (Istituto Italiano per l’Asia e il Mediterraneo)
Sommario
9
La forza dell’immagine ritrovata di Rudy Chiappini
17
Sculture fotografie di Mauro Davoli
97
Opere in mostra presentazione di Alain Toubas
107
Apparati
109
Biografia
117
Antologia critica
123
Cronologia
125
Bibliografia
Legione, 2007 particolare (foto Nicoletti)
La forza dell’immagine ritrovata di Rudy Chiappini
Non ha l’ottimo artista alcun concetto ch’un marmo solo in sé non circoscriva col suo soverchio, e solo a quello arriva la mano ch’obbedisce a l’intelletto Michelangelo È occasione sempre più rara ritrovare in un artista di oggi i segni, le tracce di quella complessa stratificazione, di quell’attraversamento misterioso e profondo della storia dell’uomo che dovrebbe appartenere per dovere ad ogni esperienza espressiva autentica e che invece l’odierna cultura dell’apparenza sembra aver progressivamente dimenticato, se non addirittura cancellato, sostituendolo con il gusto effimero delle formule, del consenso immediato, dell’ammirazione per la gratuita provocazione e per l’indecifrabile. Insomma per tutto quanto fa tendenza. Il lavoro di Christian Zucconi, per contro, porta in sé la coscienza del ruolo irrinunciabile della scultura. Egli appartiene alla stirpe degli uomini inquieti, è tra coloro che non si accontentano di registrare lo scorrere della quotidianità ma sondano dentro di sé le ragioni dell’essere e i modi per esprimere il senso appassionato e caparbio di una ricerca senza pause né approdi rassicuranti, che è la ragione stessa del nostro esistere. Le sue figure affondano le radici nel vivo dell’intimità e della profondità della vita, la genesi delle sue immagini nasce dall’introspezione della dimensione dell’esperienza individuale e dalla presa di coscienza critica, intelligente e consapevole della memoria storica. Il sostrato della sua scultura non può prescindere dall’esigenza di penetrare zone di confine fisiche e psichiche, dalla ricerca esasperata del significato ultimo dell’esistenza umana attraverso il linguaggio del corpo.
Il carattere inconfondibile e singolare del lavoro di Zucconi si è precisato nel tempo attraverso un percorso di ricerca sempre coerente a una personale visione poetica della realtà dagli sviluppi linguistici sicuramente non scontati. Ai suoi esordi, nei primissimi anni Novanta, sono ben riconoscibili i riferimenti ad una concezione tradizionale della scultura intesa come adesione ad un ordine formale costituito d’impronta naturalista e come recupero di certi valori tradizionali del pensiero e dell’arte, come ad esempio il rigore esecutivo attraverso la dignità degli strumenti e delle tecniche, tra esperienza e progetto. Ma nel breve volgere di pochi anni prende coscienza che nella sua esplorazione c’è qualcosa in più del semplice desiderio di ripercorrere la strada a ritroso fino a ritrovare i grandi spazi illuminati dalla luce della ragione e dalla supremazia della bellezza. Rivalutare attraverso l’insistito confronto la nudità del corpo, i valori antichi e classici della tradizione figurativa, significa per Zucconi appropriarsi progressivamente degli ideali perenni della forma e dell’espressione, ponendo l’accento sulle linee dello slancio dell’energia vitale delle forme e delle figure e approfondendo lo sviluppo dei loro contorni e delle attitudini plastiche in relazione allo spazio, base comune su cui consolidare un’istanza di verità dell’immagine. Non è un citazionismo d’impronta postmoderna fine a sé stesso, volto a conferire un orientamento contemporaneo all’antico e a trasmettere un messaggio di tipo esclusivamente estetico. Zucconi è consapevole che qualsiasi revival del passato deve essere accompagnato dalla consapevolezza del presente. La sua è una consapevolezza complessa e interrogativa, che decide di calarsi pienamente nelle avventure della forma e negli spettri 9
dell’iconografia affinché ne siano verificati la natura, i cardini, le mutilazioni, le rotture, gli sdoppiamenti, non come meri fantasmi della mente ma come esigenze consustanziali all’immagine stessa dell’uomo. Un’indagine che spinge Zucconi ad una ricerca continua di una scultura dal valore assoluto, essenziale nella sua severità, di respiro e possanza monumentali. Una scultura che saltando d’un fiato secoli di storia, movimenti artistici e tutte le avanguardie si ricollega idealmente alla lezione michelangiolesca per la stessa dirompente forza plastica, per l’impeto trasferito alle figure, per la loro complessa struttura, per il contrasto articolato dei volumi, per il marmo ugualmente corroso dall’alternarsi di levigature raffinate e di ruvide spigolosità, per quell’operare “per forza di levare” che è costante confronto con l’indomabilità della materia, per quel “non finito” e quella ricerca della forma da scoprire e far emergere, per dirla con il Vasari, come da uno specchio d’acqua. Questa attitudine a fecondare la materia inerte e a farsi fecondare dalla storia della scultura, a provar perfino l’eccitazione erotica nell’atto di dar vita alla forma là dove da tempo immemore è stata negata, ha spinto Zucconi ad andare oltre. Ovvero a trovare interrogazioni e dubbi laddove sono certezze che si rivelano pericolanti, quando non fantasmi della coscienza. Ad attuare una sorta di continua, minuziosa, scrutinante operazione di contaminazione della misura e dell’armonia vitruviane attraverso dissonanze, frammentazioni, fratture per cui la forma ritrovata si offre in perfezioni volutamente orfane di compimento.
Testimoni della memoria, 2005 (foto Ferrari)
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Un approccio che lo ha portato, da ormai oltre un decennio, a privilegiare come medium prediletto il travertino persiano, pietra viva, rossastra, ulcerata e percorsa da venature, simile a carne sanguinante, scorticata e corrosa. Che lo ha indotto, a partire dal 2007, ad esplorare nuovi confini della scultura attraverso un processo creativo inedito e originale: la frantumazione e la rottura di un’opera compiuta e la sua successiva ricomposizione. Che lo ha spinto a indagare dentro sé stesso alla ricerca di quella “forma simbolica” così definita da Ernst Cassirer negli anni Venti, chiave di volta del riaffiorare nell’arte moderna di inaspettati “strati nascosti della coscienza mitica” e non “forbice” tra arte e vita. Zucconi non ha mai ceduto alla convinzione che la scultura possegga in sé tutti gli strumenti linguistici per incarnare e farsi testimone dell’esistenza quotidiana. Quel che conta è la pienezza dell’invenzione, la sua gemmata autonomia fatta ancor più risaltare da un mai accantonato legame con quel passato che trasforma il vissuto individuale in esperienza universale, con i valori trascendenti della religiosità occidentale e con la concretezza, altrettanto inafferrabile, della contemporaneità.
Legione, 2007 particolare (foto Nicoletti)
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Crucifixio, 2007 e 2008 prima e dopo l’intervento kenoclastico (foto Davoli)
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Il primo risultato pieno di questo inedito e originale processo creativo matura nel dicembre del 2007 con Crucifixio. Di fronte al Cristo estratto dal travertino e posto su un solido basamento in ferro, Zucconi avverte il limite della scultura tradizionale, pur percorsa dai fremiti della modernità. Intuisce la necessità di un radicale ribaltamento dei modi costitutivi della forma, di una rivoluzione del linguaggio plasmato sull’angoscia della coscienza collettiva e sul coacervo di contraddizioni e di paure che travaglia l’animo individuale. La ricerca espressiva deve farsi più accanita, andare oltre, poiché quell’icona, con i suoi emblemi, i suoi segni, le sue ferite, deve assolutamente corrispondere al pulsare della vita, svelare le paure e le fragilità dell’uomo contemporaneo. Occorre aprire nuovi scenari, valicare la forma o meglio instaurare con essa un nuovo rapporto: disarticolarla, svuotarla, per ricostituirla, garantendo all’immagine una sua compostezza e una presa diretta sul visibile. Zucconi frantuma e smembra dunque letteralmente la figura di Cristo. La svuota rimuovendo la materia superflua per ricomporla infine, più liberamente, creando un fragile senso d’insieme che, malgrado la precarietà, le cicatrici, gli ematomi e quelle vulnera, anche psicologiche e emotive, aperte e non rimarginabili, mantiene la sua maestosità e il suo fascino e va al di là della sua condizione fisica.
Marsia, 2008 (foto Davoli)
Allo stesso modo, attraverso questo originale processo, Zucconi sa cogliere in Marsia, scorticato vivo da Apollo per la sua superbia, la sofferenza del corpo smembrato, restituire in tutta la sua straordinaria drammaticità il fardello di carne e di sangue dello sventurato appeso all’impalcatura in ferro simile ad uno strumento di tortura, il suo urlo trattenuto che si alza al di sopra delle vicissitudini del tempo. Interpretando il mito della sfida alla divinità egli proietta il dramma individuale in una sorta di sacralizzazione laica, assoluta, della sofferenza. Le sue sculture portano l’impronta di una fervida capacità inventiva sorretta da una cultura approfondita capace di equilibrare le forti tensioni che la sottendono. La sua ricerca procede dunque spedita attraverso un percorso di coerenza e di inevitabilità attraverso un’iconologia che attinge alla mitologia classica, con il suo immaginario di dei ed eroi, e a quella cristiana dell’Antico e Nuovo Testamento, intese non nella loro valenza immutabile ma come condivisa esperienza esistenziale. Zucconi trova la continuità del tempo nel confronto inesauribile con la vita, nella scultura intesa non solo come pratica manuale bensì come un viaggio dentro sé stesso e modo di colloquiare con gli altri. Nella figura di Selemno, abbandonato dalla ninfa Argira, è racchiusa la lancinante consapevolezza dell’inesorabile scorrere del tempo, del corpo che si consuma, del dolore per il grande amore perduto. In Tiresia, trasformato da uomo 13
in donna, esplode il dramma della presa di coscienza della diversità, lo smarrimento interiore, la perdita dell’identità. In Oloferne e Giuditta, ribaltando l’approccio all’episodio biblico, l’attenzione è incentrata sul condottiero assiro, sul suo timore, sull’imbarazzo e lo spaesamento di fronte alla bellezza della giovane donna, razionale e determinata, agguerrita. Lo straordinario Edipo, realizzato con la forza dell’entusiasmo in poche settimane, accasciato a terra, distrutto, annichilito, sprofondato nelle tenebre che egli stesso si è inflitto cavandosi gli occhi, grida la disperazione straziante dell’emarginazione, di un destino ferale e maledetto, il tormento del vuoto interiore. Nella Depositio Christi, il corpo disteso su un freddo e spoglio tavolo d’obitorio rappresenta uno straordinario memento mori, emblema del sacrificio ed epifania dell’eterna sofferenza umana. Le sculture di Christian Zucconi testimoniano appieno la precarietà del nostro tempo. Egli usa il corpo come “segno perturbante”, chiave che apre ad una visione interiore e rende possibile un’estensione interpretativa. Una dimensione complessa della rappresentazione che si rinnova ancorando l’invenzione plastica alla memoria del mito per ricollocarla nella contemporaneità. Da un punto di vista squisitamente linguistico il lavoro di Zucconi muove dalle leve di uno straordinario virtuosismo tecnico. Nel travertino avverte la presenza di un’anima, di anime trepide e di anime impavide, la cerca, la insegue, alla fine ne coglie l’essenza. Azzarda nuovi approcci e inaugura orizzonti espressivi inediti. Con vigore infierisce sulle sue creature, compie sulle immagini scaturite dal marmo gesti mutilanti, tagli netti che portano via intere parti di corpo, le svuota della materia che le opprime in un processo che è anche liberazione da ogni inerte retaggio storico, fino a giungere ad una sorta di strato corticale, di guscio, spingendosi al limite estremo della rappresentatività laddove l’ulteriore scavo porterebbe alla dissoluzione formale. Da qui si innesca la volitiva ricostruzione che esprime, senza nessuna nostalgia, lo stato presente, si concretizza una ricomposizione che non teme di mostrare le imperfezioni, le abrasioni, le ferite, gli sfregi, le fratture di un’integrità perduta. Non è certo l’eleganza il fine della ricerca espressiva di Zucconi, né lo è l’affidarsi ad una scultura gridata e ad effetto. La sua forza sta nel valore dell’immagine ritrovata, nell’autenticità poetica di un corpo proteso, di un viso spaesato, di una bocca socchiusa, di una mano appoggiata, di sguardi sperduti, vuoti, drammaticamente inquietanti. Porta in sé le stimmate di una temperie sentimentale insopprimibile, di un’attualità che trova le sue radici nella storia dell’uomo; è la ricerca di una verità mai data. Nei suoi lavori ritroviamo la consapevolezza di un’arte profondamente legata al proprio tempo, protagonista, riscopriamo il valore di una scultura sicura del proprio patrimonio intellettuale, attenta ai mutamenti delle coscienze individuali, di una quotidianità con la quale risulta impossibile non confrontarsi.
A fronte Edipo, 2010 (foto Davoli) Oloferne e Giuditta, 2008 particolare (foto Davoli)
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sculture
Crucifixio
Oloferne e Giuditta
Oloferne e Giuditta
Tiresia
Marsia
SalomĂŠ
Selemno
Depositio Christi
Ancilla Domini
Ataraxia
Thyestes
Oedipus
Michael Angelus
Opere in Mostra
Presentazione
di Alain Toubas, ideatore della mostra
Tre anni fa presentai Christian Zucconi come “uno dei più promettenti interpreti dell’arte scultorea italiana”, lasciando al giovane artista il compito di confermare quella “promessa”. Oggi penso di poter affermare senza ombra di dubbio che la promessa Christian l’ha mantenuta, riuscendo non solo a non deludere le grandi aspettative, ma riuscendo anche, dopo tre anni di duro e silenzioso lavoro, nell’impresa di rinnovare la scultura in pietra. Già estimatore dell’opera di Zucconi, quando per la prima volta vidi i suoi ultimi lavori, con quei vuoti, quelle ferite, quelle graffe metalliche a ricomporre il risultato di una disperata distruzione, fui profondamente colpito. Nasci col sangue, intriso di ditate e imbratti, lenzuola inumidite dai tramonti che le arterie dilatano dai polsi, dalla carne che batte, dalla bocca che si torce, grida, cerca aiuto nella pressione lacerante d’un medico qualunque o dell’ombra indifferente dell’infermiera di turno; nasci nel dolore, intriso di desideri subito imprecati nell’ansia di darti subito vita. Questi versi di Giovanni Testori mi tornarono alla mente guardando quelle superfici di sofferenza, scorticazioni della pietra, concrezioni di sudore rappreso, sangue coagulato, vuoto intravisto da ferite aperte e mal rimarginate. Pensai che una rappresentazione così fedele e profonda del dolore dovesse trovare un luogo che sapesse darle il giusto peso e la giusta misura. Non ci pensai nemmeno perché subito le immaginai collocate nel Museo d’Arte Antica del
Castello Sforzesco, dove si sarebbero armonicamente fuse con i propri modelli, nello stesso tempo aprendo nuovi scenari e dimostrando che è ancora possibile innovare un linguaggio utilizzando la stessa lingua. Il travertino persiano si trasforma sotto lo scalpello di Zucconi in materiale organico guasto e sanguinante: come per Testori, anche l’umanità di Zucconi è di carne, sangue, sudore. Un’umanità dal potente anelito religioso che però ha perso sé stessa, un’umanità deviata, immobilizzata in un tempo mitico, costretta ad un Passio purificatore simboleggiato infine da quell’icona del dolore universale che è la Pietà Rondanini. Il percorso espositivo, questa “via dolorosa”, comincia con le sculture del mito, ispirate a un mondo precristiano che tuttavia propone figure che anticipano la sofferenza di Cristo e la lacerante condizione dell’uomo alla ricerca di Dio. Proseguendo, gli antenati veterotestamentari e i precursori preparano alle rappresentazioni del Cristo: su tutte, la Depositio Christi collocata nel cobaltino raccoglimento della Cappella. Sotto il pietoso sguardo della Vergine che tiene tra le braccia un piccolo Gesù, quasi ferale prefigurazione, il corpo del figlio morto in tutto il suo crudo realismo. Nella Sala degli Scarlioni, culmine di un percorso sempre più tragico, Edipo accecato alza lo sguardo al cielo senza poterlo vedere, fagocitato e soppresso da un amor filiale corrotto che, oltrepassando i limiti dell’umano, può soltanto cercare rifugio nel divino; ed è in quelle braccia che sostengono il corpo del figlio morto, nella Pietà, icona del dolore ma anche della Grazia infinita e beatificante, che Edipo cerca infine asilo, ristoro, perdono e tranquillità. Conclusione del percorso, omaggio che per Zucconi prende quasi sapore di preghiera, accanto alla maschera mortuaria di Michelangelo un commovente ritratto fittile del Maestro eseguito in giovanissima età. 99
Crucifixio
Oloferne e Giuditta
Karol
Travertino persiano, ferro e acciaio cm. 85 x 69 x 225
Travertino persiano e ferro cm. 56 x 35 x 180
Travertino persiano e ferro cm. 30 x 20 x 52
2009
2008
2008
Dopo l’ora sesta le tenebre scesero su tutta la terra fino all’ora nona. Verso l’ora nona Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabachthanì?» che significa: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» Allora alcuni dei presenti, uditolo, presero a dire: «Egli chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto e la fissò su una canna per dargli da bere. Ma gli altri dicevano: «Aspetta. Vediamo se viene Elia a salvarlo». Ma Gesù emise di nuovo un forte grido ed esalò lo spirito. Matteo, 27, 45-50
Giuditta è mascherata di femminilità Oloferne è spaventato e beve beve quanto non ha mai fatto. Poggia il capo sul suo seno è innamorato Giuditta gli tronca la testa. Giuditta è mascherata di femminilità Oloferne è spaventato e beve beve quanto non ha mai fatto. Si addormenta è innamorato Giuditta gli tronca la testa. Libera rilettura di Giuditta, 12-13
100
Continua a cercare. Ma che cosa? Forse ho cercato abbastanza. Ho cercato fra tante verità. Tuttavia queste cose possono maturare soltanto così. Filosofia… Arte… La verità è ciò che infine viene a galla come l’olio sull’acqua. In questo modo la vita ce la svela… a poco a poco, in parte, ma continuamente. Inoltre essa è in noi, in ogni uomo. Ed è qui appunto che essa è vicina alla vita. La portiamo in noi, essa è più forte della nostra debolezza. Karol Wojtyla, Fratello del nostro Dio
Tiresia
Marsia
Salomé
Travertino persiano e ferro cm. 71 x 78 x 191,5
Travertino persiano, ferro e acciaio cm. 60 x 60 x 260
Travertino persiano, ferro e resina cm. 60 x 90 x 137
2008
2008
2008
Τοῖς ἐν μεταβολῇ γινομένοις οὐδέν ἐστι κακόν, ὡς οὐδὲ ἀγαθὸν ‹τοῖς› ἐκ μεταβολῆς ὑφισταμένοις.
«Quid me mihi detrahis?» Clamanti cutis est summos direpta per artus, nec quicquam nisi vulnus erat. Cruor undique [manat, detectique patent nervi, trepidaeque sine ulla pelle micant venae; salientia viscera possis et perlucentes numerare in pectore fibras.
Così come dal cambiamento non viene nessun male, dal cambiamento non deriva nessun bene. (Tr. Zucconi) Marco Aurelio, Pensieri, IV, 42 Non habet in nobis iam nova plaga locum. Sul mio corpo non c’è spazio per un’altra ferita. (Tr. Zucconi) Ovidio, Epistulae ex Ponto, 4.16, 52
«Perché mi strappi da me?» Gridava, e la pelle gli era strappata dal corpo, che era una sola piaga. Il sangue cola ovunque, le vene pulsano su muscoli scoperti; si vedono le viscere, si contano le fibre biancastre sul petto. (Tr. Zucconi) Ovidio, Metamorphóseon libri, VI, 385-391
Danzando sono uscita dalla stanza delle fanciulle. Salomé danzò, e piacque ad Erode e ai commensali. Erode dunque disse alla bambina (κορασίῳ): «Chiedimi qualsiasi cosa tu voglia e te la darò, foss’anche la metà del mio regno», e giurò. La bambina allora uscì e domandò alla madre cosa dovesse chiedere, e quella rispose:«La testa di Giovanni il Battista». Rientrata in fretta dal re, la bambina gli disse: «Voglio che tu subito su un vassoio mi dia la testa di Giovanni il Battista». Marco, 6, 22-26
101
Selemno
Esaias
Travertino persiano, acqua, ferro e acciaio Cor-Ten cm. 163 x 73 x 170
Travertino persiano e ferro cm. 37 x 29 x 62
2009
2009 Olim gratus eram: non illo tempore cuiquam contigit ut simili posset amare fide. Invidiae fuimus: non me deus obruit? [an quae lecta Prometheis dividit herba iugis? Non sum ego qui fueram: mutat via longa [puellas. Quantus in exiguo tempore fugit amor! Nunc primum longas solus cognoscere noctes cogor et ipse meis auribus esse gravis. Felix, qui potuit praesenti flere puellae; non nihil aspersis gaudet Amor lacrimis: aut si despectus potuit mutare calores, sunt quoque translato gaudia servitio. Mi neque amare aliam neque ab hac desistere [fas est: Cynthia prima fuit, Cynthia finis erat. Properzio, I.12, 7-20
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Le ero caro un tempo: mai a nessuno toccò un amore tanto sincero. Ci invidiarono: non mi travolse forse un dio? o quale intruglio magico ebbe la forza di dividerci? Io non sono più quello di prima: negl’anni le donne mutano. In che breve tempo fugge l’amore! Ora da solo conosco la lunghezza delle notti le orecchie oppresse da penosi pensieri. Felice chi può piangere in sua presenza; Amore gode non poco delle lacrime versate: e se un cane può mutare padrona, in una nuova schiavitù troverà godimento. Ma io non posso amare un’altra né staccarmi da lei: Cynthia fu l’inizio, Cynthia sarà la fine. (Tr. Zucconi)
Disprezzato. Rifiuto dell’umanità. Uomo di dolori, assuefatto alla sofferenza, come uno davanti al quale ci si copre il volto, vilipeso, e di nessun conto per noi. Veramente egli si è addossato i nostri mali, si è caricato dei nostri dolori. Noi lo credevamo trafitto, percosso da Dio e umiliato, mentre egli fu piagato per le nostre iniquità, fu calpestato per i nostri peccati. Pose su di lui il castigo, che è salvezza per noi, e le sue piaghe ci hanno guariti. Piacque al Signore consumarlo nella sofferenza, ma s’egli offre la sua vita in espiazione del peccato, moltiplicherà i suoi giorni e ciò che vuole il Signore riuscirà per mezzo del suo sacrificio. Isaia, 53, 3-5; 10
Clavus Alexandri
Depositio Christi
Ancilla Domini
Travertino persiano, ferro e smalto cm. 35 x 35 x 173
Travertino persiano, ferro e piombo cm. 86 x 226 x 96
Travertino persiano e ferro cm. 55 x 55 x 160
2009
Nota venus furtiva mihi est, ut lenis agatur spiritus, ut nec dent oscula rapta sonum; et possum media quamvis obrepere nocte et strepitu nullo clam raserare fores. Quid prosunt artes, miserum si spernit [amantem et fugit ex ipso saeva puella toro? Conosco l’amore furtivo, come trattenere il respiro, come rubare baci silenziosamente; so come acquattarmi nel mezzo della notte e senza alcun rumore forzare una porta. Ma a che servono gl’inganni se lei rifiuta il [misero amante e fugge via senza nessun riguardo? (Tr. Zucconi)
Tibullo, I.8, 57-62
2009
Come il sasso aspro del vulcano, Come il logoro sasso del torrente, Come la notte sola e nuda, Anima da fionda e da terrori Perché non ti raccatta La mano ferma del Signore? Quest’anima Che sa le vanità del cuore E perfide ne sa le tentazioni E del mondo conosce la misura E i piani della nostra mente Giudica tracotanza, Perché non può soffrire Se non patimenti terreni?
2009
Ἰδοὺ ἡ δούλη κυρίου̇ γένοιτό μοι κατὰ τὸ ῥῆμά σου. Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum. Ecco la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola. Luca, 1, 38
Tu non mi guardi più, Signore... E non cerco se non oblio Nella cecità della carne. Ungaretti, Dannazione
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Thyestes
Ataraxia
Travertino persiano e ferro cm. 300 x 95 x 140
Travertino persiano, ferro e resina cm. 32 x 33 x 53
2009
2009 Abscisa cerno capita et avulsas manus et rupta fractis cruribus vestigia hoc est, quod avidus capere non potui pater. Volvuntur intus viscera et clusum nefas sine exitu luctator et quaerit fugam. Mozzate vedo le teste e strappate le mani e rotte e spezzati le gambe e i piedi questo è, quello che ingordo contenere non [può il padre. Si rivoltano nelle viscere e l’orrore chiuso [dentro di lui senza uscita lotta e cerca una via di fuga. (Tr. Zucconi)
Seneca, Thyestes, 1038-1042
Veniet et vobis furor. Verrà a voi, la pazzia. (Tr. Zucconi) Seneca, Agamemnon, 1013
Nullos movet aura capillos, in vultu color est sine sanguine, lumina [maestis stant inmota genis; nihil est in imagine vivum. Ipsa quoque interius cum duro lingua palato congelat, et venae desistunt posse moveri; nec flecti cervix nec bracchia reddere motus nec pes ire potest; intra quoque viscera [saxum est. L’aria non muove un capello. Il volto dissanguato. Sinistri occhi stanno su guance immobili. Niente è vivo in quella figura. Chiusa nel duro palato la lingua è congelata. Le vene stesse cessano di pulsare. Il collo non può piegarsi, né le braccia muoversi, ne i piedi camminare. Dentro, anche le viscere sono di pietra.
(Tr. Zucconi)
Ovidio, Metamorphóseon libri, VI, 303-309 104
Oedipus
Michael Angelus
Travertino persiano, ferro, piombo e resina cm. 81 x 136 x 147
Creta cruda (frammento) cm. 15 x 19 x 30
2010 Λέγω δέ σοι˙ τὸν ἄνδρα τοῦτον, [ὃν πάλαι ζητεῖς ἀπειλῶν κἀνακηρύσσων φόνον τὸν Λαΐειον, οὖτός ἐστιν ἐνθάδε. ξένος λόγῳ μέτοικος, εἶτα δ’ ἐγγενὴς φανήσεται Θηβαῖος, οὐδ’ ἡσθήσεται τῇ ξυμφορᾷ˙ τυφλὸς γὰρ ἐκ δεδορκότος καὶ πτωχὸς ἀντὶ πλουσίου ξένην ἔπι σκήπτρῳ προδεικνὺς γαῖαν [ἐμπορεύσεται. φανήσεται δὲ παισὶ τοῖς αὑτοῦ ξυνὼν ἀδελφὸς αὑτὸς καὶ πατήρ, κἀξ ἧς ἔφυ γυναικὸς υἱὸς καὶ πόσις, καὶ τοῦ πατρὸς ὁμόσπορός τε καὶ φονεύς. καὶ ταῦτ’ ἰὼν εἴσω λογίζου̇ κἂν λάβῃς ἐψευσμένον, φάσκειν ἔμ’ ἤδη μαντικῇ μηδὲν φρονεῖν. Sofocle, Edipo re, 449-462
Dico a te! Quest’uomo, quello che da tempo cerchi con grida e minacce per l’uccisione di Laio, è qui! Lo dicono straniero, un emigrato, e invece si scoprirà tebano, ma non potrà rallegrarsene: da vedente diverrà cieco; da ricco, povero; e, cacciato dalla città ch’era sua, se ne andrà ciancolante, tra le mani, in vece d’uno scettro, un bastone per tastare il terreno. Scoprirà allora d’esser fratello e padre dei suoi figli, figlio e marito della madre e uccisore del padre, del suo stesso sangue. Ora vai dentro e pensaci, e se ho mentito, dimmi ancora che di profezie non capisco nulla. (Tr. Zucconi)
1995
Veggio co’ be’ vostr’occhi un dolce lume che co’ miei ciechi già veder non posso; porto co’ vostri piedi un pondo adosso che de’ mie zoppi non è già costume. Volo con le vostr’ale senza piume; col vostro ingegno al ciel sempre son mosso; dal vostro arbitrio son pallido e rosso, freddo al sol, caldo alle più fredde brume. Nel voler vostro è sol la voglia mia, i miei pensier nel vostro cor si fanno, nel vostro fiato son le mie parole. Come luna da sé sol par ch’io sia, ché gli occhi nostri in ciel veder non sanno se non quel tanto che n’accende il sole. Michelangelo, Rime, 89
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Apparati
Christian Zucconi ritratto da Mauro Davoli nell’agosto del 2009
Biografia
Secondo il Calendario Romano Christian Zucconi nasce alla vigilia delle Idi di gennaio del 2731; per il Bizantino nel 7486/87; Copto 1694/95; Ebraico 5737/38; secondo il Calendario Gregoriano il 12 gennaio del 1978. Tuttavia a Christian, convinto che il tempo non sia un’astrazione né un’opinione ma che non esista affatto, importano poco o nulla le date. Di certo c’è che nasce a Piacenza (lo spazio per lui esiste ancora, anche se tende a mutare troppo celermente) da Silvana Sutti e Antonino Zucconi. Da lì in poi è tutto un susseguirsi di avvenimenti accaduti o non, reali o sognati (che infine è la cosa medesima) che lo hanno fatto diventare quello che oggi appare a chi voglia dargli, sotto lente d’ingradimento o meno, uno sguardo: un tale che, data per irreversibile la sua molteplicità individuale, normale sarebbe nomarlo Christian come Ettore, Teofilo, Orlando oppure Pirgopolinice. Trasferitosi con la famiglia a Gragnano Trebbiense, fin dalla più tenera età Christian mostra segni di palese inadeguatezza all’odierna vita: non riesce a tenere i piedi per terra, tanto che in alcuni momenti di distrazione si stacca pericolosamente dal suolo; non ha amichetti perché tende al taciturno rasentando il mutismo ed è patologicamente ubbidiente e costumato. Non va bene e non sta bene, presto dunque decide di rifugiarsi nel cimitero del paese, dove sottraendo cera ai moccoli delle candele prende l’abitudine e l’attitudine a dar forma a suggestioni, incubi e spaventi che altrimenti sarebbero rimasti sterili e riarsi per una troppo breve memoria. Di più piacendogli assai relazionarsi coi morti e coi simulacri da lui creati piuttosto che coi carneossei simulacri blateranti d’intorno, Christian capisce di essere uno scultore prima ancora di capire come roteare la penna per scrivere il proprio nome. Quella fu la sua più grande fortuna. Γνῶθι σεαυτόν era l’imperativo dell’oracolo di Delfi, e Christian si conobbe molto molto presto.
Dopo aver capito di essere uno scultore, Christian capisce anche di voler essere un bravo scultore, tanto da arrivare, un giorno, a far sì che quei simulacri da lui creati potessero parlare non soltanto a lui, ma anche a quelli blateranti d’intorno. A quelle persone che sembrava proprio non capissero nulla di quello che era davvero importante per lui che, sì, a volte voleva potersi distrarre per staccarsi pericolosamente dal suolo. Per riuscirci, comprende che deve cominciare a darsi da fare per imparare il mestiere, e pensa di chiedere aiuto agli scultori che lo hanno preceduto, ai più bravi. Come molti dei bambini di quella generazione, Christian possiede I Quindici, una collana di volumi che pretende di spiegare ai più piccoli il come e il perché. Nella sua edizione, datata 1967 (si suppone del Calendario Gregoriano), il volume 13, “Personaggi da conoscere”, riporta un racconto di Marina Spano, Il naso storto dell’artista. Parla di un giovinetto che vuol fare lo scultore ad ogni costo, prende un bel pugno sul naso da un compagno ma scolpisce una testa di un fauno così bene che anche col naso brutto dimostra di essere il migliore di tutti. A pagina 217, sopra ad un ritratto dallo sguardo schivo ma dolcissimo, la nota riporta: “Il giovanissimo scultore del fauno era Michelangelo Buonarroti, genio unico al mondo. Scultore, pittore, architetto, ha lasciato, tra le altre opere eccelse, il Mosè, la Pietà, la cupola di San Pietro a Roma e il Giudizio Universale nella Cappella Sistina in Vaticano. La sua vita fu piena di inquietudini, amarezze, battaglie e lo travagliò una cupa solitudine. La sua mente era colma di sogni sovrumani e le sue opere eterne congiungono il cielo alla terra. Era nato a Caprese, nel Casentino, il 6 marzo del 1475 e si spense a Roma nel 1564”. Christian era nato da soli sei anni e aveva già avuto due grandissime fortune: sapeva chi era e chi sarebbe stato il suo modello, il Maestro di una vita. 109
Per prima cosa, Christian vuole vedere le opere di Michelangelo. Non si accontenta più delle fotografie e nel 1984 si fa accompagnare dove geograficamente è custodita l’opera più vicina a Gragnano: Milano, Castello Sforzesco, Museo d’Arte Antica: la Pietà Rondanini. Quell’incontro cambia la sua vita.
Zucconi a Carrara nel piazzale del Laboratorio Corsanini sbozza il blocco per Famiglia sotto osservazione. Sullo sfondo, di spalle, si intravede Massimo Baldoni.
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Nell’estate del 1989, a undici anni, la madre lo porta dallo scultore piacentino Paolo Perotti, che qualche anno prima aveva intagliato nel legno il Crocifisso per la chiesa di Campremoldo Sotto, dove il prozio don Agostino Sutti gestisce la parrocchia. L’anziano scultore all’inizio sembra divertito da quello che sembra un capriccio, ma la caparbietà di Christian lo convince ad accettarlo in studio per dargli la possibilità di osservarlo al lavoro e dare qualche scalpellata. Non è un capriccio e in questo modo passa tutta l’estate. Tra l’anziano scultore e il giovanissimo apprendista si crea un rapporto d’affetto e reciproca stima che dura tuttora, e l’anno dopo Paolo consiglia alla famiglia di Christian di portarlo a Carrara, in un laboratorio di sua conoscenza dove avrebbero capito la situazione: prendetelo sul serio, questo bambino non ha la benché minima voglia di scherzare. A sentir parlare di Carrara Christian non sta più nella pelle: è lì che Michelangelo andava a scegliere i blocchi e lavorava. All’inizio dell’estate si trasferisce a Luni con la famiglia e comincia il suo rapporto con il Laboratorio Corsanini, dove la sua caparbietà conquista il cuore degli operai, tra cui Massimo Baldoni, che diventerà suo grande amico, e di Luigi Corsanini, che capisce la forza di quel dodicenne e, con poche parole, come suo costume, tranquillizza i preoccupati genitori sul suo futuro: “mal che vada sarà sempre un gran bravo artigiano...” È l’estate del 1990, l’Italia ospita i mondiali di calcio e quella rimarrà nella memoria di Christian come una delle più belle della sua vita. Segue l’orario di lavoro degli operai del laboratorio, dalle 7.00 alle 12.00 ci s’impolvera, dalle 12.00 alle 13.00 si mangia assieme e dalle 13.00 alle 18.00 ci s’impolvera ancora; poi si va in spiaggia a Marina di Carrara sulla Moto Guzzi di Massimo per lavare via la polvere; alla sera le partite con Totò Schillaci e i suoi occhi strabuzzati. E a Christian sembra di aver finalmente trovato un luogo sulla Terra abitato da gente in cui e con la quale ci si può permettere di distrasi per staccarsi pericolosamente dal suolo. Fino al 1996 è così che si susseguono le stagioni per Christian: l’estate a Carrara tra gli amici del Laboratorio Corsanini; il resto dell’anno a Piacenza, frequentando alla mattina il Liceo Artistico “Cassinari” e al pomeriggio l’Istituto d’Arte “Gazzola”, dove l’insegnante di scultura è l’amico Paolo Perotti. Sono anni di feroce studio e totale applicazione, alla ricerca di quel linguaggio che ancora il giovane scultore non sente completamente suo. Solo dopo essersi diplomato nello stesso tempo al “Cassinari” e al “Gazzola” col massimo dei voti arriva la svolta: la decisione di non continuare la scuola. Niente “Brera” per Christian.
La decisione esplode come una bomba. Inaspettata. Destabilizzante. Intorno a Christian si comincia a pensare che la volontà di diventare uno scultore abbia ceduto. I motivi sono incomprensibili per tutti e da più parti si avviano delle vere e proprie campagne di convincimento a non lasciare gli studi: «Con tutto quello che hai fatto vuoi mollare proprio ora? Te ne pentirai!» Ma niente riesce a smuovere il testardo che ha fatto della testardaggine la propria bandiera, ben bene conficcata finanche dentro al suo nome: zuccone ‹zuc·có·ne› agg. e s.m. (f. -a) ~ Persona dalla testa grossa ◊ fig. Persona ottusa di mente; anche, persona caparbia, testarda: quello z. non ascolta mai i consigli di nessuno. Contro qualsiasi opinione ragionevole, alla fine del 1996 Christian apre il proprio laboratorio di scultura e a dimostrazione che i consigli fondamentalmente non erano sbagliati, i primi anni sono durissimi. Ma chi li aveva dati e credeva di non aver visto male nel prevedre che Christian avrebbe mollato, non aveva messo in conto due aspetti: 1) Christian sa chi è e ha il miglior Maestro del mondo. 2) Christian ha la testa più dura della pietra che lavora, altrimenti non riuscirebbe a lavorarla. In questo periodo Christian lavora come prestatore d’opera da qualunque marmista lo chiami, ma la maggior parte del tempo la passa nell’azienda di Francesco Perotti, fratello di Paolo, bocciardando vasconi in pietra e imbancalando davanzali. La sera, finito il lavoro che gli permette di pagare i conti, si chiude in uno sgabuzzino che il prozio don Agostino gli ha ricavato nella canonica di Campremoldo Sotto. La stanza misura 2,5 metri per 3 e con le mani Christian, che notoriamente non è un gigante, senza sforzo può toccare il soffitto. Nella parete di fronte c’è un buco che se si potesse aprire si potrebbe forse chiamare piccola finestra. Non si apre. I quintali di polvere provocati dal flessibile rimangono nei 15 metri cubi della stanza e nei polmoni e nella carne di Christian. È in questo periodo che Christian si fa duro per davvero, primo perché per forza di cose ha dovuto impastare il proprio sangue con la polvere di travertino, e secondo perché per sostenere certe situazioni non si deve avere nulla di molle. In questa stanza, nel giro di due anni nascono opere come Cristo bianco, Io sono bella, Auto da fe’ e Sogni altrove, tutte rigorosamente misurate sulla misura della porta - che per l’appunto immettendo in un buco è talmente piccola da far temere anche a Christian di sbatterci la testa (es. Sogni altrove misura 51 x 68 x 161 cm.) In questi anni di disperato lavoro e lotta contro il Tempo (a quel periodo risale la morte dell’acerrimo nemico di Christian), tanto sostegno e aiuto arriva da Piero Molinari, che per la dolcezza e l’intelligenza delle sue parole riesce a far breccia nella sempre più ruvida e coriacea scorza del giovane scultore. Coronamento di questo periodo, con le opere nate nel “buco”, alla fine del 1998 Piero organizza la sua prima personale: “Marmo e figura”, Università Cattolica del Sacro Cuore, Piacenza.
Zucconi e Piero Molinari il 30 novembre 1998 durante l’inaugurazione di “Marmo e Figura”.
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Stefano Fugazza in un suggestivo scatto di Alessandro Bersani.
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Assieme a Piero, Christian definisce una linea di condotta artistica e un’etica del lavoro che lo scultore persegue tuttora. Assieme a lui studia profondamente il proprio linguaggio, sondandone dapprima i motivi interiori e poi quelli tecnici per renderlo sempre più personale e autonomo, mettendone alla prova le potenzialità espressive e semantiche, ancora molto influenzate da Michelangelo e perciò ancora acerbe. Purtroppo, fisicamente questo fruttuoso sodalizio finisce nel 2000 con la prematura scomparsa di Piero. È in questo periodo che Christian si trasferisce nella casa/ studio in cui tuttora abita e lavora. Il laboratorio molto più ampio gli permette di misurarsi con le grandi dimensioni, cui si sente istintivamente attratto. Lavora in taglio diretto, dando al travertino persiano, ormai assurto a “sua” pietra, quanto più spazio possibile di esprimersi naturalmente attraverso un oculato studio delle superfici. Frutto di questa ricerca sono opere come Le cose che non si possono fare, Lo sguardo degli altri, Paolo e Francesca fino alla raffinatissima Dormire nell’acqua, dove la ricerca della bellezza intrinseca del travertino porta ad un’opera che sembra scolpita dagli elementi naturali. È Stefano Fugazza a intuire l’importanza e la coerenza stilistica di queste opere, quella scabra bellezza che gli ricorda gli amati paesaggi alpestri. È lui che affianca Christian in questi anni di voluto silenzio, vissuti non per mostrare qualcosa, ma per fare qualcosa che fosse degno di essere mostrato. Sarà infatti solo dopo quattro anni dalla personale in Cattolica che i nuovi lavori saranno esposti, in una mostra curata da Stefano nei suggestivi spazi della Rosso Tiziano, ancora a Piacenza. Questa mostra segna per Christian due momenti: il vero esordio nel mondo dell’arte e l’inizio di un periodo sempre più buio, che avrà il suo culmine cinque anni dopo, in pieno 2007, quando i molteplici demoni dentro di lui prenderanno il sopravvento rischiando di fagocitarlo e annientarlo definitivamente. La stanchezza fisica e psicologica per rimanere costantemente concentrato su un obbiettivo ben preciso, l’impossibilità per il momento di essere davvero libero di sondare fino in fondo il proprio linguaggio lo portano ad una flessione. Quando fuori tutto finalmente sembra funzionare, dentro tutto si rompe. I piccoli successi, i complimenti, le pacche sulle spalle... tutto scivola via senza toccarlo, sgretolandosi in un enorme calderone in cui sobbolle un mefitico veleno. Da sempre ricalcando le orme del Maestro di una vita, si rivede in quelle parole che anni prima gli avevano aperto il mondo, in quella “vita piena di inquietudini, amarezze, battaglie, travagliata da cupa solitudine”. Ma la differenza è che la sua mente è ora colma di incubi, e le sue opere effimere non congiungono il cielo alla terra, piuttosto congiungono alla terra l’inferno. Si susseguono commesse pubbliche e religiose, mostre, riconoscimenti, un’importante monografia firmata da Stefano e da Alfonso Panzetta che racchiude i suoi primi quindici anni di lavoro, ma Christian non vede nulla. Dentro di lui ormai tutto è in pezzi. È il vuoto.
Per comprenderlo, per dare una dimensione al vuoto che lo sta voracemente ingoiando, Christian aumenta le dimensioni e il peso stesso delle proprie opere fino a quella pazzia di pietra che è Legione. Interrogávit autem illum Iesus dicens: Quod tibi nomen est? At ille dixit: Légio; quia intravérunt daemónia multa in eum. Secundum Lucam, 8, 30 Mastodontico gruppo di blocchi in cui ventidue figure sono condannate ad una violenta lotta con sé stesse, la scultura è un vero e proprio autoritratto che l’artista estrae dalla pietra senza nessuno studio preventivo, senza nessun bozzetto; soltanto la pietra contro di lui e lui contro la pietra. La lotta si conclude con il momento più buio della sua vita fino a quel momento. Christian si accorge che se non si accenderà una luce nuova, l’ormai flebile fiammella si spegnerà per sempre. Notte del 25 dicembre 2007, giorno del Sol Invictus per il Calendario Romano. Nella solitudine del laboratorio, eppure non solo, osservando i mucchi di macero ricoperti di polvere rosso sangue, così simili alle macerie dentro di lui, Christian intuisce che le potenzialità del precetto michelangiolesco di “levare il superfluo” non sono ancora completamente sondate. Distruggere. Svuotare. Ricomporre. La luce non si spegne. Il Sole è invincibile. Risorge sempre. Dopo ogni notte. Christian ritrova le aspirazioni di un tempo, la volontà, la testardaggine, e alle Calende di gennaio del 2008, il giorno di Giano, Dio del passaggio da uno stato ad un altro, inizia per l’artista una nuova sfida: “saltare d’un fiato secoli di storia, movimenti artistici e tutte le avanguardie per ricollegarsi idealmente alla lezione michelangiolesca” dandole nuova linfa e ulteriori prospettive. Dopo due anni di lavoro ininterrotto ed entusiasta, incupito soltanto dall’inaspettata scomparsa di Stefano Fugazza nel 2009 ma sostenuto da un amico che è più di un fratello, il 6 marzo 2010, compleanno di Michelangelo, Christian torna dove tutto è cominciato: Castello Sforzesco, Museo d’Arte Antica, Sala degli Scarlioni, Pietà Rondanini.
Scarti di travertino persiano nel laboratorio dell’artista.
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Thyestes e Antonino Zucconi, 2009 Nello scatto di Mauro Davoli, l’inquietante rapporto tra l’opera in pietra e il modello in carne e ossa. Per riproporre nella realtà storica il mitico rapporto padre/figlio, il fanciullo smembrato di fronte a Tieste è un autoritratto dell’artista derivato da vecchie fotografie di famiglia.
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Pagina seguente Christian Zucconi, 2009 (foto Davoli)
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Antologia critica
L’artista, quando è veramente tale, finisce per mettere in gioco sé stesso in ogni sua opera. Lo scultore si serve della materia, la modella nei giochi misteriosi della luce, la organizza e la compone in immagine plastica, espressiva. È così che l’opera d’arte si fa impronta del proprio autore. La figura umana è sempre al centro della scultura di Christian Zucconi. È una figura mai emersa del tutto, mai separata dalla materia di cui è fatta, mai vincolata dal mondo in cui essa appare. La trattiene una massa appena sbozzata, imprecisata, volutamente lasciata così. Si crea in tal modo una successione di piani visivi tra ciò che tende ad emergere e quanto rimane informe. Un ulteriore piano visivo è dato dall’evidenza di alcuni particolari. Un volto, una mano, una ferita, una tensione fisica, ostinatamente realizzati, aiutano chi guarda a passare dalla semplice visibilità alla percezione del significato profondo. In ogni opera, coesistono il bisogno intuitivo di liberazione e il necessario rimanere nell’immota fissità. In questo modo, lo scultore vuole attirare l’attenzione di chi guarda su uno dei momenti decisivi dell’attuale condizione umana: può l’uomo distaccarsi da tutto o egli deve tener conto consapevolmente della propria realtà naturale? L’artista vero non dà mai risposte. Pone le domande decisive. Questa scultura eccellente è un invito a rispondere. Piero Molinari, Un invito a rispondere, 1997
Christian Zucconi è alla sua prima personale. Vent’anni. Piacentino. Liceo artistico. La sua scultura è marmo e figura: il dramma primordiale della presenza fisica a contatto con la luce. Con il marmo, egli esprime silenzio e pietrificazione, ma anche integrità e purezza di significato. Nel marmo incarna la figura. La intravede nascosta nel cuore intimo della pie-
tra. La libera. Ne fa un veicolo d’espressione. Se ne serve per comunicare, per rendere visibile ciò che negli uomini egli ritiene sia comune: la condizione esistenziale e la sofferta tensione alla chiarità. La figura è forma di materia, che fatica ad emergere, che rimane in equilibrio instabile, ma che ha in sé momenti d’espansione. La figura dà immagine a una creatura pietrificata un attimo prima dell’azione. Il volto e lo sguardo sono rivolti dentro o lontano. La sua carne è la viva nudità del marmo. La sua vitalità è quel sovrappiù di tensione espressa dall’opera nel contatto con la luce. Allora, i piani, i volumi, la superficie e il loro contrasto si rischiarano, creano un’atmosfera palpabile luminosa e una visione carica di valenze estetiche non saturate, da saturare. Questo determina nell’osservatore la simultaneità del vedere con il sentire. Chi guarda, vede l’immota fissità della figura e il realismo di alcuni particolari. Nota brani di decorazione fantastica e soluzioni di geometria figurativa. Distingue le zone di ruvidità dalle piazzole ostinatamente levigate e lucidate. Scorge la tensione in un piede o in una mano. Sente che la porosità è fragranza, che una venatura è sortilegio, che un buco nel marmo è caverna di sasso spalancata e che il colore è la sua selvatica tenerezza. Lo sguardo non si stacca dalla pietra nuda, ma qualcosa lo tenta perché la visione continui nello spazio. Piero Molinari, Marmo e Figura, 1998
Riguardo al dubbio che la scultura sia una lingua morta, tale drammatica ipotesi svanisce non appena ci si imbatte in lavori, in opere che ci colpiscono improvvisamente, vividamente, forzandoci a prendere atto della loro esistenza. Il caso di Christian Zucconi va nella direzione di cui si diceva. È il caso di un artista che non si è posto il problema 117
del mezzo con cui meglio aderire alla nostra contemporaneità; semplicemente, obbedisce a una vocazione interiore troppo forte perché possa essere elusa. Dunque non gli importa essere attuale, essere moderno; egli deve, semplicemente, esprimersi col mezzo che sente consentaneo e che corrisponde a qualcosa di misterioso (e di imperioso). Correndo perfino il rischio di essere scambiato per uno che, all’inizio del ventunesimo secolo, vuole (addirittura) rifare Michelangelo, riproporre l’epica lotta dell’artista toscano con il marmo dei suoi prigioni o delle sue figure allegoriche. Il fatto è che Zucconi non è persona capace di cedere a qualche accomodamento; come si diceva, la sua vocazione per la scultura non è controllabile da lui stesso, è e basta. Di per sé una vocazione non è sufficiente, perché potrebbe consistere in una forma più o meno pronunciata di velleitarismo, oppure potrebbe dare risultati scontati, ripetitivi, inutili. Invece, Christian Zucconi, che pure è molto giovane avendo da poco compiuto ventiquattro anni, è già risolutamente dentro un percorso definito nelle sue coordinate, in grado di procedere senza infingimenti o pentimenti o quei dubbi che non giovano troppo all’artista. Per Zucconi, pare di capire, la scultura è la trasformazione della materia in altro, in un “mondo nuovo” ricco di sorprese, di continue scoperte. Nel suo modo di lavorare c’è infatti qualcosa della caparbia fiducia degli alchimisti, protesi al difficile compito di piegare al loro volere ciò che è vile, di ottenere indeterminati passaggi di stato, fecondi, inesauribili tesori. Non bisogna, infatti, farsi ingannare dalle apparenze. Le sculture di Zucconi, per esempio quei vecchioni dai volti scavati, rugosi, barbuti di coloro che tutto hanno visto e tutto hanno sofferto, vorranno forse alludere a un’età della vita, a una condizione esistenziale, ma in sostanza sono un soggetto come un altro, in fondo chissà perché scelto a preferenza di altri, ma in ogni caso finalizzato a esprimere non un qualche messaggio, un qualche contenuto, bensì a creare un “mondo nuovo”. Guardiamole, infatti, queste forme che subito ci costringono a fare sforzi per scegliere il punto di vista dal quale osservarle. Fatica sprecata, perché appena ci pare di aver trovato quello giusto ci accorgiamo che un altro riserva un’immagine nuova, altrettanto valida, più interessante; e poi ancora guardiamo da un nuovo angolo visuale. Si direbbe quasi che Zucconi si diverta a disorientarci, negandoci una visione rassicurante, “autorizzata”, appagante. Non è risultato da poco, questa disarticolazione spaziale, perché implica un coinvolgimento dello spazio circostante l’opera ed è un sistema per ottenere il nostro stesso coinvolgimento, visto che ci muoviamo (con gli occhi, con la mente e fisicamente con il corpo), protesi ad afferrare ciò che continuamente ci sfugge. Un simile spaesamento ci coglie se finalmente decidiamo di osservare la scultura in un certo modo. Le nostre certezze traballano: credevamo di avere a che fare con l’immagine di un corpo (abbiamo riconosciuto un volto, un braccio, una mano, accenni all’anatomia) e invece lo sguardo scorre su una superficie liscia, levigatissima, oppure su una scabrosità della pietra tali da far pensare a una montagna, 118
con le rocce e le forre, a un accidentato, insolito paesaggio o addirittura alla superficie di qualche corpo celeste come ce lo immaginiamo, come ce lo mostrano certe fotografie prese dai satelliti. Fondamentale è infatti per Zucconi il trattamento del materiale, che è il travertino, o il marmo di Carrara, o più spesso il travertino persiano, che egli, sedotto dalle sue qualità cromatiche, si procura in quel lontano Paese. Ritrovando i gesti di un antico artista nella sua bottega, Zucconi impugna gli strumenti tradizionali per lavorare i preziosi materiali che giungono al suo laboratorio. L’esito fa capire alcune cose sul conto di Zucconi: - che egli possiede un’invidiabile capacità tecnica (in anni di lavoro, sin da ragazzo, si è impadronito come pochi del linguaggio dello scultore, e alla maniera antica); - che sdegna finalità illustrative, o mimetiche; - che per lui la cultura deve comunicare nel suo insieme, che consiste, insomma, in un organismo in cui tutte le parti sono determinanti. Si tratterà sempre di opere che colgono un momento, un’azione che è cominciata e non si è ancora conclusa, tale che è possibile percepirla, sentirla, più che propriamente vederla. Saranno sempre i nostri sensi nel loro insieme, e la facoltà immaginativa (chiamiamola così, con formula stantìa) ad essere coinvolti. Perché questo sembra essere soprattutto in grado di realizzare, il giovane artista: un’opera che idealmente si muove, inafferabile, inconoscibile. Un azzardo, una sfida per noi che siamo abituati a un’altra idea di scultura: comunque fissa, spesso gradevole, piacevolmente accattivante, o abnorme e troppo imponente. Con Christian Zucconi siamo in un’altra atmosfera, in un altro mondo. In un futuro stranamente, misteriosamente avvinto al passato della nostra tradizione, della nostra storia, dei nostri ideali. Stefano Fugazza, Christian Zucconi, Sculture 1997-2002, 2002
Il giovanissimo piacentino Christian Zucconi, fa intendere che le più recenti generazioni di scultori sono tutt’altro che appiattite sulla tendenza ad assemblare materiali di recupero. Per il Parco di Viù, Zucconi ha eseguito la Stele del Sangue, mutuata da un passo dalla Lettera agli Ebrei (922): “E quasi tutto viene, secondo la Legge, purificato con sangue: e senza spargimento di sangue non si dà remissione”, che compare in greco sulla parte alta del marmo. Un torso virile di forte tensione plastica e drammatica crudezza, avanza irruente entro i limiti di una leggera struttura geometrica abilmente ricavata dal blocco di marmo. Tutto è simbolico: se il torso è lo spargimento di sangue che dà remissione, allora la geometria che lo limita è la Legge stabilita. Zucconi ha forza espressiva straordinaria e dirompente, a volte brutale nell’individuazione dei volumi, ma mai certamente gratuita. Il neo-michelangiolismo del giovane scultore è personalissimo e torna costante nella sua produzione con soluzioni compositive di forte impatto, come nell’ori-
ginalissimo altare della chiesa di santa Maria del Suffragio a Piacenza, dove Zucconi, di fatto, interviene nell’ampio dibattito sull’arte sacra contemporanea proponendo una soluzione assolutamente nuova. Alfonso Panzetta, In sette nel Parco, 2006
[...] L’esperienza di Zucconi prende origine dalle forze primarie dell’uomo, dal dualismo tra intelligenza formante e energia naturale insita nel corpo, una ricerca nel regno invisibile, nella profondità dove si articolano dubbi e paure, ma che può condurre a gioia inaspettata, quando l’uomo si sente appieno inserito e in sintonia con le viscere del mondo. La materia con la quale il giovane scultore agisce ed interagisce è una materia arcaica, come antica è la tecnica utilizzata nel gesto creativo. Christian irrompe e scardina il primitivo monolite di travertino persiano, originariamente privo di spasmo vitale, con la forza delle braccia e con il solo aiuto di martello e scalpello. Inizia così, dopo avere ricercato in piccoli bozzetti di creta il dato primario d’esistenza, il lento lavoro di ricerca dell’identità assoluta. La discesa nella porosa e concitata materia, alternata ad attimi di delicata levigatezza, è anche un declivio nelle più profonde pieghe dell’essere, un incontrarsi con le forme primarie dell’espressione umana. Se l’esteriorizzazione è la fase iniziale del lavoro, il fine che si prefigge lo scultore piacentino è, come afferma Paul Klee, “l’intima interiorizzazione”; fare emergere l’aurora dell’essere, quella forza e tensione interna, che liberandosi sprigiona energia sfolgorante. L’atto creativo non si irrigidisce e limita all’espressione del dato reale, della pura figurazione, ma diviene scomposizione o meglio ricerca spasmodica all’interno del dato materiale dell’uomo contemporaneo, mettendone a nudo la condizione generale. Membra, mani, piedi, braccia, gambe, tronchi, volti emergono, diventando essi stessi, singolarmente e non più complessivamente come corpo, i protagonisti del racconto, rendendosi compresenti di una metamorfosi interiore ed esteriore, quasi come se il passaggio ad altra forma e struttura fisica diventasse modalità imprescindibile per attivare quei processi mentali finalizzati all’intuizione esistenziale. Le forme in dissolvenza di Christian Zucconi sono corpi deformati o meglio non finiti, corrosi dalla sofferenza, dalla riflessione e dall’introspezione; urli silenziosi, domande in cerca di significato, sculture drammatiche affamate di vita. Nell’approfondita e sincera conoscenza del mondo classico, Zucconi pare interpretare perfettamente il concetto di Idea, sostenuta anche da Cicerone, quale modello ideale di cui l’artista si appresta a realizzarne una copia nel mondo materiale, quasi a voler rendere visibile quello che sul piano della percezione abituale sarebbe invisibile. Si crea così una seconda dimensione, immaginaria, che entra a contatto con il mondo così detto “reale”. Sculture fortemente e faticosamente anelate per oggettivare esperienze sensoriali, che se non esplicate sarebbero rimaste occultate e che invece esprimono qual-
cosa di inedito e dalle quali possiamo trarre il mondo che sfugge. La visione intellettualmente indagatrice sulla vita e sul suo senso, lascia emergere chiare attinenze con la filosofia greca, che a sua volta nasce da un forte dialogo e confronto con il mito, qui utilizzato come fonte ispiratrice per raccontare l’arte. Mito in greco significa appunto racconto, tappa precedente al logos, percorso del pensiero necessario allo sviluppo dell’attività dell’intelletto, e, come sostiene Socrate, una verità poetica capace di trasmettere un messaggio o di conservare un patrimonio di credenze e di tradizioni che appartengono ad un’intera comunità. La mitologia racconta un mondo parallelo a quello naturale e quotidiano, popolato da creature divine e fantastiche, ma che spesso come accade con l’arte prendono spunto dalla realtà e creano un’unica forma e dimensione. Storie di metamorfosi, di eventi leggendari, del meraviglioso, che cercano di porre un ponte d’unione tra l’uomo e il divino, come nelle opere Pharmakos e Ierothytos: nella prima opera la violenza subita dal corpo del reietto, viene drammaticamente espressa dalla torsione del busto, dalla privazione di entrambi gli arti superiori e dalla spinta subita verso terra, forse imposta da una forza soprannaturale. In Ierothytos la tensione pervade sempre, ma adesso è ascendente e sia nelle membra, ora partecipi all’evento, che nel volto, l’orientamento è a sacrificarsi per giungere finalmente alla purificazione spirituale e quindi al contatto diretto con Dio. Arte intensamente e vigorosamente contemporanea, ma intrisa di storia, di arte romanica, che ci riporta immediatamente alle sculture di Wiligelmo, di Niccolò e dell’Antelami e in particolare a quella meravigliosa opera che è la Deposizione sita nel Duomo di Parma, che ebbe il grande merito di rompere drasticamente con la ieraticità dello stile precedente e come in Zucconi di pervadere lo spazio di naturalismo e sensibilità inusitati. La dinamica vitale e la libera creatività, ci conducono ad una estrema comunicatività del linguaggio che si anima di tensioni nei volti e nei moti fisici, plurimi nuclei di vita in movimento. L’abituale schema rappresentativo della corporeità si dilata nell’opera Memastigomenos conducendo il nostro pensiero alla tecnica del non finito michelangiolescho, sospinto in tale direzione dal gesto in sé, dalle braccia mozzate, dallo svolgersi di un’articolazione inedita della figura, dalla dinamica quasi spezzata inferta dalla stoccata della frusta, espressione dell’impossibilità di padroneggiare il dolore nel corpo e di una rassegnata accettazione dello stesso nel dramma del volto. Nelle opere Asphixia, Diairesis e Krisis emerge la visione sofferta e angosciata dell’uomo del nostro tempo, deformato e indifeso davanti ad una società che lo usa, lo giudica, e come ci insegna Bacon, lo logora, lo sfigura per poi disfarsene. Il dualismo bene-male, eros-thanatos, o l’ambivalenza, nella vita come nell’arte, ad investirsi di uno spirito dionisiaco o apollineo, ci viene offerto nell’opera Babel. Se il desiderio di gloria e potenza furono conclusivi per le sorti degli abitanti di Babele, la dicotomia tra spirito dominato dall’equilibrio, dall’armonia o pervaso dall’esaltazione 119
e dall’ebbrezza, viene affrontata anche da Nietzsche in tutta la sua opera. Le due teste della scultura convivono nello stesso corpo, ma se l’equilibrio è apparentemente la scelta migliore, il profeta Zarathustra ci invita ad abbracciare Dionisio, sinonimo di un atteggiamento di accettazione totale ed entusiastica della vita, che porta al superamento totale dei limiti dell’uomo. Alberto Mattia Martini, La parola del gesto, 2006
“Complicare è facile, semplificare difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. Per semplificare bisogna togliere, e per togliere, bisogna sapere che cosa togliere, come fa lo scultore quando a colpi di scalpello toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’è in più. Teoricamente ogni masso di pietra può avere al suo interno una scultura bellissima, come si fa a sapere dove ci si deve fermare nel togliere, senza rovinare la scultura? Togliere invece che aggiungere vuol dire riconoscere l’essenza delle cose e comunicarle nella loro essenzialità. Questo processo porta fuori dal tempo e dalle mode...” Questo pensiero di Bruno Munari, che certamente ammoderna l’idea di scultura nell’antica prassi michelangiolesca, può essere lo spunto, l’iniziale chiave di lettura per l’opera del giovane Christian Zucconi, “...fuori dal tempo e dalle mode...”, ma assolutamente contemporanea. Molto spesso, alla domanda su quale sia la tendenza attuale nell’arte e soprattutto nella scultura, rispondo con una riflessione che tiene conto di un panorama ampio, non solo italiano, ma internazionale, sul come si muovono oggi i giovani artisti di qualità. È ormai innegabile che gli scultori della generazione più recente - della quale fa autorevolmente parte Christian Zucconi - agiscono e si esprimono liberandosi da quella dittatura culturale, pesante e trita che propone come “moderno” l’epigonale e sussiegoso risultato di una ricerca “multimedial-concettual-assemblatoria” che ha ormai fatto il suo tempo. Questi artisti allestiscono così una colta figurazione, che diviene mezzo d’affermazione della propria indipendenza creativa ed espressiva. Tale ricerca è condotta nel segno della “Scultura”, intesa anche come mestiere e tecnica ineludibile che colloquia con la cultura dell’uomo, dove gli ardimenti e le convenzioni intellettuali trovano equilibrio e bilanciamento in quel lavorare con le mani, guidate prima dal cuore e poi dal cervello. Di là dagli schemi intellettualistici, ben oltre a quelli dell’ideologia, la forte attualità della scultura, forse, è proprio nella capacità/necessità di mediare sempre tali schemi - rischiosamente totalizzanti - con il senso della grande tradizione classica, moderna e contemporanea insieme, una capacità/necessità che ha prodotto quel “figurazionismo” che certamente è il tratto caratterizzante dell’arte del nostro tempo, Profondamente e formalmente differente dal “ritorno al120
l’ordine” di Novecento, dalla “figurazione astratta” degli anni Cinquanta e Sessanta e ancor più distante dal recente “citazionismo” o “anacronismo”. Un “figurazionismo” che, se a certuni può apparire lumeggiato da un atteggiamento reazionario, nella realtà è il più moderno risultato dell’attuale caotico sovrapporsi di ricerche sperimentali estreme e contrarie che abbia sollecitato, e la cui valutazione complessiva dovrà essere rimandata di mezzo secolo almeno; e forse sarà riconosciuto come la più onesta ed originale espressione della ricerca artistica a cavallo del millennio. È un dato di fatto, l’assenza di una visione unitaria e dominante che esprima e identifichi il nostro tempo, ha condotto alcune coscienze artistiche - numericamente molte più di quante si sia disposti a riconoscere - a cercare a ritroso, rintracciando ed individuando quelle fonti della scultura, quei “punti fermi”, assolutamente necessari ad esprimere la propria contemporanea, singolare ed originale poetica. È in quest’ambito che si colloca Christian Zucconi, con il suo linguaggio formale antico e moderno ad un tempo, anzi, un linguaggio ri-ammodernato sulla conoscenza del passato che sintatticamente pone a colloquio il Michelangelo esistenzialista delle ultime Pietà, filtrato attraverso talune eleganze simboliste di rodiniana memoria, ma declinato sul tormento febbricitante e passionale del gotico nordico. Zucconi è scultore nel vero senso della parola, sa togliere e sintetizzare fino all’essenziale. Vederlo lavorare è come assistere ad uno scontro tra ciclopici e tellurici elementi della natura. “Il blocco non parteggia per lo scultore, è contro di lui”, scriveva Thomas Mann ne La legge, e con uguale spirito di lotta Christian si accosta al materiale lapideo, rinnova costantemente la sfida con la materia - che poi, in ultima analisi, è sfida con sé stesso - piegandola alla propria volontà espressiva. Esempio plateale dell’opposto e diffuso concetto che è la materia a determinare la forma, sostenuto da una parte della critica contemporamnea, Zucconi propone con ogni opera che è invece vero il contrario, da sempre; è la forma, l’ispirazione e la propria urgenza espressiva che deve sovrastare nella titanica lotta con la materia, piegandola alla propria volontà creativa. Alfonso Panzetta, Zucconi, Sculture 1991-2006, 2006
I. Una quindicina d’anni nell’attività di uno scultore sono un periodo abbastanza lungo non soltanto per potere capire quali sono i suoi obiettivi, lo sfondo entro quale si muove ma, di più, l’effettiva acquisizione di un determinato linguaggio e la capacità di svilupparlo coerentemente. Quindici anni bastano per capire se la percezione che si aveva avuto, quella di trovarsi di fronte a un caso singolare, a una vocazione profonda sostenuta da effettivi talenti, corrispondeva alla verità oppure se costituiva un abbaglio, magari originato dal fascino della giovane età, della precocità straordinaria del caso.
Christian Zucconi, infatti, ha cominciato il suo apprendistato in giovanissima età, proprio da ragazzo, sulla scorta di ragioni che restano in qualche modo inconoscibili, per dar conto delle quali davvero bisognerebbe mettere in conto una misteriosa chiamata. A osservare ora le sue prime prove, che risalgono all’inizio degli anni Novanta del Novecento, si rimane colpiti da due elementi. Un primo aspetto è la continuità con quanto è avvenuto di seguito, l’esistenza di un filo rosso che collega tutto il suo lavoro, e che si fa ben riconoscere sin da subito con impressionante evidenza, sulla base di una volontà di fare grande, di toccare i grandi temi che hanno a che fare con il mito, la storia, la vita e la morte degli individui. Tale fase iniziale si connota poi per un secondo elemento, questo assai meno destinato a durare: esso consiste nell’interesse dimostrato per la fisiognomica, per l’espressività di un volto e, in subordine, di un corpo (si veda il Ritratto di ettore Zucconi del 1992). Di qui la serie delle terrecotte in cui lo scultore indaga studiosamente una gamma piuttosto larga di stati d’animo, puntando soprattutto su un’espressività caricata, enfatizzata da una deformazione dei tratti prossima talora alla caricatura, e tuttavia con finalità principalmente espressive. Gli stati d’animo afferiscono a turbamenti e stupori, e solo raramente a una quiete apollinea (sicché la classicità armoniosa che connota il volto di Tiche, del 1993, rappresenta davvero un unicum). Ma siamo in una fase appunto sperimentale, di ricerca anche in diverse direzioni, e dunque accanto a un simile studio fisiognomico, le cui radici vanno riconosciute in una ben radicata tradizione, registriamo in questi anni in Zucconi un interesse spiccato per lo spazio, il quale acquista significato perché la figura umana, con le sue torsioni e i suoi movimenti, lo coinvolge e lo anima. La disarticolazione è tale, in certe occasioni, che l’opera risente di una dinamica ininterrotta, così pronunciata da costringere l’osservatore ad adottare di volta in volta diversi punti di vista, senza che gli venga data la possibilità di scegliere quello ideale, definitivo. È come se Zucconi abbia provato presto una sorta di insofferenza nei confronti della fisiognomica, che gli sarà parsa, una volta verificate le sue possibilità in questo campo, un esercizio non sufficientemente produttivo e anzi un po’ scontato, con tutto l’autorevole retaggio che gli sta alle spalle. Gli sarà sembrata, la fisiognomica, un vicolo cieco, e gli sarà venuta voglia di allargare la sua sfera di interesse, di andare a toccare, come si diceva, soprattutto lo spazio. Con un simile allargamento di campo, il giovane scultore saggia materiali nuovi, oltretutto più idonei per le nuove finalità che si è prefisso; e dunque non più solo la terracotta, ma anche il travertino, il marmo bianco di Carrara e il marmo rosso di Verona (talvolta, poi - ma raramente - interviene anche con inserti di altri materiali quali il filo di rame, il legno e l’ottone) e trova infine il materiale più idoneo, il travertino persiano, dalle inediti e sorprendenti venature rossastre e rosate. Da allora, da questa prima apparizione nel 1997, il travertino
persiano diventerà il materiale pressoché unico, almeno per le opere definitive, oltrepassata la fase del bozzetto. II. Con la fine degli anni Novanta, e poi negli anni successivi fino ad oggi, il lavoro di Zucconi procede senza scossoni, connotato dall’abbandono definitivo anche delle reliquie naturalistiche a vantaggio di una concezione robusta della scultura, fatta di una assolutezza non priva di severità. Lo scultore schiva non senza iattanza qualunque belluria, qualunque edulcorazione, anche solo il sospetto della bellezza esteriore e inutile. Gli preme dar vita a forme che si impongono (grandi o piccole che siano, ne ricaviamo sempre un senso di magniloquente possanza, una sorta di loro superiorità), che occupano lo spazio imponendo con forza una fisicità irresistibile. Ogni finitezza è parimenti bandita, sicché si registrano memorie diffuse del non-finito così magnificamente espresso da Michelangelo; i corpi, onnipresenti, sono per lo più maschili, possenti, eroici anche quando non richiamano qualche figura del mito. Nessuna armonia (per quanto periclitante) viene però evocata da simili corpi, nessun superiore rapporto tra microcosmo e macrocosmo, né qualche superiore idealità. Il mondo che esce dall’opera di Zucconi è tutto percorso da un senso di caduta, di perdita inevitabile, anche se ciò non comporta abbandono o rassegnazione. Il fatto è che l’opera di questo scultore, il quale rinnova pratiche e metodi di lavoro da artista del passato, capace di confrontarsi direttamente con i materiali, non si propone qualche finalità illustrativa o celebrativa, neppure quando risponde alle esigenze della committenza, come è capitato in varie occasioni. La finalità primaria concerne, al tempo stesso, l’individuazione di una spazialità articolata, franta, complessa, elaborata, che coinvolge lo spazio e il trattamento della materia, la quale viene esaltata nelle sue qualità, con le sue anfrattuosità e i suoi risalti, le porosità o la levigatezza, e le sfumature innumerevoli del colore. III. Né ci sia chi, di fronte all’opera di Zucconi, ne ipotizzi una sua irrimediabile astoricità, o addirittura la sua appartenenza al passato più che al presente, sulla base di una superficiale percezione del suo repertorio iconografico. Modernissima è invece quest’opera, tutta segnata dalla frammentazione (va in questa direzione lo stesso gioco, portato avanti fino ai suoi limiti estremi, tra parti appena abbozzate e altre ben rifinite) e da un intenso, concentrato coinvolgimento dello spazio e da una drammaticità a stento rattenuta. Zucconi non vuole reprimersi, inibirsi il diritto di saggiare le possibilità indefinite che ha un corpo nel disporsi nello spazio (e con esso colloquiare); è animato da un’ambizione forte, da un desiderio smodato ma lieto, baldanzoso, nutrito di forte passione. La stessa percezione del dramma, che pure si è evocata appena sopra a proposito del suo lavoro, si subordina a una simile, robusta celebrazione dei valori della scultura, del suo potere creativo: il quale trova qui una celebrazione assoluta. Stefano Fugazza, Zucconi, Sculture 1991-2006, 2006 121
Cronologia
Tutte le opere dal 2007 al 2010* 29.03.2007 30.03.2007 02.04.2007 15.06.2007 31.07.2007 02.08.2007 03.08.2007 07.09.2007 02.10.2007 20.11.2007 25.12.2007 06.03.2008 18.04.2008
02.05.2008
09.05.2008
06.06.2008
Legione cm. 500 x 210 x 270 h Bibbiano, Reggio Emilia. Karol (perduta) cm. 30 x 20 x 52 h Gruppo incompleto cm. 28 x 29 x 46,5 h Ti sto osservando cm. 27 x 22 x 31,5 h Collezione privata Libra cm. 19 x 19 x 43,5 h Collezione privata Torquato cm. 19 x 24 x 38,5 h Francesco cm. 19 x 24 x 39 h Max cm. 19 x 24 x 79 h Collezione privata A nudo cm. 51 x 37 x 182 h Il dormiente 30 x 20 x 35,5 h Collezione privata PerchĂŠ mi hai abbandonato? (perduta) cm. 69 x 29 x 206 h Oloferne e Giuditta cm. 56 x 35 x 180 h Camminatori in divenire Gr. Alpha cm. 60 x 60 x 206 h Battistero, Vigolo Marchese, Piacenza. Camminatori in divenire Gr. Beta cm. 60 x 40 x 208 h Battistero, Vigolo Marchese, Piacenza. Camminatori in divenire Gr. Gamma cm. 47 x 33 x 192 h Battistero, Vigolo Marchese, Piacenza. Famiglia sotto osservazione cm. 80 x 60 x 320 h Piazza della Pace, Collecchio, Parma.
09.07.2008 16.07.2008 13.08.2008 15.10.2008 20.11.2008 27.01.2009 07.02.2009 16.02.2009 06.03.2009 31.03.2009 13.07.2009 03.08.2009 15.08.2009 03.11.2009 17.11.2009 01.01.2010
Andrea cm. 87 x 31 x 186 h Chiesa di Castelletto, Piacenza. Karol cm. 30 x 20 x 52 h Tiresia cm. 71 x 78 x 191,5 h Marsia cm. 60 x 60 x 260 h SalomĂŠ cm. 60 x 90 x 137 h Selemno cm. 163 x 73 x 170 h Esaias cm. 37 x 29 x 62 h Collezione privata Crucifixio cm. 85 x 69 x 225 h Clavus Alexandri cm. 35 x 35 x 173 h Lucrezia cm. 160 x 57 x 126 h Depositio Christi cm. 86 x 226 x 96 h Ancilla Domini cm. 55 x 55 x 160 h Ataraxia cm. 32 x 33 x 53 h Thyestes cm. 300 x 95 x 140 h Frammento anatomico (da Diaresis, 2006) cm. 33,5 x 33,5 x 190 h Oedipus cm. 81 x 136 x 147 h
*Per gli anni 1991-2006 vedi Fugazza, Stefano; Panzetta, Alfonso. Christian Zucconi, Sculture 1991-2006. Piacenza, Tip.Le.Co., 2007.
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Bibliografia
Principali mostre personali 1998
2002 2003 2004
2006 2007 2007 2010
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Opere pubbliche e religiose 1992 2002 2003 2003 2004 2004 2005 2005 2005 2005
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2007 2008 2008 2008 2010
Legione Bibbiano, Reggio Emilia. Camminatori in divenire Battistero, Vigolo Marchese, Piacenza. Famiglia sotto osservazione Piazza della Pace, Collecchio, Parma. Andrea Chiesa di Castelletto, Piacenza. Interno di famiglia Piazza Marconi, Gragnano Tr., Piacenza.
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Finito di stampare nel mese di febbraio 2010 presso Edizioni Aurora Verona Printed in Italy