cadaveri eccellenti

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MARE INTERNUM A RC HE OLOG IA E C ULT URE D E L M E D IT E RRAN E O


An International, Yearly and Peer-Reviewed Journal. The eContent is archived with Clokss and Portico. * Direttore Nicola Bonacasa Comitato scientifico Mostafa el-Abbadi · Saleh R. Agab Abdalha Anthony Bonanno · Mounir Bouchenaki Francesco D’Andria · Mhamed H. Fantar Vassos Karageorghis · Vincenzo La Rosa Marc Mayer i Olivé · Dimitrios Pandermalis François Queyrel · Donald White Redazione Antonella Mandruzzato *

Centro di Ricerca per l’Archeologia del Mediterraneo, Dipartimento di Beni Culturali, Sezione Archeologica, Facoltà di Lettere, Viale delle Scienze (Edificio 12), Università degli Studi, I 90128 Palermo, tel. +39 091 23899412/456, fax +39 091 23860651, mareinternum.archeo@unipa.it


MA RE I N TE R N UM A RC H E O L O G I A E C U LT U R E DEL MEDITERRANEO

4 路 2012

PIS A 路 RO M A FA BRIZ IO S E RRA E D ITORE MMX I I I


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SOMMARIO contributi Nicola Bonacasa, Antonino Di Vita e noi Giuseppe Castellana, Prefazione e considerazioni sul testo inedito di G. Caputo Dal culto popolare dell’acqua sulfurea al culto autocratico del toro di Falaride Giacomo Caputo, Dal culto popolare dell’acqua sulfurea al culto autocratico del toro di Falaride Elena Ghisellini, \EÓı¿‰Â ÎÂÖÌ·È ‰‡ÛÌÔÚÔ˜. Una stele funeraria attica sul mercato antiquario romano Fausto Zevi, Maria Elisa Micheli, Un fregio tra Ostia e Berlino: problemi di iconografia e di topografia ostiense Salvatore Garraffo, L’importanza del Tesoro di Misurata per lo studio della monetazione tardoromana in aes arricchito di argento Giuseppe Pucci, Cadaveri eccellenti: le vittime di Pompei nell’immaginario moderno

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note e discussioni Patrizia Minà, ^EÓ º·Ú›– Á·›– ı˘ÌeÓ àÔÊı›ÌÂÓÔ˜. Gli ipogei dell’Isola di Pharos nell’età medioellenistica Antonella Mandruzzato, Sabratha. Edilizia privata residenziale. 2. La “Casa del Peristilio” di Sabratha: anticipazioni e problemi Rosa Maria Bonacasa Carra, Ritratto femminile del iv secolo d.C. nella Catacomba di Villagrazia di Carini

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CADAVERI ECCELLENTI: LE VITTIME DI POMPEI NELL’IMMAGINARIO MODERNO Giuseppe Pucci gli inizi del 1764 Francesco La Vega, da poco succeduto a Karl Jakob Weber nella direzione degli scavi di Pompei, iniziò a scavare quello che sarebbe stato poi riconosciuto come il tempio di Iside. Il monumento e il ricco materiale rinvenutovi divennero subito largamente noti, ma solo nel 1776, grazie ad una memoria che il naturalista francese Françoisde-Paule Latapie inviò all’Accademia di Bordeaux, si ebbe notizia di un singolare ritrovamento fatto all’interno dell’edificio: lo scheletro di un uomo – verosimilmente un sacerdote – con accanto un’ascia di bronzo che aveva usato nel vano tentativo di aprirsi un varco verso la salvezza.1 Resti di vittime dell’eruzione erano stati occasionalmente rinvenuti anche in precedenza negli scavi, ma ora per la prima volta una storia individuale veniva a stagliarsi con nettezza sullo sfondo dell’immane tragedia collettiva, permettendo di far rivivere in tutta la sua drammaticità il compimento di un personale destino. L’impatto emotivo fu forte, e la memoria dell’episodio era ancora ben viva all’epoca di Bulwer-Lytton, che non si fece sfuggire l’opportunità di incorporare la vicenda nella trama del suo Gli ultimi giorni di Pompei.2 Nel 1766, intanto, in un ambiente della Caserma dei Gladiatori era stata fatta un’altra notevole scoperta: un ceppo, al quale potevano essere legate fino a dieci persone, e quattro scheletri. Il Giornale di Scavo non afferma che gli scheletri fossero incatenati al momento della morte (si limita a dire che erano «forse de’ carcerati»3), ma l’idea che quei disgraziati avessero dovuto soccombere perché immobilizzati dal crudele strumento di contenzione era troppo seducente, e Giovan Battista Piranesi non esitò a visualizzare la patetica scena dei quattro in catene in un disegno del 1778 circa, oggi conservato a Berlino.4 Nel 1768 Giuseppe II, imperatore d’Austria e fratello della regina di Napoli, visitò Pompei. Si fece in modo che in una stanza sotterranea di quella che poi sarebbe stata chiamata la Casa dell’Imperatore egli assistesse al ritrovamento di uno scheletro intatto (in realtà era già stato rinvenuto in precedenza), davanti al quale l’augusto sovrano sostò a lungo in meditazione.5 Da allora, commuoversi davanti ai drammi umani testimoniati dai poveri resti delle vittime, che sempre più numerosi si rinvenivano negli scavi, divenne il momento topico di ogni visita di Pompei, e un’analoga scena ebbe a ripetersi più di una volta con altri visitatori, più o meno illustri. Uno di questi fu il gentiluomo francese Bergeret de Grancourt, che tra il 1773 e il 1774 fece il suo grand tour in Italia, accompagnato dal pittore Fragonard. Egli visitò naturalmente anche Pompei, e alla data 6 maggio 1774 annotò nel suo diario: «Dans une maison, entr’autres, dans une chambre par bas, où sans doute on faisoit la lessive, on y voit tous les ustancils, fourneau, lavoir, etc., et un tas de cendres sur lequel

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est le cadavre d’une femme dans la position de quelqu’un qui, après avoir cherché à se sauver de la cendre délayée qui entroit à flos partout, étoit enfin tombée à la renverse où elle étoit morte. Toute l’attitude y est parfaitement dans le mouvement qui indique tout cela, et on reste en extase sur l’espace de 1.700 ans. De là on vous promène dans des souterrains où on voit que, peut-être, le maître de la maison, avec huit ou dix personnes, avoient cherché à se sauver et garantir, en mettant des planches devant eux pour n’être pas suffoqués, et on voit tous leurs squelettes à la suite l’un de l’autre avec une clef à la main comme espérant gagner la porte. C’est un tableau intéressant».6 A dispetto dell’enfatico riferimento al rimanere estasiati nel rivivere un dramma così remoto nel tempo, l’esperienza qui ricordata ha già il sapore della routine; e la compunzione, esibita quasi per obbligo, non riesce a nascondere il compiacimento alla vista del tableau che solo la presenza degli scheletri impedisce di definire vivant. Le vittime dell’eruzione cominciano ad avere una valenza estetica prossima a quella delle opere d’arte ritrovate negli stessi scavi. Fragonard, che anche in quella circostanza era al fianco di Bergeret, fece un disegno della scena che qualche anno dopo, tradotto in incisione, fu pubblicato dal Saint-Non come illustrazione del suo Voyage pittoresque.7 Incisioni pressoché simili realizzarono successivamente parecchi altri artisti,8 diffondendo il gusto – via via sempre più decisamente romantico – per le rovine corredate dai loro trapassati abitanti: quasi una riformulazione, riveduta e corretta, del poussiniano Et in Arcadia Ego. Tuttavia il ritrovamento più impressionante di quegli anni fu senz’altro quello avvenuto nella cosiddetta Villa di Diomede. Sotto la data del 12 dicembre 1772, nel Giornale di Francesco La Vega9 si legge: «Essendosi incominciato sin dalla passata settimana a levare della terra in un corridore […] vi si sono trovati 18 scheletri di persone adulte, oltre quelli di un ragazzo e di un piccirillo. Si conosce bene che questi, e forse altri che si potranno ancora trovare continuandosi questo scavo, furono sorpresi in quel sito della casa, […] da una pioggia di cenere, che cadde dopo quella del lapillo, e che si conosce bene fu accompagnata con dell’acqua […]. Questa alluvione di materia fluidissima, resa dopo qualche tempo terra molto tenace, talmente abbracciò e circondò d’ogni intorno tutt’i corpi, che quelli hanno dovuto par [sic] la loro fragilità mancare. Questa materia ne ha conservato l’impronto ed il cavo; così si è conservato quello di una cassa di legno, e quello di una gran catasta di piccioli travicelli. Lo stesso è occorso degl’infelici che si sono scoperti, delle carni dei quali non ne sono restati che i vacui e gl’impronti nel terreno, e dentro questi le ossa niente smosse dal loro ordine; i capelli poi in

1 La Description des fouilles de Pompéi del Latapie è stata pubblicata da Barrière, Maiuri 1953. Di questo ritrovamento non si fa parola nel Giornale di Scavo del La Vega. 2 Bulwer-Lytton 1834, Book 5, Chapter 6 and Chapter The Last. La storia, che nel romanzo ha per protagonista l’ex gladiatore Burbo, gli fu probabilmente fatta conoscere dall’amico William Gell, il più eminente pompeianista britannico dell’epoca, della cui dottina lo scrittore si avvalse abbondantemente. Già Thomas Gray, comunque, aveva utilizzato lo stesso dato archeologico in Gray 1830 (su cui vedi oltre). 3 Fiorelli 1860, p. 197 (20 Dicembre 1766). 4 Dwyer 2007, p. 174. In modo non dissimile, ovvero facendo ampio spa-

zio all’immaginazione, devono essere nate altre leggende, propalate da interessati ‘ciceroni’, come quella dell’eroica Sentinella che, fedele alla consegna, sarebbe morta senza abbandonare il suo posto di guardia presso Porta Ercolano (cfr. Moorman 2003, pp. 20-25; Behlman 2007; Pucci 2007, p. 114 sgg.) e quella della matrona che sarebbe stata sorpresa dall’eruzione mentre si recava a un convegno amoroso con un gladiatore (Cantarella 1988, p. 165, D’Ambrosio 2003). 5 Corti 1957, pp. 167-168. 6 Grancourt 1895, pp. 315-316. 7 Cfr. nota 4, p. 72. 8 Dwyer 2010, p. 8. 9 E non 1763, come per un evidente refuso riporta Moorman 2003, p. 25 (ripreso pedissequamente da Betzer 2011, p. 133).


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Fig. 1. Théodore Chasseriau, Schizzo di un ambiente della Villa di Diomede a Pompei. Musée du Louvre, Paris (da Betzer 2011).

parte si sono conservati attorno ad alcuni teschi, e si è traveduto alcune capigliature essere intrecciate. Degli abiti se ne sono trovate le ceneri, ma queste conservavano la qualità della materia, che ha attorniata la loro forma, sicché si distingue benissimo e le rarità delle loro trame, e della loro grossezza. Per dare una qualche testimonianza di quello che si asserisce avere osservato, ho pensato di far tagliare sino a 16 pezzi di quelli impronti di cadaveri, ove in uno fra gli altri si distingue il petto di una donna ricoperto da una veste […] e tutte queste cose le ho mandate al Museo». Le note del La Vega, redatte come documento d’ufficio, rimasero ignote ai più fino a quando Giuseppe Fiorelli non le pubblicò nella sua Pompeianarum Antiquitatum Historia;1 ma il ritrovamento fece comunque notizia, e quello che nelle carte del prosaico funzionario era sbrigativamente descritto come “il petto di una donna ricoperto da una veste” sarebbe ben presto divenuto un oscuro oggetto del desiderio capace di infiammare la fantasia di letterati ed artisti. La più antica descrizione (1775) di cui io abbia conoscenza, quella di Sir William Hamilton, è molto scarna, essendo l’autore interessato soprattutto alla dinamica dell’eruzione.2 Anche quella del Latapie (1776) è abbastanza succinta, seppure con qualche accessoria nota di colore (l’uso di portar via delle ossa come macabro souvenir).3 Già più eloquente è quella dell’Abbé de Saint-Non (1782):4 «C’est au bas de l’Escalier […] que l’on a trouvé vingt-sept Squélettes de Femmes […] & on a retrouvé avec leurs os, l’empreinte & la forme de leurs corps moulés & conservés dans les cendres, avec les détails de leurs habillemens. L’on fait voir même encore, au Muséum de Portici, l’empreinte de la gorge de l’une d’elles […].

M. Hamilton remarque à ce sujet que les cendres qui on couvert tous les Edifices de Pompéi, étant mêlées de beaucoup d’eau, ont du former une espèce de vase ou limon qui a fait précisément l’effet d’un moule. C’est dans cette vase que se voit l’empreinte de la gorge de cette malheureuse Femme sur laquelle il est encore possible de distinguer les traits d’une draperie fine & légère dont elle etoit couverte […]. Il est extraordinaire que cette empreinte curieuse ait pu se conserver assi entière depuis l’année 79». Nel 1788 è la volta di Charles-Marguerite Dupaty, un magistrato francese che dopo aver visitato il nostro paese nel 1785 pubblicò i suoi ricordi di viaggio in forma epistolare. A proposito del Museo Ercolanese di Portici – dove all’epoca si conservavano anche i ritrovamenti più importanti di Pompei – annota:5 «Je ne dois pas omettre un des monuments les plus curieux de ce cabinet célèbre; ce sont des fragments d’enduit de cendres qui lors d’une éruption du Vésuve, surprirent une femme, & l’enveloppèrent en entier. Ces cendres, pressées & durcies par le temps, autour de son corps, l’ont pris & moulé parfaitement. Plusieurs fragments de cet enduit conservent l’empreinte des formes particulières qu’ils ont reçues. L’un possède la moitié du sein; il est d’une beauté parfaite; l’autre, une épaule; l’autre, une portion de la taille: ils nous révelent, de concert, que cette femme était jeune, qu’elle était grande, qu’elle était bien faite, & même qu’elle fuyait en chemise: car des morceaux de linge sont attachés à la cendre». Si avverte in questa descrizione un sapore inequivocabilmente erotico. Il seno ‘d’une beauté parfaite’ della fanciulla ‘bien faite’ e seminuda6 non poteva in effetti non calamitare

1 Fiorelli 1860, pp. 268-269. 2 Hamilton 1777 (ma letto alla Society of Antiquaries di Londra nel 1775), p. 15. 3 Op. cit. a nota 1, p. 240. 4 Saint-Non 1782, p. 129. 5 Dupaty 1788, pp. 189-190.

6 Bonucci 1827, p. 48. L’autore si fa però un dovere di ristabilire la verità – e con essa la buona reputazione delle vittime – precisando che «queste donne erano giovani, svelte, ben formate, ma […] non fuggirono quasi nude, come Dupaty pretende, mentre non solo l’impronta della loro camicia, ma ben’anche quella delle vesti rimane tuttora assai visibilmente sulla cenere impressa».


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Fig. 2. Théodore Chasseriau, Tepidarium. Musée d’Orsay, Paris.

l’attenzione dei visitatori.1 Fu così anche per René de Chateaubriand, che visitò il museo nel 1824 e che a distanza di vent’anni aveva ancora un vivido ricordo della «jeune femme dont le sein s’est imprimé dans le morceau de terre que j’ai vu à Portici: la mort, comme un statuaire, a moulé sa victime».2 Merita sottolineare il commento finale: il calco è equiparato ad una scultura, l’impronta accidentale prodotta dalla natura a una creazione artistica. Arte e vita – o, come meglio converrebbe dire in questo caso, arte e morte – si incontravano in quell’affascinante oggetto la cui esistenza era stata nel frattempo resa universalmente nota dal fortunatissimo romanzo di Bulwer-Lytton.3 L’impronta di quel seno era però destinata a una fortuna anche maggiore. Nel 1840 Théodore Chasseriau, poco più che ventenne, si recò a Pompei e visitò, fra gli altri edifici, la Villa di Diomede. In uno schizzo oggi al Louvre (Fig. 1) egli ritrasse l’ambiente in cui era avvenuto il famoso ritrovamento di oltre venti vittime. Si vedono, sulla parete del corridoio, delle chiazze scure e fra esse una che richiama vagamente un torso femminile. Dalle annotazioni che il pittore ha aggiunto è evidente che egli l’associò alla ‘marque du sein conservée au musée’. L’agnizione lo esaltò a tal punto da fargli baciare quelle ‘traces douloureuses et inouïes’ rimaste impresse sull’intonaco, l’alone evanido di un corpo che egli avrebbe potuto far rivivere con la propria arte.4 E così fu: come è ormai stato rico-

nosciuto, la figura centrale del Tepidarium, la tela che Chasseriau espose al Salon del 1853 (Fig. 2), è il frutto di quel conturbante incontro di tredici anni prima, la restituzione di quella traccia, il ‘positivo’ pittorico di quella celebre orma impressa in negativo nella cenere. La definizione che ne diede Théophile Gautier – «fresque antique dérobée au mur de Pompéi» – corrisponde letteralmente a verità. E l’erotismo che promana dal quadro perpetua mirabilmente l’orgasmico rapimento nel quale esso fu originariamente concepito. Quanto a Gautier, va detto che egli aveva forse più titoli di chiunque altro per esprimere un giudizio, avendo l’anno precedente dato alle stampe la novella Arria Marcella. Souvenir de Pompéi, interamente imperniata proprio sull’impronta del seno della giovane di Pompei (nel frattempo spostata dal Museo di Portici a quello di Napoli).5 La vicenda narrata da Gautier è nota, ma non sarà inutile riassumerla ancora una volta: durante un viaggio in Italia insieme ad altri due connazionali, il giovane Octavien visita il Museo di Napoli e rimane affascinato da «un morceau de cendre noire coagulée portant une empreinte creuse: on eût dit un fragment de moule de statue, brisé par la fonte; l’oeil exercé d’un artiste y eût aisément reconnu la coupe d’un sein admirable et d’un flanc aussi pur de style que celui d’une statue grecque. L’on sait, et le moindre guide du voyageur vous l’indique, que cette lave, refroidie autour du corps d’une

1 Erano esposti nella quindicesima stanza, insieme ad altri resti umani. Cfr. Allroggen-Bedel, Kammerer-Grothaus 1983, pp. 83-128. 2 Chateaubriand 1921, p. 118. 3 «The sand, consolidated by damps, had taken the forms of the skeletons as in a cast; and the traveler may yet see the impression of a female neck and bosom of young and round proportions» (Bulwer-Lytton 1834, Book 5, Chapter The Last). 4 Betzer 2011; Mori 2003, p. 38. 5 Nello stesso anno (1852), del calco in questione parlò incidentalmente anche William Makepeace Thackeray in una delle conferenze da lui tenute negli Stati Uniti sugli umoristi inglesi del xviii secolo. A proposito di uno di questi ultimi, così si espresse: «I have read two or three of Congreve’s plays […] and my feelings were rather like those, which I daresay most of us here have had, at Pompeii, looking at Sallust’s (sic!) house and the relics of an orgy,

a dried wine-jar or two, a charred supper-table, the breast of a dancing girl pressed against the ashes […]. Instead of a feast we find a grave-stone, and in place of a mistress, a few bones!» (Thackeray 1853, pp. 63-64). Per accentuare il contrasto, lo scrittore non esita ad aggiungere al quadro qualche pennellata di colore: la dispensa diventa la scena di un’orgia e la fanciulla seppellita dalla cenere una danzatrice-amante. Cfr. Liveley 2011, pp. 112-113. Neanche Alexandre Dumas si lasciò sfuggire la ghiotta curiosità, anche se la descrizione che ne dà nel cap. xiii del suo Le Corricolo (1843) non si può dire molto originale: «l’on conserve au musee de Naples un fragment de cette terre dans lequel est empreint un magnifique sein de femme a la surface duquel on distingue les plis d’une robe de mousseline. Un second fragment garde le moule de deux epaules; un troisieme, le contour d’un bras; tout cela jeune et arrondi, tout cela magnifique de forme».


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femme, en a gardé le contour charmant. Grâce au caprice de l’éruption […] la rondeur d’une gorge a traversé les siècles lorsque tant d’empires disparus n’ont pas laissé de trace! Ce cachet de beauté, posé par le hasard sur la scorie d’un volcan, ne s’est pas effacé». I tre amici si recano quindi a Pompei, e nel corso della visita guidata fanno tappa alla Villa di Arrio Diomede, dove Octavien, rendendosi conto di trovarsi nel luogo esatto in cui era stato trovato l’intrigante calco del seno ammirato quella mattina stessa a Napoli, prova una profonda emozione: «sa poitrine se gonflait, ses yeux se trempaient de furtives moiteurs: cette catastrophe, effacée par vingt siècles d’oubli, le touchait comme un malheur tout récent; […] et une larme en retard de deux mille ans tomba […] sur la place où cette femme, pour laquelle il se sentait pris d’un amour rétrospectif, avait péri étouffée par la cendre chaude du volcan». Dopo cena, Octavien decide di fare una passeggiata per gli scavi, da solo. Cammina senza una meta precisa, e mentre procede quasi in uno stato di sonnambulismo la città sembra cambiare intorno a lui. Ciò che alla cruda luce del sole gli si era mostrato allo stato di rovina ora, nell’incerto chiarore della luna, gli appare nuovamente integro, come se nello spazio di poche ore tutto fosse stato prodigiosamente restaurato. Poi, benché il suo orologio segni la mezzanotte, si rende conto che sta sorgendo l’alba e d’improvviso non è più solo: le strade si popolano di uomini e donne che si dirigono ciascuno alle proprie occupazioni. Superato lo sconcerto, Octavien si arrende all’evidenza: Pompei si sta accingendo a vivere un altro giorno sotto gli occhi di un francese del diciannovesimo secolo! Ma se è così – pensa immediatamente il giovane –, se per un misterioso sortilegio egli è stato trasportato indietro nel tempo e si trova ora nella città non ancora distrutta dal vulcano, allora «la femme dont il avait admiré l’empreinte au musée de Naples devait être vivante […], il pouvait donc la retrouver, la voir, lui parler … Le désir fou qu’il avait ressenti à l’aspect de cette cendre moulée sur des contours divins allait peut-être se satisfaire, car rien ne devait être impossible à un amour qui avait eu la force de faire reculer le temps, et passer deux fois la même heure dans le sablier de l’éternité». Così, dopo aver fatto amicizia con un giovane pompeiano che gli dice di chiamarsi Holconius Rufus, si dirige a teatro, dove si sta rappresentando la Casina di Plauto. Ma la sua attenzione è presto catalizzata da una figura femminile che scorge tra la folla: «dans son visage […] brillaient des yeux sombres et doux, chargés d’une indéfinissable expression de tristesse voluptueuse et d’ennui passionné; […] son col présentait ces belles lignes pures qu’on ne retrouve à présent que dans les statues. Ses bras étaient nus jusqu’à l’épaule, et de la pointe de ses seins orgueilleux, soulevant sa tunique d’un rose mauve, partaient deux plis qu’on aurait pu croire fouillés dans le marbre par Phidias ou Cléomène». Quel seno – ancora lui! – lo manda in una specie di lucida trance: «La vue de cette gorge d’un contour si correct, d’une coupe si pure, troubla magnétiquement Octavien; il lui sembla que ces rondeurs s’adaptaient parfaitement à l’empreinte en creux du musée de Naples, qui l’avait jeté dans une si ardente rêverie, et une voix lui cria au fond du coeur que cette femme était bien la femme étouffée par la cendre du Vésuve à la villa d’Arrius Diomèdes». Octavien è sicuro, la sua speranza si è realizzata: l’inerte simulacro oggetto del suo spasmodico desiderio si è materializzato nel suo originale vivente. E ne ha la conferma quando, a spettacolo finito, una fanciulla che si qualifica come ‘commise aux plaisirs d’Arria Marcella, fille d’Arrius Diomèdes’ lo

invita a casa della propria padrona. Recatovisi, viene introdotto in una sala magnificamente decorata dove «sur un biclinium ou lit à deux places, était accoudée Arria Marcella dans une pose voluptueuse et sereine qui rappelait la femme couchée de Phidias sur le fronton du Parthénon; ses chaussures, brodées de perles, gisaient au bas du lit, et son beau pied nu, plus pur et plus blanc que le marbre, s’allongeait au bout d’une légère couverture de byssus jetée sur elle. Deux boucles d’oreilles faites en forme de balance et portant des perles sur chaque plateau tremblaient dans la lumière au long de ses joues pâles; un collier de boules d’or, soutenant des grains allongés en poire, circulait sur sa poitrine laissée à demi découverte par le pli négligé d’un peplum …» La donna fa posto a Octavien presso di sé, e gli confida: «Oh! lorsque tu t’es arrêté aux Studj à contempler le morceau de boue durcie qui conserve ma forme, dit Arria Marcella en tournant son long regard humide vers Octavien, et que ta pensée s’est élancée ardemment vers moi, mon âme l’a senti dans ce monde où je flotte invisible pour les yeux grossiers […]. On n’est véritablement morte que quand on n’est plus aimée; ton désir m’a rendu la vie, la puissante évocation de ton coeur a supprimé les distances qui nous séparaient». Poi si abbandona tra le braccia dell’amante «et contre son coeur Octavien sentait s’élever et s’abaisser ce beau sein, dont le matin même il admirait le moule à travers la vitre d’une armoire de musée». Ma Octavien fa appena in tempo a stabilire un contatto con quel seno agognato che interviene un inatteso colpo di scena: compare un vecchio dall’aspetto austero, con un pendaglio a forma di croce sul petto. È Arrio Diomede, convertito alla nuova religione dei seguaci del Cristo, che apostrofa severamente la figlia, rimproverandole l’insaziabile sensualità: «Deux mille ans de mort ne t’ont donc pas calmée, et tes bras voraces attirent sur ta poitrine de marbre, vide de coeur, les pauvres insensés enivrés par tes philtres». Arria Marcella si ribella alla morale oppressiva di una religione che non sente come propria, e reclama con forza il suo diritto alla vita e all’amore. Ma il vecchio, irremovibile, compie un esorcismo e d’un tratto Octavien «sentit se desserrer les bras qui l’entouraient; les draperies qui la couvraient se replièrent sur elles-mêmes, comme si les contours qui les soutenaient se fussent affaissés, et le malheureux promeneur nocturne ne vit plus à côté de lui, sur le lit du festin, qu’une pincée de cendres mêlée de quelques ossements calcinés parmi lesquels brillaient des bracelets et des bijoux d’or, et que des restes informes, tels qu’on les dut découvrir en déblayant la maison d’Arrius Diomèdes». Il varco temporale che l’ossessione amorosa di Octavien era riuscita ad aprire si richiude repentinamente, e Arria torna a essere quello che sarà per sempre: una forma impressa nella cenere. Nonostante i tentativi fatti nei giorni seguenti, l’esperienza vissuta da Octavien non si ripete più, e il giovane si chiude in una cupa malinconia che neanche i lazzi dei compagni sanno alleviare. Alla fine si sposa con una giovane inglese. È un marito impeccabile, ma la moglie, con il sesto senso di una donna innamorata, sente che Octavien ama un’altra. Farà anche delle indagini, ma non riuscirà mai a scoprire nulla. E del resto, come potrebbe sospettare che l’oggetto della sua gelosia è una pompeiana morta nel 79 dopo Cristo? Ora, la novella di Gautier è stata analizzata più volte, anche nello specifico rapporto con il suo referente archeologico,1 ma è importante sottolineare alcuni elementi: Arria Marcella non è una statua che prende vita, come avviene in altre non meno famose opere letterarie,2 ma è descritta co-

1 Segnaliamo solo alcuni dei contributi più recenti: Moorman 2003, p. 28; Colby 2006; Moorman 2007, p. 134; Hales 2007; Melotti 2008; Jacobelli 2008; Blix 2009, p. 190; Liveley 2011.

2 Basterà qui ricordare tre altri romanzi del xix secolo: Die Marmorbild di Joseph von Eichendorff (1818), La Vénus d’Ille di Prosper Mérimée (1837) e The Last of the Valerii (1874) di Henry James. In generale su questo tema si veda Praz 1982; Gross 1992; Bettini 1992.


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Fig. 3. Auguste Clésinger, Femme piquée par un serpent. Musée d’Orsay, Paris.

me una statua (‘ses beaux bras de statue, froids, durs et rigides comme le marbre’), anzi una statua greca che avrebbe potuto essere di mano di Fidia o di Cleomene. Due nomi, questi, abbastanza scontati: il primo è quello dell’artista considerato il maggior scultore dell’antichità, il secondo quello dell’autore (o forse solo del copista) della Venere dei Medici,1 opera apprezzatissima fra Sette e Ottocento. Ma Gautier era uomo di vasta cultura classica, e non escluderei una dotta allusione a quel passo di Plinio dove si dice che di una statua di Cleomene si sarebbe innamorato il cavaliere romano Giunio Pisciculo.2 Il riferimento sarebbe in verità bene appropriato. Il protagonista della novella, infatti, prima ancora di innamorarsi dell’impronta del seno di Arria, si è già mostrato incline ad amare una statua: «un jour, en passant au Musée devant la Vénus de Milo, il s’était écrié: ‘Oh! qui te rendra les bras pour m’écraser contre ton sein de marbre!’» Il feticismo per il seno femminile è con tutta evidenza un tratto connotativo di Octavien. O dovremmo dire di Gautier? Fra quanti hanno scritto su Arria Marcella, nessuno a mia conoscenza ha messo finora in relazione la genesi della novella con una vicenda in cui Gautier fu personalmente coinvolto. I fatti sono questi:3 nel 1847 lo scultore Auguste Clésinger espose al Salon un’opera intitolata Femme piquée par un serpent (Fig. 3). Rappresentava una donna, pressoché completamente nuda, che supina si contorce soccombendo alla morte. Se si prescinde dal serpente – che peraltro si nota a malapena ed

è chiaramente solo un pretesto – la posa della figura potrebbe benissimo convenire a una delle vittime di Pompei, conformemente a un’iconografia ormai consolidata.4 L’opera fece scandalo, non solo per la sua intensa sensualità, ma anche perché da piccanti indiscrezioni – fatte abilmente filtrare dallo stesso Clésinger a fini autopromozionali – si era saputo che il nudo era stato realizzato a partire da calchi presi direttamente sul corpo di una delle più famose demi-mondaines dell’epoca: Apollonie Sabatier, amica – e occasionale amante – di Baudelaire, che le dedicò diverse poesie, nonché dello stesso Gautier.5 Dispiacque a molti l’ostentato realismo della scultura (Delacroix la definì un ‘daguerréotype en sculpture’) e fu criticato in particolare il torso che, con quel seno turgido e quasi insolente, fu giudicato ‘d’une verité un peu vulgaire’.6 Gautier però scese immediatamente in campo per difendere l’opera: «Elle n’est pas en marbre, elle est en chair; elle n’est pas sculptée, elle vit, elle se tord […]. Si l’on posait la main sur ce corps blanc et souple, au lieu du froid de la pierre, on trouverait la tiédeur de l’existence […], on croirait qu’un belle et superbe créature a été saisie et figée à son insu dans un moule…». E possiamo comprendere perché: di lì a qualche anno il calco di un seno che si fa carne sarebbe divenuto il sogno del suo Octavien (ma in ultimo questi non abbraccerà che una ‘poitrine de marbre, vide de cœur’, non diversa dalla statua di Clésinger).

1 Esistettero sicuramente più scultori di nome Cleomene: lo stato della questione è esposto in Verzár-Bass 1990, p. 370 sgg. 2 HN, xxxvi, 39. 3 Li si può trovare riassunti in Didi-Hubermann 2008, p. 138 sgg.

4 Non escluderei in proposito una reminiscenza del quadro di Franque, su cui vedi oltre. 5 Cfr. Joyce 2006. 6 Benoist 1931, p. 96.


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giuseppe pucci cia gli ultimi suoi figli, volge uno sguardo al cielo, e spira di dolore con essi».3 Suona, la descrizione di Bonucci, come l’ekphrasis di una pittura. E in effetti nel 1827 Joseph Franque, artista francese a lungo residente a Napoli, aveva preso lo stesso ritrovamento a soggetto del suo quadro Scène de l’Éruption du Vésuve (Fig. 4), oggi conservato al Philadelphia Museum of Art, ispirandosi per la composizione alla celebre Niobe degli Uffizi, citata anche da Bonucci. Grazie alla guida di Bonucci e al quadro di Franque la fama del ritrovamento si propagò, ispirando delle creazioni letterarie. Sempre al 1827 risale la prima stesura di The Image in Lava, un componimento della poetessa inglese Felicia Hemans, di cui trascriviamo qui alcuni versi:4 Oh! I could pass all relics Left by the pomps of old, To gaze on this rude monument, Cast in affection’s mould. Love, human love! what art thou? Thy print upon the dust Outlives the cities of renown Wherein the mighty trust!

«Il Vesuvio avea per un istante sospeso i suoi furori, ed una madre infelice con un bambino fralle braccia, e con due giovani figlie ne profittava, fuggendo dalla sua casa di campagna, verso la strada di Nola, città la meno minacciata da quella indicibile catastrofe. Giunte presso al descritto emiciclo [la tomba di Mammia], il Vulcano ricominciò con nuovo impeto le sue devastazioni. Sassi, cenere, fuoco, e scorie liquefatte e bollenti piovono da tutte le parti intorno alle misere fuggitive. Le Sventurate si rifuggiano allora appiè d’una tomba, ove forse riposavano le ceneri de’ loro parenti, ed invocando nella più terribile disperazione gli Dei, che non l’ascoltano, si tengono strettamente abbracciate alla lor madre fin’ all’ultimo respiro e restano in tal situazione immobili per sempre. Così da un successore di Fidia fu rappresentata Niobe, che abbrac-

All’impronta eroticamente provocante del seno della Villa di Diomede è subentrata quella, casta e commovente, del seno di una madre, icona di un amore che sopravvive a ogni cosa. Tre anni dopo Thomas Gray5 riprenderà la stessa storia nel suo The Vestal, or A Tale of Pompeii, facendone protagonista Favella e le sue figlie: «Favella was the first to stop. “I can go no farther,” said she. “Kiss me and leave me, my children”. With one voice they declared that her fate should be theirs, and that they would either escape or perish together. In vain she supplicated and prayed them to leave her. “You are young,” she said, “and I have the weight of years upon me. You may escape for me escape is impossible. Go, my children, I shall die content, if I have not been the cause of your death.” […] She was but just able to reach the hemicycle on the left hand, near the gate, when she sunk exhausted. Her daughters knelt beside her, and she threw her arms around them and blessed them. Faithfully did these girls redeem their promise to save her or to die with her. From that embrace they rose not. The thick falling ashes closed over them, as the waves of the sea close over their victims…». E poi, non senza una buona dose di humour: «This excavation was made A. D. 1811 (sic); and it is evident from the author’s mode of accounting for these skeletons being found there, that he was ignorant of the veracious history contained in these pages».6 Di lì a qualche decennio, tuttavia, l’interesse per i resti delle vittime di Pompei avrebbe conosciuto un’impennata davvero straordinaria. La svolta ha una data precisa: il 3 febbraio 1863. Quel giorno Giuseppe Fiorelli, dal 1861 direttore degli Scavi,7 fece versare del gesso liquido in una cavità incontrata dagli operai che scavavano nel vicolo tra le insulae vii, xi e vii, xiv (da quel momento chiamato Vicolo degli Scheletri), ottenendo il primo calco completo di un corpo umano.8 Nei giorni immediatamente successivi si

1 Il Maiuri, dopo aver ricordato che il reperto «fu osservato e scrutato per ogni verso […], dové sopportare anche la crudele prova dell’acido nitrico reagendo con un’effervescenza che se colmò di gioia il cuore del chimico, poté sembrare anche il segno d’una muta protesta di dolore», dice di averlo fatto ricercare invano (Maiuri 1964, p. 49 sgg.). A mia conoscenza non è sopravvissuta neppure una qualsivoglia documentazione grafica o fotografica (cfr. anche Beard 2008, p. 6). Tra gli ultimi che ne fecero menzione va ricordato il naturalista Arcangelo Scacchi (su cui vedi Ciarallo 2006, p. 44), il quale con atteggiamento ormai freddamente positivista, scrisse: «mi fu mostrata un’irregolare impressione, che mi fu detto essere l’impressione di un seno muliebre; se non mi fosse stato detto, io non l’avrei certamente indovinato, e per cortesia mel credetti» (Scacchi 1843). Sic transit gloria mundi!

2 Il Bonucci, architetto di formazione, per oltre vent’anni scavò e restaurò Pompei. Cfr. Venditti 1971. 3 Bonucci 1827, p. 67. La prima edizione di questa fortunata guida, che fu subito tradotta anche in francese, apparve nel 1825. 4 Per il testo completo vedi Hemans 1828. Cfr. Armstrong 2001; Lundeen 2003; Bridges 2011. 5 Scrittore statunitense (1803-1849), da non confondere con l’omonimo poeta inglese (1716-1771), autore della celebre Elegy Written in a Country Churchyard. 6 Gray 1830, pp. 181-183. 7 Kannes 1997. 8 Il metodo era già stato usato anche prima a Pompei su elementi lignei, ma sembra essere stata di Fiorelli l’idea di applicarlo ai corpi umani (in ogni

Fig. 4. Joseph Franque, Scène de l’Éruption du Vésuve. Museum of Art, Philadelphia.

Vorremmo anche noi poter osservare da vicino quel carismatico calco; ma, elusivo fino in fondo, esso è scomparso senza lasciare traccia.1 Verrebbe da dire che forse, più che di cenere rappresa, era fatto della materia di cui sono fatti i sogni. Facciamo ora un passo indietro nel tempo: nel 1812, lungo la Via dei Sepolcri, fu fatto un altro rilevante ritrovamento, che nella prosa di Carlo Bonucci2 è così romanzato: Fine tragico di tre fanciulle


cadaveri eccellenti: le vittime di pompei nell ’ immaginario moderno

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Fig. 5. Il Museo Pompeiano agli inizi del ’900 (foto di Giorgio Brogi).

ottennero i calchi di altri tre corpi.1 Fiorelli, ben consapevole dell’impatto che la scoperta avrebbe avuto sul pubblico, ne diede personalmente notizia in un articolo sul Giornale di Napoli del 12 febbraio.2 Qualche giorno dopo, il 18 febbraio, lo stesso giornale pubblicò una lettera di Luigi Settembrini, professore di Letteratura Italiana all’Università di Napoli e amico di Fiorelli, che descriveva i ritrovamenti con una carica emotiva molto più accentuata:3 «È impossibile vedere quelle tre sformate figure, e non sentirsi commosso: specialmente la fanciulla […] ti strazia il cuore. Sono morti da diciotto secoli, ma sono creature umane che si vedono nella loro agonia. Lì non è arte, non è imitazione; ma sono le loro ossa, le reliquie della carne e de’ loro panni mescolate col gesso; è il dolore nella morte che racquista corpo e figura. Io la vedo quella meschina, io odo lo strido con cui chiama la mamma, e la vedo cadere e dibattersi […], tu, o mio Fiorelli, hai scoperto il dolore umano, e chiunque è uomo lo sente». Queste righe si possono considerare il la di un concerto che si sarebbe sviluppato negli anni a venire con poche variazioni sul tema di fondo: la commozione e la compassione per le vittime.4

I quattro calchi furono conservati in una casa presso Porta Ercolano (battezzata poi Casa dei Cadaveri di Gesso), e da quel momento divennero meta di pellegrinaggio per chiunque si recasse a Pompei. Nel 1868 e nel 1871 si realizzarono altri due calchi, e tra il 1873 e il 1876 ancora quattro, compreso quello – immediatamente diventato celebre – di un cane da guardia legato alla catena, morto mentre si divincolava disperatamente. Questi primi dieci calchi furono esposti nel nuovo Museo Pompeiano allestito presso Porta Marina (Fig. 5). Qui furono seguiti nel tempo da altri, fino a raggiungere nel 1908 il numero di 19. Con gli scavi di Spinazzola, iniziati nel 1911, si inaugurò la pratica di lasciare i calchi sul luogo di rinvenimento – protetti da apposite coperture – consentendo in questo modo una fruizione ancor più coinvolgente di reperti già di per sé emozionanti. Così fece anche il Maiuri con le 13 vittime del cosiddetto Orto dei Fuggiaschi, trovate nel 1961.5 Il Museo Pompeiano fu purtroppo gravissimamente danneggiato nel corso del pesante bombardamento (si calcola che siano caduti sulla città antica oltre 150 ordigni) che la città ebbe a subire il 24 agosto (per tragica coincidenza lo stesso giorno dell’eruzione del 79!) del 1943. Molti preziosi materiali furono distrutti per sem-

caso egli rivendicò sempre tale primato). Il primo pompeiano di cui si ricavò il calco era un uomo di grande statura, che indossava dei pantaloni (particolare antiquario che destò sorpresa e fu ripreso immediatamente in una notizia apparsa sul Giornale d’Italia del 6 febbraio) e giaceva in posizione supina.

va un rigonfiamento all’altezza del ventre e per questo fu ritenuta da qualcuno incinta. 2 Ma nel frattempo una notizia era apparsa sul Times di Londra il 10 febbraio. 3 Settembrini 1863. 4 Esemplare da questo punto di vista il volumetto di Magaldi 1930. 5 Per un censimento dei ritrovamenti di vittime umane negli scavi di Pompei vedi De Carolis, Patricelli, Ciarallo 1998 e De Carolis, Patricelli 2003.

1 Si trattava di tre donne, trovate fra il 3 e il 5 febbraio: due, giacenti l’una accanto all’altra ma di diversa statura, erano forse madre e figlia; la terza, che aveva il volto coperto da un panno, e giaceva sul fianco sinistro, mostra-


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Fig. 6. Foto di Giorgio Sommer (1868), predisposta per visore stereoscopico.

pre. I calchi per fortuna furono almeno in parte recuperati e restaurati.1 Fin da subito, comunque, questi erano stati riprodotti da fotografi napoletani: tra gli altri Michele Amodio, i fratelli Brogi, Giorgio Sommer.2 Quest’ultimo in particolare fu molto prolifico3 e le cartoline illustrate uscite dal suo atelier (Fig. 6) contribuirono non poco a diffondere l’immagine delle vittime pompeiane nel mondo. Le pose in genere erano attentamente studiate per rendere adeguatamente il pathos inerente al soggetto ritratto. Soprattutto i calchi realizzati dal 1873 in poi – esteticamente più pregevoli perché eseguiti con una tecnica perfezionata – divennero delle autentiche icone, spessissimo paragonate a statue4 e ammirate non solo come eccezionali documenti archeologici ma come vere e proprie opere d’arte,5 al punto da farne delle riproduzioni tridimensionali.6 Ora, se soltanto il negativo di un seno di donna aveva avuto, lo abbiamo visto, il potere di ispirare tante fantasie (e una mirabile novella), è facile immaginare la forza mitopoietica di corpi femminili riapparsi pressoché integri, ‘congelati’ nella loro giovinezza, come la fanciulla trovata insieme alla supposta madre nel 1863 e ancor più quella trovata qualche anno dopo, che “denudata in parte della veste che la copriva […] ha lasciato le sue belle forme, tanto da contrastare alla stessa Venere l’epiteto di kallipygos”.7 Non stupisce quindi trovare l’amore per un calco al centro di un singolare racconto: Nerinda, di Norman Douglas.8

L’opera non è molto conosciuta. A prescindere dai suoi pregi letterari – che non è peraltro il caso di enfatizzare – essa è stata messa in ombra da un’altra opera che ha goduto e gode tuttora di assai più vasta notorietà, grazie soprattutto all’interpretazione che ne diede Sigmund Freud: Gradiva, di Wilhelm Jensen. Ciò è avvenuto anche perché si è generalmente ritenuto che Nerinda fosse stata scritta intorno al 1929 (data della sua pubblicazione in volume), dunque ben dopo la Gradiva (1903), da cui a una lettura distratta può sembrar dipendere. Le cose stanno tuttavia diversamente. Nerinda apparve per la prima volta in una raccolta di racconti intitolata Unprofessional Tales, nel 1901, ma risulta essere scritta già nel 1899.9 Essa precede dunque, e di molto, la Gradiva né ha molto in comune con essa, se si eccettua l’ambientazione pompeiana. Mentre infatti nel racconto di Jensen, come tutti sanno, il protagonista è innamorato della donna raffigurata in un bassorilievo dei Musei Vaticani (del quale si fa fare un calco che colloca nel proprio studio in Germania), e crede di incontrare la stessa donna in carne e ossa nel corso di una visita a Pompei,10 Douglas fa innamorare il suo Donald proprio di uno dei calchi di Fiorelli. Di non molto posteriore al testo-chiave del Decadentismo europeo – À rebours di Huysman – il racconto di Douglas ha con quello molte affinità: entrambi le opere si possono definire la ‘storia di una nevrosi’, ovvero della ‘disintegrazione di una personalità’.11 Come Des Esseintes, il giovane aristocra-

1 Tutte le vicende relative sono ottimamente esposte in García y García 2006. 2 Cfr. il catalogo Fotografi a Pompei; Cassanelli 2002. 3 Su di lui vedi Desrochers 2003 e Fanelli 2007. 4 La frase – citata in precedenza – di Chateaubriand «la mort, comme un statuaire, a moulé sa victime» verrà parafrasata e riformulata innumerevoli volte a proposito dei calchi fiorelliani. Per esempio, in un articolo della «Quarterly Review» del 1864, p. 332-333, diventa: «death itself moulded and cast the very last struggle». 5 Cfr. Hales 2011, p. 160. In qualche caso è ipotizzabile che, per farle meglio sembrare tali, le maestranze che eseguirono i calchi abbiano usato «a bit of artistic license […] sculpting a nose or ears and carving a mouth and eyes» (Deem 2005, p. 21). 6 Già nel 1865 lo scultore napoletano Tito Angelini avanzò l’idea di fare delle copie dei calchi della ‘figlia’ e della ‘madre’ da tradurre successivamente in marmo (Dwyer 2011, p. 50). Poi, quando nel 1888 si seppe che il Kaiser Guglielmo II avrebbe visitato Pompei, Fiorelli fece eseguire dallo scultore Achille d’Orsi, esponente di spicco del realismo napoletano, delle copie a scala ridotta dei calchi delle vittime perché fossero date all’illustre ospite come ricordo. Le copie furono poi esposte al Neues Museum di Berlino, ma non

sono sopravvissute all’ultima guerra (Dwyer 2010, p. 104). L’episodio è degno di nota anche perché, a ben vedere, si rinnovò in quell’occasione l’antica consuetudine del Grand Tour, che consisteva appunto nel portare a casa copie, spesso ridotte, delle più famose statue antiche. 7 Vedi García y García 2006, p. 191. 8 Su questo personaggio vedi Holloway 1976 e da ultimo l’acuminato ritratto che ne fa Sangineto 2010. 9 Lo si ricava dalla Author’s Note in appendice all’edizione del 1929. Cfr. anche Bleiler 1978, p. 63; Clute, Grant 1997, p. 286. 10 Non ci occupiamo qui di questo testo, né di quello di Freud al quale esso è ormai indissolubilmente legato perché essi non riguardano direttamente le vittime pompeiane. Jensen, che pure trova modo di citare incidentalmente la famosa impronta del seno al Museo di Napoli, tace inspiegabilmente dei calchi, e lo stesso fa Freud. Inoltre tali lavori sono stati più volte analizzati in passato. Segnaliamo soltanto, tra la bibliografia più recente, due contributi che affrontano in particolare il tema dell’immagine: Gunthert 1997 e Downing 2006. 11 Douglas cita tuttavia come vicina alla propria un’altra opera del Decadentismo: Inferno di Strindberg (1887).


cadaveri eccellenti: le vittime di pompei nell ’ immaginario moderno tico Donald, disgustato dalla società, sceglie la solitudine. Si reca quindi a Capri in compagnia della sorella (anch’ella completamente distaccata dal mondo per la morte, non ancora elaborata, dell’uomo che avrebbe dovuto sposare), ma neanche la bellezza di quel paesaggio lenisce il ‘sense of loneliness’ che accompagna ovunque il protagonista. Dopo aver visitato Sorrento e Amalfi, i due si recano a Pompei (‘We have been keeping Pompei for the last – as a sort of bonne bouche…’), e qui l’interesse di Donald viene immediatamente destato dai calchi esposti nel Museo: «The small museum with its well-preserved human remains is a queer spot. […] There are wonderfully intact plaster casts taken from the hollow mould formerly occupied by the actual bodies of those who perished in the catastrophe. The process is one of the discoveries of Mr. Fiorelli, who used to be the principal archaeologist. There was one of a young woman, with eyes half closed as though in pain […]». Già al primo incontro con la fanciulla di gesso Donald presagisce che ‘something will happen’. Il giorno seguente torna al Museo e, osservando il calco più lungamente, ha di colpo la perturbante certezza – di cui egli stesso non sa darsi conto – che gli occhi della bella sventurata, quand’ella era in vita, fossero blu.

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Durante una di queste visite, racconta un Donald ormai completamente paranoico, I prayed with the faith that can move mountains, with the ecstatic rapture of a saint. I lost all shyness; […] “Nerinda, my heart’s desire, my other self – a sign!” And lo! It happened even as I expected. Her cheeks coloured and her curved lips quivered slightly, ever so slightly, like an anemone flower trembling in the breeze. Life, for one short moment, flowed through those delicate veins. As for her eyes – I gazed, and methought I looked into another world. “Come here quickly, Francesco, […] and tell me honestly: what do you see?” “Pare viva …” he began, confused. And in that moment my plan of action was decided.

Mentre ammira il calco, a Donald sembra che per un istante esso riacquisti un colorito umano. Più tardi egli si dice certo che la ragazza è viva, e alla sorella che liquida le sue affermazioni come ‘nonsense’ replica sibillino “I know what I know”. Il germe della follia lo ha già contagiato. Da questo momento in poi è tutto un crescendo di allucinazioni. Nel delirio la fanciulla gli appare più volte, e gli dice di chiamarsi Nerinda. Egli si convince che anch’ella lo ama, e che potrebbe tornare a vivere se solo egli potesse toccarla. Le sue visite al Museo si fanno sempre più frequenti: la dipendenza, come da una droga, fa sì che i periodi di astinenza si accorcino progressivamente. Il suo desiderio si fa ossessivo e possessivo. Al custode che continua a riferisi alla fanciulla come “Professor Fiorelli’s signorina” egli ribatte, accecato dalla gelosia: “She is not Professor Fiorelli’s signorina. She is mine”.

Dato che, nonostante tutte le sue lusinghe, il custode, ligio alla consegna, si rifiuta di aprire la teca che gli impedisce di unirsi alla donna che ama, non gli resta che sbarazzarsi dell’ostacolo. Il mattino seguente il giornale riporterà la notizia che il guardiano notturno del Museo di Pompei è stato trovato barbaramente assassinato e che «one of the gems of the collection, Case No. 12, containing the plaster cast of a young woman reproduced according to the ingenious process of our immortal Fiorelli, is completely shattered – that this chef d’oeuvre, with its clinging draperies and delicately – formed limbs, is now reduced to a mass of shapeless fragments». Ventiquattrore dopo nel porto di Castellammare sarà ripescato il cadavere di un giovane turista inglese… Come si vede, la vicenda per certi versi sembrerebbe connotarsi come un caso di agalmatofilia, ma a ben vedere non lo è, come non lo è la storia raccontata da Gautier. Nerinda non è una statua ma il calco di un corpo che è stato vivo. Non è perciò, per dirla in linguaggio semiologico, un’icona ma un indice.2 La differenza è fondamentale, perché mentre l’icona intrattiene con il referente una relazione di mera somiglianza (come avviene nel caso di un ritratto dipinto o scolpito), l’indice è un segno che ha una connessione reale col referente e presuppone un contatto fisico, una corrispondenza punto per punto, come nel caso dell’orma, dello stampo, del sigillo. Pressoché in tutte le culture, specie quelle tradizionali, l’impronta è strettissimamente connessa, anche in senso magicosimbolico, con ciò che l’ha generata e che le ha trasmesso in tutto o in parte le proprie qualità, la propria identità: ne costituisce il sostituto, il doppio.3 Il calco ha dunque un potere assai maggiore di quello, puramente evocativo, dell’immagine artificiosa. Lo conferma cripticamente a un certo punto il protagonista del racconto di Douglas quando, riferendosi all’oggetto della sua passione, asserisce che “form tyrannises over matter”: Nerinda è una forma che sussume la materia, e pertanto può rigenerarla. Ora, la scelta del gesso da parte di Fiorelli per far ‘rivivere’ le vittime dell’eruzione fu certo puramente strumentale, dettata da motivi assolutamente pratici, ma è comunque curioso che nel mondo antico il gesso fosse considerato una sostanza capace di (ri)suscitare la vita. Nella versione orfica del mito di Dioniso si dice che quando quest’ultimo fu smembrato e ucciso dai Titani, Zeus fece fare una statua di gesso e vi inserì l’unico pezzo recuperato del corpo del figlio, il cuore. Dioniso tornò a vivere. Non solo: sempre secondo il racconto orfico la stirpe degli uomini sarebbe nata dalle ceneri dei Titani, fulminati da Zeus, e títanos è in greco una qualità di gesso. E non a caso gli adepti del culto di Dioniso – che prometteva la

1 La descrizione è volutamente vaga, ma sembra avere come riferimento il calco nº 4 realizzato da Fiorelli e il commento del Beulé, il quale dopo aver attribuito il gonfiore del ventre non ad una gravidanza bensì all’ingombro delle vesti, così prosegue: «Pour achever de décrire notre Pompéienne, ajoutons qu’elle est grande, élégante, que sa jambe gauche, mieux rendue par le moulage, est bien prise et charmante, que le pied est admirablement cambré» (Beulé 1872, p. 190).

2 Il riferimento è alla terminologia introdotta da Ch. S. Peirce, il padre della semiologia moderna. 3 Come ricorda Bettini 1992, p. 18, Pitagora esortava a cancellare l’impronta del proprio corpo quando ci si alzava dal letto, per non esporre ad altri quella traccia così intima della propria persona, e Aristofane ricorda che i ragazzi badavano a non lasciare sulla sabbia del ginnasio le impronte dei loro bei corpi, per evitare che potessero essere ‘abusate’ dagli erastai.

“You seem to be pretty well acquainted with her,” she [la sorella] laughed. “Whatever colour they were, they must have been lovely.” “She is altogether lovely,” I said. “Truth mirrored in beauty.” “Don’t be sententious. And yet you are right – for it is strange to think that she is no artistic creation, but an actual human being like ourselves.” “Precisely so.” “I wish she could speak. I am sure I should love her, poor girl! And so would you. Perhaps you would want to marry her! Perhaps she is the ideal you have been seeking!”.

L’indomani Donald si reca ancora al Museo, dove intavola una conversazione con l’affabile custode Francesco, che vi dorme anche la notte. “That specimen,” said Francesco, “[…] that signorina is considered one of the finest and most successfully reproduced. It is as if she could speak! Molto ben riuscita ma molto! Professore Fiorelli himself admired her most of his whole collection. Look you, there was an artist, Signor Rapino, who made studies of the head for his great Maria Magdalena picture last year – well, he used to say that one could almost fall in love with her, like that young man mentioned somewhere in Lucian. Look at her pretty foot!”.1


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Figg. 7 e 8. Da The Curse of the Faceless Man, di E. L. Cahn (1958).

rinascita dopo la morte – si spalmavano il corpo di questa sostanza.1 Quanto alla tragica fine di Donald, questa sì rientra perfettamente tra i topoi dell’agalmatofilia. Non si uccise così, annegandosi, anche il folle che aveva amato la statua di Afrodite a Cnido,2 opera di Prassitele? Il calco, in quanto doppio, rappresenta un tramite tra il mondo dei vivi e quello dei morti; legarsi ad esso è pericoloso, significa lasciarsi attrarre inevitabilmente nell’aldilà: è come andare a cena dal Commendatore. Tuttavia, come insegna l’antropologia, il canale comunicativo che il doppio apre tra aldiqua e aldilà è percorribile in entrambi i sensi e non è detto che sia sempre il vivo ad andare verso il morto. Su questa seconda possibilità si basa per l’appunto un film americano del 1958, Curse of the Faceless Man.3 Nella scena iniziale vediamo un operaio che sta scavando nell’area dell’antica Pompei. A un certo momento dalla terra spunta una mano che sembra fatta di gesso e che…si muove. Terrorizzato, l’operaio fugge. Interviene qualcun altro – un archeologo? – e davanti ai nostri occhi emerge l’intero calco in gesso di un uomo dal viso indistinto, con entrambe le braccia sollevate e le mani che sembrano voler afferrare qualcosa (Fig. 7). Ora, benché il cinema americano proponesse in quegli anni storie improbabili a base di mostri della laguna e ultracorpi alieni, la storia del ritrovamento di un calco già bell’e fatto si direbbe difficile da mandar giù anche per il più ignorante contadino del Middle West. Ma tant’è. Una volta presa per buona questa assurdità, si può facilmente accettare tutto quel che segue: che il calco si animi al bisogno per eliminare chi lo infastidisce, salvo tornare a irrigidirsi come si conviene a una forma di gesso, e che cerchi di rapire la bella fidanzata del biologo che è stato chiamato dal direttore del museo (che, guarda caso, si chiama Dr. Fiorillo) a studiare l’insolito reperto. Essendo il ritrovamento avvenuto nell’area del tempio di Iside, Fiorillo avanza l’ardita ipotesi che qualche strana combinazione di balsami egizi e di calore vulcanico abbia consentito al corpo di non perdere completamente, nonostante il passar dei secoli, la propria vitalità (peccato che la teoria non spieghi come abbia fatto a diventare un calco di gesso). Intanto la ragazza oggetto delle attenzioni del calco senza volto viene ipnotizzata e fatta regredire in un lontano passato. In questo modo ella ricorda, come se li avesse vissuti personalmente, fatti accaduti a Pompei prima dell’eruzione del 79

d.C. Veniamo così a sapere che un gladiatore di nome Quintillus Aurelius, innamorato follemente di lei e deciso ad averla ad ogni costo, aveva pianificato di rapirla e ci sarebbe riuscito se non fosse intervenuta la catastrofe. La scoperta che nel museo di Berlino si conserva il busto marmoreo di una certa Lucilla Helena, straordinariamente somigliante alla ragazza, finisce di chiarire i contorni della vicenda: ciò che ha fatto rivivere il calco è l’amore mai morto di Quintillus per Lucilla. E ora che ce l’ha di nuovo sottomano non intende davvero rinunciarvi. Ma anche l’avatar di Lucilla si dà da fare: va al museo e taglia le cinghie con cui per precauzione era stato legato Quintillus. Il gladiatore è ormai libero, afferra la ragazza, che sviene opportunamente, e si allontana tenendola in braccio (Fig. 8). Fiorillo nel frattempo ha elaborato un’altra ingegnosa teoria: sono stati i raggi X a cui è stato esposto per studio a rianimare il calco senza volto. Chiaro, no? Credendo di rivivere il momento dell’eruzione (guarda caso, siamo al 24 agosto), Quintillus si dirige verso il mare, pensando di trovarvi scampo insieme al suo amore. Sulla spiaggia i poliziotti tentano invano di fermarlo, ma ecco il colpo di scena: a contatto con l’acqua il gesso si scioglie, il pur tenace amante scompare e la ragazza è salva. La voce fuori campo commenta: “The story is finished and perhaps Quintillus Aurelius has found the true Lucilla Helena where mortal men don’t walk and time is eternal”. In sostanza, la sceneggiatura attinge a piene mani a La mummia, il glorioso horror movie del 1932, mentre quel poco che ci mette di suo risulta abbastanza goffo e pasticciato. È interessante però l’idea di fondo: quella di un calco che conserva non soltanto la forma di un uomo morto da secoli ma anche i suoi sentimenti, facendo sì che egli possa desiderare qualcuno che vive nel presente. Le mort saisit le vif. Ben altro uso dei calchi pompeiani aveva fatto solo pochi anni prima un maestro del cinema quale Roberto Rossellini. Viaggio in Italia, del 1954,4 si ispira alla novella Duo di Colette e racconta la storia di una coppia della middle class inglese che arriva a Napoli per sistemare una questione di eredità e ne approfitta per visitare alcune celebri località turistiche. Il matrimonio di Alex e Katherine Joyce (la scelta del nome è un rimando allusivo al racconto I morti di James Joyce) è però in crisi, sono due persone che non hanno più nulla da dirsi e anche i luoghi che visitano – ognuno per proprio conto – finiscono per avere su di loro un effetto straniante. Quando

1 Bettini 1992 pp. 43-46; Pucci 2003. 2 Ps.-Lucian., Amores, 15 sgg. 3 Regia di E. L. Cahn, sceneggiatura di J. Bixby. Interpreti principali: Richard Anderson, Elaine Edwards, Adele Mara, Felix Locher, Luis Van Rooten. Durata: 67’. La pellicola non è mai uscita in Italia.

4 Regia di Roberto Rossellini, sceneggiatura di Roberto Rossellini e Vitaliano Brancati. Interpreti principali: Ingrid Bergman, George Sanders, Maria Mauban, Anna Proclemer. Durata: 85’. Le scene ambientate a Pompei furono girate nel 1953. Cfr. Bergala 1990, Bondanella 1993, pp. 98-111; Mulvey 2000a; Mulvey 2000b; Hirsh 2007; Fox 2011.


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Fig. 9. Da Viaggio in Italia, di Roberto Rossellini (1954).

ormai è chiaro che si stanno irrimediabilmente allontanando l’uno dall’altra, e già parlano apertamente di divorzio, durante una visita a Pompei sono testimoni di un evento eccezionale: il disseppellimento di due calchi umani. Non appena appare evidente che si tratta di una coppia, un uomo e una donna morti l’uno accanto all’altra (Fig. 9), Katherine è profondamente turbata e chiede ad Alex di portarla via, accusando un malore. La visione di due esseri – in sostanza, i loro ‘doppi’ – fissati per sempre dalla morte in un compassionevole mutuo abbraccio – ha toccato in realtà in entrambi delle corde profonde, e avviato un processo di autocoscienza. Usciti dagli scavi vengono coinvolti in una processione che si snoda lungo le strade della Pompei moderna. Una folla vociante travolge Katherine che, trovandosi improvvisamente separata da Alex, lo invoca disperatamente. Nell’abbraccio finale – un ritrovato contatto fisico che replica in qualche modo quello dei calchi visti in precedenza – i due si confessano di amarsi ancora. Il gesso ha riempito i vuoti di quegli antichi corpi, e quei corpi hanno a loro volta colmato il vuoto del rapporto tra Alex e Katherine. I calchi, insomma, hanno anche qui una ‘presa’ sul presente ma, lungi dal costituire una minaccia per i vivi, hanno una performatività che potremmo semmai definire terapeutica. Ma la presenza dei calchi pompeiani nel cinema non è limitata a queste due pellicole. In anni a noi più vicini dobbiamo innanzitutto ricordare un interessante docudrama realizzato dalla BBC nel 2003: Pompeii: The Last Day.1 Il film, che ha meritato numerosi premi, racconta la storia dell’eruzione dal punto di vista di alcuni reali abitanti di Pompei. Tra i personaggi figurano anche i due Plinii, zio e nipote. La dinamica dell’eruzione e i suoi catastrofici effetti sono ricostruiti con raffinate tecniche di cgi (Computer Generated Images) e tenendo conto delle più recenti acquisizioni scientifiche e archeologiche. La morte della famiglia di Giulio Polibio, per esempio, è rappresentata sulla base della scoperta di 13 scheletri – fra i quali quelli di una donna incinta e del suo feto – fatta nel 1975 nella casa di questi.2 La morte di Fortunata, la moglie attribuita al fullone Stefano, è basata sulla scoperta del corpo di una dama ingioiellata nella Caserma dei Gladiatori,3 mentre in maniera particolarmente suggestiva è resa la

morte dello stesso Stefano, che vediamo sedersi al suolo (Fig. 10) e assumere l’identica posizione del celebre calco dell’uomo rannicchiato che si protegge il volto con un fazzoletto trovato nei pressi della fullonica (Fig. 11) e che vediamo un istante dopo sovrapporsi perfettamente all’immagine dell’attore. In Pompei, miniserie televisiva in due puntate prodotta nel 2007 da Lux Vide, Rai Fiction e Rai Trade,4 ci sono assai meno ambizioni di fedeltà storica e la vicenda – il solito amore contrastato dalle trame del cattivo di turno – non brilla certo per originalità. Anche l’idea di far trovare scampo ai protagonisti nelle condotte d’acqua scavate nella roccia sembra presa di peso dal best-seller di Robert Harris uscito qualche anno prima.5 C’è tuttavia un momento di forte intensità drammatica,

1 Regia di Peter Nicholson, sceneggiatura di Edward Canfor-Dumas. Interpreti principali: Tim Pigott-Smith, Jonathan Firth, Jim Carter. Durata: 90’. 2 Nel film muore con gli altri anche la moglie di Giulio Polibio, ma l’analisi del dna ha dimostrato che la donna anziana trovata tra le vittime non era la madre della giovane incinta. 3 Vedi supra nota 4, p. 71. Nonostante che la donna nel film non sia amata dal marito, che la tradisce, la sua presenza in quel luogo è data come pura-

mente accidentale, e il bacio che le vediamo scambiarsi con un gladiatore prima di morire non ha nulla di peccaminoso. 4 Regia di Giulio Base, sceneggiatura di Francesco Arlanch e Salvatore Basile. Interpreti principali: Lorenzo Crespi, Andrea Osvart, Maria Grazia Cucinotta, Giuliano Gemma. Durata: 200’. 5 Harris 2003. Roman Polanski avrebbe dovuto realizzare un film dal libro, ma in seguito il progetto è stato abbandonato.

Figg. 10 e 11. Da Pompeii: The Last Day, di Peter Nicholson (2003).


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Fig. 12. Da Pompei, di Giulio Base (2007).

legato proprio alla rappresentazione delle vittime della catastrofe. Si tratta di una delle ultime scene, quando ai superstiti che si aggirano smarriti sulla spiaggia si presenta il lugubre spettacolo di decine di cadaveri illividiti ammantati dalle ceneri (Fig. 12). L’effetto di quelle forme spettrali, i cui tratti individuali sono già parzialmente obliterati dal bianco strato che li ricopre, tanto da prefigurare i calchi in gesso a cui daranno origine, è notevole e crea un’autentica commozione. I calchi funzionano invece da ‘motore d’avviamento’ in un’altra miniserie: Pompei ieri oggi e domani,1 del 2007. Ai giorni nostri, un convegno di vulcanologi fa incontrare a Napoli un aitante scienziato straniero e una sua bella collega italiana. Lei lo porta a Pompei e lo accompagna per gli scavi sfoggiando una notevole erudizione (l’archeologia, gli confessa, è la sua principale passione, dopo i vulcani). Nel Foro, davanti alla Curia, vediamo esposti al pubblico (senza alcuna protezione: semplicemente appoggiati al suolo!) alcuni calchi di vittime, fra cui quelli di un uomo e una donna abbracciati nella morte. La ragazza pretende di conoscere la storia di quei due amanti, e comincia a raccontarla al suo accompagnatore. Una dissolvenza e oplà: siamo nel 79 d.C. e cominciamo a seguire una prevedibilissima storia a base di gladiatori e belle schiave, matrone gelose, magistrati malvagi, cristiani perseguitati e tutto l’armamentario del genere peplum. Fra le varie storie che si intrecciano c’è quella di una nobile giudea convertita al cristianesimo, che è concupita dal Console mandato da Roma a Pompei, ma che gli preferisce un giovane cristiano. Nella disperata fuga i due innamorati saranno raggiunti dalla nube piroclastica proprio davanti alla Curia, e lì moriranno, uniti nell’estremo, castigato amplesso. Ceneri e lapilli cominciano a coprire i loro corpi (Fig. 13), quando … oplà: torniamo ai giorni nostri e alla giovane vulcanologa che descrive i loro calchi al collega (Fig. 14). Inutile dire che, complici quei toccanti reperti, i due in men che non si dica sono già innamorati. Alla fine del film, però, lui la porta via con sé nel suo paese, perché da bravo e prudente vulcanologo, sa bene che il Vesuvio non è spento e che la tragedia di ieri potrebbe ripetersi domani. Ma se tragedie come quella di Pompei, effetto di forze naturali incontenibili, difficilmente possono essere evitate, altri più recenti olocausti, dovuti solo alla follia dell’uomo, mai più dovrebbero ripetersi, e in questo senso un calco pompeiano diventa un monito terribile nei pietosi versi che Primo Levi dedica a La bambina di Pompei:2 Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra Ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna Che ti sei stretta convulsamente a tua madre

1 Regia di Fabio Poeti, sceneggiatura di Fabio Campus. Interpreti principali: Victor Alfieri, Tomas Arana, Luca Ward, Linda Batista, Vanessa Gravina, Tony Musante, Bettina Zimmermann. Durata: 180’.

Figg. 13 e 14. Da Pompei ieri oggi e domani, di Fabio Poeti (2007).

Quasi volessi ripenetrare in lei Quando al meriggio il cielo si è fatto nero. Invano, perché l’aria volta in veleno È filtrata a cercarti per le finestre serrate Della tua casa tranquilla dalle robuste pareti Lieta già del tuo canto e del tuo timido riso. Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata A incarcerare per sempre codeste membra gentili. Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso, Agonia senza fine, terribile testimonianza Di quanto importi agli dèi l’orgoglioso nostro seme. Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella, Della fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura Che pure scrisse la sua giovinezza senza domani: La sua cenere muta è stata dispersa dal vento, La sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito. Nulla rimane della scolara di Hiroshima, Ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli, Vittima sacrificata sull’altare della paura. Potenti della terra padroni di nuovi veleni, Tristi custodi segreti del tuono definitivo, Ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo. Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.

La bambina (o piuttosto la ragazza) è una delle nove vittime trovate dallo Spinazzola nel giardino della Casa del Criptoportico nel 1914. Giaceva accanto ad un altro corpo, sul quale si appoggiava (Fig. 15):3 «L’uno dei caduti giace sul lato sinistro, e il capo è ad oriente, e ad occidente sono le gambe, un po’ contratte. La mano sinistra è ripiegata presso la testa, nella cenere, e la dritta è sotto il mento come ad allontanare qualche cosa che tendesse ad ostruire la bocca e ad impedirne il respiro. L’altro si è piegato sul fianco dritto come a porre il

2 La poesia, datata 20 novembre 1978, apparve per la prima volta nella raccolta Ad ora incerta, Milano 1984. È stata poi ripubblicata in Levi 1997, p. 549. 3 «Notizie degli Scavi», 1914, p. 262 e fig. 5.


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Fig. 15. Calchi di due vittime trovate nel giardino della Casa del Criptoportico.

capo sul seno del primo. E questo posa di fatto sull’addome del primo caduto, il braccio dritto affondato nella cenere, il sinistro gentilmente piegato sotto il seno, le gambe dai pieni e teneri contorni femminili, una più, una meno contratta come di chi dolcemente si adagi per dormire un sonno non eterno in un grembo che lo protegga». L’impressione che la figlia volesse quasi rientrare nel grembo materno è peraltro la stessa provata da Margherita Sarfatti, che vide i due calchi nel 1924.1 Per Levi è dunque un atroce destino quell’“agonia senza fine” che i calchi pompeiani ci testimoniano, ma è pur sempre men duro di quello toccato ai milioni di uomini e donne passati per il camino nei campi di sterminio nazisti, come Anna Frank, o ‘evaporati’ nell’inconcepibile calore di un’esplosione nucleare, senza lasciare traccia. Primo Levi, è noto, era per formazione un chimico. E chimico è un altro poeta contemporaneo che è stato ispirato tanto da Auschwitz che dai calchi di Pompei, il goriziano Francesco Tomada:2 Quando fra duemila anni scaveranno questa terra troveranno i nostri corpi ormai diventati sasso nella stessa posizione in cui ci addormentiamo oggi tu girata di fianco io che ti stringo appoggiato alla tua schiena e non sapremo mai se il nostro bene è così grande da superare il tempo o se è stata l’abitudine dei gesti ripetuti a indurire l’amore fino a trasformarlo in pietra

L’aspetto enigmatico dei calchi è stato colto assai bene da Valerio Magrelli:3 Che cosa sono i gessi di Pompei, calchi, prototipi o statue? Forse piante, le piante ruderali, che sorgono dalla rovina di una forma e scelgono una curva, un invaso di pietra come luogo della loro fioritura.

Inatteso, ma proprio per questo assai suggestivo, risulta l’accostamento del calco a una pianta ruderale, estrema metamorfosi di una forma disfatta ma sempre vitale. 1 «La figlia giovanetta par veramente che voglia rientrare nel grembo materno e la madre riprenderla nell’alvo, per proteggerla, per salvarla dentro di sé» (Sarfatti 1924, p. 688). 2 Pompei, in Tomada 2008. 3 Magrelli 1987. 4 Sulla cui opera vedi Salas 2004.

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Fig. 16. Arturo Martini, La Sete. Museo del Novecento, Milano.

L’appeal erotico dei calchi delle vittime torna invece a farsi sentire con forza in una poesia del poeta afro-americano Yusef Komunyakaa,4 Body of a Woman (Cadavere di donna), pubblicata in una raccolta del 2000:5 Here you are, still Reposed behind glass Like a work of art. Yes, Body of precious aloneness, There are times I desire you In a lover’s arms. Sometimes I want you making fierce love, With moans like thought-bubbles Of pleasure forever in Pompeii’s Lava & ash. Yet, other nights, As Miles Davis plays ballads In the background, like tonight, There’s only irony: I see You’re gazing out toward The House of the Faun, Waiting for someone.

È singolare che quel corpo unico e prezioso sia chiamato nel titolo anche – con parola italiana – cadavere. Si direbbe quasi che il poeta viri per un momento le sue esplicite pulsioni carnali addirittura verso la necrofilia, salvo frapporre successivamente fra sé e l’oggetto del desiderio il diaframma dell’ironia: la fantasticata amante fissa lo sguardo altrove, non gli apparterrà. In ogni caso ancora una volta il calco di un corpo femminile è assimilato a un’opera d’arte esposta in una teca, insomma ad una scultura. Negli anni ’30 del Novecento uno scultore italiano di grande talento, Arturo Martini, fu impressionato dai calchi visti a Pompei e ne trasse ispirazione per alcune sue opere.6 Subito dopo la visita del sito archeologico – che fece nel 1931 – lo scultore realizzò i primi bozzetti de La Sete, che poi prese forma definitiva nel 1934. In questa scultura, oggi conservata nel Museo del Novecento di Milano (Fig. 16), la donna con una creatura aggrappata al fianco che si stende prona a terra ricorda – anche per il colore della pietra, la superficie ruvida e l’assenza di dettagli – il calco della madre e della figlia della Casa del Criptoportico. Un’opera dallo stesso titolo (ma nota anche come L’uomo che beve o Il Bevitore), del 1936, conservata alla gnam di Roma (Fig. 17), ricorda ugualmente un calco maschile di Pompei; mentre fonte evidente della Girl (Fig. 18), eseguita in terra refrattaria proprio nel 1931, è il calco della giovane donna caduta bocconi (la cosiddetta kallipygos).7 5 Komunyakaa 2000. Il testo è analizzato da Salas 2005. Komunyakaa ha dedicato una poesia anche al calco del cane alla catena: Body of a Dog (Cadavere di un cane). 6 Cfr. Campiglio 2008; Gian Ferrari, Pontiggia, Velani 2006. 7 L’ispirazione pompeiana è riscontrabile anche in altre opere, come La Morte di Saffo I (1935) e Donna che nuota sott’acqua (1941).


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Fig. 17. Arturo Martini, La Sete o Il Bevitore. Galleria Nazionale di Arte moderna, Roma.

Fig. 20. Antony Gormley, Critical Mass.

Fig. 18. Arturo Martini, La Girl. Collezione privata.

Fig. 21. Mimmo Paladino, I dormienti, installazione nel Museo Nazionale di Villa Pisani, Stra.

Fig. 19. George Segal, The Holocaust. Legion of Honor Park, San Francisco.

Nel 1951 fu lo sculture marsigliese César (César Baldaccini) a restare impressionato dai calchi visti a Pompei (nel 1954 realizzò un nudo con questo titolo), ma l’artista che nel secolo scorso ha più di ogni altro fatto riferimento nella sua opera ai calchi pompeiani è certamente George Segal.1 A partire dagli anni ’60 egli realizzò delle sculture applicando sui modelli delle bende su cui poi versava del gesso liquido, come nelle ingessature ortopediche. Le figure che ne risultano sono ‘immobilizzate’ in una ordinaria gestualità (sedute su una panchina, o su un autobus, o in piedi presso un semaforo…), colte in un attimo preciso. Anche se quest’istante non è l’ultimo della loro esistenza, come nel caso dei calchi di Pompei, le sculture di Segal ci appaiono comunque come immagini di persone devitalizzate, fisse nella banalità di un’azione qualunque.2 L’accostamento alle vittime di Pompei si impone poi con tutta evidenza nell’opera che è forse il capolavoro di questo artista, L’olocausto.3 Eretto nel 1984 nel Legion of Honor Park di San Francisco, il momumento consta di undici figure di gesso, dieci delle quali giacciono inerti al suolo (Fig.

19), coprendosi parzialmente una con l’altra in un dolente abbraccio di morte, mentre l’undicesima è in piedi dietro una barriera di filo spinato. Se in Primo Levi Pompei veniva letta guardando all’Olocausto, in George Segal – anch’egli ebreo – l’Olocausto viene letto guardando a Pompei. Da studi di archeologia viene lo scultore inglese Antony Gormley,4 le cui opere – quasi sempre ottenute dal calco del suo stesso corpo – richiamano anch’esse i calchi di Pompei: particolarmente significativa da questo punto di vista è Critical Mass (Fig. 20), un’installazione del 1995 fatta di oltre sessanta corpi in varie posizioni (supini, raggomitolati, bocconi, ecc.), che l’autore stesso ha definito ‘una sepoltura a cielo aperto’ e che riecheggia in maniera impressionante il celebre Orto dei Fuggiaschi scavato nel 1961 da Maiuri. Si può accostare a quest’opera quella di Mimmo Paladino, protagonista della Transavanguardia italiana, intitolata I dormienti. Si tratta di un’installazione di 25 sculture in bronzo, donata nel 2000 alla città di Poggibonsi e colà esposta nel portico della Fonte delle Fate.5 Una versione in vetroresina è stata successivamente installata in varie altre località (Fig. 21), compreso il Parco archeologico Scolacium, dove le figure erano suggestivamente adagiate sui gradini del teatro. Le figure recumbenti, talune in posizione fetale, ricordano da

1 George Segal (1924-2000) è stato uno dei maggiori scultori americani del xx secolo. Cfr. Tuchman 1983 (con vasta bibliografia). 2 Cfr. Renfrew 2003, pp. 123-129. 3 Sul quale vedi Bersani, Dutoit 1999.

4 Sul sito di questo artista (http://www.antonygormley.com), assai completo, è consultabile anche la bibliografia critica che lo riguarda. 5 Una versione in vetroresina è stata montata nel 2008 nella Villa Pisani a Stra e nel 2009 a Positano.


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Fig. 22. Vanessa Beecroft, VB62, performance nella chiesa di Santa Maria dello Spasimo, Palermo.

presso i calchi pompeiani (come in un’intervista ha ammesso lo stesso artista, anche se a suo dire sono state concepite come omaggio a Henry Moore).1 La suggestione dei calchi pompeiani traspariva anche nella performance intitolata VB62 di Vanessa Beecroft, l’artista anglo-italiana di fama ormai internazionale (Fig. 22).2 Realizzata il 12 luglio del 2008 nella chiesa di Santa Maria dello Spasimo a Palermo (e accompagnata da una mostra nella Galleria d’Arte Moderna della stessa città) l’evento ha coinvolto venti modelle, nude e cosparse di gesso, e tredici calchi dello stesso materiale ricavati dai corpi di alcune delle stesse modelle. Attraverso questa ibridazione fantasmatica di forme – corpi irrigiditi nella morte e membra in cui fluiva la vita – l’artista ha coinvolto il pubblico in una narrazione che si muoveva tra passato e presente. Va infine ricordata la scelta originale fatta dallo scultore statunitense Allan McCollum, che fra tutti i calchi di Pompei ha fissato la sua attenzione su quello – ben noto – del cane alla catena. La sua installazione The Dog from Pompei (Fig. 23),3 del 1991, consta di 16 repliche dello stesso calco, ciascuna leggermente ruotata rispetto a quella adiacente, in modo tale da creare un senso di movimento che in qualche modo restituisce, come in una sequenza cinematografica, la vitalità dei commoventi contorcimenti dell’animale.4 Ma non sono solo gli scultori a trarre ispirazione dai calchi delle vittime pompeiane. Tra i pittori contemporanei merita una speciale citazione lo spagnolo Pedro Cano, da anni residente in Italia. Nel 2011 questo artista ha esposto un ciclo di dipinti dal titolo Pompei. Work in progress, al quale sta lavorando da tempo. Ciascuna tela è divisa in due registri: quello superiore, più grande, rappresenta un edificio dell’antica Pompei come appare oggi (Fig. 24); quello inferiore, più stretto e lungo, mostra una figura umana riversa, raggelata nella posa della morte e ritratta già come calco (Fig. 25): quasi a ricordarci che sotto il monumento che fruiamo c’è il dolore dell’uomo fatto anch’esso monumento, monito, memento mori. Insomma, se, come questa panoramica – che non pretende certo di essere completa – dimostra, i morti di Pompei da due secoli e mezzo abitano il nostro immaginario e ispirano ope-

re d’arte d’ogni tipo, converrà pure che, proprio in quanto archeologi, ci interroghiamo sulle ragioni di una fascinazione così profonda e durevole. Una possibile chiave interpretativa è fornita a nostro avviso dal concetto di Unheimlich. Questa parola tedesca fu resa, come si sa, universalmente nota da un saggio di Freud del 1919, dall’omonimo titolo, che in italiano fu tradotto in Il perturbante.5 Tuttavia, più che alla interpretazione freudiana, sarà opportuno rivolgerci a colui che per primo introdusse la categoria di Unheimlich in psicologia: Ernst Jentsch.6 Per questo autore la Unheimlichkeit è in primo luogo la sensazione che si prova quando ci risulta incerto stabilire se un oggetto animato è veramente vivo oppure, al contrario, se un oggetto inanimato possa essere in qualche modo dotato di vita. Ora, quelli che abbiamo voluto chiamare – indebitandoci con André Breton, prima ancora che con Francesco Rosi – i cadaveri eccellenti di Pompei per molti aspetti rientrano in questo secondo caso: davanti all’impronta reificata di un corpo che è stato vivo siamo spiazzati, percepiamo di essere di fronte a qualcosa che si colloca in un punto difficilmente precisabile della distanza che separa la vita dalla morte. Il disorientamento rende arduo definire in che misura il sêma/ sôma che abbiamo davanti è una statua o una persona,7 un reperto archeologico o un doppio; e questo, nel mentre ci turba, ci intriga e ci seduce.8 Tanto Freud che Jentsch risultano in effetti debitori di un grande pensatore (tra i padri, fra l’altro, dell’estetica moderna): Schiller. Nella Filosofia della mitologia questi aveva infatti scritto: «Unheimlich si definisce tutto ciò che doveva [sollte] restare nel segreto, nell’occulto, nella latenza ed invece è uscito allo scoperto».9 Le vittime di Pompei avrebbero dovuto anch’esse obliterarsi completamente nella catastrofe in cui

1 Molto simile a una dormiente di Paladino è la Donna distesa n. 3 di Domenico Cialone (bronzo, 1980). Cfr. http://cialone.net/albums/complete/ Donna_distesa_n_3__Bronzo_1980__20x30x10_cm.jpg. 2 Cfr. Beccaria 2003. 3 McCollum usa intenzionalmente la grafia italiana per enfatizzare il fatto che l’opera è realizzata a partire da un calco ricavato da quello originale fatto da Fiorelli nel 1874 e conservato a Pompei. 4 L’artista ha asserito di aver visto dei visitatori piangere davanti all’opera. 5 Il termine originale – che propriamente indica il contrario di ciò che è domestico, e quindi familiare, consueto – è di difficile traduzione, anche in altre lingue. In inglese è reso con uncanny, aggettivo che enfatizza l’origine misteriosa, inspiegabile di una certa sensazione, mentre sicuramente rende meglio il senso complessivo l’espressione francese inquiétante étrangeté.

6 Jentsch 1906. Una traduzione italiana è in Cesarani 1983, pp. 399-410. 7 Più volte il Maiuri ha evocato nelle sua accattivante prosa tale ambiguità, come quando a proposito di una vittima di Porta Nocera scrive «e se non giacesse su quella terra grigia impastata di grigio […] si direbbe un nudo di donna in posa nello studio d’uno scultore […]. Un operaio con un grosso pennello toglie i grumi di terra che si disseccano al sole […] come polvere sul marmo d’una statua» (Maiuri 1964, pp. 120-121). Sullo stesso tema gioca sapientemente Cesare Brandi nell’incipit di Arcadio o della scultura (Brandi 1956, pp. 17-18). 8 Sulla complessità dello statuto fenomenologico, antropologico ed estetico del calco si rimanda a Didi-Huberman 2008. 9 Schelling 1990, p. 390. Ringrazio l’amico Tonino Griffero, col quale ho discusso questo passo.

Fig. 23. Allan McCollum, The Dog from Pompei.


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Figg. 24 e 25. Alfonso Cano, Work in progress.

perirono, restare per noi un’anonima moltitudine; invece ci si ripresentano nella loro sconvolgente individualità, come se, dopo essere state sepolte vive (una paura che tutti ci portiamo entro), tornassero ad apparirci dotate di una vita ancora imprigionata nel gesso. Ci assale il dubbio che, per dirla con Ovidio, l’immagine conservata da quel gesso plus est, quam quod videatur,1 e allora siamo costretti, anche contro la nostra volontà cosciente, a esercitare un impudico voyerismo su qualcosa che in una situazione heimlich mai potremmo vedere. Cosa c’è di più perturbante di un morto che si nega in qualche modo al suo essere morto, che ci appella e ci interpella? In un primo momento l’umanità evocata dalla forma di gesso cerca una corrispondenza nella nostra: riconosciamo quell’uomo o quella donna come un nostro simile – e ci impietosiamo per la sua atroce fine (la morte, si sa, esercita sempre un fascino, che talora sconfina nel morboso)2 – ma poi avvertiamo in essa un’irriducibile alterità, si insinua in noi il disagio dell’unheimlich e l’empatia può anche venire repentinamente meno.3 Non è così – e lo abbiamo visto – per gli artisti, cui spetta di fare da mediatori tra oggettività e fantasia, tra realtà e illusione; ed anche di esorcizzare come sciamani le nostre paure, di aiutarci a portare il peso, qualche volta non lieve, del passato che l’archeologia fa riaffiorare. Abbreviazioni bibliografiche Allroggen-Bedel, Kammerer-Grothaus 1983 = A. Allroggen-Bedel, H. Kammerer-Grothaus, Il Museo Ercolanese di Portici, in La villa dei Papiri, «CronErcol», 13, Suppl. 2, Napoli, 1983. Armstrong 2001 = I. Armstrong, Natural and National Monuments - Felicia Hemans’s ‘The Image in the Lava’: A Note, in Felicia Hemans: Reimagining Poetry in the Nineteenth Century, eds. N. Sweet, J. Melnyk, London, 2001, pp. 212-230. Barrière, Maiuri 1953 = F. Latapie, Description des fouilles de Pompéii (a. 1776) con introduzione di P. Barrière e note di A. Maiuri, «RendNap», 28, 1954, pp. 223-248.

1 Her., xiii, v. 155 (il poeta si riferiva alla statua di Protesilao con cui la vedova Laodamia aveva rapporti aberranti). 2 I sociologi hanno coniato i termini dark tourism e thanatourism per definire la tendenza di un numero sempre più grande di persone a visitare i luoghi dove sono avvenuti disastri collettivi o fatti di sangue: cfr. Seaton 1996; Foley, Lennon 1997; Yuill 2003. Vedi anche Melotti 2007. Ma a volte so-

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no gli scenari dei disastri ad andare verso il pubblico avido di sensazioni forti: vedi la mostra Life and Death in the Shadow of Vesuvius, che includeva otto dei più famosi calchi di vittime, che tanto successo ha avuto nel 2011 a New York e in altre grandi città americane. 3 È il fenomeno noto come ‘Uncanny Valley’, su cui vedi Conte 2011-2012.


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