ANNO 2018 NUMERO UNICO COPIA OMAGGIO Forte dei marmi
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Anche quest'anno siamo pronti per il Premio Nardini!!! Il 15 luglio saremo a Isola Santa nel comune di Careggine per passare insieme una “cara domenica di luglio” all'insegna della condivisione, dello sport e del rispetto per l'ambiente, in ricordo dell'amico “Beppe”. Ogni partecipante o gruppo sportivo, partendo dal Mare di Forte dei Marmi, percorrendo diverse strade e sentieri, raggiungerà la Montagna di Isola Santa per assistere alla cerimonia di consegna del Premio a Manolo (Maurizio Zanolla), noto freeclimber ed esempio per la tutela ed il rispetto per l'ambiente. Sarà issata la Bandiera Blu, donata dal Comune di Forte dei Marmi al Comune di Careggine, come simbolo di unione tra il mare e la montagna e alla fine della cerimonia ci sarà un momento conviviale, con il pranzo da consumare sulle rive del grazioso lago artificiale. Programma : Le bici da strada partiranno alle ore 8.00 da Vaiana e percorreranno il Cipollaio, la strada per Careggine e scenderanno a Poggio per risalire poi Castelnuovo in direzione Isola Santa. Alle ore 7.00 partiranno gli altri gruppi sportivi da Forte dei Marmi località Vaiana e alle 7.20 da Palazzo Mediceo a Seravezza. Il percorso dei camminatori , nordic Walking e trekking partirà da Passo Croce e attraverserà Fociomboli, Puntato e Col di Favilla, con arrivo a Isola Santa. Il percorso Mountain Bike invece sarà un anello con partenza e arrivo a Isola Santa, pedalando per i sentieri intorno al borgo, immersi nella natura. Nel pomeriggio, alle ore 15.30, il bus riporterà i partecipanti a Forte dei Marmi. Si ringrazia il Comune di Forte dei Marmi, il Comune di Careggine che ci ospita nel suo territorio, il Parco delle Alpi Apuane, gli sponsor che ci sostengono e soprattutto le associazioni che partecipano ogni anno, organizzando le attività sui diversi percorsi. Vi apettiamo il 15 luglio!
Ciclistica Forte dei Marmi
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antichi borghi e meraviglie naturali indimenticabili. Sul territorio di Forte dei Marmi e dintorni sono presenti diverse strutture sportive: campi di da calcio e da calcetto. A poco distanza dal centro è presente addirittura un aeroclub, dove i più l’ebrezza del paracadutismo. Infine, per gli amanti della terra battuta, non resta che scegliere tra i numerosi tennis club di F qualche amico in una partita o prendere lezioni da maestri preparati e professionali in tutte le
SOMMARIO NUMERO UNICO ANNO 2018
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Forte dei Marmi sport all’aria aperta
I BIOEROI
Le storie di milvio mori
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Forte dei Marmi, sport all’aria aperta L’Hockey a Forte dei Marmi La protezione civile e l’associazione subaquei Versilia Forte dei Marmi Tennis Club Italia Nordic Walking Viareggio e Versilia
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Dal mare ai monti in Versilia il passo è breve,brevissimo! C.A.I Sez. Forte dei Marmi
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La biciclettata Tour delle ville di Roma Imperiale - Forte dei Marmi
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Intervista a Manolo
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Alfrè, Beppe e quegli anni formidabili del Parco... Parco Regionale delle Alpi Apuane
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Isola Santa
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Careggine
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Star Chart - Una carta stellare che ci aiuta a scoprire la bellezza della Vita Associazione Ancora in Viaggio onlus
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Isole felici nelle Apuane Associazione Nonsoloserchio Nordic Walking
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Camminare è bello...insieme è meglio! Probabilmente non pioverà Associazione Amici della Via Francigena di Pietrasanta
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I bioeroi Gli ortaggi poveri ma eroici... dell’ALTrA Versilia, come valorizzarli? Il Cavolo Frascone Il Pennato secondo Cà Palagnini Razze animali, varietà vegetali e piatti tradizionali Storie di donne di montagna, tra arte, cultura e tradizione
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Seravezza tra cultura e religione Associazione Pro Loco Seravezza
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Palazzo Mediceo Seravezza
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Michelangelo è tornato! Donazione delle cave di Seravezza sì ma coercitiva Scalpellini poco abili sull’ Altissimo Vecchi e nuovi cavatori
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Giustagnana Paese di artisti o stregoni?
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Pruno e Volegno - Regole d’uso dei terreni comuni e assicurazione delle vaccine
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Da Azzano: Fole, filastrocche e antiche preghiere
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Le storie di Milvio Mori “Iraq 1967, la bici londinese” e “La ciclopedalata dei disastri”
7° PREMIO GIUSEPPE NARDINI 2018 Direttore responsabile: Francesca Bonin, Dino Venè Progetto grafico e impaginazione: Orlando Ariani, Mundialseri srl - Ponterosso (Querceta) La presente pubblicazione, in distribuzione gratuita, è stampata in 3000 copie in occasione del 7° Premio Giuseppe Nardini , 15 luglio 2018. Foto di copertina: Maurizio Stella 4
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Forte dei Marmi, rinomata cittadina della Versilia, è il luogo perfetto dove trascorrere le vacanze al mare, per rilassarsi in spiaggia o fare un giro in centro ad ammirare le vetrine dei negozi. Ma non è solo questo! La peculiarità del territorio, i diversi ambienti presenti e la vicinanza con la collina e la montagna la rendono ideale per praticare qualsiasi tipo di sport, in particolar modo quelli all’aria aperta: un modo sano di trascorrere una vacanza e, al contempo, di tenersi in forma.
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In un territorio che si estende dal mare ai monti, legati indissolubilmente da un destino comune, come testimonia da anni il Trofeo “Giuseppe Nardini”, innumerevoli sono gli sport praticabili. In primis la vela, con gli storici circoli Compagnia della Vela Forte dei Marmi e Yachting Club Versilia, grazie ai quali è possibile coniugare lo sport con la scoperta dell’ambiente marino; si annoverano quindi tra le attività in mare il nuoto e le immersioni, senza trascurare, quando le onde lo permettono, il surf e il S.U.P. (stand up paddle). Allontanandosi dalla spiaggia e dal mare, come non apprezzare il running, magari variando tra un percorso litoraneo, una corsa in pineta o una sgambata in montagna; il territorio ben si presta anche al nordic-walking, disciplina per tutte le età. Sotto i pini dell’esclusiva zona di “Roma Imperiale” è presente un Parco Vita con percorsi attrezzati, dove chiunque può praticare un po’ di ginnastica o fare allungamento, allentando la fatica dopo una corsa o una camminata. La meravigliosa ciclopista del viale a mare è perfettamente adatta ad ospitare il pattinaggio e le sue derivazioni del roller e dello ski-roll. Forte dei Marmi è punto di partenza anche per entusiasmanti giri in bicicletta, sia essa da strada, mountain bike o magari e-bike. Partendo dal Pontile di Forte dei Marmi ci si può avventurare in percorsi per tutti i gusti e per tutti i tipi di preparazione. Da qui è possibile avventurarsi all’interno del Parco delle Alpi Apuane, arrivare fino al Parco delle 5 Terre o giungere in Lucchesia, godendosi magnifici paesaggi e scorci mozzafiato. Gli amanti del trekking hanno l’imbarazzo della scelta tra lungomare, pinete, laghi, colline e montagna, dove si rivelano antichi borghi e meraviglie naturali indimenticabili. Sul territorio di Forte dei Marmi e dintorni sono presenti diverse strutture sportive: campi di atletica, skate park, campi da calcio e da calcetto. A poco distanza dal centro è presente addirittura un aeroclub, dove i più temerari possono provare l’ebrezza del paracadutismo. Infine, per gli amanti della terra battuta, non resta che scegliere tra i numerosi tennis club di Forte dei Marmi, per sfidare qualche amico in una partita o prendere lezioni da maestri preparati e professionali in tutte le stagioni dell’anno.
di Alberto Mattugini
Foto di Gino Fontanini
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L'Hockey a Forte dei Marmi Bisogna viverlo per capirlo, respirare tutto ciò che lo circonda. di Andrea Meccheri A Forte dei Marmi non è solo uno sport ma anche un modo di vivere. Giocatori che diventano ultras e tifosi che diventano addetti ai lavori, niente riesce ad unire e a aggregare come questo sport a rotelle. Anche i villeggianti del nostro splendido paese riescono facilmente ad appassionarsi a questa disciplina con regole quasi calcistiche, anche se un po' più burocratizzate per permettere il bel gioco e sconfiggere l'ostruzionismo. Nelle trasferte nel Nord Italia non è difficile trovare in tribuna, amici che passano l'estate a Forte dei Marmi; così come capita spesso al PalaForte di vedere diversi tifosi provenienti da altre province che approfittano della loro casa al mare per venire a tifare i rossoblu. L’Hockey nasce a Forte dei Marmi più di 50 anni fa e anche se a cicli 8
è sempre stata una importante realtà a livello nazionale. Dopo i fasti degli anni Ottanta del '900 la società era caduta in un lento declino dovuto essenzialmente a cause economiche. Il Forte qualche anno fa dovette ripartire dalla serie B, la categoria più bassa del panorama hockeistico nazionale.
Solo grazie alla passione, ai sacrifici e al sapiente lavoro di Piero Tosi, di Walter Luisi e del compianto Saverio Maines, affiancati da “Paola” Franca Ricci, i rossoblu tornano nella massima serie e ricominciano a respirare aria di Europa. Il PalaForte torna a riempirsi anche se tra alti e bassi, ma ciò che più conta è che l’Hockey Forte è di nuovo vivo. A livello giovanile vengono vinti Scudetti e Coppe Italia. Ma come si innesca il meccanismo che porta i rossoblu a vincere 3 Scudetti, una Coppa Italia, 2 supercoppe italiane; accedere a 5 finali Scudetto consecutive, due finali di coppe europee? La svolta avviene nel campionato 20112012. La Società imbastisce una squadra di tutto rispetto, durante la stagione regolare i fortemarmini si alternano nelle prime posizioni per poi terminare al sesto posto.
Nei play-off i rossoblu eliminano il Giovinazzo che si era classificato terzo, nonostante una assurda squalifica che priverà la squadra dell’attaccante spagnolo Gimènez nella gara decisiva e in quelle seguenti.In semifinale scudetto, dopo aver vinto la prima partita e dopo aver condotto a lungo anche nel secondo incontro, il Forte viene eliminato dai più attrezzati avversari del CGC Viareggio.Con una panchina più lunga forse l’Hockey Forte avrebbe potuto accedere alla sua prima storica finale scudetto. Questo è sicuramente il fatto scatenante che da il via al progetto GSO Hockey Forte; alcuni amici si ritrovano al bar Roma in centro a Forte dei Marmi, seduti vicino al “Quarto Platano” che agli inizi del '900 diede vita ad un importante movimento artistico, nel giugno del 2012 invece, ha visto nascere una campagna di supporto senza precedenti in nessun altro sport italiano. Gli inizi sono semplici anche grazie alle tante adesioni volontarie; il gruppo costituente cerca di dare alla società un aiuto per l'acquisto di un giocatore che dovrebbe rinfoltire la rosa. Le raccolte fondi vanno bene e il gruppo di amici regala alla società e ai tifosi l'acquisto di Enrico Mariotti, il supporto nel mettere sotto contratto l'astro nascente dell'Hockey azzurro Alessandro Verona e l'argentino Guillermo Babick. Ma non basta, il gruppo vuole crescere ulteriormente e aggiunge al mero lavoro di raccolta fondi anche il supporto professionale alla società da parte di vari componenti. Si crea quindi un' Associazione chiamata Gruppo di Supporto Organizzato Hockey Forte per dare formalità alle varie forme di aiuto. Il GSO racchiude diverse professionalità e tutte portano un qualcosa al Gruppo e alla Società per crescere, ma è voce di tutti che la professionalità più grande, il coagulante e il più grande fautore di tutto ciò è Antonio Agostini da ormai 6 anni presidente dell'Associazione col 99% dei voti (prende tutti i voti tranne il suo). Il lavoro del GSO Hockey Forte si espande e anche sponsor più grandi intervengono a dare una mano alla causa rossoblu, qualche tifoso avversario conia il termine: “ Avete più sponsor che tifosi”. Ma non è un'offesa,
anzi, sono proprio i nostri sponsor ad essere i nostri primi tifosi e viceversa. Basta vedere il muro pieno di cartelloni del PalaForte per rendersi idea di quante e quali importanti realtà locali danno un grandissimo aiuto. Grazie alle tante adesioni di sponsor locali e alla voglia matta di mettere uno scudetto in bacheca, la società Hockey Forte e il il GSO Hockey Forte, portano a Forte dei Marmi il più grande giocatore al mondo, Pedro Gil e altri giocatori di livello mondiale come Enric Torner e Alberto Orlandi. Le sponsorizzazioni crescono ulteriormente e gli abbonamenti vengono venduti come pane; le Associazioni di volontariato cercano e trovano
disponibile l’Hockey Forte per iniziative benefiche; aumentano le collaborazioni con le Pubbliche Amministrazioni locali, segno anche questo che i tempi sono maturi per estendere l’Hockey Forte ai comuni della Versilia Storica e limitrofi. L’Hockey Club Forte dei Marmi e il GSO Hockey Forte sono una realtà nazionale che comincia a farsi vedere anche in Europa, la squadra accede a due finali europee di Coppa Cers (la Uefa per i calciofili) e di Eurolega (la Champions League hockeistica). Negli altri anni è eliminata nei quarti o nel gironi di qualificazione da polisportive come Benfica e Barcellona. I rossoblu versiliesi si prendendono il 9
lusso di essere una delle poche squadre italiane capace di vincere nel Palau di Barcellona; vengono vinti i titoli nazionali e la squadra è ormai stabilmente tra le favorite delle varie competizioni a cui partecipa. In questi periodi stiamo assistendo ad un ulteriore passaggio, necessario per far si che diventi definitivo l’allargamento dei confini dell’Hockey Forte fuori dai confini fortemarmini. Per creare una maggiore professionalità e un maggior coinvolgimento nel re
sto della Versilia storica e non, il VHF, Versilia Hockey Forte, ha preso il posto del GSO. Questa operazione vuole coinvolgere maggiormente il territorio limitrofo creando nuove sinergie tra le Pubbliche Amministrazioni, il VHF e le altre importanti realtà locali che abbondano in Versilia. Senza scordare, anzi continuando col ringraziamento da parte di tutti, gli sponsor storici che hanno permesso gli attuali successi.
A M E R I C A N
Crediti foto Gabriele Baldi Contatti: vhfortedeimarmi@gmail.com presidenthockeyforte@libero.it
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Viale giuseppe mazzini, 204 - 55042 Forte dei marmi (LU) 10
LA PROTEZIONE CIVILE E L’ASSOCIAZIONE SUBACQUEI VERSILIA FORTE DEI MARMI STORICA ASSOCIAZIONE FONDATA NEL 1973 www.subversilia.it
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effettuando un pattugliamento estivo sulla costa, assistenza alle manifestazioni in mare, per collaborare a garantire un mare più sicuro intervenendo
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Dall’anno 1973 siamo una Scuola Federale d’immersione Subacquea e di Protezione Civile; annualmente si organizzano corsi rilasciando brevetti d’immersione nazionali ed internazionali di tutti i livelli riconosciuti dalla Fipsas dal Coni e dalla CMAS ( Confederazione Mondiale delle Attività Subacquee). La nostra attività prevalente nella Protezione civile è l’informazione e la prevenzione con l’organizzazione di corsi pratici sulla sicurezza in mare e di primo soccorso organizzati dai nostri medici e istruttori federali. Da circa 20 anni si collabora con il Comune di Forte dei Marmi, la Capitaneria di Porto di Viareggio e la Delegazione Locale di Forte dei Marmi
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anche con operazioni di emergenza subacquea su richiesta del Comune di Forte dei Marmi e della Capitaneria. Tra gli interventi urgenti più importanti che ci ha visto protagonisti il recupero di un aereo precipitato nelle acque del Cinquale in collaborazione con i Vigili del Fuoco, di un peschereccio affondato di fronte al bagno Piero, oltre al recupero di varie reti pericolose per la balneazione, monitoraggio delle strutture subacquee del pontile, recupero di materiale inquinante, oltre ad aver soccorso numerose imbarcazioni e bagnanti in difficoltà. L’associazione collabora anche al salvamento delle tartarughe marine in pericolo. Il Presidente Primo Cardini 11
In principio al Tennis Italia si giocava solo d’estate: residenti e vacanzieri, dopo una giornata al mare, non volevano certo rinunciare ad una partita con gli amici. Contava il divertimento, non il risultato. L’arrivo di Sergio Marrai, nel 1986, avrebbe segnato un drastico cambiamento rispetto al passato. Perché da quel momento in poi il circolo di via dell’Acqua sarebbe rimasto aperto tutto l’anno e non più solo nei mesi più torridi, con un progressivo miglioramento delle strutture e la nascita di una scuola tennis all’avanguardia con numeri ragguardevoli: oggi è infatti frequentata da oltre 200 ragazzi e 100 adulti di varie età e livelli di gioco. Tra gli istruttori spicca Matteo Marrai, il figlio di Sergio, che ha contribuito sensibilmente alla conquista di due campionati a squadre nel 2012 e nel 2015 proprio del circolo fortemarmino di cui è attualmente validissimo e ambizioso capitano. Ma sono una quindicina le formazioni
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iscritte ai vari tornei di categoria, sia giovanili sia amatoriali. Il passato si intreccia col presente, al Tennis Italia. Sono piacevoli i ricordi che fanno fermare il tempo al 1989, ovvero quando Bjorn Borg, campione col sorriso stampato sul volto, sceglieva i campi in rosso di via dell’Acqua per prepararsi al ritorno al tennis che contava. Ma anche Paolo Villaggio e Fred Bongusto erano presenze abituali, così come tantissimi personaggi del mondo del calcio: Antognoni, Paolo Rossi, Facchetti, Burnich, Lippi, Valcareggi, Pruzzo, Baresi, Bergomi, Paolo Maldini, Alberatosi, Gullit, Evani, giusto per menzionarne alcuni. Uno dei periodi di maggior splendore il Tennis Italia lo ha vissuto tra il 1992 e il 1996, quando McEnroe, Noah, Ivanisevic, Forget, Sanchez e tutti i migliori giocatori nostrani si sfidavano in incontri di esibizione che mandavano in estasi il pubblico. Un circolo a cui anche Paolo Bertolucci – fortemarmino doc e
vincitore della Coppa Davis nel 1976– è particolarmente affezionato. Non è inusuale inoltre che, specie nei mesi estivi, al Tennis Italia si rechino Andrea Bocelli ed il presidente del Genoa Enrico Preziosi, legati a Sergio Marrai da una profondissima amicizia. Oltre ai due campionati a squadre (merito di Matteo Marrai, Walter Trusendi, Filippo Volandri, Daniele Giorgini, Davide Bramanti e Matteo Viola), i versiliesi hanno raggiunto anche altre due finali (nel 2011 e nel 2016), ingaggiando più di recente Paolo Lorenzi, uno dei top player azzurri. La struttura dispone di otto campi in terra battuta (quattro all’aperto, quattro al coperto), una palestra e un’area riservata a incontri e presentazioni. Ogni estate proprio al Tennis Italia si svolge il torneo Open “UnipolSai” e “Azimut”, appuntamento tra i più rilevanti nel panorama regionale e non soltanto, giunto quest’anno alla sua diciannovesima edizione.
Nordic Walking Viareggio e Versilia
Nordic Walking? Prima di tutto cerchiamo di spiegare di cosa si tratta. Di fatto stiamo parlando di un disciplina nata in Finlandia negli anni 30, ed utilizzata dagli sciatori di fondo per gli allenamenti estivi. Negli anni il Nordic walking, grazie alle sue innumerevoli qualità, è divenuto un vero e proprio sport, praticato inizialmente nel nord Europa e poi sceso a cascata fino all’Italia, ma di fatto stiamo parlando di una diffusione ormai mondiale, visto che negli anni sono stati persino disputati campionati mondiali di velocità negli Stati uniti, contando atleti provenienti da ogni angolo del pianeta e persino in Cina già da due anni si svolge una importante tappa della World Cup. Si pensi che sotto l’egemonia della ENWO (European new walking Organizzation), ad oggi si contano oltre 100 paesi che hanno sottoscritto il regolamento internazionale ufficiale agonisitco. Ma perché praticare il Nordic Walking? Questa disciplina porta in se molteplici benefici, ma vediamo di elencare perlomeno quelli che maggiormente incidenti, derivanti dalla pratica. Praticare Nordic Walking permette di muovere oltre il 90% della muscolatura corporea, migliorando la postura e riassettando tutta la meccanica della camminata. Si tratta di un gesto tecnico che risparmia le articolazioni, escludendo le problematiche legate ad altre discipline come la corsa, che più facilmente può portare ad avere problemi, ed infortuni. Altro aspetto veramente interessante è che grazie alla pratica si migliora il sistema cardio circolatorio, aiutando a dimagrire e riuscendo a far sviluppare coordinazione e resistenza.
Stiamo parlando di uno sport completo, adatto a tutte le età, sia a chi cerca un modo per muoversi e fare un po’ di movimento per mantenersi in forma, sia a chi è affetto da malattie metaboliche come il diabete, e anche per chi vuole vivere l’emozione e l’adrenalina di una gara, puntando all’agonismo ufficiale internazionale. Assolutamente no. Il gesto tecnico, affinché sia correttamente eseguito e che quindi sia portatore di tutti quei benefici che fin qui abbiamo decantato, ha bisogno di essere assimilato e digerito dall’utente, che si dovrà affidare ad un Istruttore competente in materia, che lo guiderà non solo nella crescita tecnica, ma anche nella scelta delle scarpe e soprattutto dei bastoni, che hanno delle caratteristiche tecniche specifiche, legate sia al gesto da dover compiere, che ai parametri del singolo atleta. Affidatevi ad un Istruttore, ed evitate di acquistare materiale per la pratica che spesso risulta non idoneo.
La Nordic Walking Viareggio e Versilia tiene corsi tutto l’anno, con l’ Istruttore riconosciuto UISP Roby Paglianti, responsabile e coordinatore Sezione Nordic Walking, comitato Lucca e Versilia. Atleta agonista -decimo classificato M40 Europei 2017 10.000 mt, Roding Germania -ottavo classificato assoluto europeo 2017 staffetta 4x1000 a squadre, Roding Germania -decimo classificato M40 Europe-cup Bleiburg Austria 2017 -quarto classifcato assoluto class. Tecnica Europe-cup Bleiburg Austria -terzo classificato, medaglia di bronzo M40 europe-Cup, tappa Radenci Slovenia 2018. Per info www.nordicwalkingviareggio.com oppure telefonate al 342.0992300
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DAL MARE AI MONTI IN VERSILIA IL PASSO È BREVE, BREVISSIMO! di Cristian Leonardi Basta alzare gli occhi con il mare alle spalle e poi muoversi, dirigersi verso le vette e con l’auto raggiungere i paesini dell’alta Versilia. Attraversarli uno ad uno per arrivare alla nostra meta. Oggi pensiamo di essere a Levigliani, in primavera, il cielo è terso e la giornata tiepida, guardiamo la Pania (anche detta Regina delle Alpi Apuane) ed è facile pensare ad un trekking, ad una camminata sia essa per raggiungere la vetta sia che vogliamo semplicemente arrivare al rifugio per un 14
pranzo per poi magari continuare per altre mete come la vicina Isola Santa. Con una premessa così appunto vien facile di percorrere a piedi queste montagne e per chi non è del mestiere delo speleologo, è più difficile pensare che sotto ci siano dei complessi carsici, delle grotte insomma. Sì, è vero, molti già conoscono l’Antro del Corchia e molti già sanno che questa è una delle più importanti grotte d’Italia e d’Europa non solo turisticamente ma anche tecnicamente per le difficoltà di percorrenza
e scientificamente anche per gli studi paleoclimatici che vi vengono fatti. Ma l’Antro non è l’unica delle grotte presenti in questi territori. Basti pensare che solo in Toscana ne abbiamo più di 2000! La maggior parte di esse si trovano appunto sui nostri rilievi. Abbiamo cavità carsiche di ogni tipo, dalle più semplici alle più complesse…dei veri abissi. Posso citare l’abisso Roversi profondo più di un chilometro, l’Olivifer, Mani Pulite, Aria Ghiaccia, Abisso Mandini e poi la Tana che Urla a Fornovolasco.
Prima però ho parlato di Isola Santa, ma non a caso. Sarà sede di una iniziativa, il conosciuto Premio Nardini, a cui saranno collegate diverse escursioni ed altri eventi. Anche qui possiamo continuare a parlare di grotte, infatti non lontano c’è la Buca della Condotta: così chiamata per una tubazione che la intercetta e vi passa all’interno per un breve tratto; è una grotticella di circa un chilometro di sviluppo. Non lontano dal paesino e a monte della diga abbiamo la risorgenza della Pollaccia: è una risorgenza di grande portata ed ha origine dalla Pania prima citata; l’acqua piovana, cadendo, si incanala in un torrente, questi a sua volta entra in una caverna, la Tana dell’Omo Selvatico e vi si perde al suo interno (per un dislivello di circa 300 m e qualche chilometro di sviluppo planimetrico) per poi uscire proprio alla risorgenza della Pollaccia!
Questa cavità non dista molto dal rifugio di Mosceta, circa dieci minuti a piedi, e poco di più da solco di Puntato, circa quaranta minuti. È molto evidente sul sentiero CAI 128, ha un ingresso davvero ampio. Presenta due percorsi che all’inizio si dividono e poi quasi in fondo si riuniscono: il ramo fossile ed il ramo attivo. Il secondo quando piove non è per corribile perché il torrente vi scorre
per tutta la lunghezza. È una grotta considerata facile ma sempre per speleologi e gente esperta. Si trovano tratti da attrezzare con corda e tratti labirintici dove non è difficile perdersi. Deve il suo nome a leggende popolari. Per la sua facilità di accesso è una delle prime grotte studiate nelle nostre zone fin dai primi anni del ‘900 tanto che negli anni ’30 era considerata una delle più profonde d’Italia…primato ormai ampiamente superato da numerose altre grotte. Ma ora ritorniamo al nostro paesino a continuare la manifestazione insieme agli altri. CAI Sezione di Forte dei Marmi Piazza Moore, 1 - Vittoria Apuana 55042 Forte dei Marmi (LU) segreteria@caifortedeimarmi.it www.caifortedeimarmi.it Facebook: Cai Forte dei Marmi
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TOUR DELLE VILLE DI ROMA IMPERIALE - FORTE DEI MARMI di Tessa Nardini Forte dei Marmi non è solo mare, è molto di più. Prendete la bicicletta all'ora del tramonto, perdetevi tra le ombrose vie di Roma Imperiale e si apriranno ai vostri occhi scorci naturalistici e architettonici interessanti. Il quartiere di Roma Imperiale è una sorta di "città-giardino", nasce negli anni Venti del Novecento e deve il suo nome alla Società Cooperativa Anonima Roma Imperiale che acquista e lottizza la pineta vendendo poi i lotti a facoltosi villeggianti. Architetti locali e non, mettono in campo le loro competenze per creare case di vacanza calde e accoglienti, inserite nel verde della pineta e a due passi dal mare.
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Villa Apuana, famiglia Siemens
Il risulato è stupefacente: dimore diverse l'una dall'altra che danno vita a un insieme armonico e coerente grazie all'uso di materiali ricorrenti. Travertino, cotto, pietra locale, infissi verdi sono il filo condutture che rende omogeneo l'insieme. La pedalata alla scoperta del quartiere può partire idealmente dalla Capannina, locale storico dove la clientela più chic ha trascorso serate spensierate. Continuate poi a pedalare sulla pista ciclabile del viale a mare in direzione Marina di Pietrasanta. Qui si incontreranno le prime ville, risalenti alla fine dell’Ottocento e quindi precedenti al quartiere di Roma Imperiale. Queste vengono quasi tutte edificate per la colonia di personalità tedesche che inizia a passare le estati al Forte per godersi i benefici dell’elioterapia e dei bagni di mare. L’atmosfera all’epoca era completamente diversa: non c’era il viale a mare e le ville erano immerse nella pineta con l’affaccio diretto sul mare. Di quel periodo è la maestosa Villa Apuana costruita per i Siemens, magnati dell’industria tedesca, per la quale l’architetto Carl Sattler si ispira allo stile delle ville rinascimentali toscane. Un tempo la villa aveva una tenuta che si estendeva per circa 1 km nell’interno, poi perso in seguito alle varie lottizzazioni. All’interno della proprietà era presente la casa del fattore, attuale Villa S.Maria.
Proseguendo incontrerete la ex Villa Costanza, oggi Augustus Lido, edificata per volere dell'Ammiraglio Morin nel 1899 e venduta alla famiglia Agnelli negli anni Venti del Novecento. Trasformata in hotel negli anni Sessanta, mantiene ancora oggi l'atmosfera del periodo Agnelli grazie ad un restauro attento e rispettoso del passato. Lasciate il viale a mare ed addentratevi nelle vie interne dove la frescura vi ricaricherà dopo la giornata di mare. Percorrete via Nizza guardandovi intorno, imboccate via Leonardo da Vinci, considerata un tempo la via più bella di Roma Imperiale, e fermatevi al Fosso Fiumetto dove il pittore Carlo Carrà si fermava a dipingere durante i suoi periodi di villeggiatura. Raggiungete via Roma Imperiale dove potrete vedere le prime abitazioni costruite dopo la lottizzazione. Soffermatevi su due ville sottoposte a vincolo dal Ministero dei Beni Culturali: Villa Pedrazzi che con gli affreschi in facciata è un omaggio al Medioevo e ai suoi valori e la poco distante Villa Carrà, casa di vacaza del pittore e ritrovo di molti artisti e intellettuali. Vale la pena addentrarsi in via Raffaelli per raggiungere Villa Mann Borgese (via Thomas Mann) costruita nel 1957 da Leonardo Ricci, allievo di Giovanni Michelucci, per la figlia dello scrittore Thomas Mann. Edificio particolare, diverso dalle altre ville, viene definito dalla proprietaria
Villa Santa Maria
Villa Pedrazzi “Un transatlantico pronto a salpare per le montagne”. Ritornate verso il mare attraverso via XX settembre e fermatevi davanti all'ex Pensione Franceschi, dove un tempo trascorreva le vacanze la nobiltà più in vista e proseguite verso il centro per un aperitivo in uno dei tanti locali. Per saperne di più non perdetevi la Biciclettata tra le ville di Roma Imperiale organizzata da Galatea Versilia ogni domenica durante l'estate, iniziativa che vi porterà alla scoperta dei gioielli architettonici del quartiere. (Per Info: 339-8806229 o 349-1803349)
La biciclettata 17
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GRUPPI DI CAMMINO
“DAL MARE ALLA MONTAGNA”
TREKKING
7° P R E M I O G I U S E P P E N A R D I N I
15 LUGLIO 2018
bici da strada
FORTE DEI MARMI - ISOLA SANTA DOMENICA 15 LUGLIO
Bici da strada Partenza ore 8.00 da località Vaiana P.zza F.lli Meccheri
MOUNTAIN BIKE
Mountain bike, trekking, nordic walking Partenza con bus ore 7.00 da località Vaiana P.zza F.lli Meccheri oppure ore 7.20 da Palazzo Mediceo a Seravezza Bus di ritorno da Isola Santa ore 15.30
NORDIC WALKING
PROGRAMMA DELLA CERIMONIA 12,30 - Cerimonia Bandiera Blu - Alzabandiera in località Isola Santa (Careggine) Consegna premio Nardini a Manolo 13,00 - Pranzo a buffet per i partecipanti iscritti
DOMENICA 19 AGOSTO GRAMOLAZZO Regata velica “Trofeo Parco delle Alpi Apuane” riservata alla classe Optimist presso il lago di Gramolazzo nel comune di Minucciano. Al termine della regata premiazione e consegna del Trofeo Nardini al vincitore della categoria.
P R E M I AT O 2 0 1 8 M A N O L O PUNTI RACCOLTA ISCRIZIONI (Obbligatoria) - Ufficio Informazioni Turistiche: Comune di Forte dei Marmi - Bar da Pretino: Piazza F.lli Meccheri Località Vaiana, Forte dei Marmi Facebook.com/dalmareallamontagnapremionardini
18 Direzione tecnica a cura di Sebastour di Born Free SRLS - numero licenza: 0151804/2017
REGATA VELICA
I N T E R V I S T A
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MANOLO Il “Premio Nardini”, sembra nato per Lei Murizio, infatti unisce da sempre sport e rispetto per l’ambiente e per la natura. In poche parole la Sua vita. Quanto crede che sia importante valorizzare questo legame attraverso eventi e manifestazioni che lo mettano in risalto? Ricordare quanto il rispetto per l’ambiente sia una forma di rispetto verso noi stessi e gli altri è sempre importante! L’ambiente siamo anche noi ma anche se siamo la percentuale più piccola di esseri viventi nel pianeta, siamo quelli che sono riusciti a fare i danni peggiori. Qualcuno ha scritto che più che Homo Sapiens dovremmo chiamarci Homo Insipiens. Non siamo più capaci di camminare, di rallentare, osservare, riflettere. Forse siamo destinati a far parte del mondo in maniera più cerebrale che fisica, ma il mare intanto sembra sempre più svuotato di vita e riempito dalla plastica. Le pianure dal cemento e perfino le montagne più alte, quelle invivibili, sono assalite dalla prepotenza umana. L’ambiente influisce più di quanto possiamo immaginare sulla nostra vita… Ho letto che all’età della pietra, un uomo adulto gravava sull’ambiente con un consumo quotidiano di circa 4000 calorie. Oggi un uomo occidentale grava sull’ambiente con un consumo di 228000 calorie al giorno, suddivise in beni come cibo, vestiario, comunicazioni e trasporto. La consegna del Premio Nardini avviene in una giornata in cui dal Mare si torna alla Montagna: come potrebbe definire la Montagna per la sua vita? Compagna di viaggio, eterna scommessa, valore assoluto…. La montagna mi ha avvicinato all’ambiente, alla responsabilità, al rispetto, attraverso una fatica non imposta, ma cercata, voluta senza scorciatoie. Un viaggio che mi ha permesso di denudarmi e conoscermi. Doloroso, affascinante, necessario a farmi comprendere di non essere estraneo a quest’ambiente, ma di farne parte. La famosa questione dei chiodi sottende anche una sorta di rispetto per la Montagna in quanto creatura che Lei considera a tutti gli effetti essere vivente? Si può essere… ma è anche una forma di esplorazione che tiene sempre in conto il fatto di aver voglia di trovare nelle montagne un ambiente vero e non un surrogato di esse. Dove potermi misurare e continuare a sentirmi piccolo e intimidito di fronte all’incerto. Ha dichiarato più volte che scalare per Lei è stato come inseguire se stesso… Che ne pensa di chi oggi fa qualsiasi azione solo per poi potersi fare un selfie…? Scaliamo tutti per motivi diversi…per lavoro, per disperazione, per evasione per piacere, per denaro, per vanità…Di sicuro noi non scalavamo per portare a casa una foto, anzi la macchina fotografica era il primo peso superfluo tolto dallo zaino. Un uomo che ha sempre vissuto di sfide, quali sfide vede all’orizzonte per l’uomo rispetto ai temi della salvaguardia ambientale e dei pericoli che corre il nostro ecosistema? E’ una sfida difficile che sembra quasi impossibile, ma come ha detto qualcuno, c’è un abisso tra l’impossibile e il fantasticamente improbabile.
Foto di Davide Carrari
Che cosa Manolo vorrebbe trasmettere ai giovani rispetto al rapporto con ambiente e natura? Che è un modo sano e intelligente di vivere. Intervista di Andrea Montaresi 19
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Alfrè, Beppe e quegli anni formidabili del Parco... Di Antonio Bartelletti
Foto di Mario Zorrone 21
Giuseppe Nardini e Alfredo Lazzeri il 25 maggio 2010 a Roggio a “Gustando le Apuane: menu a km zero” Cosa ci fosse in comune tra Alfredo Lazzeri e Giuseppe Nardini è facile spiegarlo: erano entrambi di Forte dei Marmi. Condividevano, in modo inconsapevole, quel loro modo pratico di disbrigare le faccende senza sovrastrutture e senza ideologie. Era nel loro istinto di “rinnevvassi” le maniche per fare quello che andava fatto, anche se mai tentato prima. Forse un’eredità genetica di quelle prime genti scese al piano e poi al mare, quando il Forte (o, meglio, S. Elmo in Caranna) era cosa assai diversa da oggi: una macchia di lecci con le paludi alle spalle e quattro capanne di pescatori-taglialegna-contadini che sfidavano la malaria e la malasorte per sopravvivere. Difficile adattarsi ai limiti estremi del mondo civile di allora, perché qui la vita premiava solo chi era capace di sbarcare il lunario per virtù congenita. Un’età apparentemente lontana e appena uscita dal Medioevo, di uomini tuttofare dalle mille risorse e dai mille mestieri, che hanno poi vinto la lenta battaglia della bonifica e regalato così al Forte il benessere e l’esclusività di oggi. Alfredo e Giuseppe condividevano 22
dunque questa specialissima eredità, selezionata da un primitivo ed estremo bisogno e finalmente giunta a loro dopo generazioni di ex montanari o, meglio, di ex “montagnini” temprati al salmastro e divenuti “marinelli”. La montagna non era soltanto memoria sbiadita nel ricordo familiare, perché ne conservavano ancora l’istintivo richiamo. Altri comuni e più antichi geni li riportavano inesorabilmente là dove erano partiti i loro antenati. Mi spiego così l’affetto innato di Alfredo e Giuseppe per le Alpi Apuane; quell’attrazione fatale per i luoghi delle loro lontanissime radici, che hanno potuto nutrire negli anni vissuti al Parco: una rete di sottilissimi fili che riavvolgeva storia e memoria all’indietro nel tempo. Alfredo è stato tra i primi funzionari del Parco, quando finalmente si sono aperte sedi ed uffici, in quegli straordinari ed irripetibili anni Novanta. Dipendente regionale dal 1973, era poi passato alla Comunità Montana “Alta Versilia”. Proprio lì, a Seravezza, l’avevo conosciuto ed apprezzato. Gli chiesi di passare al Consorzio che allora gestiva l’area protetta, perché ero
sicuro dei suoi non comuni mezzi. Accettò subito con entusiasmo, perché ogni sfida lo appassionava e gli apriva la strada maestra per imparare cose nuove e per mettersi in gioco. E poi, lungo quella nuova prospettiva, gli si offriva la possibilità di continuare a promuovere la montagna, non più limitata all’Alta Versilia, ma estesa a tutte le Alpi Apuane. Il primo impegno di Alfredo è stato a Carrara, poi a Massa e da ultimo a Seravezza. Eclettico come pochi, ha svolto diversi ruoli nel Parco, sia amministrativi sia tecnici. All’inizio si era specializzato nella valorizzazione del territorio, dimostrando rare doti nel dare corpo a nuove iniziative e come laborioso programmatore di innumerevoli attività. Molti dei principali progetti del Parco lo hanno visto all’opera in ruoli istruttòri di primo piano. Mi vengono in mente soprattutto la realizzazione del percorso turistico dell’Antro del Corchia, il rifugio alpino ad Orto di Donna, il primo restauro della via Vandelli e non solo, senza dimenticare il ventennale e certosino lavoro intorno al Piano per il Parco. Dopo l’alluvione del 1996, fu comandato di nuovo alla Comunità
Montana, dove è stato risolutivo nel gestire i numerosi appalti della ricostruzione in Alta Versilia. A partire dal 2000, Alfredo ha ritrovato Giuseppe lungo la sua strada, dopo gli anni della giovinezza al Forte. Il contatto stretto e amichevole con il vice-presidente e poi presidente Nardini, ha stimolato in Alfredo una sua più consapevole adesione ai temi della sostenibilità e dell’educazione ambientale. Risolutivo in questo, è stato anche il rapporto di lavoro con un altro collega fortemarmino prestato al Parco: Franco Dazzi. Alla promozione dell’ambiente e al suo uso durevole, Alfredo ha poi regalato molte delle proprie risorse creative ed alcune intuizioni che tutt’oggi proseguono: le “strutture certificate” e il “menù a km zero” – tanto per citare alcune felici iniziative – nascono dalla sua fertile inventiva. Il lavoro comune di Alfredo e Giuseppe si è purtroppo interrotto lungo il cammino, come se dietro ci fosse stato un disegno malvagio. Beppe ci lasciava all’improvviso il 22 marzo 2012. Meno di due mesi prima, aveva fatto approvare l’avvio del processo di adesione alla “Carta Europea del Turismo Sostenibile”, affidando all’ufficio di Alfredo una delega piega a compiere gli ulteriori passi, non proprio facili, né scontati. Raccolto il testimone dell’iniziativa, Alfredo si era impegnato come al suo solito nei mesi e negli anni successivi, con grande attenzione ed intelligenza, gettando le basi di un’impalcatura amministrativa solida ed affidabile. La vita però non gli ha concesso il tempo necessario per concludere quest’ultimo progetto che gli stava tanto a cuore. Il 21 settembre 2015 la malattia gli ha per sempre impedito di ritornare alla propria scrivania. Purtroppo, la “Carta Europea del Turismo Sostenibile” rimaneva opera incompiuta. Riprendere il lavoro di Alfredo non è stato semplice. Complesso sostituirlo per la sua unicità e ancor più arduo si è rivelato il dover riprendere il filo là dove si era interrotto. Il suo lavoro al Parco non era soltanto carta, fascicoli e faldoni, ma relazioni intense e specifiche con persone e luoghi, senza poi considerare la sua cifra elevata di esperienza e competenza.
Con estrema fatica, il Parco ha ripreso, aggiornato e poi concluso, lo scorso dicembre, il percorso della “Carta Europea del Turismo Sostenibile”.Il dossier è partito alla volta di Europarc Federation e oggi si attende l’esito. La speranza del Parco è di ottenere questo secondo attestato internazionale,
dopo il riconoscimento dell’UNESCO Global Geopark. Sarebbe il modo migliore per rinnovare il piacere e rimarcare la fortuna di aver incontrato un giorno persone speciali come Alfredo e Giuseppe.
24 maggio 2011, Festa dei Parchi a Basati: da sinistra a destra: Alfredo Lezzeri, Ettore Neri (Sindaco di Seravezza), Michele Silicani (Sindaco di Stazzema e Presidente della Comunità del Parco), Anna Rita Bramerini (Assessore regionale all’Ambiente), Giuseppe Nardini (Presidente del Parco delle Alpi Apuane)
Alfredo Lazzeri e Giuseppe Nardini all’inaugurazione del Centro visite del Parco ad Equi Terme il 1° giugno 2011 23
ISOLA SANTA
Isola Santa è una piccola frazione del Comune di Careggine, in provincia di Lucca, posto a 550 m s.l.m. 24
E' un luogo magico nato nel medioevo nei pressi di un guado sul fiume “Turrite” come punto di assistenza dei viandanti che dalla Garfagnana scendevano verso il mare. Il borgo negli anni cinquanta si è completamente spopolato quando, con la costruzione dell’invaso idroelettrico la società elettrica proprietaria (SELT - Valdarno) iniziò una politica di acquisto di tutti gli immobili prevedendo un utilizzo dell’invaso artificiale come stazione di pompaggio del bacino idroelettrico di Vagli, con continue escursioni del livello delle acque e conseguenti movimenti del sottosuolo del paese, destinato alla demolizione. In realtà la politica di acquisizione non fu mai completata per la resistenza degli abitanti che in parte hanno mantenuto la proprietà delle loro case cercando di scongiurare la distruzione del borgo. Il bacino idroelettrico non è stato mai utilizzato come stazione di pompaggio e il piccolo borgo si presenta oggi intatto, ma completamente disabitato e conserva tutt’ora invariati i tratti urbanistici e costruttivi tipici del luogo. Nell’abbraccio unico con la natura che lo circonda Isola Santa è certamente luogo straordinario e meritevole di un recupero. La chiesa di San Jacopo, risalente agli inizi del Duecento, è il fulcro dell’abitato. Situata al margine dell’antico abitato la chiesa è posta su un piccolo promontorio erboso, che dall’abitato si protende verso lo specchio d’acqua. Questa particolare posizione di essere semi circondata dal lago, ancorché acquisita a seguito di un evento artificiale, conferisce all’edificio ed al suo intorno uno straordinario valore paesaggistico ed ambientale. La chiesa di San Jacopo è citata, per la prima volta, in documenti del 1260, e nel 1564 il Vescovo di Lucca concesse l’uso della chiesa come oratorio per la difficoltà di raggiungere, soprattutto nell’inverno, la Pieve di San Pietro di Careggine da cui dipendeva.
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Antistante la Chiesa si trova la piazzetta-sagrato, intitolata a San Giacomo, su cui si attestano, oltre alla chiesa, il campanile e i resti degli edifici della vecchia sagrestia e dell’antico hospitale, questi ultimi due ormai in completa rovina. La chiesa e gli edifici racchiudono la piazzetta per tre lati, mentre il quarto si apre alla vista verso il lago. Questo gruppo di edifici costituisce, probabilmente, il nucleo originario del borgo, posto a controllo del ponte sul torrente Turrite Secca. Oltre ad avere il maggiore valore urbanistico e monumentale ha le potenzialità per diventare l’elemento trainante per una rinascita del borgo. Agli inizi del ‘600 la comunità di Isola Santa compartecipò alle spese necessarie per ampliare la chiesa e costruire una piccola sacrestia. La chiesa attuale, dal punto di vista
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delle dimensioni planimetriche e volumetriche sarebbe il risultato dell’annessione del vecchio ospitale e del piccolo oratorio. Successivamente fu realizzata la canonica per ospitare il sacerdote e fu concessa in uso una vecchia torre per realizzare il campanile. L’attuale assetto della chiesa e del campanile sono il risultato di interventi ottocenteschi. Attualmente vi sono strutture ricettive che permettono soggiorni rilassanti immersi nella natura e nella totale quiete. Le rive del lago sono ben accessibili per passeggiate, per la pratica della pesca e ottime come punto di partenza per le attività escursionistiche.Da qui si diramano infatti diversi sentieri che consentono di raggiungere la Pania della Croce, la regina delle Apuane, la Pania Secca, il Pizzo delle Saette, il monte Corchia, Freddone e Sumbra.
Nei monti vicini si trovano inoltre alcune delle più belle vie di arrampicata sportiva delle Apuane. Con il progetto “Bellezz@- Recuperiamo i luoghi culturali dimenticati”, il Comune di Careggine ha ottenuto un finanziamento di circa 2.000.000 milioni di euro, con il quale procederà al recupero dell’ hospitale e della Sagrastia, ricostruendo il nucleo dell’abitato attorno alla piazza. Oltre a questo procederà al recupero della viabilità interna, al miglioramento dell’accessibilità e alla realizzazione di nuovi stalli per la sosta.
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Careggine
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COME IN UN QUADRO DI UN GRANDE ARTISTA Il territorio del Comune di Careggine è situato nel cuore della Garfagnana e del Parco delle Alpi Apuane. Racchiude tutti gli elementi indispensabili per trascorrere una vacanza in completo relax, tra boschi, monti, prati, torrenti e laghi armoniosamente fusi come in un quadro di un grande artista, che non cessa di suscitare ammirazione e meraviglia.
PAESAGGI UNICI DA NON PERDERE Grazie alla sua altitudine e alla sua posizione geografica da Careggine è possibile ammirare paesaggi unici e di grande suggestione. Il suo altopiano è una rinomata terrazza naturale che si affaccia, da un lato, sui dolci declivi dell'Appennino Tosco-Emiliano e, dall'altro, sulle maestose vette delle Alpi Apuane. Un territorio ricco di splendidi percorsi montani, immersi in superbe foreste di faggi, betulle e castagni che incanta e stupisce. Escursioni a vari livelli di difficoltà si snodano lungo tutta la catena delle Apuane e consentono di trascorrere momenti indimenticabili al contatto con una natura incontaminata.
TRA FUNGHI E CASTAGNE Careggine d'Autunno è anche il posto giusto per la ricerca del Fungo Porcino. Tutto il territorio infatti è un'area per la raccolta dei funghi regolamentata e gestita da un'associazione no-profit del posto. Careggine è anche raccolta della Castagna; il suo frutto simbolo. IL SUMBRA… LA MONTAGNA PER TUTTI Dalla pittoresca località Vianova si snoda il sentiero che conduce alla vetta del maestoso Monte Sumbra. Da lì è possibile ammirare, oltre alla valle interna della Garfagnana, le spiagge e il mare della Versilia.
IN OGNI ANGOLO TRACCE DI STORIA Careggine ha una storia antica. Le prime notizie certe sul paese si hanno già a partire dagli inizi del sec. VIII, allorquando un certo Pertuald, di origine longobarda, vi fondò la chiesa di San Pietro. Una chiesa che ha visto crescere nei secoli la sua importanza tanto che nel sec. XII assunse il ruolo di pieve. Alle sue dipendenze aveva il famoso “spedale” di Isola Santa, il quale, sorto in epoca imprecisata, doveva assistere i pellegrini e i viandanti che dalla Versilia storica, attraverso la Foce di Mosceta, passavano in Garfagnana. Nel XV secolo Careggine, seguendo l’esempio di molte altre terre della Garfagnana, si sottomise volontaria 29
mente agli Estensi di Modena e Reggio; farà parte della “vicaria” estense di Camporgiano, salvo brevi parentesi, fino all'unità d'Italia. LA MISTERIOSA DANZA DELLE ARMI Il terremoto del 1920 provocò gravissimi danni anche a Careggine. Durante i lavori di restauro del campanile danneggiato venne alla luce un antico e misterioso bassorilievo primitivo, che attualmente si trova murato alla base del campanile. Il bassorilievo copriva una tomba con all’interno uno scheletro ben conservato. Questa “Danza delle Armi” probabilmente copriva la tomba di un soldato longobardo. Ma qual’è il mistero racchiuso nelle due figure? Sono il simbolo della partecipazione dell’uomo e della donna alla difesa della propria terra, l’allegoria di uno scontro d’amore o il richiamo di un rito dal significato inafferrabile? Forse non lo sapremo mai.Noi possiamo solo affermare che anche solo la visita a questa suggestiva opera d’arte merita la visita a Careggine. UN GIOIELLO UNICO… IL PAESE FANTASMA Il Comune di Careggine annovera tra le sue frazione “La Fabbrica” nascosta dalle acque del lago di Vagli e conosciuta da tutti come il «Paese Fantasma» che ricompare con il suo aspetto apocalittico a ogni svuotamento dell’invaso. Lo spettacolo, di notevole suggestione e indubbia originalità ha raggiunto una fama internazionale.
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UNA MONTAGNA DI COSE DA FARE La naturale vocazione del territorio di Careggine privilegia le attività di ricreazione, escursione, alpinismo e sci. Grazie a diverse strutture sportive, poste nel capoluogo e nelle sue vicinanze, è possibile praticare tennis, calcio, pallavolo e calcetto. Impianti per lo sci, completamente innevati artificialmente, offrono al turista opportunità per cimentarsi negli sport invernali. In Loc. Vianova sono presenti ottimi campi-scuola e piste in grado di soddisfare anche gli sciatori più esperti. Un interessante dedalo di vecchie strade mulattiere, sentieri e tratturi, rende possibile riscoprire il fascino della viabilità pedonale di un tempo, oggi apprezzabile, oltre che per l’attività di trekking, anche per suggestivi percorsi in mountain-bike. UN PARADISO PER I PESCATORI Il territorio di Careggine da spazio anche a diverse attività venatorie e di pesca sportiva, opportunamente dimensionate e conciliate con le aree del Parco, possono essere praticate approfittando dell’ambiente incontaminato. A Isola Santa è disponibile per il soggiorno una vera e propria “Casa del Pescatore” realizzata per accogliere gli appassionati e offrendo in loco tutto il necessario per un soggiorno dedicato a questa rilassante attività. IL BELLISSIMO MUSEO A Careggine è presente l’Azienda Agricolo-Naturalistica «La Bosa» che ospita il Centro visite del Parco Regionale delle Alpi Apuane, i laboratori di educazione ambientale e il Museo della fauna di ieri e di oggi. Proprio nel museo sono presenti le incredibili ricostruzioni dell’orso e del leone delle caverne. (Contatti tel. 3405200266 fax 0583 644242 email info@apuanegeopark.it e info@parcapuane.it ) … UN’ISOLA SANTA Careggine annovera tra le sue frazioni anche il pittoresco villaggio di Isola Santa, gioiello di architettura apuana, che affonda le sue radici nella preistoria. Sulle rive dell’omonimo lago, circondato da boschi di castagno e da alte montagne, il borgo di Isola Santa è oggi luogo incantevole di soggiorno in ogni stagione dell’anno. Il borgo poggia sulle rovine dell’antico hospitale, méta di sosta per i viandanti che attraversavano le Apuane, tra la Versilia e la Garfagnana. Le casette dai caratteristici tetti in pietra sono quanto resta del nucleo originario in parte sommerso dalle acque del bacino artificiale. Un posto ideale per raccogliere funghi, pescare trote selvatiche e dedicarsi all’escursionismo. Numerosi sentieri si addentrano nella boscaglia verso le cime maestose delle Alpi Apuane, mentre piacevoli passeggiate sfiorano sorgenti e villaggi abbandonati.
VIA PIAVE, 36A FORTE DEI MARMI - 0584 81285
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DOVE DORMIRE IN RELAX Le strutture ricettive di Careggine propongono vantaggiose offerte per soggiorni turistici in ogni periodo dell’anno. Agri-rifugio «Alpi Apuane» - Careggine Tel. 0583 661023 Albergo ristorante “La Genzianella” - Loc. Vianova Tel. 0583 661275 Albergo “Chiar di Luna” - Careggine Tel. 0583 661020 “Casa del Pescatore" - Isola Santa Tel. 0583 639408 Case Vacanza "Antico Borgo di Isola Santa" - Isola Santa Tel. 0583 639408 "Ceragetta Resort" - Capanne di Careggine Tel. 0583 667004
DOVE MANGIARE … BENE I ristoranti di Careggine propongono menù con i prodotti tipici del territorio a prezzi particolarmente vantaggiosi. Le botteghe e le aziende agricole del territorio offrono prodotti locali a km 0. Agriturismo “Alpi Apuane” - Careggine Tel. 0583 661023 Ristorante Pizzeria “Chiar di Luna” - Careggine Tel. 0583 661020 Ristorante “Daniela” - Isola Santa Tel. 0583 667039 Ristorante Pizzeria “La Baita” - Loc. La Formica Tel. 0583 661057 Azienda agricola “Il Vitollo” - Loc. Salceta Tel. 0583 661004 Ristorante “La Ceragetta” - Capanne di Careggine Tel. 0583 667004 Ristorante Pizzeria “La Gatta” - Loc. Vianova Tel. 0583 661180 Ristorante "Casa del Pescatore" - Isola Santa Tel. 0583 639408 TANTI GLI EVENTI Careggine è location di numerosi e importanti eventi. Ecco quelli più importanti in programma per l’anno 2018 17 GIUGNO 2018 - “Wife Carrying, la corsa con la moglie in spalla” 27/28/29 LUGLIO 2018 - “Festa della salsiccia al metro” 18/19 AGOSTO 2018 - “Alpi Apuane in Festa” 21 OTTOBRE 2018 - “Festa della Castagna”
Informazioni turistiche: Ufficio Turistico Careggine Tel. 0583 661061 Fax 0583 661062 Pagina facebook “Careggine la montagna per tutti” montesumbra@gmail.com
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STAR CHART Una carta stellare che ci aiuta a scoprire la bellezza della vita Intervista a Danilo Bufalo a cura di Marta Graziani
STAR CHART cioè una mappa del cielo notturno, che rappresenta stelle e costellazioni. E’ considerata la più antica carta geografica. Pare che sia stata trovata intagliata in una zanna di Mammoth di 32.500 anni fa. Straordinariamente fantastico! Così come è fantastico ancora oggi, osservare il cielo notturno, emozionarsi, cercare le stelle e credere che c’è la nostra stella, che forse porta il nostro nome e sicuramente ci guida. Certamente c’è anche la stella polare che ci orienta, che ci indica il nord, che non ci fa smarrire la direzione da prendere per dare senso alla nostra vita. Insomma, mi piace pensare che, se ognuno di noi sa emozionarsi, sa guardare in alto e guardare oltre, si accorge della bellezza che ha attorno a sé, del creato; della bellezza delle persone ma anche della bellezza che porta dentro di sé. Ho incontrato e conosciuto Danilo Bufalo, un giovane diabetico, insulino dipendente, con occhi sinceri e con il sorriso accattivante, con un grande amore per la bici, che lancia sfide alla vita, si mette alla prova con imprese che ti fa dire … ma è “matto?” Eppure, oggi Danilo, è già guida di Mountain Bike, partecipa ad ogni evento dove c’è da portare un messaggio di speranza, è testimonial dell’Associazione Ancora In Viaggio Diabetes no limits e povertà no limits assieme ai suoi genitori, Sabina ed Antonino. E’ determinato, alla ricerca del vero senso della vita, della bellezza. Allora mi chiedo: ma avrà trovato “la sua stella?”… Così, non ho resistito e mi sono permessa di fargli un sacco di domande, per cercare di “carpire il suo segreto” … perché, dicasi quello che si vuole ma oggi i giovani hanno molto da dirci, da trasmetterci e da insegnarci! 34
Danilo Bufalo, dall’anno 2013 partecipa al premio Giuseppe Nardini e, nello stesso anno, il 13 maggio, Mauro Talini, in Messico, è stato investito da un camion mentre stava compiendo l’impresa dal “Sud al Nord del mondo” – Usuhaia (Argentina) Prudhoy Bay (Alaska). Coincidenza, caso? Non credo al caso, ma credo che siano segni che indicano, che quando una persona è “speciale” perché ha trovato la “sua stella”, la sua testimonianza diventa un modello e un esempio per tante altre persone che, a loro volta, si mettono in cammino per trovare la “propria stella”. E, se qualcuno è riuscito in quest’impresa anche noi possiamo farlo! ANCORA IN VIAGGIO Onlus Diabetes no limits e Povertà no limits Via Casina 40 QUIESA Massarosa (LU) Tel. 0584.974539 Cell 3485100746 C.F. 91048720469 Web: www.maurotalini.it Email: odv.ancorainviaggio@gmail. com
stata come una rinascita, è stata la possibilità di far incontrare le mie due più grandi passioni: il ciclismo e le montagne. Ma tu pratichi downhill ed enduro. Quali sono le differenze? La differenza sostanziale tra le due è che nel downhill si sfruttano seggiovie o furgoni per poi affrontare esclusivamente le discese, mentre nell’enduro devono essere anche affrontati i trasferimenti in piano e in salita tra una discesa e l’altra.
Danilo, facci una breve autopresentazione. Ho 21 anni abito a Gallena un piccolo paesino del comune di Stazzema e da ben diciassette anni sono anche diabetico. Sono un ragazzo come tanti altri, con una grande passione per la bicicletta e la natura e con il sogno di poter fare di queste due cose, una professione. Cosa ricordi quando hai avuto l’esordio del diabete? Ricordo ben poco, avevo solo 4 anni quando mi è stato diagnosticato. A parte qualche immagine confusa non ho molti ricordi, ma posso dire con sicurezza che sin da subito ho avuto la fortuna di avere una famiglia che mi ha aiutato ad affrontarlo come un’avventura e non come una condanna, e di farne una marcia in più.
Lui è diventato per me, sin da subito, un esempio e un grande punto di riferimento e si è venuto a creare un legame così forte e profondo da considerarlo un membro stesso della mia famiglia.
Quando fai queste “discese” cosa provi? Le sensazioni che si provano durante queste discese o comunque durante un escursione in bici sono sensazioni di libertà, di star bene con se stessi e con l’ambiente che ci circonda. E’ uno sport che ti insegna a dare sempre il meglio di te, a migliorarti e ad avere un profondo rispetto verso gli altri e verso la natura.
Come mai hai scelto MTB? Dopo aver smesso di praticare ciclismo su strada, c’è stato un lungo periodo in cui con i miei genitori avevamo preso l’abitudine di organizzare escursioni su tutte le cime del nostro territorio, quindi la mountain bike è
Non hai paura? Avere paura fa parte del gioco. E’ proprio questa a spronarti a migliorare, ad affrontare passaggi in maniera più sicura e ad acquistare più sicurezza in se stessi.
Come hai iniziato ad andare in bici? Possiamo dire che la bici ha sempre fatto parte della mia vita, fin da piccolo avevo cugini ed amici che pedalavano a livello agonistico, così all’età di 9 anni mi sono deciso di provare il ciclismo su strada, che ho praticato per diversi anni. Questa passione è diventata ancora più forte dal momento in cui ho avuto l’onore di conoscere Mauro Talini, un ragazzo diabetico che compieva tour in giro per il mondo in solitaria, per dimostrare che il diabete non era un limite.
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Quanto nella tua vita ha inciso incontrare e conoscere Mauro Talini? Come ho già detto, incontrare Mauro mi ha segnato profondamente. Quando l’ho conosciuto ero solo un bambino, ed è stato grazie a lui che ho avuto la certezza di poter fare qualsiasi cosa nella vita anche essendo diabetico. E’ stato un grande esempio per me, come diabetico, come uomo e soprattutto come amico. Quali messaggi di speranza, ti piacerebbe riuscire a portare anche tu? Un grande traguardo potrebbe essere quello di poter essere per altri bambini e altri ragazzi ciò che Mauro è stato per me, perché per un bambino non c’è niente di più educativo che un buon esempio e un buon amico. Hai qualche sogno nel “cassetto”? Il mio sogno è quello di riuscire a costruirmi un identità professionale che mi permetta di far combaciare la passione per la bicicletta, per la ciclo meccanica e per la natura. In poche parole, quello di riuscire a fare delle mie due grandi passioni il mio “pane per vivere”. Nel mio piccolo sto cercando di applicarmi il più possibile, seguendo corsi e prendendo attestati sia a livello meccanico che a livello escursionistico, con la speranza che tutte queste cose possano diventare tasselli che mi portino, pian piano, a realizzare questo mio sogno. Se tu dovessi dare un consiglio ad un giovane per dirgli la bellezza della vita. Cosa gli suggeriresti? Gli suggerirei di mettersi su una bicicletta, andare in un bosco e cominciare a pedalare, per godersi a pieno la libertà e tutto ciò che l’ambiente e la natura ha da comunicargli e regalargli.
“E, se qualcuno è riuscito in quest’impresa anche noi possiamo farlo!”
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ISOLE FELICI NELLE ALPI APUANE di Alessandra Buscemi
Negli ultimi anni, in coincidenza della grande crisi economica che ha colpito il mondo intero, un cambio di tendenza ha portato molte persone ad apprezzare sempre di più i propri territori, a guardare con occhio diverso il proprio contesto ambientale, i luoghi i cui si vive, riconoscendone le peculiarità non solo paesaggistiche, ma anche riscoprendo le tradizioni e la storia del passato che ha lasciato traccia indelebile nel territorio stesso. Sono gli anni in cui maggiormente ci si dedica all’Escursionismo, al Trekking, alle passeggiate di Nordic Walking; si scoprono territori, sempre esistiti, e mai conosciuti, seguendo i sentieri in parte recuperati, in parte meglio indicati, affidandosi o meno a guide escursionistiche od anche autonomamente, ma comunque sempre più assetati di conoscere cosa ci fosse in un passato non troppo lontano, come si vivesse in luoghi tante volte definiti “abbandonati da Dio”, ma che tanto danno sollievo allo spirito, che imprimono tranquillità e serenità; uno stacco dal caos quotidiano, dall’eccessiva modernità e tecnologia, con l’esigenza di voler recuperare la semplicità. Non lontano dalle spiagge della Versilia e dal suo clima mondano esiste in Garfagnana, nel comune di Careggine, circondato dalle cime più note delle Apuane, un’oasi di pace, proprio un’ isola costituita da un antico borgo, in riva ad un laghetto, creatosi artificialmente per la presenza di una diga; proprio un luogo fiabesco, con il nome di Isola Santa. Dopo decenni di abbandono oggi è diventata una delle mete naturalistiche più interessanti, un luogo in cui si possono ammirare scenari unici, nelle varie ore della giornata, circondati dalle cime più celebri delle Apuane. Un borgo rinato dopo un periodo di abbandono, un borgo che fu nel passato 37
crocevia di commerci tra la Versilia e laGarfagnana, meta di pellegrini e di viandanti, con un Hospitale in grado di accogliere, quanti di lì passassero a vario titolo. Il luogo abbandonato a seguito della realizzazione di una diga per la produzione di energia elettrica, come per l’analoga diga di Vagli, oggi rinasce a nuova vita, con le sue antiche case che si riflettono nelle acque smeraldine, con la sua chiesa dedicata a San Jacopo, con le sue ripide sponde che costeggiano il lago. Un tripudio di colori dallo smeraldo/turchese delle acque al verde acceso e brillante della sua vegetazione rigogliosa. Un punto di partenza per bellissime ed impegnative escursioni verso le cime più note, ma anche per un piacevole e più rilassante percorso verso il paese fantasma di Col di Favilla e gli alpeggi di Puntato.
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Paese ormai fantasma anche Col di Favilla, un tempo era un borgo vivacissimo, grazie alle numerose attività che vi si svolgevano, dalla produzione di carbone, alla pastorizia, dalla lavorazione dei metalli alla estrazione del tannino dai castagni, per le concerie della provincia di Pisa. Un abitato fatto di poche case, ai piedi del Monte Corchia e di una Chiesa, oggi riconsacrata, con il grande onore di ospitare la meridiana la più alta (sul livello del mare) di tutta la Toscana. Tutte curiosità che quest’anno gli escursionisti ed i nordic walkers potranno soddisfare, cimentandosi in un percorso piacevole che li condurrà fin verso l’antico villaggio alpestre del Puntato, dove nella suggestiva conca prativa, raggiungibile solo a piedi, si potrà respirare aria del passato, tornare ai tempi in cui i pastori raggiungevano con i greggi questi prati,
attraverso i sentieri dei carbonai e gli essiccatoi per le castagne. Un percorso fatto di tanti mestieri del passato, che in parte stanno riproponendosi da parte di chi qui sta investendo per la propria vita. Un percorso in cui è proposto un ritorno al passato, apprezzando la semplicità e l’autenticità dei luoghi che costituiscono un’altra “isola felice” nel cuore apuano. Contatti: Guida ambientale escursionistica AIGAE Istruttrice Nordic Walking iscritta al ANWI, certificata INWA Alessandra Buscemi alexabuscemi@gmail.com cell. 333 6745858 - 346 0619300
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Amici della Via Francigena di Pietrasanta
CAMMINARE É BELLO... INSIEME É MEGLIO!
Pe r c h é è b e l l o c a m m i n a r e ? E ’ d i f f i c i l e s p i e g a r l o a p a r o l e … b i s o g n a s p e r i m e n t a r l o. di Daniela Bonuccelli Il camminare è una azione lenta, silenziosa, ritmica…che non disturba il pensiero…anzi stimola la creatività. Consente di ascoltare il proprio corpo e di apprezzare le distanze guadagnate un passo alla volta. Si può camminare da soli, in compagnia, in silenzio, chiacchierando, fischiettando, cantando o anche piangendo. Si può andare praticamente ovunque, e questo da un senso di grande libertà. E allora, con passo regolare, guardandoci intorno, osservando anche le piccole cose: un fiore, il volo di un uccello, un prato verdeggiante, uno splendente ramarro, il profumo nell’ aria, un maestoso castagno, assaporando una dolcissima fragolina, dissetandoci ad una fresca fonte,….. ANDIAMO….incontro all’ infinito…” Mirando interminati spazi…profondissima quiete…” (G. Leopardi) DA PASSO CROCE A ISOLA SANTA…PER LE ANTICHE VIE DEI CARBONAI. DESCRIZIONE DEL PERCORSO Difficoltà: E (facile) dislivello ascesa 254 m, discesa 850 m non ci sono tratti esposti. Stato del sentiero: ben segnato e presenti tutte le necessarie indicazioni. Lunghezza: km 8,800. Tempi di percorrenza: circa 3 ore e 30 minuti. Sentieri percorsi: Passo Croce - Passo di Fociomboli, strada sterrata marmifera; Passo di Fociomboli – Puntato, sentiero n.11; Puntato - Col di Favilla, sentiero n. 11; Col di Favilla – Isola Santa, sentiero n.9;
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Il percorso è una facile passeggiata fra castagni secolari, faggete, praterie, torbiera e antichi paesini tipo alpeggio . Da Passo Croce ci incamminiamo su strada sterrata marmifera avendo alla nostra destra il monte Corchia fino a Passo di Fociomboli (m. 1270), posto tra il monte Corchia ed il Freddone. Scendiamo con il sentiero n.11 verso Puntato e qui, superata una graziosa maestà (marginetta), ci troviamo in una bellissima conca circondata dal Corchia, dal Freddone e dalla Pania della Croce con il ben evidente Pizzo delle Saette. Proseguiamo lungo la mulattiera costeggiando geometriche file di faggi e guadando un paio di ruscelli, fino ad arrivare, dopo una blanda discesa, alla Torbiera di Fociomboli, spazio pianeggiante posto proprio ai piedi del Corchia, unico luogo umido delle carsiche Apuane. Questa ci appare come una prateria acquitrinosa percorsa sia da acqua meteorica, sia da risorgive che sgorgano nei punti di passaggio fra le rocce calcaree e quelle impermeabili. Ricca di biotipi vi troviamo fiorito tra giugno e luglio l’Elicophorum latifolium con il suo pennacchio. Arriviamo in breve a Puntato (m. 987), alpeggio di Terrinca, caratterizzato da ampi terrazzamenti, terra strappata con fatica alla montagna per il sostentamento degli abitanti di Terrinca che un tempo venivano qui in estate. La chiesina qui presente è dedicata alla SS. Trinità e risale al 1679. Vicino c’era una maestà più antica con icona marmorea dedicata alla Madonna del Rosario col Bambino e S. Giovani Battista, rubata nel 1973. Proseguiamo sul sentiero n.11 e camminando nella faggeta, attraversando un bel ponticello, raggiungiamo il suggestivo Col di Favilla (m. 938), borgo abbandonato, posto in una posizione fantastica, su un’ampia dorsale che scende dal Corchia. Il Pizzo delle Saette si para orgoglioso davanti a noi con i suoi burroni selvaggi, il Freddone, la marmorea parete del Sumbra illuminata dal sole è di un bianco perfetto, mentre più nascosto fa capolino anche il misterioso bosco del Fatonero, sulle pendici del Fiocca. Col di Favilla merita una sosta: la chiesa è ben curata ed il piccolo cimitero sorge proprio lì vicino. C’è anche quadrivio una bella fontanella dove ci dissetiamo con le fresche acque. Dal centro del paese, ad un bivio prendiamo il sentiero n. 9 e attraversando castagneti secolari con alberi dai tronchi incredibilmente grandi, ad un certo punto appare fra le foglie degli alberi un laghetto artificiale...la nostra meta è raggiunta!!! E’ Isola Santa, un suggestivo borgo sorto intorno al piccolo hospitale che ha accolto viandanti e pellegrini che dalla Garfagnana si spingevano in Versilia e viceversa ed al cui posto adesso troviamo la Chiesa di San Jacopo.
I n f o r m a z i o n i p er partecipare al gruppo di cammino Pietrasanta QUANDO: Lunedì e Giovedì ore 21.00 DOVE: ritrovo presso la scalinata del Duomo di Pietrasanta Quanto camminiamo: circa 10 km A quale velocità andiamo: ad una media di 5-6 km all’ora, siamo infatti un gruppo di cammino “avanzato” Quanto dura ogni incontro? Circa 2 ore. Walk leader: Daniela Bonuccelli danielaciuf @hotmail.it
Foto di Francesca Antognazzi
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P R O B A B I L M E N T E
Francigena Tuscany Marathon Edizione 2017 Elisa mentre litiga con gli abbaglianti dice “Probabilmente non pioverà…” e io voglio crederle, come tutti gli altri, ancora assonnati seduti dietro. Lorenzo non parla, Enrica e Rossana raccontano dell’ultimo allenamento. Io non ho ancora smaltito la tensione di ieri, non ho ancora allontanato il pensiero della pioggia, quello dei 42 km e nemmeno la paura di non farcela. Arriviamo a Pietrasanta, scendiamo dall’auto e non piove, appaiono i primi sorrisi di una lunga giornata attesa da tempo. Augurandoci in bocca al lupo ci salutiamo con Enrica e Rossana che si allontanano confondendosi con tutti i pellegrini che affollano la piazza del duomo. Dopo poco incontriamo come da programma la Giusti e Simona. Dopo un veloce saluto ci caliamo definitivamente nell’atmosfera della manifestazione, indossiamo tutti la maglietta ufficiale dell’evento, celeste con il pellegrino della Francigena stilizzato in giallo, siamo carichi, ci diamo pacche sulle spalle, l’adrenalina sale. Si parte, trascinati da un fiume impetuoso di magliette celesti, ci guardiamo attorno, facce nuove e facce conosciute, c’è anche Antonio che ci accompagna per qualche metro, l’allegria è contagiosa e ci carichiamo
ancora di più, tutto ciò dura un kilometro, forse due, poi, piano piano, il fiume si calma, le voci si fanno più pacate e aumenta la colonna sonora di questa maratona, il ritmo dei passi ed il rumore metallico dei bastoncini sull’asfalto. Ascolto il mio corpo, ascolto ogni suo segnale che però è amplificato da quella leggera ma sempre presente ansia da prestazione, che mi portano a percepire sensazioni che probabilmente non ho, un dolorino all’adduttore, la pianta di un piede fa un po male, e mancano ancora 37 kilometri all’arrivo. Proseguiamo tutti assieme fino a Camaiore chiacchierando di versioni di latino, di quanto sono antipatici i bastoncini da passeggiata, e del concetto di normalità, sul fatto che sia un concetto del tutto arbitrario o meno. Io, che ho fatto il professionale per l’industria e l’artigianato posso sostenere giusto la discussione sui bastoncini, quindi, lentamente mi stacco, piano, piano, canticchiando sommessamente… In prossimità del paese Lorenzo ci informa che non ha fatto colazione “…primo bar ci si ferma, eh? Macchiatino e pezzo, avranno anche la Gazzetta?” La Gazzetta??? Ohhh, ma questa non è mica una passeggiata???
Oddio, a dire il vero lo è, ma dobbiamo arrivare a Valpromaro entro l’una sennò niente pasta party!!!
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Soddisfatto Lorenzo si parte ma ci fermiamo quasi subito, al primo ristoro alla Badia di San Pietro, banane e merendine, timbro che conferma il raggiungimento della tappa e via, alla volta del Montemagno. E qui la prima selezione, Simona rallenta e la Giusti accelera, ed io e Lorenzo rimaniamo nel mezzo perché siamo maestri nel “gestire la gara”, o meglio, ci illudiamo di esserlo perché lo abbiamo fatto alla notturna di S.Jacopo, a Pistoia, e anche a Montecatini, ma erano gare di nove km, tutta un’altra storia.Chiacchieriamo del più e del meno, gestendo il passo a seconda delle lepri, ci avviciniamo a Montemagno percorrendo un lungo rettilineo asfaltato in costante ascesa che, tutto sommato, ci rende più leggera questa salita, soltanto l’ultimo pezzo è un sentiero erto, di terra battuta e pietre, ma mi sento bene e raggiungo la meta velocemente, un attimo per dare un’occhiata ad un panorama che promette pioggia, e si riparte. Appena passato il secondo ristoro, intorno al sedicesimo kilometro, tutte le nostre ansie si materializzano sotto forma liquida, le prime gocce scendono e la giornata si fa grigia.Cambio veloce, via il giacchettino “da vento” sostituito da
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quello “da acqua”. La pioggia è leggera e noi continuiamo la salita, in due, scambiandoci selfie con la Giusti, che è ancora avanti e non si sogna assolutamente di aspettarci. Il sentiero si fa stretto e ci troviamo davanti pellegrini più lenti, ingombranti, con le solite bacchettine da passeggio, io li passo e proseguo, ho le gambe, nessun dolore, che cavolo avrò avuto nella testa una decina di kilometri fa… Mi volto e vedo che Lorenzo non mi ha seguito, lo chiamo, “Tutto a posto, tengo il mio passo, vai pure…” e anche in questa occasione applichiamo il nostro motto “Chi n’ha, va!”, e io vo! Il percorso serpeggia nei boschi e prima di arrivare a Gualdo affronto una scalinata fatta di tronchi per un dislivello di una ventina di metri che ti spacca le gambe, ma non è nulla in confronto a quello che mi aspetta appena scollettati i 330 mt del paese. La pioggia si intensifica, e inizia la discesa, ripida, inizia a formarsi quella leggera fanghiglia viscida e traditrice, iniziano i pensieri. Passano i metri e la pioggia si trasforma in diluvio, non c’è modo di evitare che le scarpe si riempiano d’acqua, non c’è maniera di ripararsi, e quindi vado avanti sperando di intravedere prima possibile
Valpromaro. E torno alle perplessità di ieri sera, le stesse dell’alba, al timore della pioggia, alla lunghezza della gara, sono ancora 22 kilometri ed io negli ultimi mesi non ne ho fatti più di 21 in una volta sola, ed erano in pianura, e il tempo era bello… e arriva il dubbio, che si insinua, passo dopo passo, goccia dopo goccia, forse è troppo, forse è il caso di fermarsi, non posso farcela… Sono ormai 3 km, lunghissimi, che l’acqua continua a martellarmi, come i miei pensieri, e il mio umore è più nero del cielo, ma finalmente il paese si materializza tra gli alberi. Il gazebo dove distribuiscono la pasta e poco più avanti, sulla destra, proseguendo ci sono le navette che riportano a Pietrasanta, decido, momentaneamente, per la pasta. “Prego, si accomodi, l’unico posto asciutto è la chiesa..” …e mi si apre un mondo!!! Personaggi in abbigliamento sportivo in ogni dove, chi mangia la pasta al peso sull’altare, chi si cambia sugli scalini degli altari laterali, chi consulta la cartina e chi racconta la propria avventura al vicino di panca appena conosciuto, pare di essere entrato in una grande famiglia colorata e un po’ blasfema, ma forse era davvero questo lo spirito dei pellegrini di una volta.
Mangio la mia pasta e mi cambio anch’io, sono fradicio. Non so ancora cosa fare e non riesco a contattare gli altri, la Giusti era avanti quindi dovrebbe essere già qui, mentre Lorenzo e Simona non dovevano essere molto distanti, ma non vedo nessuno… “Paolooo”, mi volto e sono li, la Giusti e Lorenzo, vicino al contraltare. Lorenzo confessa di avermi maledetto per almeno un paio di km per averlo persuaso a partecipare a questa impresa, sorrido, perché so che non c’è voluto molto a convincerlo e ci vorrà ancora meno a farlo proseguire, anzi, è lui che convince me che arriveremo a Lucca, in qualsiasi modo, basta uno sguardo. Decidiamo di partire subito, per non ghiacciarci, e lasciamo il posto sugli scalini a Simona, appena arrivata. Fuori, come per miracolo, la pioggia ha smesso di cadere, l’umore è alto e ci incamminiamo allegramente verso l’arborato cerchio, io che posto foto a destra e a manca, la Giusti che pare Maggie dei Simpson nella “sua” cerata arancione e Lorenzo che mangia una banana e distribuisce cioccolatine nanche fosse un americano durante la
liberazione, tutti innocentemente incoscienti che mancano ancora 22 kilometri alla meta… Ancora salita, verso Piazzano, sempre nei boschi, l’atmosfera è quasi incantata, tra gli alberi in lontananza una leggera nebbia screziata dalle piccole gocce che cadono dai rami e bagnano fiori e funghi che costeggiano il sentiero punteggiato qua e là da ricci e foglie di castagno. Ohhh, ma non siamo miche in una favolaaa, camminare!!! Ci cambiamo nuovamente, via le cerate, forse per una reale necessità o forse per utilizzare e dare un senso al fatto di avere due kili di vestiario nello zaino, rimettiamo le magliette ufficiali. Al 25esimo km Lorenzo si stacca, le ginocchia iniziano a fare un po’ di capricci, rallenta il passo. Il problema adesso per me non è più finire la maratona, ma sopportà la Giusti. Proseguo con la compagna d’avventura nella salita che raggiunge Vecoli, a 350 mt, il punto più alto del percorso. Le gambe vanno ancora, il tempo regge, siamo carichi al massimo, non ci fermiamo nemmeno al punto di ristoro, si va giù nella ripida di scesa che ci avvicina a Lucca, dietro ogni tornante
si nascondono nidi di bofonchi, personaggi curiosi, pellegrini che tagliano il percorso, ma anche i cartelli che indicano i 27, 28, 29, 30 km che, percorsi in men che non si dica, ci accompagnano a San Macario, l’ultimo ristoro.
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In prossimità della chiesa ci accoglie un illusorio raggio di sole che dura meno di un gatto sulla Pesciatina, vabè, mi consolo con un paio di merendine, via, giù, facciamo tre. Ma la Giusti non ci sta, e prega, ancora dentro la “sua” ceratina arancione “Ti prego, manda un raggio di sole, un bombolone alla crema e uno al cioccolato, senza zucchero…”. Mah, speriamo bene… Aspettiamo Lorenzo, che appare dopo qualche minuto, ha una camminata blanda che pare un turista per le strade di Lucca, si gode il paesaggio, guarda da una parte e dall’altra, sguardo tranquillo e passo rilassato, in realtà, secondo me, è un primo segno ben mascherato di trascinamento degli arti… Ripartiamo tutti assieme, le preghiere della ragazza sono esaudite, ma da ‘na s… , inizia ancora a piovere! Lorenzo, nella sua infinità bontà, ci lascia andare nuovamente, rallenta il passo, rimane da solo, ma siccome lui è un grande ed aveva previsto tutto, tira fuori dallo zaino le cuffie e, per non annoiarsi, ascolta i primi tempi delle partite, e noi ci avviamo verso il fiume. Sul Ponte San Pietro mi cede inaspettatamente la Giusti, stanchezza? Depressione da pioggia? Voglia di bombolone? Non lo saprò mai, l’unica certezza è che
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di la dal ponte c’è il dirizzone del parco fluviale, del quale non si vede la fine, potrebbe essere la mazzata finale… ma siamo quasi in fondo, ormai cosa sono sei km??? Nulla, Giustiiiii, non sono nullaaa, andiamooo!!! Se prima col nostro passo brillante e costante riprendevamo tutti quei temerari che si erano lanciati sul percorso senza lesinare le forze, adesso rallentiamo leggermente, ma il gruppo dei pellegrini ormai è talmente sgranato che non ci passa nessuno. La ragazza attinge all’ultima risorsa, una bustina di non so cosa, ne da una anche a me, fa effetto, forse placebo, ma anche se fosse va bene così, Lucca stiamo arrivando! Ormai siamo al ponte pedonale, quello che quando vediamo alla fine del giro completo del parco fluviale “Che palle! Ci sono ancora 2 km” e invece adesso “Dai, ne mancano solo 3”, tutto e relativo.La pioggia è rada e incessante, la fatica inizia a farsi sentire, ma ormai ci siamo: scollettiamo l’argine, poi via del tiro a segno e dopo le curve di via Cavalletti appare, bellissima, porta S.Donato. Sorrido, sorrido come un bimbo, c’è l’ho fatta, appoggio i palmi alle Mura della mia città, sono tornato, sono tornato del mio pellegrinaggio, è stata dura, il tempo inclemente, i dubbi molti, l’arrivo incerto, pochi i
compagni di viaggio ma buoni, ma è stata anche una conferma, la dimostrazione che alcuni viaggi vanno affrontati, la prova che con forza e determinazione si raggiungono traguardi… ah, quanto sono conturbanti le metafore….. Continuo a sorridere, ma non sono ancora arrivato, con un ultimo sforzo affrontiamo la passerella di via S.Paolino e piazza S.Michele, e poi verso S.Frediano per salire sulle Mura e fare l’ultimo tratto che ci porta finalmente ai 42 km. Dopo nove ore esatte io e la Giusti siamo a Lucca, è lei ha il suo bombolone alla crema. Dopo venti minuti arriva Simona e, poco dopo, Lorenzo, compagno di tante avventure, gli vado incontro con l’idea di inginocchiarmi al suo arrivo, ma le gambe non si piegano, e rinuncio… ancora pacche sulle spalle, come all’inizio, ma l’adrenalina è completamente sparita, e ci trasciniamo assieme con un sorriso ebete al traguardo. Anche Enrica e Rossana ce l’hanno fatta, la soddisfazione è massima! Adesso è passato un giorno, osservo le scarpette ancora ancora sporche di fango, e avrei voglia di rivivere ancora quell’avventura, e mi pare di sentire nuovamente Elisa mentre litiga con gli abbaglianti che dice “Probabilmente non pioverà…” Paolo Conca
Centro Legno Ambiente è una società cooperativa in grado di fornire, da oltre 30 anni, alla committenza pubblica e privata lavori specializzati di forestazione e servizi connessi, realizzazione del verde pubblico e privato, idraulica forestale, consolidamento di versanti mediante opere di bioingegneria naturalistica, difesa ambientale, bonifica idraulica, laghetti antincendio, strade urbane e forestali, recupero manufatti edili.
Via Enrico Fermi 29, 55032 Castelnuovo di Garfagnana (Lu)
Tel. +39 0583644200 +39 0583641013 - Mail: info@centrolegnoambiente.it 47
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I BIOEROI Foto di Luigi Cicoria
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GLI ORTAGGI POVERI MA EROICI... dell’ ALTrA VERSILIA, come valorizzarli? di Massimiliano Lalli e Francesco Felici Prodotti poveri, prodotti semplici: una delle più grandi bugie che vengono raccontate oggi. Cosa poteva esserci di semplice nel coltivare, curare, raccogliere, trasportare, (spesso in collo) e trasformare con cotture lente e lunghissime una materia prima? E' stato il modernismo gastronomico a raccontarci questa balla, quasi nella ricerca inconscia di sminuire cioè che è più vicino alla terra, in modo da metterlo sullo stesso piano del prodotto industrializzato. Ci siamo sentiti dire che si poteva coltivare anche senza terra, in soluzioni acquose di fertilizzanti, è vero tutto è possibile, ma mangiateli voi quei prodotti. Purtroppo l’effeverato modernismo a tutti i costi, è un concetto che negli ultimi anni è andato a corrodere una larga fetta dell'indotto agricolo a discapito della agro-biodiversità che ha da sempre contraddistinto il nostro paese. Fortunatamente, da alcuni anni,
una fetta sempre più larga di agricoltori, ha ripreso a coltivare quei prodotti che rappresentavano appieno il concetto di territorialità, in modo da proteggere e conservare la base della cultura gastronomica del luogo e la sua memoria storica stessa. L’Alta Versilia, ma forse sarebbe meglio dire ALTrA Versilia, per evidenziare la voglia di portare una nuova economia al territorio, è rimasta tendenzialmente esclusa dal processo di valorizzazione delle varietà locali che ha interessato i territori limitrofi della Garfagnana e della Lucchesia. Negli anni più recenti anche in Alta Versilia, l’agricoltura ha subito un crescente ritorno di interesse sospinta da giovani che hanno dato vita ad un gruppo informale denominato ”BioEroi”, percependo la necessità di muoversi facendo rete valorizzando l’agricoltura di montagna mediante feste, incontri formativi
Mais nano di Verni. Foto di F. Felici 50
Il parere di ALESSANDRO VANGELISTI Alessandro Vangelisti, classe 1988, è cuoco della birreria “ La Casa sul Fiume” e del “Bagno Angelo Levante” due realtà che prestano molto attenzione per la scelta delle materie prime usate. Il cuoco non è solamente colui che cucina ma è quella figura che racconta, concretizza e promuove un alimento un prodotto e il territorio. Per questo da qualche anno collaboro con i Bioeroi una realtà che nasce e cresce sul mio territorio d'appartenenza ovvero l’ALTA Versilia. Il concetto chiave è ripartire dal territorio e dalla sua storia per immetterlo in una storia più globale, in un contesto molto più ampio e complesso che è quello della modernità. Non si chiamano Bioeroi a caso, perchè la loro missione è veramente eroica e la gastronomia deve inchinarsi di fronte ad un salvataggio di realtà che altrimenti avremmo solo letto nei libri cercando di immaginarne fragranza e aroma. La filiera è l'anima del successo per questi piatti, ognuno dona al prossimo la propria storia e passione, in un piatto vi sono tutti i protagonisti e tutti hanno la loro importanza. Fare il cuoco in questo senso ti rende un promoter dei bioeroi e della terra. Nell’ ultimo periodo ho avuto l’occasione e il piacere di cucinare il famoso Cavolo Frascone unendolo ad altri alimenti che hanno caratterizzato la cucina versiliese. In occasione di Enolia il Cavolo Frascone si è unito alla trota e l’olio EVO di “Fatti col Pennato” dando vita ad un piatto di personalità per il biergarten della birreria “la casa sul fiume”. Per il Bagno Angelo il Cavolo ha contornato il baccalà al vapore. La filiera culinaria crea turismo lento, attento e sano, bisogna farne tesoro.
Il parere di MASSIMILIANO LALLI Massimiliano Lalli, classe 1979, saucier chef presso il ristorante Il Posto a Pietrasanta, un ristorante impregnato di arte e opere artistiche (foto di Federico Neri) Qualche tempo fa, innamorato della cucina giapponese ho deciso di unire la mia cultura alla loro, utilizzando prodotti tipici della mia zona, la Versilia, con le loro basi gastronomiche. Gli elementi fondamentali che sono andato ad unire sono due: il fagiolo Schiaccione di Pietrasanta e il brodo Dashi (la base tipica delle zuppe nipponiche). Partendo dal concetto di un piatto estivo che tutti noi abbiamo mangiato, ovvero tonno e fagioli, ho iniziato a studiare la maniera adatta per trasformare questo piatto in una storia che dalla Versilia arrivasse in Giappone. Lo Schiaccione è diventato una vellutata cotta con l'aggiunta del Dashi, in modo da fornire una base di sapore esotico, ma al tempo stesso autoctono. La cipolla nostrana l'ho caramellata nella salsa teriyaki ,il tonno crudo è stato marinato nella salsa di soia e per la decorazione ho deciso di usare germogli spontanei della nostra zona: dall'unione di questi due mondi così lontani eppure così vicini è nato Il Tonno e Fagioli all'Orientale, che abbiamo presentato noi de Ristorante Il Posto , alla scorsa edizione di Enolia, proprio a dimostrazione di come una manifestazione che parla del territorio, abbia inserito una realtà di fusione tra due culture al suo interno. Un piatto del genere non solo esalta e salvaguarda un prodotto che stava scomparendo, lo modernizza e lo contestualizza nell'attualità, ma ne racconta la storia, lo fa viaggiare come Marco Polo verso l'oriente non snaturandolo, ma esaltandolo.
Patate viola. Foto di F. Felici
Pastinocelli. Foto di F. Felici
e un concorso fotografico annuale al quale invitiamo tutti a partecipare per far valorizzare e conoscere il lavoro in montagna (www.bieroi.com ). La vera anomalia che ha caratterizzato la Versilia negli ultimi decenni è la quasi totale assenza di varietà specifiche caratterizzanti il nostro territorio fatta esclusione per il fagiolo schiaccione pietrasantino o per il pastinocello, un’antica carota di colore avorio. Per il resto non esistono sostanzialmente altri prodotti peculiari della nostra terra, ma per fortuna stiamo uscendo da questo impasse, per certi versi piuttosto imbarazzante, considerati i prodotti proposti in altri parti della Toscana a noi limitrofe. In effetti sul nostro territorio non mancano varietà particolari, ma i singoli non hanno mai avuto abbastanza voce per farsi sentire ed è mancato un gruppo coeso con la voglia di valorizzare il territorio e non solo i singoli paesini, un insieme di persone coraggiose
che sentissero la necessità di valorizzarne i propri prodotti. Per fortuna tutto questo è cambiato ed oggi, grazie alla fitta rete costruita dai Bioeroi con l’Università di Pisa, Il Parco delle Alpi Apuane, Unicoop Tirreno, l’Istituto Alberghiero ISI Marconi e alcune realtà ristorative locali, si è avviato un percorso di valorizzazione dei prodotti locali. Oggi l'agricoltura e la gastronomia si trovano davanti a una sfida che fino a pochi anni fa sembrava già decisa nel risultato: conservare la memoria riproducendola e adattandola ad un clima sempre più instabile. E' dal passato e dalla sua “semplicità e povertà” che si deve partire, perché se da una parte ci troviamo di fronte all’appiattimento delle coltivazioni, all’allontanamento da quelle che portano meno rendita, dall’altro l’arte culinaria, specchio della cultura, si trova di fronte ad un patchwork obbligato in cui se non si conserva la propria identità si viene
Il volo: foto di Veronica Pierotti “selezionata al concorso fotografico Bioeroi 2017” 51
da un globalismo che rischia di cancellare ciò che ha portato la nostra cultura gastronomica in cima a tutte le altre, ovvero la diversità e la complessità della sua grammatica dei prodotti e dei sapori. Il compito degli agricoltori e dei cuochi è quello di proteggere la territorialità, perché è una maniera di far muovere le lancette di un orologio più grande, che parte dalla coltivazione e dal suo indotto, fino a diventare concetto e quindi espressione, creando una fusione di interessi tra il coltivatore e il ristorante, in modo da indirizzare la gente verso il consumo dei prodotti della zona, favorendone l’economia, ma anche la memoria storica e il futuro stesso. I Bioeroi della ALTrA Versilia promuovono la valorizzazione del territorio locale. Il 22 Luglio saranno a Stazzema per la Festa dei Bioeroi mentre fino al 28 Luglio è possibile partecipare al concorso fotografico dei Bioeroi per la montagna. Per info e contatti www.bieroi.com su fb: Agricoltura Bio-EROICA, o sulle loro singole realtà aziendali Az. Agr. Capra di Bosco – Retignano, mail:capradibosco@gmail.com, fb: Azienda Agricola Capra di Bosco Az. Agr. Il Castello – Retignano, cell:3476592468, mail: simoneilcastello@gmail.com, fb: Il castello Ermanno Anselmi Intrecci – Strettoia, mail: bioversilia@gmail.com Associazione Luogo Comune, referente Stefania Brandinelli, cell: 3333696408 Coop. La Mulattiera – Minazzana . cell: 3279313998, mail: cooplamulattiera@gmail.com, fb: La Mulattiera Az. Agr. L’intreccio di Debora Boccelli – Terrinca, mail: deboraboccelli@gmail.com Az. Agr. Al Chiasso – Stazzema, mail: c.vannucci3@gmail.com Az. Agr. Fatti col Pennato – Cardoso, cell:3281590730, cell:3290925250 mail: fatticolpennato@gmail.com, www. fatticolpennato.it Sara Dario Porcellane – Cardoso, cell: 3470955246 mail: saradario.gresautore@gmail.com, www.saradario.com Az. Agr. Casa Colleoni – Cardoso, cell: 3396091940, mail: casacolleoni@gmail.com, fb: Casa Colleoni Az. Agr. Il Casale di Silvia Pieruccioni – Volegno, cell: 3486708745, mail: pieruccioni.silvia@gmail.com Az. Agr. Sanatoio di Vaira Donatella– Retignano, cell: 3384695894, mail: vaira.donatella@virgilio.it Az. Agr. Campeggioli – Ruosina, cell: 3476035355, mail: aziendagricolacampeggioli@gmail.com, fb: azienda agricola campeggioli Az. Agr. Il Puntato – Loc. Il Puntato, mail: info@alpedipuntato.com
I Bioeroi al Metato: Foto di Simone Verona 52
Parliamoci chiaramente, viviamo in un momento storico culturale che va sempre di fretta e non trova mai il tempo, cadere quindi nella tentazione del pronto subito è un attimo. Un paese e un popolo che dimentica le proprie radici culturali è destinato a soccombere dal punto di vista intellettuale e non solo. Perdere determinate espressioni del luogo da cui si viene, qualunque esso sia, vuol dire perdere la propria identità e in pratica perdere la memoria storica e sociale. Avvicinarsi a un concetto più etico e sostenibile di consumo, non solo permette a noi un nutrimento più sano, ma permette anche al coltivatore la sussistenza e quindi la difesa del territorio, perché è proprio il contadino lo scudiero più fedele della natura e senza il loro intervento le nostre tavole sarebbero sguarnite, le nostre montagne e i nostri boschi indifesi, la nostra terra brulla. Il cibo non è solo nutrimento, il cibo è la nostra storia e sta a noi difenderlo e valorizzarlo.
Foto Simone Battistini “Selezionata al concorso fotografico Bioeroi 2017”
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IL CAVOLO
FRASCONE
Famiglia: Crucifere Genere: Brassica Nome Volgare: Cavolo frascone
Storia a cura di Francesco Felici: di origine sconosciuta, forse deriva da un processo di selezione e di miglioramento del cavolo spontaneo, legato alla leggenda di San Viviano (1350-1400) vissuto come eremita in diversi luoghi delle Apuane, per rifugiarsi infine nel luogo dove sarebbe poi sorto il piccolo eremo a lui dedicato, nella frazione di Vagli di Sopra.. Fra le leggende che la tradizione tramanda sul santo, molto bella, è quella del cavolo che il Signore avrebbe fatto nascere per sfamarlo proprio nei pressi dell'eremo. Il cavolo costituisce un elemento indelebile del paesaggio rurale versiliese tanto da esser citato anche nella poesia di Silvano Alessandrini (1920-1979) “C’è un orto grande” che definisce il frascone “cavolo dal fusto “sperlungone”. Da questa forma selvatica sono state domesticate diverse linee di cavolo da “foglia” che si sono diffuse sia nel versante nord che in quello sud delle Alpi Apuane, dove sono presenti da tempi remoti. Si trova diffuso nel comune di Stazzema nelle frazioni di Cardoso, Pruno, Volegno, Stazzema, Farnocchia, Pomezzana, Terrinca (varietà Frascone dell’Alta Versilia). Tradizionalmente si seminava a fine agosto in pieno campo in successione alla patata, o anche a settembre dopo la raccolta del granturco. Nella primavera successiva le piantine venivano trapiantate in solchi alternati alle patate. Durante l’estate veniva sfogliato dal basso e utilizzato per l’alimentazione degli animali. In inverno dopo le prime gelate veniva destinato all’alimentazione umana. Nella primavera successiva veniva mandato a fiore per la raccolta del seme da impiegare nelle semine successive. Le piante sono coltivate in pochi e brevi filari, talvolta al bordo dei campi, o talvolta come piante isolate. Differenze con il cavolo nero Rispetto al cavolo nero toscano, presenta foglie con dimensioni più ampie e di colore verde più chiaro e con individui caratterizzati dalla presenza di foglie screziate di bianco nella parte centrale della rosetta selezionati nella frazione di Cardoso. L’uso in cucina secondo lo storico Michele Armanini Si prende un mazzo di Cavolo Frascone, si lava, si taglia a listarelle e si mette in una pentola con acqua, cipolla tagliata grossolanamente, fagioli secchi (meglio se Schiaccioni di Pietrasanta o di qualche varietà dell’alta Versilia) precedentemente ammollati per una notte nell’acqua, sale, un pezzo di cotenna di lardo e, se si vuole, patate ed altri ortaggi a piacere tagliati a cubetti e odori vari. In alternativa al lardo si usava anche il brodo di cottura del biroldo (sanguinaccio di maiale insaccato), mentre chi non gradisce i grassi animali può preparare un soffritto di cipolla e odori (che però non porterà allo stesso risultato). Si mette la pentola sul fuoco, si fa bollire per un po’ e si aggiunge a pioggia farina di granturco (meglio sarebbe se versiliese) girando continuamente con un mestolo perché non si formino grumi. Si cuoce per qualche decina di minuti (il tempo aumenta se aumentano le quantità e viceversa). A cottura ultimata si versa nelle scodelle e si consuma calda condita con olio extravergine d’oliva e se si vuole del formaggio grattugiato. Se avanza questa polentina è ottima anche lasciata raffreddare, tagliata a fettine o a fiammifero e arrostita sulla brace o fritta nell’olio extravergine d’oliva o nello strutto.
Foto di Laura Benedetti, Simone col cavolo Frascone 54
Il Pennato SECONDO CA’ PALAGNINI dove il ferro, la terra e la porcellana si incontrano.
di Francesco Felici Nel corso dell’ultimo decennio, sono tornati alla luce un numero piuttosto considerevole di incisioni rupestri raffiguranti pennati. A partire da quelli ritrovati sul monte Gabberi, al masso delle girandole di Puntato, agli oltre 43 pennati rinvenuti in località Trogna nel 2009 da Stefano Pucci di Stazzema, fino alle scoperte del 2017 fatte da Stefano Grassi e Mauro Viegi nei pressi di Cardoso e non ancora divulgate. In effetti, considerate le recenti attività di ricerca, c’è ancora tanto da scoprire e da valorizzare. Non è agevole definire con esattezza quale possa essere la datazione delle prime incisioni per l’usanza di ringiovanire i segni ripassandoli periodicamente. Quello che è certo è che essi raffigurano un elemento caratterizzante del nostro territorio apuano. Il dibattito sulla loro esatta datazione è molto acceso, c’è chi sostiene che le prime incisioni possano essere legate ai Liguri Apuani, chi invece nega questa eventualità non potendola provare ancora con certezza storica. Quello che è certo è che sia i detrattori che i sostenitori sono riusciti a traghettare questo “arnese da taglio” da semplice strumento ad oggetto di culto emozionale, segno distintivo dell’ identità apuana, a farne crescere la sua importanza oltre i confini delle comunità locali di montagna che ad esso hanno sempre attribuito un valore rilevante. Ma quali possono essere le possibili origini di questo strano strumento dalla punta arrotondata. Non avendo precise informazioni possiamo lasciare correre la fantasia intrisa da un certo rigore logico. Possiamo, infatti, riprendere alcuni spunti dalle nostre fiabe apuane che raccontano di come una spada, dalla punta accumunata, si spezzò e questo venne considerato un segno propiziatorio per iniziare un nuovo periodo di pace. La punta lesionata venne ribattuta e resa ricurva per trasformarla in uno strumento utile alla gestione del bosco, ma all’occorrenza anche per essere usato a scopo
difensivo. Uno strumento per tagliare ma anche per raccogliere e per trascinare i rami. Altre ipotesi più plausibili fanno risalire la sua origine dall’evoluzione della falce arborea partendo da una struttura lignea, sostituendone via via alle lamine di selce quelle in ferro nella parte tagliente, per poi nel tempo abbandonare il legno quando la disponibilità del ferro divenne maggiore. Quello che lega storicamente i pennati al nostro territorio è l’abbondante presenza di minerali ferrosi, di acqua; per la forza motrice dei magli, di legno; per i processi di fusione, che fecero sviluppare in ALTA Versilia una florida industria del ferro che disseminò sul territorio fonderie, distendini e laboratori artigianali. Oggi di questa intensa attività, databile fin dal periodo degli etruschi, rimangono alcune ferriere a Pomezzana ( Milani) e Cardoso (Migliorini), dove la tradizione della produzione dei pennati, assopita per oltre un cinquantennio, sta’ rinascendo grazie all’interesse nella ricerca di una identità peculiare caratterizzante il popolo apuano.
L’arte del ferro, e in particolare quella delle lame pennate, è talmente radicata tra la popolazione locale che, ancor prima dei ritrovamenti delle incisioni rupestri, nel paese di Cardoso, la loro importanza oltre che nella pratica del lavoro quotidiano e nella tradizione orale aveva lasciato piccoli segni tangibili nella diffusione di spille in oro a forma di pennato o anche nelle più frivole, ma non per questo meno interessanti, t-shirt usate per il carnevale 2004 serigrafate con la scritta “fatticolpennato”. Una tradizione talmente radicata che ha favorito dal 2013 la rinascita di una serie di eventi a cadenza annuale che si sviluppano tra la fine e l’inizio del nuovo anno. Il 21 dicembre, nel giorno del solstizio d’inverno, un eccezionale fenomeno astrologico permette di vedere la doppia alba del sole per il momentaneo oscuramento generato dal monte procinto. Alle ore 10.07 di ogni anno i primi raggi del sole escono da dietro il monte nona e illuminano il santuario di San Leonardo, situato sopra il paese di Cardoso e in verticale sopra al masso dei pennati di Trogna. L’ombra del monte
Foto di Francesco Felici, Sasso pennati Trogna. 55
procinto si proietta come una meridiana naturale, sulla valle del Cardoso. Mentre la prima domenica dopo l’epifania, lo stesso fenomeno è visibile dal sasso dei pennati di Trogna, dove centinaia di persone si ritrovano a festeggiare la nascita del nuovo anno al suono del corno e al tintennare dei pennati battuti l’uno contro l’altro in segno propiziatorio. Quanto avviene a Trogna è il frutto della collaborazione attiva tra Stefano Pucci, guida ambientale e appassionato apuano, e il Gruppo degli Uomini della Neve di Cardoso che hanno voluto fervidamente far crescere e radicare questa iniziativa. Una tradizione riscoperta e valorizzata negli ultimi anni che si riproduce nella sua essenzialità. Affilare i pennati con una mola a pedale, posizionarli sulle antiche incisioni, aspettare il sole, usarli per liberare i castagni dall’edera e brindare tutti insieme alla nascita del nuovo anno salendo a piedi da Cardoso all’antico santuario di San Leonardo, patrono dei carcerati, delle partorienti e di tutti quelli che credono che la montagna non debba essere abbandonata ma vissuta. Pennati da usare ma anche da rispettare, un mito che travalica il tempo pregno di significati. Tutto questo si sposa a pieno con la mentalità del gruppo di Cardoso che ha dato vita alla nuova realtà economica locale “Fatti col pennato” per provare a rilanciare una micro economia partendo dai prodotti che la terra produce. Patate, miele, farina di: castagne, segale e grano saraceno, ma anche birra alle castagne in collaborazione con il birrificio artigianale Lupus in Lunae e al metataro Simone Battistini. Una piccola azienda agricola, facente parte della rete dell’Agricoltura Bioeroica che insieme all’attività professionale svolte da Sara Dario nel campo delle porcellane artistiche vuole valorizzare la terra e l’arte. Piccole produzioni stagionali esposte nella vetrina del paese, un alimentari chiuso da oltre vent’anni, e riaperto come centro espositivo e un laboratorio artistico nelle vie interne presso Ca’ Palagnini. Ca’ Palagnini rimasta per anni completamente abbandonata, è rinata come laboratorio dove la terra incontra la terra e le idee nuove si radicano nel passato. Un porto sicuro dove Sara, veneziana di origine e cardosina 56
Foto Francesco Felici. San Leonardo, Alba tra il monte Procinto e il Monte Nona
Foto Francesco Felici. Sasso dei Pennati di Trogna (Cardoso di Stazzema)
di adozione, da forma alle sue porcellane e il duo Francesco-Francesco, due amici di terra e di mare, espongono i loro prodotti agricoli “fatti col pennato” e connotati da sincerità e semplicità. Ca’ Palagnini è sempre stato un punto di incontro tra la gente di montagna e quella di mare, prima, intorno al 1700, come fonderia e distendino del ferro della Magona, estratto nelle vicine miniere della Buca della Vena, per poi diventare una stalla, una sala da ballo paesana fino ad oggi, un laboratorio dove le idee prendono forma. A Ca’palagnini la terra di Fatticolpennato incontra la terra di Sara Dario, e il mare si mescola alla montagna, ponendosi in modo orgoglioso e sincero, forse non perfetto, ma vero. Per info e contatti. Sara cell: 3470955246 Francesco 3281590730 Mail: fatticolpennato@gmail.com Facebook: fatticolpennato www.fatticolpennato.it www.saradario.com
Foto: Simone Verona, il gruppo di Ca’ Palagnini
Foto: Sara Dario, Interno Ca’ Palagnini 57
Razze animali, varietÁ vegetali e piatti tradizionali di Michele Armanini, storico, ricercatore di usi, costumi e tradizioni popolari, bioeroe.
Bovini Pontremolesi in allevamento pilota in loc. Porciglia di Fivizzano 58
Nonostante il fatto che oggi in alta Versilia l’economia agro-silvo-pastorale sia quasi scomparsa, molto probabilmente questo territorio fu una delle fondamentali “palestre” in cui si formarono alcune delle razze animali e varietà vegetali di cui diremo. L’allevamento e l’agricoltura sono stati, da millenni fino a pochi decenni fa, la voce principale dell’economia versiliese, molto prima che venisse “inventato” il turismo e prima che si “scoprisse” l’escavazione del marmo. Ne sono testimoni i numerosi alpeggi (o alpi), sedi estive munite di abitazioni, stalle e terreni terrazzati per l’agricoltura, che ancora oggi punteggiano la quota tra i 700 e gli 800 metri d’altitudine: Campanice, Bètigna, Puntato (che afferivano rispettivamente ai centri di Terrinca e Levigliani), le varie località che formavano l’Alpe di Pruno e l’Alpe del Cardoso, fino ad arrivare a San Rocchino (appartenente a Pomezzana). Alcuni antichi alpeggi divennero (e molti lo sono ancora), in tempi relativamente recenti, degli insediamenti stabili: Arni (un tempo alpeggio di Vagli, comune al quale appartenne fino a circa a metà Novecento), Col di Favilla (un tempo alpeggio di Levigliani), Petrosciana e Palagnana (un tempo alpi di Stazzema), Sant’Anna di Stazzema (un tempo alpeggio di Farnocchia); poco oltre i confini amministrativi di Stazzema anche San Pellegrinetto (oggi comune di Fabbriche di Vergemoli) nacque come alpeggio di Trassilico (Gallicano). Verso maggio quegli insediamenti puntualmente si ripopolavano di uomini e bestie: donne e bambini abitavano lassù fino circa a settembre, attendendo al bestiame, agli orti eccetera, mentre gli uomini un po’ stavano all’Alpe, dove coltivavano segale, orzo, patate ecc. e dove raccoglievano il fieno, ed un po’ facevano la spola col paese, ad esempio per trasportarvi il fieno che sarebbe servito per l’inverno e per prelevare alcuni beni di consumo irreperibili in altura. Contrariamente che in altre zone limitrofe delle Apuane o ad alcune località di Garfagnana e Lunigiana, in alta Versilia la pastorizia professionale non era praticata e quindi non esistevano greggi di centinaia di pecore che in estate stavano in alpeggio ed in inverno andavano a svernare nella pianura tra la confluenza tra il Magra col Vara ed il lago di Massaciuccoli, oppure, come si diceva un tempo, in Toscana, cioè nella Piana di Lucca o nelle zone costiere di Pisa, Livorno e Grosseto. Nella nostra zona ogni famiglia aveva poche pecore (di solito meno di dieci) e al massimo un paio di mucche. A volte si affidavano le proprie bestie ad un individuo che le portava in alpeggio insieme a quelle di altre famiglie, ma anche questo non avveniva molto spesso. La diffusione di alcune razze di animali e di alcune varietà di piante spesso coincide con la distribuzione sul territorio di tradizioni, usi e costumi. In questo non fa eccezione l’alta Versilia che si mostra come parte integrante di un comprensorio più vasto, che è culturalmente omogeneo e che comprende anche la zona camaiorese, l’alta e in parte media valle del Serchio (cioè la Garfagnana storica) e le province di Massa Carrara e La Spezia (cioè la Lunigiana storica). Storia, cultura, usi e costumi di questo territorio omogeneo divergono per molti aspetti da quelli del resto della provincia di Lucca e dal resto della Toscana, riavvicinandosi, spesso, alla Liguria. Le razze bovine di tipo “iberico”, ossia a mantello rossiccio, caratterizzate da corporatura contenuta ma robusta, agilità e quindi adatte all’alpeggio ed al pascolo nel bosco (qualcuno le ha definite capre travestite da vacche), sono diffuse in buona parte dell’Appennino settentrionale, in particolare nell’area ligure; questo accade a partire dall’area garfagnino-versiliese (dove cominciavano a fare la loro comparsa le vacche di razza Pontremolese, animale, minuto, agile ma anche dotato di forza straordinaria se pensiamo che anche in Alta Versilia il bue di quella razza era utilizzato per trainare i blocchi di marmo verso la costa, lavoro per il quale solo ai primi del Novecento venne gradualmente sostituita dal bue Maremmano. A dispetto del nome la Pontremolese non era tradizionalmente allevata solo nell’alta Lunigiana, ma in tutto il comprensorio apuano e lo stesso possiamo dire della razza bovina Garfagnina, di tipo “podolico” (a manto grigio o biancastro, ma coi vitelli che nascono col manto rossiccio), anch’essa molto nota anche in Versilia, dove era la vacca da latte e da lavoro più diffusa.
A partire dalle campagne di Lucca e Viareggio e dalla zona meridionale del comune di Massarosa, quindi immediatamente a sud delle Apuane, veniva allevata la razza Pisana, molto più grossa e con attitudini in parte differenti da quelle allevate in Versilia e dintorni. Parenti molto prossime della Pontremolese erano invece le razze allevate nell’area culturalmente ligure (zona che amministrativamente fa parte anche di altre regioni) la Bettolese in Val Nure (PC), la Varzese-Ottonese nelle valli Trebbia, Aveto e Staffora (GE, PC, PV), la Cabellotta-Tortonese nelle alte valli Curone, Borbera e Grue (AL), la Valtarese-Bardigiana nelle alte valli Taro e Ceno (PR) e, in una zona che non fa parte dell’areale culturalmente ligure, la Cornigliese-Boscarina in alta Val Parma (PR); anche la Cabannina dell’alta Val d’Aveto (GE), che in periodi non lontani dal nostro è stata ibridata con la Brunalpina, in origine sembrerebbe essere stata del nostro tipo. Anche queste razze lasciano il posto a bovini ben più grandi, dal pelame di solito biancastro e con caratteristiche produttive del tutto diverse nelle aree limitrofe, cioè nelle zone propriamente piemontese, lombarda, emiliano-romagnola (a parte alcune zone dell’alto Appennino a confine con Lunigiana e Garfagnana dove erano allevate la Garfagnina o le razze affini alla Pontremolese come la citata Cornigliese-Boscarina) e, come detto, nella Toscana (a parte la Val di Lima dove, data la vicinanza della Garfagnana, era diffusa la Garfagnina). Oggi molte razze autoctone sono in via di estinzione perchè a partire da metà Novecento hanno cominciato ad essere abbandonate in favore di razze cosmopolite più produttive in termini di quantità anche se molto meno competitive, come dimostrano studi anche recenti, in termini di qualità del latte rispetto a quello delle razze che da millenni si sono plasmate in funzione del territorio. In alta Versilia era ed è allevata la pecora Massese, che nonostante il nome, è sempre stata allevata anche in queste zone e non solo nelle Apuane centro-settentrionali ed in Lunigiana ed in Garfagnana. Anche le razze ovine allevate in Versilia, Lunigiana e Garfagnana derivano da un ceppo comune e sembrano avere qualcosa in comune ad alcune razze delle Alpi Marittime e della Corsica. Limitandoci a citare una caratteristica morfologica, nelle razze autoctone apuane (Massese, Garfagnina, Zerasca a cui possiamo aggiungere la Cornella dell’Appennino reggiano, probabilmente derivata dalla Garfagnina) come nella Brigasca e la Frabosana (allevate nelle zone culturalmente liguri delle Alpi Marittime ma anche nelle Alpi Cozie), ad esempio colpisce l’alta frequenza di corna (rivolte all’indietro) anche negli esemplari femminili, tratto raro nel resto d’Italia e Francia. Cucciolo di Cane da pastore delle Alpi Apuane
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Pecore apuane al pascolo in loc. La Fania Questo particolare fa sì che molti turisti, sulle Apuane come nel Brigasco o nell’Ormeasco, esclamino guarda, le capre!, quando in realtà si tratta di pecore. Anche le pecore della Corsica (isola linguisticamente e culturalmente “italiana” che storicamente è sempre stata molto legata a Liguria e Toscana) ricordano le nostre per la frequente presenza di corna ed anche per la lana piuttosto ruvida. Esiste comunque anche una razza di Capra Apuana. Le pecore della nostra zona producono non solo latte (col quale si producono ancora squisiti formaggi, ricotte ecc.) ma anche ottima carne di agnello. Il cane tradizionalmente usato per custodire gli armenti in alta Versilia era il Pastore Apuano (o Lupo Apuano o Lupo Lunigianese o Cane delle Alpi Apuane ecc.), razza recentemente “riscoperta” che veniva utilizzata dalle Apuane meridionali e dalla bassa Garfagnana in poi fino all’alta Magra e all’alta Vara, ma sconosciuta altrove. È un cane dotato di un’eccezionale intelligenza (dote indispensabile per guidare al meglio le greggi), dal pelo che varia dal nero al grigio pezzato, con orecchie di solito (ma non sempre) “a lupetto”, occhi scuri o celesti o, non di rado, di un occhio scuro e di uno celeste. Piuttosto diverso è invece il Lupino del Gigante, cane da pastore tipico dell’Appennino reggiano-modenese. Per le piante citiamo l’uva Vermentino, che, come attesta il Gallesio nella sua Pomona Italiana (del 1817), era diffusa, oltre che in Corsica e Sardegna, dalla Provenza e dal Ponente fino alla Versilia, ma sconosciuta più a sud (va da se che il Vermentino sulla costa pisano-livornese è giunto assai tardivamente). Stando sempre alla Pomona del Gallesio, per quanto riguarda i vini rossi, il Sangiovese era sconosciuto immediatamente a nord di Lucca e Pisa mentre sappiamo da analisi anche genetiche che nella nostra zona erano diffusi vitigni a bacca nera affini a quelli garfagnini e lunigianesi (Colline del Candia, Val di Magra, Val di Vara, Cinque Terre) quali la Schiava, la Pulichese, la Montanina. Tuttavia erano i vini bianchi che un tempo venivano prodotti di più. Anche in questo Versilia e dintorni si allineano con l’area ligure, differenziandosi dalle aree toscana e padana: pensiamo a quanto scrivevano De Stefani e Giacoboni nella seconda metà dell’800 a proposito di aree come la Garfagnana o le alte valli Aveto, Trebbia e Staffora: in quelle zone, come nell’area costiera compresa tra le Alpi Apuane e le Alpi Marittime, era tradizionalmente consumato soprattutto vino bianco e solo per contatti con le colline lucchesi e toscane in genere o coll’areale vinicolo padano divennero progressivamente più numerose le varietà di vite a bacca nera. I Versiliesi della “Piana” conoscono il vino del Monte di Ripa e di Strettoia, ma erano e sono ottimi anche quelli dello Stazzemese, dove Retignano e Stazzema capoluogo erano e sono i centri più vocati. C’è poi la castagna Carpinese, lucida, chiara, dolcissima, che si sbuccia agevolmente una volta arrostita od essiccata ed ottima per produrre farina; è diffusa dall’Appennino pistoiese fino all’entroterra di Sestri Levante e Lavagna, ma che ha nella nostra zona la sua massima diffusione. Alcuni anziani dell’alta Versilia ricordano anche le mele Rotelle, note con lo 60
stesso nome anche nelle valli di Vara e Magra e nella Montagna massese e chiamate Casciane in Garfagnana: si tratta di una mela di media pezzatura, di forma schiacciata e colore rosso-giallo, che si presta alla lunga conservazione. Raccolte a ottobre, se conservate adeguatamente, sono ancora gustose fino a marzo o aprile! Si potrebbe parlare ancora di susine, fichi, olivi, verdure varie, legumi, patate e cereali, ma abbiamo già reso l’idea della ricchezza e della biodiversità di cui è portatrice l’alta Versilia. Questi prodotti stanno recentemente ritagliandosi un loro spazio nella ristorazione, grazie alla sensibilità di alcuni cuochi che gestiscono o lavorano presso locali della costa versiliese. In questi locali spesso vengono utilizzati per piatti di tipo contemporaneo, che ne esaltano le caratteristiche. Tradizione, dunque, ed innovazione. Ma sarebbe importante, forse essenziale, che non scomparissero le pietanze tradizionali che assieme a questi prodotti sono nati. Già da alcuni anni alcune regolamentazioni (ad esempio l’utilizzo di utensili e recipienti in plastica o acciaio al posto di quelli tradizionali in legno, pietra o terracotta) ed alcune mode hanno in parte snaturato il prodotto oggi destinato al commercio rispetto a quello che un tempo si faceva per l’economia casalinga, familiare. Questo vale per olio, vino, formaggi, salumi e non era raro fino a pochi anni fa, che lo stesso produttore, soprattutto se anziano, tenesse per se una piccola parte di materia prima da lavorare come un tempo, per poter ritrovare il sapore del passato, impossibile da replicare con le tecniche moderne. Ma oggi anche i piatti tradizionali vengono spesso snaturati per essere adeguati a mode e tendenze del momento o a “filoni” diversi da quelli seguiti da sempre nella nostra zona. Un esempio è dato dalla pasta fresca per tordelli, maccheroni (o lasagne), taglierini ecc. che da noi un tempo prevedeva un uso molto limitato di uova, mentre oggi ne abbonda, quasi fossimo in Emilia Romagna! È per questo che se c’è, giustamente, una forte attenzione per la materia prima locale ci vorrebbe un’altrettanto attenta sensibilità per il piatto tradizionale, perché non se ne perda la memoria e non se ne stravolga l’essenza. In un certo senso anche questa è biodiversità e l’accostamento del piatto innovativo a quello tradizionale è certamente un arricchimento.
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STORIE DI DONNE DI MONTAGNA
T R A A R T E , C U LT U R A E T R A D I Z I O N E di Sara Dario A Cardoso di Stazzema, al Palazzetto della Cultura, nei giorni del Solstizio di giugno nasce un evento in cui si incontrano le Storie di Donne diverse del presente e del passato, con opere variegate che hanno in comune la vita di montagna. Vita di montagna carica di bellezza, suggestioni e libertà ma contemporaneamente ricca di difficoltà. In passato, per l’isolamento vissuto da una vita di sopravvivenza dedita al lavoro della terra, un’esistenza agra e dura su un territorio poco accogliente. Nel presente la difficoltà di vivere in realtà che sono state abbandonate per la pianura più accogliente e ricca di lavoro, lasciando un territorio già di per sé fragile, in balia di sé stesso, in cui la terra, che fu per decenni coltivata e addomesticata, si ritrova sola e invasa da rovi, i cui borghi prima vissuti e carichi di tradizione e cultura “montagnina”, sono oggi semiabbandonati. Così come la vegetazione impazzisce e ingoia tutto ciò che era coltivato e vissuto, e le varie frane e la caduta degli alberi cancellano le antiche vie di comunicazione così il tempo cancella la rete culturale e artigianale che viene nascosta nelle cantine o addirittura considerata inutile. In quest’ambiente, così difficoltoso, le Donne hanno saputo, un tempo, cogliere la bellezza e l’armonia attorno a loro ritrovandosi assieme realizzando dei lavori di grande valore estetico e culturale, creando oggetti del quotidiano utili per l’arredo della casa come: lenzuola, cesti, asciugamani, anche con cose molto semplici. Ora, nel presente riprendono ad incontrarsi in piccoli gruppi, dando vita a nuovi oggetti con lavorazioni tradizionali e moderne, alcune di esse fanno corsi e incontri per divulgare l’arte del fare, con lo scopo di sensibilizzare l’animo umano alla bellezza del fare femminile. Altre Donne, invece, sono riuscite a farsi ispirare dalla natura e dar dono alla comunità di opere d’arte chi nel campo della pittura, chi nella fotografia, 62
Foto di Luca Battaglia
Foto di Paola Aringes
Foto di Sara Dario
Foto di Kerstin Becker
nella scultura, nella ceramica, o letteratura partecipando alla vita culturale artistica dei borghi con novità e armonia, spesso portando le loro opere anche all’estero come dei messaggeri dei loro piccoli borghi. Al Palazzetto della Cultura avremo l’occasione di partecipare oltre che ad una mostra anche ad uno scambio tutto al femminile, Donne che creano per le donne e per la comunità, divulgando il proprio saper fare. Lo scopo di quest’evento è quello di ricreare una rete sociale e culturale perduta nel tempo, quello di dar di nuovo vita a occasioni di incontro di ricordo e di divulgazione e di festa. Ci saranno lavori artistico-artigianali con trame tradizionali e contemporanee di tessitura, ricamo, intaglio su stoffa, cucito. Avremo i lavori di cesteria, che dalla natura grazie all’intreccio, vengono sapientemente creati oggetti utili ed ergonomici per la vita montana e agricola. Infine verranno esposte opere d’arte quali fotografia, scultura, pittura, che non necessariamente rappresentano la montagna o la vita montana ma che sono create da Donne che la vivono giornalmente e che ne sono coinvolte. Opere che passano dal figurativo al concettuale, con tecniche di realizzazione varie dal classico olio alla serigrafia fotografica su porcellana. Un evento importante per il nostro territorio creato da Donne che per il territorio fanno molto e che hanno il bisogno di farlo rivalutare anche attraverso il loro lavoro manuale, artistico e culturale, nella speranza che le presenze femminili aumentino, perché nei nostri “boschi” le Donne che creano sono tante e spesso sconosciute. Vi aspettiamo nei giorni 22-23-24 giugno a far visita al Palazzetto della Cultura di Cardoso di Stazzema per partecipare attivamente a questo scambio.
Foto di Elisa Marcucci 63
Mostra a cura di Sara Dario e Serena Vincenti FOTOGRAFIA: Beta Siebel, Elisa Marcucci, PITTURA: Doriana Guadalaxara, Caribotti Manola, Stefania Brandinelli, Laura Bianchini, SCULTURA: Kerstin Becker, Gabriella Santarelli, Paola Luisi, Sara Dario, Franca Moriconi, CESTI: Chiara Pieraccini, Debora Boccelli. Tessitura: Loredana Barsanti e Teresa, Paola Aringes, Lucia Gemignani, CUCITO e RICAMO: Circolo Fantasia, Isabella e Giovanna Guidi, Lorena Ancillotti, ISTALLAZIONE FOTOGRAFICA: Anna di Stazzema, POESIE e LETTURE: Stefania Merani, TRADIZIONE e STORIA: Ezio Marcucci Inaugurazione venerdi 22 giugno alle ore 17 Apertura Sabato 23 e Domenica 24 dalle 10 alle 18
Foto di Manola Caribotti 64
Pro Loco Seravezza DAL 1930
SERAVEZZA TRA CULTURA E RELIGIONE Un cammino alla riscoperta di chiese nascoste e personaggi illustri.
SERAVEZZA,è un importante comune della Versilia storica immerso nel verde delle Alpi Apuane e a pochi chilometri dalle spiagge del Mar Ligure. Bellezze architettoniche come il Palazzo Mediceo (Patrimonio Unesco dal 2013) rendono Seravezza famosa in tutto il mondo e l’importante famiglia fiorentina dei Medici le ha regalato una gloriosa fama storica, rendendola uno dei più rinomati centri marmiferi d'Italia e del mondo. Cosa sappiamo, però, degli angoli religiosi più nascosti e degli altri illustri personaggi che vi hanno abitato? Avete mai sentito parlare di Francesco Donati, meglio conosciuto come “Cecco Frate”? E cosa sapete dirmi della Chiesa della Santissima Annunziata? Molti luoghi ricchi di storia e fascino artistico vengono spesso dimenticati e la loro memoria rischia di perdersi nello scorrere degli anni. Un progetto di qualche anno fa, proposto dall’Associazione Turistica Pro Loco di Seravezza, ha permesso di riscoprire alcuni di questi patrimoni territoriali: pannelli illustrativi dislocati in tutto il paesino e collegati ad una mappa cartacea forniscono un’accurata descrizione di monumenti, case, chiese e palazzi, sottolineandone l’importanza storica, artistica e culturale. Seravezza è anche il punto di passaggio della famosa “Via dei Marmi”, meglio conosciuta come “Via Michelangelo”, ideata da Michelangelo Buonarroti fra il 1518 e il 1520, su richiesta di Papa Leone X, al secolo di Giovanni de’ Medici. Il Comune di Seravezza, insieme alla Versilia tutta, si sta adoperando nell’organizzazione di iniziative per festeggiare il Cinquecentesimo anniversario della firma del contratto con il quale il grande scultore, su ordine
del Papa, si impegnava ad estrarre in Versilia i marmi necessari per la realizzazione della facciata della basilica di San Lorenzo. Vi siete mai chiesti dove può aver vissuto un artista di tale rango? Nel corso degli anni sopracitati, Michelangelo abitava quasi sicuramente in una casa vicino alla Chiesa della Santissima Annunziata, nota anche come “Chiesa della Misericordia”, lì situata già dal XIV secolo. La casa venne distrutta dall’alluvione del 1885 e dopo la Seconda Guerra Mondiale venne nuovamente ricostruita ex novo, dal lato opposto della strada rispetto alla collocazione originale. Sotto il loggiato della Chiesa, sul muro, una lapide ricorda ai posteri
che Michelangelo, cedendo al volere di Leone X, aprì le cave di Trambiserra e “..ne tre anni durati a domare l’asprezza dei luoghi e l’imperizia de la gente” abitò in quel luogo. La Chiesa della Santissima Annunziata non è, però, l’unica a tener viva la memoria di Michelangelo: spostandosi verso La Cappella, che fa da sfondo al piccolo paesino di Fabbiano nell’Alta Versilia, possiamo imbatterci nella splendida Pieve di S.Martino. Impossibile non ammirarne lo splendido rosone marmoreo sulla facciata, chiamato “l’occhio di Michelangelo”. Si narra sia stato costruito dall’artista in persona o, ad ogni modo, da alcuni suoi allievi. Limitarci unicamente alla memoria
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del Buonarroti non renderebbe onore ad un altro illustre personaggio che per due anni visse fra le strade del paese. Giosuè Carducci forse non avrà ricordi del tempo trascorso a Seravezza, in quanto coincide coi suoi primi anni di vita (1835-1837), ma per gli abitanti del paese è senz'altro fonte di orgoglio ricordarne le origini. Ed era inoltre di Seravezza l'amata nonna Lucia, quella che “canora discendea, co'l mesto accento de la Versilia che nel cuor mi sta, come da un sirventese del trecento, piena di forza e di soavità” (da Davanti San Guido) Il padre, Michele Carducci, fu studente di medicina a Pisa, nonché medico al servizio della compagnia mineraria presso la società francese Boissat, che gestiva le miniere di piombo argentifero della zona di Ruosina , Argentiera e Valdicastello (luogo nativo del poeta, 1935). L’omonima Piazza Carducci, dedicata al poeta, ospita quella che fu
l’abitazione temporanea della famiglia, visibile grazie a una targa marmorea posta sulla facciata. Il paese di Seravezza continuò a vivere nel cuore del poeta, grazie alla profonda amicizia che lo legava al suo maestro (nonché guida spirituale) Francesco Donati (Seravezza, 1821 - 1877). Proprio al Carducci, che per le sue opere di ispirazione classicista lo definiva “maestro del bello stile e del sermon prisco”, si deve il soprannome di Cecco Frate. Nelle lettere carducciane del 1855 Donati è già il “caro Cecco”. Maestro anche di Giovanni Pascoli durante gli anni di insegnamento ad Empoli, fu proprio lui a far conoscere a quest'ultimo le opere di Giosuè Carducci. La somiglianza di temperamento e dottrina fra i due intimi amici sarà evidenziata anche nelle successive opere pascoliane. Forse poco conosciuto, ma decisamente illustre per Seravezza,
fu sepolto nella bellissima Cappella del Rosario del Duomo dei Santi Lorenzo e Barbara. Una lapide commemorativa in suo ricordo è affissa presso la Chiesa della Santissima Annunziata. Il Duomo precedentemente citato, non sarà certo passato inosservato agli occhi di ogni singolo visitatore di Seravezza. Il grande campanile e la cupola sovrastano il paesino e sono ben visibili da ogni punto. Situato al centro del paese, sembra ergersi su una precedente chiesa dedicata ai Santi Simone, Giuda e Agata come indica un'iscrizione parzialmente visibile ancora oggi, all'esterno della costruzione presso il campanile. Iniziati nel 1422, i lavori si interrompono nel 1430 a seguito dei saccheggi delle milizie fiorentine di Astore Gianni ai danni di Seravezza, fatto storico narrato anche nel IV libro delle Istorie Fiorentine di Machiavelli. I lavori possono dirsi conclusi sicuramente nel 1637; il Duomo, tuttavia, continuò ad essere modificato ed abbellito sino agli albori dell'800. Il suo aspetto interno, infatti, presenta oggi un'impronta decisamente barocca: la presenza di numerosi manufatti in marmo e di marmi policromi fa del Duomo un vero e proprio museo del marmo. Dibattiti e curiosità di vario genere interessano le numerose opere all'intero, origini contese, significati nascosti avvolgono l'opera della Madonna del Soccorso. Il piccolo paesino di Seravezza è in realtà detentore di un'immensa cultura e di una fede religiosa molto marcata. Le strade si diramano in mezzo a monumenti, fontane e palazzi, personaggi illustri vi hanno camminato lasciando il segno in ogni angolo. Seravezza è un cammino sempre nuovo, una continua riscoperta di tradizioni, ha radici forti, è il cuore di una Versilia che deve tornare ad amare le proprie origini, valorizzare la sua storia, conoscere il proprio passato, per poter poi migliorarne il futuro.
Associazione Pro Loco Seravezza Via C. Del Greco, 11 - 55047 Seravezza (LU) Tel 0584 757325 info@prolocoseravezza.it 66
Palazzo Mediceo S E R AV E Z Z A di Stefania Neri
La Versilia nasconde uno dei monumenti inseriti nella Lista del Patrimonio mondiale Unesco come Sito seriale delle Ville e Giardini Medicei in Toscana nel 2013: il Palazzo Mediceo di Seravezza. L’edificio, costruito per volontà di Cosimo I nel 1561 su progetto del Buontalenti, dell’Ammannati o di David Fortini, è la residenza medicea più lontana da Firenze utilizzata dai Medici per controllare i commerci derivanti dall’escavazione del marmo e dalla coltivazione delle miniere presenti in Versilia. Bisogna infatti ricordare che la “Versilia Storica”, costituita dagli attuali comuni di Forte dei Marmi, Pietrasanta, Seravezza e Stazzema, divenne una enclave medicea in terra lucchese solo nel 1513 in seguito al Lodo di Leone X: il Papa infatti, al secolo Giovanni de’ Medici, preferì assegnare Pietrasanta e tutto il suo territorio a Firenze piuttosto che alla Repubblica di Lucca.
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I Medici iniziarono quindi a frequentare la zona stabilendosi probabilmente all’interno della Rocca di Pietrasanta dove, secondo lo storico locale Vincenzo Santini, il Duca sottoscrisse alcuni atti governativi, ma l’afa estiva e il rischio di contrarre la malaria, diffusa dalle zanzare anofele provenienti dalla vicina costa paludosa, determinarono quasi certamente il trasferimento della corte a Seravezza. Nonostante l’ingresso del Palazzo sia decorato dallo stemma della famiglia Medici, l’epigrafe “COSMVS MED. FLORENTIE ET SENAR DUX II”, collocata per volontà di Cosimo I sul portone nell’attuale facciata posteriore, ha portato alcuni studiosi locali a ritenere quella la facciata originaria: il cambio di orientamento sarebbe poi avvenuto nei primi anni del Seicento per volontà di Maria Cristina di Lorena. Cosimo abitò saltuariamente nel casino di Seravezza fino al 1574, anno in cui, in seguito alla sua abdicazione, l’edificio venne ereditato dal figlio Francesco che vi soggiornò per vivere liberamente il tanto contestato amore con Bianca Cappello. Al centro del cortile è presente il pozzo in bardiglio decorato dalla riproduzione in marmo della trota di 13 libbre pescata nel 1603 dalla Granduchessa Maria Cristina di Lorena a Ruosina: l’animale, cucinato e trasformato in pasticcio, fu spedito a Roma al cardinal Del Monte, amico di Ferdinando dei Medici e committente del Caravaggio. Il Palazzo rimase dimora granducale fino al 1637, anno in cui Maria Cristina di Lorena divise lo stabile in alloggi per ospitare i magistrati di Pietrasanta e il tribunale durante i mesi estivi allontanandoli così dal rischio di contrarre la malaria. Nel 1737, con la fine della dinastia medicea, il Granducato fu assegnato ai Lorena che nel 1784 donarono l’edificio alla Comunità di Seravezza, ma il Palazzo, essendo all’epoca occupato dal Pretorio, non poteva garantire alcun profitto agli abitanti della cittadina che, preoccupati per le ingenti spese di manutenzione, due anni dopo rifiutarono l’offerta. Nel 1792, quindi, l’edificio divenne sede amministrativa della Magona, 68
ente specializzato nella lavorazione e commercializzazione dei minerali e il piano terra fu trasformato in magazzino del ferro e del legno; dopo l’Unità d’Italia il Palazzo fu acquistato dalla Comunità e divenne sede del municipio di Seravezza. Nel 1920 l’edificio fu danneggiato da un masso di 200 chili proveniente dalla cava sovrastante che sfondò il tetto atterrando sul pavimento del primo piano e nel 1956, in seguito ad alcune goliardiche lotte campanilistiche, la statuetta della trota posizionata sul pozzo fu rubata da alcuni ragazzi di Querceta: i seravezzini risposero all’affronto rubando i batacchi delle campane del campanile della cittadina vicina.
Dati i diversi utilizzi del Palazzo, l’arredamento originario è andato perso. Solo una tela con la SS. Annunziata, oggi conservata nel Municipio di Seravezza, la collezione di coppi, rinvenuta negli anni Sessanta nell’intercapedine esistente tra il soffitto del piano terra e il pavimento del primo piano, e un tavolo in marmo mistio, realizzato nel 1577 da Paolino di Barsotto Finocchi, multato per averlo consegnato non terminato, sono rimasti a Seravezza. Nel 2002, durante i lavori per il posizionamento dell’ascensore in una delle torrette angolari, furono rinvenuti alcuni resti ossei che approfonditi studi, a cura del Professor Francesco Mallegni dell’Università di Pisa, hanno rilevato appartenere a un uomo tra i 35 e i 40 anni, vissuto tra il 790 e l’anno Mille, di umili origini, con una muscolatura piuttosto evidente, che si nutriva prevalentemente di cereali. Attualmente l’edificio accoglie: la Biblioteca Comunale Sirio Giannini, l’Archivio Storico Comunale, l’Antiquarium e la Fondazione Terre Medicee al piano terra, importanti mostre ed eventi culturali al primo piano e il Museo permanente del Lavoro e delle Tradizioni Popolari della Versilia Storica all’ultimo piano. Una curiosità: Eugenio Montale visitò il Palazzo di Seravezza con alcuni amici durante uno dei suoi soggiorni estivi a Forte dei Marmi e pensò, erroneamente, di visitare la casa che ospitò Michelangelo tra il 1518 e il 1521 e dalla quale partiva, a dorso di mulo, per le Apuane per scegliere il marmo per le sue sculture. Arrivati davanti al palazzo il poeta, sorpreso dalla mole e dalla severa signorilità dell’augusta dimora, commentò, forse con una punta di invidia: “Che lusso per una persona sola!” Dopo un breve silenzio, gettando un’occhiata alla cappella accanto aggiunse: “Andava lì all’alba a pregare prima d’intraprendere le sue escursioni”. Per saperne di più: www.palazzomediceo.it segreteria@terremedicee.it Per info e prenotazioni riguardanti le visite guidate tradizionali o teatralizzate a Palazzo Mediceo: Stefania 3491803349 - Tessa 3398806229 galateaversilia@gmail.com 69
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o l e g n a l e h c i M
è tornato di Antonietta Bandelloni
DONAZIONE DELLE CAVE DI SERAVEZZA SÌ, MA COERCITIVA Tanto si è detto e discusso sulla donazione delle cave presenti sul territorio di Seravezza a papa Leone X e ancora oggi continuano a circolar leggende a dir poco imbarazzanti sulla questione. Quella donazione lì però mica fu volontaria. Vi pare che un gruppo di persone si metta d'accordo per regalare la parte forse più redditizia del proprio territorio a un pontefice senza riceverne in cambio alcun beneficio? Qualche dubbio viene no? Infatti mica andarono così le cose. Quella fu una donazione finta, obbligata dalla Signoria di Firenze, dall'Opera di Santa Maria del Fiore e dalla fortissima corporazione dell'Arte della Lana. Vi spiego qualche dettaglio in più altrimenti detta così rimane assai difficile da comprendere. Con il Lodo sottoscritto il 12 ottobre del 1513, a Papa Leone X e quindi anche a Firenze (Leone X apparteneva alla famiglia Medici) vengono donate le cave presenti sotto la giurisdizione di Pietrasanta e Seravezza con un atto scritto dai donanti ma di fatto redatto dai riceventi del regalo. Il 14 maggio del 1515 venne inviata a Vieri de' Medici, capitano e commissario di Pietrasanta, una lettera nella quale la Signoria di Firenze, l'Arte della Lana e l'Opera del Duomo. In questa carta venne messa nero su bianco l'intenzione di avvalersi dell'uso dei marmi di Pietrasanta.
Nella lettera furono fornite istruzioni precise e dettagliate per far predisporre dalle comunità locali presenti sul territorio di Seravezza (Fabbiano, Azzano, Giustagnana, Minazzana e Basati) un documento formale e definitivo di donazione. L'atto venne redatto e sottoscritto con tanto di giuramento dalle persone più influenti dei cinque paesi o che comunque avevano delle strette relazioni con i possedimenti in questione e con le cave. Una volta arrivato a Firenze, l'atto così come era stato scritto, non piacque ai riceventi del dono. Ancora una volta gli interessati chiesero l'intercessione di Vieri de' Medici affinché tutte le clausole citate venissero rispettate, punto per punto. Le comunità quindi ancora una volta si riunirono per scrivere un nuovo atto di donazione: quello definitivo che venne accettato dai riceventi del graditissimo dono che dono non fu. L'atto attualmente è conservato presso l'archivio di Stato di Massa. Fra i nomi degli ufficiali firmatari vengono menzionati -Luca Tonini Ufficiale di Giustagnana -Giovanni di Domenico di M.Andrea Ufficiale di Minazzana -Matteo Vincenti Ufficiale di Basati -Manuello Ufficiale di Azzano -Filppo Tonini Lorenzi Ufficiale di Fabbiano -Giovanni Antonio Petri Sindaco del detto Comune (Seravezza) Il sempre vostro Michelangelo Buonarroti.
SCALPELLINI POCO ABILI SULL'ALTISSIMO Quanto ci tribolai per cavar i marmi nelle cave di Seravezza. Buttai via tempo, sprecai fatica e mi venne un fegato grosso come un pallone. Gli scalpellini lasciavano molto a desiderare e non erano abituati per nulla a lavorare con gli artisti. Che tempi duri quelli: se ci ripenso mi sento di nuovo male come in quei giorni la. Vi propongo una lettera che scrissi al Buoninsegni proprio in quel periodo burrascoso, dispendioso e poco produttivo. Firenze 30 Novembre 1518 Messere Domenicho, io m’achorgo per la vostra che Bernardo Nicholini v’à scricto che io mi sdegniai um pocho secho per un vostro chapitolo, che diceva chome el signore di Charrara mi charichava assai e chome el Chardinale si doleva di me. E questo è, che io mi sdegniai, perché in boctega d’un merc[i]aio me lo lesse im publicho, a uxo di processo, acciò che e’ si sapessi, per quello, che io andavo a mmorire. E perché io gli dissi ‘Perché non schriv’egli a mme?’, io vego che voi schrivete a mme. Però scrivete pure a llui o a mme, chome vi vien bene, e dopo la iustitia, quando sarà, vi prego non manifestiate il perché, per onore della patria.Io intendo, per l’ultima vostra, chome io farei bene a ‘llogare e’ marmi di San Lorenzo. Io gli ò allogati già tre volte, e ctuct’a tre sono restato gabato; e questo è, perché gli scharpellini di qua non si intendono de’ marmi, e visto che e’ non riescie loro, si 71
vanno chon Dio. E chosì ci ò buctato via parechi centinaia di duchati; e per questo m’è bisogniato starvi qualche volta a mme, a mmectergli in opera e a mostrar loro e’ versi de’ marmi e quelle cose che fanno danno, e quali sono e’ chactivi, e ‘l modo anchora del chavare, perché io in simil cose vi son docto. Anchora fu necessario che ultimamente io vi stessi...
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VECCHI E NUOVI CAVATORI Certo che il lavoro in cava è cambiato proprio tanto nell'arco di cinquecento anni, o meglio, in meno di cento anni. infatti, fino a metà del Novecento e soprattutto nelle cave più piccole, ancora si lavorava con le stesse metodologie dei miei tempi, senza alcuna variazione apportata dalla modernità. E' sempre stato un mestiere assai rischioso ma, d'altro canto, spesso era l'unico mestiere che si poteva fare nei paesi ubicati vicini alle cave. Un lavoro brutto, pericoloso e pure mal pagato. Dato che non bastava a sfamare la famiglia, in molti dopo aver terminato la difficile giornata di lavoro, si occupavano di coltivare i propri appezzamenti di terreno e ad allevare qualche capo di bestiame. Già, tempi duri e vita ancor più grama. I blocchi venivano staccati con la polvere nera, uno degli esplosivi più pericolosi perché difficili da gestire. C'erano i tecchiaioli che dovevano calarsi appesi con delle funi davanti alle pareti per togliere parti pericolanti o per verificare da vicino la qualità del marmo da estrarre e c'erano quelli addetti a sistemare le cariche di esplosivo per far la varata. L'esplosivo nel corso degli anni è stato sostituito in parte o totalmente prima dal filo elicoidale e successivamente dai fili diamantati. C'erano anche i quadratori, quelli che riquadravano i blocchi con subbia, martello e forza di braccia e spalle. Una volta pronti i blocchi dovevano essere portati a valle e allora si iniziava la fase della lizzatura. I canapi, se male assicurati o di cattiva qualità, potevano spezzarsi. Le conseguenze erano sempre drammatiche e spesso il blocco senza più controllo finiva per schiacciare qualche cavatore. Ora i tempi sono cambiati. Le montagne vengono mangiate a vista d'occhio e si lavora con mezzi meccanici di ultima generazione. Certo rimane un lavoro duro e assai pericoloso ma non è più quello che ha segnato la vita e talvolta la morte di centinaia di persone della montagna seravezzina e di Carrara per secoli. Il sempre vostro Michelangelo Buonarroti che vi racconta queste cose tenendo in mano un bicchiere di rosso, ma di quello bono, no come il vino che si beveva nel Cinquecento.
Ancora son conteso fra Carrara e Pietrasanta E’ strano e a tratti ridicolo il fatto che a distanza di 500 anni ancora Carrara e Pietrasanta continuino a tirarmi per la giacchetta contendendosi la mia permanenza in loco. Non è difficile capire come andarono le cose e perché dovetti spostarmi su Pietrasanta e Seravezza. Fui obbligato dal pontefice e non avevo possibilità di scelta. I carrarini s’arrabbiarono con me e in quel di Pietrasanta non ci cavai un ragno dal buco. Quest’anno a Seravezza e a Pietrasanta si festeggiano i 500 anni dalla firma del contratto per la realizzazione della facciata della Basilica di San Lorenzo a Firenze. Perché si festeggia? Ebbene perché in quel contratto firmato a Pietrasanta il 15 marzo del 1518 il papa di fatto mi obbligava a cercar marmi nelle cave di Seravezza. Il fatto che non ci volessi stare e che mi ci mangiai il fegato viene sovente tralasciato. Vi riporto la lettera che mi scrisse il cardinale Giulio de’ Medici per conto di Papa Leone X. In queste righe in pratica mi suggerisce non solo di rimanere a Pietrasanta ma anche di non lamentarmi tanto per non fare una cattiva pubblicità ai territori di nuova pertinenza del papa. Poi alla fine avevo ragione io: da lì ricavai ben poco e comunque nessuno di quei marmi lo usai per le opere mie. A ciascuno il suo mestiere: che il papa faccia il papa e io il mio...ma così a leone X non potevo rispondere anche se eravamo stati seduti allo stesso tavolo e avevamo mangiato nella casa di suo padre gomito a gomito, come se fossimo fratelli.
Vi riporto la lettera integrale... Roma, 2 febbraio 1517 Spectabilisnoster charissime, havemo recepute le vostre et mostrole ad Nostro Signore; et considerato li vostri progreddi tutti seguire in favore delle cose di Carrara, ne havete dato admiratione non pichola ad Sua Sanctità et ad noi, perchè non risponde al dire vostro quello che intendemo da Iacopo Salviati, quale è stato in sul loco delle cave et marmi di Pietrasancta con multi maestri intelligenti et ne referisce esservi marmi in quantità grandissima, bellissimi et comodi al condurre; il che essendo, ci dà qualche suspitione che vogliate, per qualche vostro comodo, troppo favorire li marmi di Carrara et torre la riputatione alli di Pietrasancta. Il che certo non doverresti fare, attento la fede havemo sempre il voi havuta. Per il che vi dicemo che, postposto omni respetto, la Sanctità di Nostro Signore vole per omni modo che in tutte le opere che si ha ad fare, et per Sancto Pietro et per Sancta Reparataet per la facciata di Sancto Lorenzo, si piglino li marmi di Piectrasanta et non li altri, per le cause soprascripte, et maximeche ancora s’intende che saranno di minore spesa che quelli di Carrara. Ma quando bene fussino di maggiore, vole ad onni modo Sua Sanctità che così si faccia, per indrizzare et aviare questo maneggio di Pietrasanctaper l’utile pubblico della città. Per tanto vedete di exequire quando vi havemo ordinato et non mancare, perchè quando altrementi facessi, sarebbe contro la voglia di Sua Sanctità et nostra, et havremo causa di dolori di voi grandemente. Domenico nostro ve ne debbe scrivere el medesimo: rispondetene a llui quanto vi ochorre et presto, levandovi alla mente omni pervicacia. Et bene valete. Romae, II Februarii MDXVII Vester Iulius cardinalis de Medicis Spectabili viro Michaelangelo Bonaroto, sculptori nostro harissimo, Iulius, Sancte Marie in Domnica diaconus cardinalis de Medicis, Bononie et cet. legatus. www.michelangelobuonarrotietornato.com www.facebook.com/michelangelobuonarrotietornato
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GIUSTAGNANA 74
GIUSTAGNANA PAESE DI ARTISTI O STREGONI? Nell’entroterra Versiliese, percorrendo a ritroso dal mare il fiume Versilia, si accede a una piccola e profonda valle incastonata tra i tondeggianti rilievi Versiliesi. Dal fondovalle di Seravezza, voltando lo sguardo ancora più in alto, si può vedere far capolino, con il rosso delle loro coperture, alcuni piccoli paesi immersi nel verde degli antichi boschi. Uno tra questi è Giustagnana, il paese è stato costruito su un fianco di montagna da cui si può scorgere, da una parte la cima del Monte Altissimo e dall’altra il mare; lo sguardo spazia tra Viareggio a Forte dei Marmi, e nelle giornate più terse, magari dopo un temporale, lo sguardo arriva fino alle isole del mar Tirreno, come la Capraia, la Gorgona e alcune volte addirittura l’isola D’elba. Un paese di origini antichissime, si parla di quasi mille anni di storia. In origine il paesello viveva secondo i ritmi della natura, le stagioni passavano tranquille e i paesani coltivavano la terra e la selva vivendo a stretto contatto con il bosco e i suoi abitanti, sia animali che non, rispettandosi reciprocamente. Nei boschi giustagnanesi c’erano poi alcuni luoghi molto particolari in cui, si racconta, vivessero delle creature fuori dall’ordinario, schive, solitarie e antichissime, che nessuno aveva mai 75
incontrato, ne tantomeno ne conosceva l’origine, ma erano già lì, da sempre, ancor prima che la prima pietra della prima casa fosse posata per edificare il paesino che a tutt’oggi conosciamo. Ne sono passati di inverni e primavere dall’epoca in cui la nostra storia ebbe inizio, ma ancora oggi si possono scoprire usanze misteriose, luoghi oscuri e presenze bizzarre... A prima vista, il paese sembra uscito dalle pennellate di un bravissimo pittore per quanto la bellezza si rileva all’osservatore di passaggio, ma se il viandante decide di addentrarsi all’interno del paesino, immergendosi nel silenzio meditabondo che pervade le piccole stradine interne, con non poca sorpresa, può imbattersi nella ruga (strada) delle streghe. Direte voi...in un paese che sembra uscito da una cartolina natalizia, dai colori così tenui, con balconi sempre ricchi di fioriture colorate, dove splende il sole per la maggior parte della giornata e la calorosa cordialità dei paesani fa sentire a casa propria... come può esistere una ruga delle streghe?!? La persona con sguardo attento, riconosce subito che questa piccola strada si differenzia dalle altre già a prima vista, infatti è l’unica formata solo da scale e sempre molto poco illuminata... Negli anni passati ci sono state diverse testimonianze cui asseriscono di aver sentito strani versi, cigolii e lamenti, addirittura strane luci provenienti dal questa scura scalinata; tant’è che i paesani, se possono, preferiscono non passare di là, magari allungando il percorso per tornare a casa. Qualunque giustagnanese sa che è preferibile cambiare giro, specialmente nelle notti senza luna o al cambio delle stagioni. Come prima ho accennato i giustagnanesi, da sempre, convivono con strane creature abitanti nei boschi limitrofi al paese, luoghi isolati, sinistri e non proprio ospitali come ad esempio la Grotta di Pitolle, la buca dell’Ambraglia, la Macchietta, il canal di Pacì... Luoghi che fin dalle origini venivano calorosamente proibiti ai fanciulli del paese e in seguito vedremo il perché. Le famiglie del paese, in origine, vivevano con quello che produceva la terra, conoscevano i tempi per la semina e per i raccolti, sapevano valutare il 76
meteo guardanto le nuvole, conoscevano i venti, le fasi lunari, tutto quello che riguardava la natura e gli animali per loro non aveva segreti… Ma per quanto riguarda i rapporti umani, la salute, l’amore, il futuro, a chi potevano rivolgersi?!? Nessuna risposta poteva essere più semplice per un giustagnanese…Alle streghe!!! Quando un paesano aveva un dubbio che la natura di per se stessa non poteva soddisfare, aveva un’unica strada da percorrere…quella del bosco. Per poter chiamare a se una strega o uno strego, l’unica cosa da fare era il rito per evocare uno di loro in modo da potergli sottoporre la domanda che tanto gli attanagliava il cuore e la mente. Il rito per aggiudicarsi il favore delle streghe o degli streghi consisteva in poche semplici, ma molto spaventose, cose: quanto le campane della vicina Chiesa di S. Martino alla Cappella suonavano la mezzanotte, prima dell’ultimo rintocco doveva essere accesa una candela nera avvolta fino a metà nei rovi e posta dentro una cassa di legno, assieme a questo lumicino, doveva essere offerto la cosa più ghiotta per gli stregoni: una lacrima di bambino,
poggiata su in piatto di rame. La notte seguente, si tornava nel posto dove era stata depositata l’offerta, una piccola grotticella in un posto chiamato Loghetto per vedere se gli stregoni avrebbero concesso udienza. Se al posto della candela ci fosse stato ritrovato un femore umano, ci si sarebbe guadagnato il favore degli stregoni. Al crepuscolo, quando dalla rassicurante luce diurna si passa alle misteriose tenebre, si sarebbe sentito un battere sommesso, un leggerissimo graffiare l’uscio di casa, a quel momento aprendo la porta, si sarebbe trovato un gatto nero dagli occhi gialli e ardenti come un fuoco, che il paesano, armato di coraggio e destrezza, avrebbe dovuto prendere e tenerlo per la coda, fino a che non si sarebbe materializzata la strega o lo strego a cui porgere la domanda. Da quel momento in poi lo spirito invocato, dopo aver ascoltato la questione del paesano, avrebbe dato indicazioni e/o consigli per l’avvenire, il consiglio doveva essere subito seguito perché il favore della magia degli stregoni si sarebbe esaurita nel giro di qualche giorno e non ci sarebbe stata replica. Il tutto si svolgeva in pochi
intensissimi momenti, lo stregone, una volta proferito il consiglio, facendo un passo indietro e immergendosi nell’ombra, sarebbe tornato al bosco da dove era venuto, pago della sua lacrima ricevuta in dono. Questo era il modo con cui le diverse generazioni di giustagnanesi hanno potuto affrontare i periodi più bui della loro vita personale o collettiva, o educare la gioventù al grido di: stai attento che arrivano le streghe con gli stinchi in mano…tanto bastava per placare anche il più ribelle dei bambini. C’erano due sole condizioni da rispettare per fare in modo che le due realtà, quella paesana e quella stregonesca, non venissero in contatto evitando così pericolose “interferenze” nel modo di vivere dei paesani, la prima consisteva nel mettere dei cardi (Frutti del Castagno) sui davanzali di porte e finestre per non fare entrare queste antiche entità in casa, la seconda molto importante, i bambini dovevano essere nascosti sotto il letto o negli armadi, in quanto che gli spiriti essendo ghiotti delle lacrime di fanciulli, si credeva che avrebbero potuto rapire le anime dei bambini condannandoli a una vita di infelicità, per poter prendergli tutte le lacrime possibili. Nel corso dei secoli tutto è andato secondo le tradizioni e regole, fino a che qualche paesano, nella foga di aver soddisfazione per i propri crucci, si è dimenticato della prima precauzione necessaria facendo si che queste antiche entità entrassero nelle abitazioni attratte dal calore del focolare domestico e dalle lacrime dei fanciulli. Fortunatamente, i bambini erano al sicuro negli armadi o sotto i letti, ma il passaggio di questi spiriti ha lasciato all’interno degli ambienti a cui hanno avuto accesso, tracce evidenti della loro “invasione”, con delle conseguenze sulle generazioni nate in seguito a questi eventi. Qualcuno dice che sia per questo che nel paese a tutt’oggi si possono incontrare persone ultranovantenni, talenti artistici e persone con spiccate personalità. L’unica cosa certa rimane una: a Giustagnana ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre le streghe e gli stregoni, questa è una maledizione o una benedizione?!?!? 77
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Regole d'uso dei terreni comuni ed assicurazione delle vaccine. di Anna Guidi
Vivere e frequentare un paese, un territorio, un ambiente, suscita non pochi interrogativi circa le trasformazioni e le modificazioni sopraggiunte. I paesi della nostra montagna sono adesso immersi nel verde di selve abbandonate e di coltivi di cui bosco e sottobosco si sono inesorabilmente riappropriati. Gli sporadici seminativi attirano l'attenzione: l'occhio legge il campo arato come un tappeto steso nel prato ed ammirandolo approva la rara e buona volontà dell'agricoltore. Un tempo era il campo non violato dal vomere a stupire: toppa giallastra nell'ordinata teoria di pianelle degradanti sul pendio. Se non dissodato a causa di lutti, parenti e compaesani rimediavano con solidale cura per dare sollievo a vedove ed orfani. Le carte di archivio danno sostanza alle congetture: terrilogi, statuti, catasti, regolamenti, verbali, estimi rivelano le dimensioni sociali, culturali e geografiche di un mondo che fu; una realtà che non è obsoleta per i valori che la informarono; misura e modello del contingente certificano la distanza ed invitano alla riappropriazione. Il primo documento che ci offre materiale utile a rispondere ai nostri interrogativi è lo “Statuto di Pruno e Volegno” del 6 maggio del 1523, secondo l'indizione fiorentina, rogato per mano di ser Niccolò di Francesco di Modesto da Prato al presente Cavaliere del Magnifico Capitolo del Comune di Pietrasanta. Lo strumento illustra eccellentemente la cultura da cui i beni comuni si originano e sostentano e le finalità a cui tendono. Sei sono gli uomini “eletti e deputati dalli homini del Comune di Pruno e Volegnio a componere ovvero riformare li hordini di detto Comune per utilità e onore e diffensione di detto comune”. Tre rappresentano Pruno: Iacopo di Francesco, Simone di Giovanni e Paolo di Cristoforo; tre rappresentano Volegnio: Antonio di Gian Salvatore, Bartolomeo di Antonio e Giovanni di Lunardo. La prima regola che viene imposta riguarda il “Lavorare Le Festi”; i sei uomini, appena nominati, ordinano che qualsiasi uomo lavori nei giorni di festa comandati sia accusato e paghi bolognini quattro. A seguire si prescrive che ciascuna famiglia non manchi di accompagnare i morti alla Chiesa pena l'obbligo di pagare quattro bolognini. Infine si passa a norme che rimandano nello specifico all'uso dei terreni: è fatto divieto di “Accettare porci forestieri” o di vicinante a pascolare nei terreni comuni; nel caso accadesse devono essere pagati dieci soldi al mese per porco; anche per le vaccine, i muli e gli asini, se bestie forestiere lasciate pascolare nei terreni comuni, sono formulati divieti e sanzioni in denaro; 79
idem per le persone forestiere che raccolgano legna, erba e fieno. La chiamata in giudizio e le ammende riguardano anche gli abitanti di Pruno e Volegno che arrechino danni alle terre; sono dettagliate anche le modalità di tagliare o diramare o scorzare alberi o metterli in fuoco, di accendere fuochi per fare il carbone, di scorzare cerri o querce, di appropriarsi di piastroni, di rapportarsi correttamente agli officiali e questi ai sindaci. Di seguito si stabiliscono i salari, si regolano il pascolo a Mosceta e la bandita dell'Alpe, si fa divieto di buttare “bruttura alcuna” davanti casa propria ed altrui e nella strada comune, si obbliga a spendere per gli interventi comuni senza danno e dissipazione, si obbliga a tenere netti i condotti di acqua nel Casale, si determinano le cifre da pagare per attivare mulini, fucine, folli di panno e dazi per la costruzione di case e di capanne. Gli articoli in cui si dipana il documento nulla tralasciano o trascurano; sono stesi in modo puntiglioso, spesso ricorretti e non organizzati con un filo logico, come se ogni prescrizione scaturisse dall'esperienza maturata sul campo. Il secondo documento esaminato è 80
del 22 ottobre 1916. Trecentoventitré sono gli anni che lo distanziano dal primo. Si tratta di processo verbale redatto dal Dottor Attilio Piccinini, Notaro in Seravezza, iscritto presso il collegio notarile dei distretti riuniti di Lucca e Castelnuovo in Garfagnana. La formula di apertura invoca Vittorio Emanuele Terzo, Re d'Italia per grazia di Dio e per volontà della Nazione. Nella sala della Compagnia del SS. Sacramento annessa alla Chiesa Parrocchiale alle ore dieci e trenta si riunisce la Commissione dei Beni Comunali di Pruno e Volegno, convocata a seguito della morte del Mandatario generale signor Innocenzo Iacomini, per eliberare le dimissioni presentate dai componenti e proporre ed approvare un nuovo Statuto o Regolamento. Il capitolo I riguarda la consistenza dei beni comunali e stabilisce la sede della Comunità nel villaggio di Pruno; il capitolo II tratta dell’amministrazione; il capitolo II stabilisce le regole delle adunanze e delle votazioni, compaiono citati i ruoli di Camarlingo e Segretario. Ad attirare l’attenzione è un altro documento, originalissimo, quasi coevo allo Statuto ed al Regolamento. Si tratta del Ruolo delle vaccine degli
anni 1911 e 12 della società mutua d’assicurazione di Pruno, Volegno e Cardoso. Statuto e Regolamento dei Beni Comuni e Ruolo delle vaccine sono ispirati da un’identica consapevolezza della dimensione comunitaria, capace di organizzarsi in corale risposta per far fronteggiare difficoltà e bisogni. Trentanove sono le vaccine assicurate; di ognuna di esse si indica se si trova presso i proprietari o il tenutario e si specificano età e colore del mantello: mora, scura, bianca, martolata, brinata, rossa. Scopo dell’assicurazione: mettere al riparo la famiglia, proprietaria della bestia, da un irreparabile danno economico nel caso di una perdita - quella dell’animale - essenziale al sostentamento. Il latte, bevuto e trasformato in ricotta, burro e formaggio assicurava un prezioso contributo alla nutrizione, accompagnando cibi a base di farina di castagne, segale, granturco, ortaggi ed erbi. La carne era imbandita di rado: per le feste grandi e in caso di laboriose convalescenze. Non ultima risorsa, il letame con cui concimare gli orti per rendere più abbondante il raccolto.
Anche i sentieri recano traccia indiretta delle attenzioni e cure riservate alle mucche. Quelli percorsi per la transumanza all’alpe, nei tratti più rischiosi, sono fiancheggiati da fitte siepi di bosso, pianta resistente ed elastica, adatta a contenere ed attutire improvvidi scivolamenti. Nell’alpeggio era la stalla a farle da regina: ampia, con la mangiatoia capiente, minute finestrelle per arieggiare, talora una croce scolpita sulla soglia ad invocare protezione e benedizioni. Le famiglie che nei mesi estivi si trasferivano all’alpeggio per badare alle mucche, si ammassavano in poche stanze, più piccole delle stalle e dei fienili che contenevano le scorte per l’inverno.
A Ranocchiaia, proprio nella casa sul Fosso di Triccella, adesso mia, la camera da letto per il folto nugolo della prole Guidi-Silicani, era un breve sottotetto; vi si accedeva da una scala volante appoggiata alla finestrella dall’esterno, identica a quella su per la quale le galline, al calar della sera, vengono spinte nel pollaio. Nella stanza di sotto campeggiava il letto matrimoniale, destinato ad accogliere il sonno della coppia di adulti che, a turno, lo occupava. Il lettone conviveva con il focolare e le scansie, assente il tavolo. Il buon Dio ha fornito gli umani di gambe articolate: ottimi sostegni, da seduti, per il piatto di minestra. La descrizione del contesto ambientale, la personalizzazione affettuosa
delle mucche battezzate con nomi scelti con cura, danno la misura della considerazione in cui erano tenute; non stupisce dunque che, molto assennatamente e prudentemente, si fosse pensato ad assicurarle. Se danneggiate o perdute, i periti raggiungevano i luoghi e l’animale e, analizzato meticolosamente il caso, stabilivano la misura dell’indennizzo, dipendente dalle variabili dell’età e dalle circostanze dell’incidente. Ritagli di vite vissute che i documenti fanno rivivere ed il paesaggio, per chi ha immaginazione e cuore, torna a popolarsi di presenze.
Foto di Doria Luisi
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Ranocchia. Alpe di Pruno
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Ranocchia. Alpe di Pruno
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Da Azzano: fole, filastrocche e antiche preghiere. di Anna Guidi Azzano, 3 maggio 2018. Raccolgo da Edda D’Angiolo, classe 1933, fole, filastrocche e preghiere a lei raccontate ed insegnate dai nonni: Emilio D’Angiolo (è anche il mio trisnonno, in quanto Edda è cugina di mia madre) è il narratore “laico”, di carattere mite ed estroverso al punto di meritare il soprannome di cugio, cugino di tutti perché con tutti accogliente e generoso; Amilcare Giorgi e Palma Tarabella, i nonni materni di Edda, recitano con la bambina antiche lodi religiose; la mamma Mabella le narra una storia di un Calandrino locale e la istruisce su un indovinello adatto a mettere in difficoltà compagni e compagne di scuola. Edda racconta con gli occhi lucidi di nostalgia. Ascolto attenta e grata per l'opportunità che offre a me, che trascrivo e a mia volta tramando, e a voi che leggete e tramanderete. Fine anni Trenta, in via Castello, ad Azzano: nonno Miglio, detto il cugio, racconta le fole ai cinque nipoti, raccolti attorno a lui sotto la sciaminia.
LE FOLE DI NONNO MIGLIO La storia di “Ladro fino” tiene inchiodati dieci occhi al volto del nonno che si modella aderendo ai personaggi, le orecchie dritte accolgono ogni sfumatura della sua voce, le piccole mani stringono l'orlo del pannello o torcono un ricciolo ribelle, qualcuno si succhia il pollice. “C'era una volta un re che aveva una figlia in età da marito e voleva darla in sposa ad uno che avesse talento. A questo scopo aveva decretato che sarebbe stato prescelto colui che avesse superato una dura prova” Il nonno con un lento giro di capo raccoglie l'attenzione, i bambini trattengono il respiro. “Il re aveva infatti ordinato di esporre al davanzale di una finestra una coperta fitta di tintinnanti campanellini d'argento. La principessa avrebbe sposato chi avesse raggiunto il davanzale senza far suonare i campanellini. In molti affrontarono la scalata ma fallirono: la coperta scampanellava come a Pasqua il campanile. La coperta restava esposta con il suo invito alla sfida. Un principe di un paese lì vicino aveva presso di se' uno svelto ragazzo che un giorno disse: “Se mi dai il permesso, Principe, vado io a provare!” Il principe dette il permesso. Il ragazzo preparò un pagliaccio riempito di scartocci, si arrampicò su una finestra del castello e mise il pagliaccio a sedere sul davanzale. Le guardie del re lo videro e, allarmate, corsero tutte quante a catturare il malvivente. Il ragazzo, lesto lesto, scivolò facilmente dentro il castello dato che nessuno faceva più la 84
guardia, salì fino alla stanza dove era la finestra con la coperta coi campanelli, la ritirò piano pianissimo dal di dentro e la posò in terra. Quando il re vide che la coperta non era più esposta e si rese conto che non aveva sentito nemmeno un lieve suono, chiese che fosse portato al suo cospetto il futuro genero.Ma il ragazzo era tornato rapidamente dal suo principe per dirgli che non aveva intenzione di sposare la principessa e che gli lasciava il posto. Il che avvenne. Il principe trasse vantaggio da un'impresa fatta da un altro, sposò la principessa e vissero felici e contenti. A grande richiesta il nonno, qualche sera dopo, racconta “La regina rossa”, dove a pretendere prove di abilità è una donna di notevole temperamento. “C’era una volta una regina che fece sapere al popolo e ai regnanti confinanti che avrebbe sposato solo e soltanto un principe che l’avesse rimbattuta. Un principe, saputa la notizia, chiese di andare a dar prova di ribatterla, convinto di farcela. Si presentò alla regina e la salutò: “Buongiorno, Regina Rossa!” E lei, di rimando: “Buongiorno principe, ricordati che sono rossa perché sotto ho il fuoco!” Prima di giungere da lei, salendo le scale del castello, il principe aveva raccolto degli oggetti lungo il cammino: due uova, un chiodo ed un giornale in cui aveva incartato qualcosa che poi sapremo. Il principe aveva nascosto tutto in seno, sotto la giacca di velluto. Subito il principe rivolge alla Regina Rossa una richiesta, togliendo dal seno
le due uova: “Me le potresti friggere, Regina?” E lei, con gli occhi fiammeggianti, ribatte: “Mi spiace, mi si è rotta la padella.” Il principe: “Ma io ho un chiodo con tanto di cappella che è bono ad aggiustare la padella”. La Regina Rossa capisce al volo di avere davanti uno in grado di tenerle testa e, adirata lo apostrofa così “Vai per merda!” Il principe, di rimando: “Eccola qui, calda calda!” E così dicendo scarta l’involto di giornale che teneva in seno e mostra gli escrementi che vi aveva incartato quando, sorpreso dal bisogno, si era liberato su per la scala. Alla Regina Rossa non restò che di sposare il Principe che l’aveva ben bene rimbattuta. Mentre il nonno Miglio racconta, nonna Ernesta, che ha finito di fare le faccende, sferruzza in un angolo della cucina, ma è stanca e vuole andare a letto. I nipoti però sono indistruttibili e pretendono un’altra fola ancora. E nonno Miglio acconsente, furbamente iniziando a narrare la fola “Il pastore dalle cento pecore” “C’era una volta un pastore che portava le pecore a pascolare. Ne aveva più di cento e le portava all’Alpe. Doveva far passare le cento pecore un ponte su un torrente impetuoso, una ad una.” Il nonno si alza dalla seggiola e i nipoti, stupiti: “ Nonno....” Paziente e sornione nonno Miglio risponde:” Le pecore sono cento, prima che siano passate tutte sul ponte ... è domattina; il resto velo racconto domani sera. Su, tutti a letto!”
Le preghiere di nonno Amilcare e nonna Palma. Vita è breve morte è certa di morire l’ora è incerta un’anima sola si ha se si perde che sarà? Ora il tempo l’hai alla morte non l’avrai. Finisce tutto finisce presto. L’eternità non finisce mai molti sono i chiamati pochi sono gli eletti. Angeli del cielo Santi del Paradiso Anime sante del Purgatorio Abbiate pietà e misericordia di noi miseri peccatori.
Dopo un po’ il primo fratello si accorse di essere solo per la via della Cappella e cominciò a chiamare l’altro che affannando rispose da lontano: “Arrivo!”. Ed arrivò col cancello del cimitero caricato sulla schiena. al fratello stupito ed anche arrabbiato disse: “Me l’hai detto tu di tirarmelo dietro e io me lo sono messo in collo!” Mi piace riferire, in appendice al materiale di Edda, una storia che, fra le tante, mi raccontava mia nonna Alaide, Lariucci di cognome, classe 1904, moglie di D’Angiolo Giuseppe. La leggenda rimanda ad un luogo, quello dell’acqua ferrata, una fonte ricca di ferro che si trova sul sentiero, oggi impraticabile, che da Azzano, passando dalle Prade e dal Tarso, portava al Fiume dove i tre fratelli D’Angiolo avevano poderi e case. Me la raccontava quando, transitando di lì, superato di poco il Rio, mi faceva bere l’acqua portentosa.
Per comprenderla, va precisato che su uno dei tre scalini di sasso con cui il sentiero in quel punto sale, è impressa nettamente l’orma di uno zoccolo che la tradizione orale vuole sia stata lasciata dal demonio, goloso dell’acqua e sempre in agguato per rubare l’anima ai viandanti. “La capra ferrata” La capra ferrata monta sempre di guardia all’acqua ferrata per impedire al diavolo di berne. Anche se non la vedi, lei c’è. Quando il diavolo, di notte o di giorno, s’avvicina alla sorgente, la capra si drizza ben bene sulle zampe e tuona a gran voce: “Sono la capra ferrata, occhi di fuoco, bocca di ferro e lingua di spada, se ti avvicini ti do una spallata!!” Gli occhi sono davvero fiammeggianti e la bocca suona come l’acciaio. Il diavolo ha paura della capra e si rintana di nuovo nel bosco.
Nella variante di recita per un defunto, l’ultimo verso recita: “di questa povera anima che è passata all’altra vita e che a voi si raccomanda”. Laudi eterne Cantiam le laudi eterne per nostro Gran Signore Gesù nostro amore morto in Croce. Orsù s’ alzi la voce con gli Angeli e coi Santi con gli eterni pianti al ciel corriamo. L’indovinello e la storiella di mamma Mabella Mezzo pepe Mezzo refe Mezzo topo Mezzo lana è un paese di Toscana, indovina quale è... Peretola è la soluzione. I due fratelli C’erano una volta due fratelli ai quali era morta la mamma. Uno era un tantino tonto. Una sera andarono al cimitero a pregare sulla tomba di lei. Venne buio e il fratello che uscì per primo disse all’altro: “Tirati dietro il cancello”.
Foto di Maurizio Stella 85
Milvio Mori LE STORIE DI
IRAQ 1967: LA BICI LONDINESE
Eccomi di nuovo, anche quest’anno, a raccontare una storia vissuta nella mia gioventù. Queste vicende, che narro, molto significative per me, spero non finiscano però per annoiarvi. La storia, che voglio condividere con voi oggi, si svolge durante la primavera del lontano 1967 nel Nord della antica Mesopotamia, nella città di Kirkuk. Una zona, quella di Kirkuk, straripante di gas e petrolio; basti pensare che in alcuni punti sia il gas che il petrolio fuoriescono dal terreno in maniera del tutto naturale. Specialmente il gas esce dal terreno bruciando da solo, dando luogo a quei famosi “fuochi” di cui è traccia perfino ne “Il Milione” di Marco Polo. In questa città riuscii ad avere un rapporto molto intenso (anche se purtroppo molto breve) con una bicicletta “da donna”, di marca inglese, datami da una simpatica Signora di Londra, che aveva grande stima degli italiani e simpatia per l’Italia. Mi trovavo qui, in questa zona dell’Iraq, ovviamente, come al solito, per lavoro. Ero infatti lì con altre 40 persone circa fra lavoratori e familiari, tutti italiani. In quel periodo noi rappresentavamo la comunità italiana più grande di tutto l’Iraq. Conobbi la Signora inglese assolutamente per caso mentre mi trovavo in un Supermercato di Kirkuk, supermercato che era anche l’unico esistente in città. Spesso mi recavo lì perché facevo il “…filo” ad una simpatica e carina commessa, con la quale purtroppo non riuscii a combinare niente, anzi rischiando anche qualcosa, dato che mi trovavo in un paese musulmano. Una volta mi capitò di aiutare la signora inglese a caricare i suoi acquisti sull’auto. Poco dopo, sempre per puro caso, la rividi durante una festa organizzata dagli inglesi (loro tali feste le chiamano…party) e lei era la padronadi casa, moglie del Direttore della raffineria che gli inglesi lì avevano costruito. 86
Al party partecipavano (scusate il gioco di parole) i rappresentanti delle varie Ditte o Società operanti nella zona, inglesi, olandesi, americani, francesi e noi italiani. Io ero lì solo perché il nostro capo-cantiere mi aveva chiesto di accompagnarlo. Mi presentai (forse un po’ sfacciatamente…ma noi italiani d’altra parte siamo fatti così!) con una bellissima rosa in mano da dare alla padrona di casa. Tanta fu la mia meraviglia quando vidi che la padrona era la simpatica signora di Londra incontrata al Supermercato. Nell’offrirle la rosa mi sembrò che la signora andasse in un “brodo di giuggiole”. Dopo un po’ diventammo anche in certo senso…complici, giacché mi chiese di aiutarla a risolvere alcuni piccoli problemi, che di solito sorgono durante questi party: l’accompagnai varie volte in un locale che fungeva da una sorta di cantina per prendere delle bottiglie ed altri generi di conforto. E fu lì, in quella cantina, che vidi la bicicletta: una “Raleigh” da donna, semi nuova, tutta polvere con le ruote sgonfie, sommersa da varie cianfrusaglie. Me ne innamorai subito. Fu durante una mia successiva visita in cantina che chiesi alla Signora inglese se avesse
potuto prestarmela. Lei esitò un momento poi mi disse: “Se ti piace, puoi prenderla”. La festa ebbe un grande successo ed io ballai con la Signora diversi valzer e provammo anche il tango ed il Fox Trot. Ricordo ancora come fu bella quella serata, resa ancor più bella per me giacché tornai a casa con la bici, che avevo fatto entrare nel capiente portabagagli di una Impala Chevrolet. A questo punto qualcuno leggendo potrà pensare qualcosa di malizioso… ma la signora era ultrasessantenne e… non la rividi più!Rimessa in sesto la bici incominciai a scorrazzare per le vie di Kirkuk specie di sera, perché di giorno si poteva pensare solo al lavoro. In città le biciclette erano poche e quindi ci misi poco a diventare conosciuto anche perché avevo una folta barba rossiccia e potevo benissimo essere scambiato per un curdo o un arabo, anche se però molti ormai sapevano che ero italiano, specie i baristi che vendevano birra e vino. C’è da dire che in quel periodo in Iraq c’era tolleranza sulla vendita di alcoolici. Ero conosciuto anche (ahimè!) dalla polizia locale perché’ dicevano che andavo troppo velocemente…
Poi improvvisamente le cose cambiarono. Si stava entrando nel mese di maggio e si cominciò a parlare di una imminente guerra fra Israele e mondo arabo ed incominciarono a vedersi posti di blocco un po’ ovunque, postazioni antiaeree nei vari punti cruciali e soprattutto iniziò il coprifuoco dalle otto di sera alle sei del mattino. Dall’Italia e dalle altre parti del mondo non arrivavano più né riviste né giornali e le notizie trasmesse dalle varie radio venivano disturbate. Furono chiusi gli aeroporti e tutti, lavoratori e familiari, di tutte le nazionalità dovevano andare fino a Teheran in Persia (allora si chiamava ancora così l’Iran) in macchina o autobus per rientrare nei loro paesi di origine. La situazione cominciò quindi ad essere abbastanza pesante. Quello che più mi dispiacque fu che dovetti smettere di fare le mie incursioni in bici di sera, non potendo più uscire di casa. I nostri lavori, che si estendevano per più di 100 Km, furono sospesi. Ci limitavamo a scaricare alle varie stazioni ferroviarie dai vagoni i tubi che arrivavano dall’Italia, via mare, dal porto di Bassora sul Golfo Persico. I vagoni da noi scaricati venivano poi caricati di camion, mezzi corazzati, cucine da campo, jeep di fabbricazione russa ed ogni altro mezzo di carattere militare. Correva voce fra gli iracheni che i treni erano poi diretti al fronte che si sarebbe formato in Giordania, in Siria o in Libano per la guerra che avrebbe definitivamente distrutto Israele. Lì alla Stazione avevo portato la mia bicicletta, che mi serviva per spostarmi da un posto all’altro delle banchine ferroviarie con più celerità. L’ufficiale ed alcuni soldati insieme a me si recarono a corsa sul posto e vedemmo la mia bicicletta in gran parte ormai sotto il cingolo e divenuta ormai inutilizzabile. Qualcuno a quella vista si mise perfino a ridere. Altri, come me, rimasero tristi. Data la situazione, quell’episodio fu del tutto insignificante per gli altri, ma per me fu invece doloroso. Avevo perso la mia bici, che mi aveva dato tante emozioni di potermi muovere in libertà. Fu in quel momento che il mio pensiero andò alla simpatica Signora londinese che con tanta generosità me la aveva regalata. di Milvio Mori 87
LA CICLOPEDALATA DEI DISASTRI La mia storia inizia nel 1982. Infatti alla fine dell’autunno del ’81 rientrai in Italia dopo due anni passati in Pakistan. Dato che dai piani della mia società tutto l’anno lo avrei passato in Italia, decisi di riprendere la mia grande passione: la bicicletta. Questa passione mi attraversa da quando avevo 10 anni, quindi decisi di comprare una bici “seria”, una da corsa corredata con tutti gli accessori, abiti adeguati compresi e via a correre lungo le strade della Versilia e della Garfagnana. Mi resi conto, con mia sorpresa, che non ero più abituato all’inverno freddo italiano. Erano ormai svariati anni che per lavoro avevo vissuto a latitudini decisamente più miti nei quali l’inverno, o era particolarmente mite, oppure non esisteva affatto. A Natale avevo conosciuto un uomo straordinario. Si chiamava Azzali e aveva una passione per la bicicletta unica nel suo genere, come uniche e fuori dall’ordinario erano state le sue imprese. Era andato in bici fino a Gibilterra, passato in Marocco aveva attraversato l’Algeria e la Tunisia. Una volta lì Azzali aveva navigato con la sua bici fino a Palermo e poi su per tutta la penisola fino a Massa. Azzali era il presidente della Massa Flex. Naturalmente mi iscrissi al club. Grazie ad Azzali e la sua squadra potei allenarmi con regolarità, partecipando a tutte le uscite settimanali, nelle quali allegria e buonumore erano alla base del successo di quel club. Andare in bicicletta non è solo un’attività sportiva, è uno stile di vita, vicino alla natura, accanto a tutti quegli uomini e quelle donne che come te condividono una passione per il lavoro duro e per le conquiste afferrate con determinazione e sudore, insieme agli altri, ma con una fatica personale: la meta si raggiunge tutti insieme ma ognuno con il proprio sforzo. Altro aspetto che ricordo con piacere di quegli anni era lo spirito di corpo che in quelle uscite si era creato fra di noi. Gli sfottò erano volti, non a denigrare l’altro, ma a spronarlo a fare meglio, a essere un ciclista migliore. Quell’inverno avevo legato con due ragazzi, Mario e Francesco, di vent’anni più giovani di me e in primavera 88
decidemmo di fare un’uscita diversa dal solito. Dato che sentivamo che la gamba era ormai buona volevamo fare una lunga pedalata in Lunigiana. Decidemmo di portare le loro fidanzate e la mia famiglia al seguito, naturalmente in macchina. Quella domenica di aprile partimmo. Per me era la prima volta che mi avventuravo in una ciclo pedalata di oltre 150 chilometri con due salite importanti. Ero preoccupato di non farcela e allora gli sfottò contro di me sarebbero stati spietati, ma dovevo provare a me stesso che potevo farcela. Questo è lo spirito che mi anima, che anima tutti noi cicloamatori ogni domenica. Partimmo da Massa alle 7 del mattino. Dopo circa un’ora e mezza arrivammo ad Aulla. Questo primo tratto andò tutto liscio, mi sentivo bene. Sembrava una giornata tranquilla, senza problemi. Purtroppo non sarebbe stato così. Ma noi non lo sapevamo ancora. Dopo Aulla svoltammo a destra e proseguimmo il nostro cammino verso il Passo del Lagastrello. Arrivati a Licciana Nardi ci raggiunsero le mie figlie, mia moglie Fatima e le fidanzate di Mario e Francesco. Ci rifocillammo prima di “attaccare” la prima grande salita della giornata. Qui iniziarono i problemi. Io arrancavo ma salivo più o meno regolarmente, Francesco, che era in leggero sovrappeso, cominciò a utilizzare la macchina con mia moglie e le mie due figlie, Ilaria e Silvia, come “skilift” personale, conseguentemente bersagliato dalle prese in giro di Mario. Tutti e tre comunque riuscimmo a raggiungere il passo. Eravamo stanchi. Forse avevamo sopravvalutato il nostro allenamento. Dovevamo decidere cosa fare. Andare avanti o alzare bandiera bianca e tornare indietro. La scelta saggia sicuramente sarebbe stata quella di riconoscere i propri limiti e tornare indietro, ma si sa che i ciclisti non si accontentano dei limiti. La scelta era continuare fino a Succiso per Valbona e Collagna, affrontare, successivamente, la seconda salita fino al Passo del Cerreto per tornare indietro da Fivizzano. Gli sfottò avevano reso la gita una questione di onore. Decidemmo di proseguire. Allora giù per la discesa che ci avrebbe portato a Succiso. Ci sgranammo e ci perdemmo dalla vista. La strada era bella e completamente
a nostra disposizione, il traffico lì è praticamente inesistente. Fui ipnotizzato dalle curve regolari della discesa e persi il contatto con gli altri. Dopo un po’ la mancanza dei miei compagni mi sembrò strana e decisi di fermarmi per aspettare le auto. Mi raggiunse mia moglie e mi informò che Mario era uscito fuori di strada e era finito in un fosso. Fortunatamente ne era uscito quasi illeso grazie alla folta erba primaverile che aveva attutito il colpo. Infatti poco dopo lo vidi arrivare in sella della bici e sembrava tutto apposto. Qualche escoriazione e un po’ d’erba qua e là, ma nulla di grave. Riprendemmo la discesa. Al bivio di Succiso raggiungemmo Francesco che ci stava aspettando. Gli raccontammo l’accaduto. Ora era il turno di Francesco vendicarsi. Cominciarono le canzonature al contrario e andarono avanti fino a che la salita non mise tutti d’accordo. La fatica ci rese taciturni e poco inclini agli sfottò. Dopo qualche chilometro, la bicicletta di Francesco ci costrinse a una sosta. Infatti la vite che bloccava la pedivella al perno centrale si era allentata. Era un bel guaio. Nella macchina avevo portato degli attrezzi, ma la chiave per stringere quella vite non ce l’avevo anche perché è una vite particolare. Decidemmo di proseguire comunque. Riuscimmo ad arrivare a Collagna. Ora dovevamo iniziare la salita del Passo del Cerreto. La salita peggiorò le condizioni della bicicletta di Francesco data la maggiore pressione che deve subire il perno durante le ascese. Decidemmo che così non poteva più proseguire e caricammo Francesco e la sua bici sull’auto fino al ristorante del passo. Le prese in giro erano riprese tra chi era stato più sfortunato. La discussione aveva coinvolto anche le fidanzate e Fatima, negli sfottò sulla situazione kafkiana che si era andata delineando. Avevo fatto una ricognizione sull’attacco della bici decretando che esso si era definitivamente “slabbrato” e non era più riparabile. Potevamo solo provare a utilizzarlo fino a che non si fosse rotto. Dopo il pranzo riprendemmo la discesa verso Fivizzano tutti e tre e avremmo controllato la pedivella solo dopo quando bisognava ricominciare a pedalare. Cominciammo la discesa con prudenza con le macchine che ci seguivano.
Mario cominciò ad accusare un dolore alla spalla. Avevo già notato una postura strana già dalla salita verso il passo del cerreto. Comunque Mario ci informò che il dolore era sopportabile e che non avremmo avuto problemi fino a casa. A Pallerone, a pochi chilometri da Aulla, la pedivella cedette costringendo Francesco a pedalare con un solo pedale fino ad Aulla. La sua avventura era finita lì. Continuò il viaggio di ritorno a casa in auto, che tanto per non farsi mancare nulla, aveva forato una gomma e le signore si erano dovute anche fermare per cambiare una gomma. Io e Mario continuammo il viaggio verso casa. A Sarzana il mio compagno superstite dichiarò che il dolore alla spalla cominciava ad essere insopportabile. Ci fermammo ancora per valutare la situazione: la spalla gli faceva male, pedalare era diventato uno strazio. Ma quale cicloamatore sarebbe stato se avesse rinunciato, se non avesse cercato di superare i suoi limiti. Strinse i denti e cercò di concludere la gita. Si arrese a Marina di Massa. Il giorno dopo all’ospedale gli dissero che la spalla era lussata. Aveva percorso quasi tutto il viaggio di ritorno, compresa la salita al passo del Cerreto, con una spalla lussata. Gli ultimi 10 chilometri li ho percorsi da solo. Sono stati i più faticosi. Solo e ultimo superstite della gita, ero stanchissimo, ma felice. I ciclisti sono gente strana: gioiscono nelle sfide e nelle avversità. La bicicletta ci da quella forza che altri sport non danno. Un augurio e un abbraccio a tutti i cicloamatori. di Milvio Mori
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La Società BICICCHI FELICE s.r.l. ha sede in Camaiore (Lu), via San Francesco n. 63. La Società si caratterizza per l’alta redditività della propria struttura operativa, sia a livello di maestranze altamente specializzate sia per l’impiego di macchine e di tecnologie costantemente all’avanguardia: elementi che permettono di programmare e gestire i flussi di lavoro nel minor tempo possibile. Altra particolarità della Società è l’aver saputo conciliare efficienza e qualità amministrativa ad una conduzione che vede impegnati, nei settori strategici dell’impresa, gli stessi componenti dell’originario nucleo familiare. L’impresa nasce nel 1933 come ditta individuale per volontà di Giuseppe Bicicchi per svolgere l’attività di trasporti con “barroccio e cavallo”. Nel 1948 Felice Bicicchi, subentrato al padre, modernizza l’attività con l’acquisto del primo automezzo realizzando il sogno tanto atteso.
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