€ 1,00 mensile di cultura cinematografica
Vento di cambiamento sulla Croisette
Pasolini a Roma nelle fotografie di Federico Garolla
Cinefili sulle barricate
I film del ‘68 che ci piace ricordare
«Che c’entra la speranza con i fatti?»
Manuel, un racconto di formazione vivo e partecipato
Cannes, tra polemiche e il ritorno dell’Italia Si annuncia un’edizione travagliata, ma l’Italia c’è!
La notte dei morti viventi: 50 anni e non sentirli L’11 maggio incontro con Paolo Zelati e omaggio a George Romero
Is this real?
2018 numero 5 anno XXXVIII
Con parole di figlio - La mostra a Casarsa
18
Maggio
Polemica sulla scelta del festival di “cancellare” le anteprime stampa
Bilanci e prospettive dell’XI edizione de Le Voci dell’Inchiesta spedizione in abbonamento postale L. 662/96 art. 2 comma 20/b filiale di pordenone - pubblicità inferiore al 45% contiene i.p. e i.r. in caso di mancato recapito inviare al CMP/CPO di Pordenone per la restituzione al mittente previo pagamento resi
Polemiche sulla scelta del festival di cancellare le anteprime stampa
Andrea Crozzoli
Editoriale
Vento di cambiamento sulla Croisette
Finora l’unico modo per vedere i film a Cannes era quello di avere un buon accredito stampa, meglio se da quotidianista in quanto la stampa accreditata è sull’ordine di qualche migliaio suddivisa in cinque categorie riconoscibili dal colore. Giallo per la stampa low profile, blu per quella periodica di media importanza, rosa per la stampa quotidiana e periodica di una certa importanza, rosa con bollino rosso i quotidianisti importanti e i periodici nazionali, bianca solo per un pugno di quotidianisti di testate prestigiose. La giornata si svolgeva con proiezione del film alle 8.30 del mattino, seguita dalla conferenza stampa. Dopo un “leggero” pasto, corsa in sala stampa per scrivere l’articolo che sarebbe apparso il giorno dopo. La sera stessa poi proiezione pubblica ufficiale del film. Il giorno seguente, sulla stampa, la relativa recensione. Ma dallo scorso anno sono entrati in scena, a gamba tesa, i social e qualche giornalista già all’uscita della proiezione mattutina postava dei giudizi, spesso negativi, condizionando così il pubblico che avrebbe visto l’anteprima mondiale alla sera. Questa istantaneità dei giudizi, non sempre ponderati, ha sconvolto i tempi della liturgia festivaliera che andava in scena dalla notte dei tempi. I produttori, vistisi gli investimenti messi in discussione, hanno in maniera vivace protestato, minacciando di non portare più i loro film sulla Croisette. Ecco quindi che davanti al dilagare dei social e della notizia sempre più speedy il Festival di Cannes ha deciso di togliere le proiezioni mattutine per la stampa, sostituite quest’anno, per la prima volta, da proiezioni in contemporanea col pubblico se non addirittura spostate al mattino successivo. «Nell’attuale sistema dell’informazione caratterizzato da esigenze di tempestività e rapidità - protesta il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI) unitamente alla Fipresci e al Syndicat Français de la Critique de Cinéma - questa misura rischia di penalizzare proprio i critici cinematografici, cioè coloro che hanno più degli altri bisogno di riflettere sull’oggetto della loro scrittura e approfondire il proprio punto di vista con ponderazione e competenza. Comprendiamo naturalmente l’esigenza del Festival di tutelare le anteprime mondiali e le delegazioni dei film, mettendole al riparo da giudizi frettolosi e considerazioni intempestive, magari negative, espressi sui social network, prima ancora della soirée di gala, ma riteniamo che a questo si possa ovviare con una clausola di riservatezza e un embargo preventivo a cui i critici cinematografici italiani, come associazione di categoria, sarebbero ben lieti di aderire.». Pretendere che 5.000 giornalisti osservino diligentemente un embargo è praticamente illusorio; come voler sequestrare i telefonini ed i computer. Nel mondo globalizzato andranno studiate altre forme per la manifestazione; come dovrà, prima o poi, essere rivisto l’intero ipertrofico svolgimento del Festival stesso. A partire dalla vertiginosa esplosione del numero degli accreditati che inibisce, ormai, la possibilità per molti di poter vedere i film nonostante le lunghissime code. Cosa che rende la partecipazione al Festival frustrante se non addirittura penalizzante. Riemerge ancora una volta, con forza, da parte di tutti il problema della gestione del cambiamento, ossia come affrontare le novità e rimanere al passo con i tempi senza penalizzare nessuno. Non dobbiamo essere come quel giornalista che in sala stampa, 20 anni or sono, si vantava di non aver mai usato e di non volere utilizzare il computer perchè quando scriveva doveva sentire il rumore dei tasti ed i martelletti che battevano sul foglio bianco!
In copertina il poster dell’ 71ma edizione del Festival di Cannes tratto dal film del 1965 Pierrot le fou (Il bandito delle 11) di Jean-Luc Godard con protagonisti Jean-Paul Belmondo e Anna Karina.
cinemazeronotizie mensile di informazione cinematografica Maggio 2018, n. 5 anno XXXVII ISSN 2533-1655
Direttore Responsabile Andrea Crozzoli Comitato di redazione Piero Colussi Riccardo Costantini Marco Fortunato Sabatino Landi Tommaso Lessio Silvia Moras Maurizio Solidoro Collaboratori Lorenzo Codelli Luciano De Giusti Manuela Morana Elisabetta Pieretto Segretaria di redazione Elena d’Inca Direzione, redazione, amministrazione Via Mazzini, 2 33170 Pordenone, Tel. 0434.520404 Fax 0434.522603 Cassa: 0434-520527 e-mail: cinemazero@cinemazero.it http//www.cinemazero.it Progetto grafico Patrizio A. De Mattio [DM+B&Associati] - Pn Composizione e Fotoliti Cinemazero - Pn Pellicole e Stampa Sincromia - Roveredo in Piano Abbonamenti Italia E. 10,00 Estero E. 14,00 Registrazione Tribunale di Pordenone N. 168 del 3/6/1981 Questo periodico è iscritto alla: Unione Italiana Stampa Periodica
Cinquanta scatti per raccontare l’intimità con la madre
Con parole di figlio
Piero Colussi
Centro Studi Pasolini - La mostra
“Alla fine di giugno Susanna e Pier Paolo si trasferiscono dall’abitazione di via Fonteiana a via Giacinto Carini, nella stessa abitazione dove abita la famiglia di Attilio Bertolucci. Nella nuova casa, madre e figlio vivono soli. Hanno traslocato i vecchi mobili che erano l’orgoglio del padre, la camera da pranzo nera e alle pareti appesi molti dei quadri dipinti a Casarsa”. Così il cugino Nico Naldini rievoca nella sua bella biografia Pasolini, una vita, il nuovo trasloco nel quartiere di Monteverde che Pasolini e la madre affrontano all’inizio dell’estate del 1959. Grazie al successo dei suoi due romanzi Ragazzi di vita uscito nel 1955, Una vita violenta uscito proprio in quell’anno e alle numerose sceneggiature cui collabora sempre più frequentemente (Le notti di Cabiria, La dolce vita, Il bell’Antonio, Giovani mariti, Una giornata balorda, La notte brava solo per citarne alcune), il tenore di vita di Pasolini migliora sensibilmente e la nuova abitazione in cui si trasferiscono ne è una diretta conseguenza. Poche settimane dopo a bordo della sua nuova e fiammante Millecento Fiat Pasolini si “imbarca” in un CON PAROLE DI FIGLIO viaggio lungo le coste italiane, da Ventimiglia a Trieste PASOLINI A ROMA NELLE per raccontare per il mensile Successo come gli italiani stanno vivendo la stagione del boom economico. E’ un FOTO DI FEDERICO GAROLLA Pasolini radioso e spensierato seppur deluso per l’esito ------negativo, prima al Premio Strega e poi al Premio Centro Studi Pier Paolo Pasolini Viareggio, del suo romanzo Una vita violenta. Via Guidalberto Pasolini, 4 “Carissima mamma, a dire il vero ho passato una notte Orario mostra: lunedì-venerdì 15-19 e un giorno di cocente delusione per il nuovo tradimensabato e festivi 10.30/12.30 – 15-19 to di Viareggio. Ma adesso ormai è passata…Sto molto INGRESSO LIBERO lavorando alla nuova sceneggiatura, non faccio altro che essere fotografato e intervistato”, così scrive il 30 agosto 1959 alla madre Susanna che si trova in vacanza a Casarsa dalle sorelle. Federico Garolla è uno dei tanti fotografi cui evidentemente si riferisce lo scrittore nella sua lettera alla madre. Sicuramente è stato uno dei pochi che – fra il 1959 e il 1960 – è riuscito a cogliere il particolare stato di grazia e di felicità creativa del poeta, muovendosi con acuta sensibilità fra le quattro mura dell’appartamento di via Carini per fissare momenti di intimità fra Pasolini e la sua amata Susanna. Le cinquanta stampe fotografiche che compongono la mostra Con parole di figlio – Pasolini a Roma nelle fotografie di Federico Garolla (visitabile fino a metà luglio nelle stanze di Casa Colussi a Casarsa oggi sede del Centro Studi intitolato allo scrittore), ci offrono alcune straordinarie immagini di quei particolari giorni. Va presto detto che Federico Garolla è stato uno dei grandi protagonisti del fotogiornalismo del dopoguerra, di cui è necessario ricordare almeno i nomi di Paolo Di Paolo, Giancolombo e Gianfranco Moroldo, Evaristo Fusar, Federico Patellani, Alfa Castaldi e Mario Dondero. A partire dal 1949, infatti, egli collabora con le più importanti testate dell’editoria di quegli anni: dall’Europeo diretto da Arrigo Benedetti a Epoca, da Le Ore a Il Mondo, da L’Espresso a L’Illustrazione italiana. La mostra consente di ammirare quattro nuclei tematici collocati in altrettanti luoghi cari a Pasolini. Si inizia dalla borgata del Quarticciolo, dove Pasolini incontra la povera gente di quei luoghi che solo un anno dopo porterà sullo schermo in Accattone. A poca distanza, a Centocelle, lo vediamo giocare a calcio con i ragazzi del quartiere in giacca e cravatta, con i palazzoni sullo sfondo: scatti entrati nell’iconografia pasoliniana. A Piazza del Popolo, lo troviamo al Caffè Rosati, uno dei luoghi privilegiati del mondo intellettuale e artistico romano. Pasolini sta cenando con l’amico Italo Calvino in un tavolo all’aperto, stanno conversando animatamente, sono sorridenti, sembrano felici. Evidentemente la delusione per la mancata vittoria al Premio Strega del Cavaliere inesistente di Calvino è oramai alle spalle. Il tour si conclude con la piccola sezione dedicata a Pasolini e alla madre ripresi nel nuovo appartamento di via Carini 45. Sono foto in gran parte inedite che ci mostrano Pasolini al suo tavolo di lavoro davanti alla macchina da scrivere, con alle spalle la biblioteca, e Susanna che, in posa, lo guarda, lo accarezza, gli sorride, rassetta amorevolmente il letto del figlio, sale gli scalini di cemento del piccolo orto dietro casa. Immagini che dicono più di ogni parola del loro simbiotico rapporto. Da notare, infine, che i vecchi mobili neri dell’appartamento che si intravedono nelle foto sono quelli che oggi fanno bella mostra di sé nelle stanze di Casa Colussi a Casarsa.
Un viaggio tra il meglio (e il peggio) di un anno “caldo” anche per il cinema italiano
Manlio Piva
Cinema e ‘68
Cinefili sulle barricate: i film italiani del ’68 che ci piace ricordare Dall’inizio dell’anno e in particolare in questi giorni, a 50 anni dal “Maggio parigino”, la radio, la TV, rotocalchi e siti internet si affollano di trasmissioni e servizi sul ’68. C’è chi propone riletture storiche e sociali, chi fa classifiche di libri, canzoni, artisti che di quell’anno sono stati i più rappresentativi e che sono invecchiati con dignità, rispetto a quelli che oggi emanano un forte sentore di obsolescenza e retorica. Il cinema e i film di quell’anno non potevano subire sorte differente. Anche perché della “rivoluzione mancata” di cinquant’anni fa, il cinema è stato uno dei protagonisti, e per diversi e contrastanti aspetti. In quanto sistema industriale e per giunta a trazione statunitense, era da un lato corresponsabile della retorica e dello status quo contro cui i giovani e le classi politicizzate dell’epoca si rivoltavano; eppure dall’altro rappresentava lo spettacolo di maggior consumo (bei tempi in cui al cinema si andava come oggi all’aperitivo!) e proprio il cinema, i suoi miti ed eroi di celluloide, tanta influenza e emulazione fornirono ai fautori del cambiamento. E i nuovi e leggeri mezzi di documentazione cinematografica e reportage televisivo, erano presenti fra i cortei, e da entrambi gli schieramenti utilizzati, per informare o per disinformare, per attaccare o per difendere le ragioni dei manifestanti. In Italia la situazione non fu diversa: se da un lato venivano contestati i festival più prestigiosi (come Pesaro e soprattutto Venezia, che ci mise dieci anni per riaversi dallo choc) e scioperi e occupazioni attecchivano anche alla Scuola Nazionale di Cinema, i soli Franco e Ciccio potevano nello stesso anno sbancare il botteghino con 8 film, tanto per dare un’idea. D’altronde in Italia nel ’68 si produssero oltre 250 film, più del doppio di quanti se ne producano oggi. Non è esagerato dire che manifestare e andare al cinema furono, in quell’anno, attività complementari, anche perché contro o a favore dei film proiettati nelle sale si scaldavano gli animi, si prendevano posizioni, infuriavano dibattiti pubblici, con risonanza negli organi di stampa. Intorno al Galileo della Cavani, vietato ai minori, che la RAI aveva coprodotto e poi non mandò in onda per le pressioni ricevute dopo la presentazione del film a Venezia, o lo scandalo e il sequestro per oscenità di Teorema di Pasolini… È d’altronde anche l’anno d’esordio di Samperi che, con Grazie Zia, rinfocola gli animi inneggiando alla “devianza” quale sguardo pruriginoso dei borghesi benpensanti piuttosto che ribellione di una gioventù asfissiata, ormai personificata intorno al volto ambiguo di Lou Castel, che già aveva dato fisionomia all’antiagiografico Francesco d’Assisi della Cavani (1966) e soprattutto all’antesignano Alessandro, protagonista de I pugni in tasca di Bellocchio (1965). Che il cinema abbia “preceduto” la rivolta sessantottina, già il film appena citato può testimoniarlo (o, sempre nel ’65, Prima della rivoluzione, di Bertolucci, che nel ’68 sarà invece nelle sale con il poco riuscito Partner) e lo testimonia anche il fatto che in quell’anno a gennaio in Italia si proiettassero La Cina è vicina dello stesso Bellocchio e La cinese di Godard. Ma contemporaneamente uscivano Diabolik di Bava e La morte ha fatto l’uovo di Questi (che in locandina prometteva «sesso e orrore sadici e paranoici»). Cinema “impegnato” e cinema “di genere” si scambiavano le sale e spesso condividevano il pubblico: l’azione politica significava non solo ragionare su Mao e Vietnam ma anche sfidare la moralità imperante, i tabù
sessuali, le regole sociali, con uno spirito libertario sempre più consapevole. In tutto questo anche la censura faceva la sua parte al botteghino: i film vietati ai minori di 14 o 18 anni non solo diventavano proprio per questo più desiderabili, almeno per il pubblico maschile, i cui presunti gusti i produttori e distributori cinematografici italiani più o meno rozzamente interpretavano. Nel ’68 film oggi “cult” come Il sesso degli angeli (e Bora Bora) di Liberatore, e I giovani tigri, di Leonviola, escono con alterna fortuna nelle sale dopo tagli imposti che vengono “strillati” però nelle locandine, quasi come un bollino qualità; di tutt’altra caratura ma allo stesso modo vietato ai minorenni è anche Il giorno della Civetta, di Damiani. Si potrebbe fare (ed è stata fatta: Sanguineti, Italia taglia, 1999) una lista proprio seguendo questa traccia, ma sarebbe qui troppo lunga. E in fin dei conti, come testimoniano numerose ricerche storico-sociali, la censura “è cieca ma ci vede benissimo”, e la sua azione risulta particolarmente utile a uno sguardo retrospettivo per dar conto dell’epoca: taglia film che parlano di soprusi, limitazione delle libertà fisiche, mentali, sessuali in nome di un mos maiorum in cui finge ipocritamente di credere e difendere. E allora, per testimoniare a caldo e senza filtri, anche in Italia il cinema scende in piazza, operatori e registi si mescolano a studenti e operai. Non è il caso del mediocre Summit, di Bontempi (annunciato come «girato sulle barricate nel cuore della rivolta studentesca»), piuttosto quello di Agosti, che NON si firma nei quattro Cinegiornali prodotti con e per il Movimento Studentesco romano fra aprile e dicembre 1968; oppure del cineoperatore Enrico Bosio che a Torino coordina un gruppo di colleghi che riprendono manifestazioni e cortei e che a fine anno daranno vita al Collettivo del cinema militante. Non sono tanto casi di emulazione dei colleghi francesi, piuttosto azioni le cui radici rinviano al “padre” del Neorealismo: Zavattini e i suoi Cinegiornali liberi. Fu insomma un anno caldo anche per il cinema, che in Italia sfornò film che ci piace alla rinfusa ricordare e alcuni finalmente rivedere, anche grazie a edizioni, diffusioni e visioni “alternative” fino a pochi anni fa impensabili. Perché il ’68 fu anche l’anno di Nostra signora dei Turchi, forse il capolavoro di Carmelo Bene che ancor oggi stupisce per la sua debordante modernità; della intensa Monica Vitti in La ragazza con la pistola, di Monicelli; dell’esemplare e coinvolgente Diario di una schizofrenica di Nelo Risi, così diverso dal fratello Dino, Re della commedia all’italiana, che quell’anno firmerà uno dei campioni d’incassi con Straziami ma di baci saziami. In questo senso, a dare l’idea del livello di qualità delle “sfide” al botteghino di Natale dell’epoca rispetto ai cine-panettoni stantii di questi anni, basti pensare che nel dicembre del ’68 si poteva scegliere fra film autoriali quali 2001: odissea nello spazio di Kubrick e C’era una volta il West di Leone. A “vincere” e a lasciarsi alle spalle un anno straordinario saranno comunque e tradizionalmente le commedie: lo spaghetti-western della collaudata coppia Bud Spencer- Terence Hill, con I quattro dell’Ave Maria (coppia inventata da Colizzi, che in quell’anno li aveva già diretti in Dio perdona…io no, prontamente parodiati dai Franco e Ciccio di Ciccio perdona… io no!) e su tutti Serafino, di Germi, trascinato dal ghigno strapaesano (ma che assomiglia tanto a Jerry Lewis) del “Molleggiato”. Proprio lui. Commenti?
«Che c’entra la speranza con i fatti?»
Gianmatteo Pellizzari
Manuel
Un racconto di formazione vivo e partecipato, dedicato a tutti i “ragazzi di periferia”
Manuel, diciott'anni, esce da un istituto per minori privi di sostegno famigliare e, per la prima volta, assapora il gusto dolceamaro della libertà. Sua madre Veronica, chiusa in carcere, vorrebbe tanto tornare indietro e ricominciare. Questi i personaggi strappati dalla realtà e trasportati dentro un film che è prima di tutto un pedinamento sull'uomo, sulle sue speranze e le sue piccole viltà. Ma è anche la storia di un'attesa, un giro a vuoto dell'anima in un contesto periferico che diventa esso stesso personaggio. Una frase, in apparenza una frase come tante, fotografa nitidamente il senso del film: «Che c’entra la speranza con i fatti?». È proprio lì, nel cortocircuito tra fatti e speranza, che abita il diciottenne Manuel. Ed è proprio il suo nome a dare il titolo al primo lungometraggio del documentarista Dario Albertini, uscito a maggio nei cinema francesi, coprodotto dalla BiBi film di Angelo e Matilde Barbagallo con Timvision, e presentato all’ultimo Festival di Venezia (sezione Cinema nel giardino), Manuel sarà distribuito in Italia dalla friulana Tucker Film a partire dal 3 maggio. Il cast vede brillare il giovanissimo Andrea Lattanzi e, tra gli altri, la sempre ottima Francesca Antonelli. «Ho strappato i personaggi dalla realtà – spiega Albertini – e li ho portati dentro lo schermo, per raccontare la storia di un ragazzo di borgata appena uscito da una casa-famiglia. Manuel è una specie di gigante buono che si trova catapultato in una realtà sconosciuta ed è chiamato a fare scelte più grandi di lui. Non gli è neanche concesso il tempo di realizzare che non è più protetto in una bolla ma che si trova fuori, nel mondo vero. Durante le riprese ho lasciato molto spazio all’improvvisazione, cercando il momento unico: ciò che accade magicamente in quel preciso istante, tra finzione e realtà». Sequel ideale della Repubblica dei ragazzi, Manuel è un racconto di formazione asciutto e pudico, attentissimo a scansare le trappole dell’emotività e dedicato a tutti i Manuel di tutte le periferie: quelli che, nella vita, «devono fa’ er doppio della fatica», se non «er triplo». Conclude, infatti, il regista: «Manuel nasce dopo la mia esperienza dentro la Repubblica dei Ragazzi, una grande casa-famiglia. Ci ho vissuto per due anni e questo tempo mi ha permesso di realizzare il documentario omonimo, raccontando la storia della struttura e l’accoglienza che offre a giovani privi di sostegno famigliare. Con Manuel, invece, racconto l’uscita. L’uscita è una fase molto delicata. Cosa succede quando questi ragazzi sono obbligati, vista la maggiore età, a lasciare la piccola comunità che li ha fatti crescere?». Manuel è l’esordio alla finzione di Dario Albertini che nasce dalla fotografia per poi dedicarsi a tempo pieno al documentario curandone tutte le fasi dalle riprese al suono, musiche e fotografia. Slot - Le intermittenti luci di Franco, suo primo documentario, racconta le vicende di un giocatore d’azzardo compulsivo (Premio D.E.R Visioni Doc - Premio “Adriano Asti” Miglior Documentario - Premio Cinemadocumentario - Premio Marcellino De Baggis Premio Doc/it Professional Award finalista). La Repubblica dei Ragazzi, prodotto insieme a Rai Cinema, è un documentario sulla nascita dell’autogoverno all’interno di una comunità per giovani privi di sostegno famigliare (Premio 400 colpi Vittorio Veneto Film Festival Premio Cinema Fedic). Incontri al mercato racconta invece la semplice quotidianità di tre persone, tre esistenze incontrate appunto nel mercato di una città di provincia (Premio “Franco Basaglia” - Premio ITFF). Manuel è il suo primo lungometraggio di finzione.
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Si annuncia un’edizione travagliata, ma l’Italia è in concorso con due film
Marco Fortunato
Cannes 2018
Cannes l’anno delle polemiche (e del ritorno dell’Italia) Pochi giorni fa il direttore artistico Thierry Fremaux e il presidente Pierre Lescure hanno presentato i titoli protagonisti della 71ma edizione del Festival di Cannes che si svolgerà dall’8 maggio al 19 maggio prossimi, sotto gli occhi attenti della splendida Cate Blanchett, Presidente di Giuria. Rispetto agli anni scorsi mancano alcuni grandi nomi (pensiamo a Malick, Assayas, De Palma che secondo i rumors avevano i film pronti), ma il profilo autoriale è sempre altissimo. In concorso c'è Godard, Panahi - per la prima volta in Selezione Ufficiale, Spike Lee che mancava da diciassette anni, Pawlikowski che torna dopo l'Oscar per Ida, e soprattutto una ricca corazzata asiatica composta da Chang-Dong, Kore-Eda, Zhang-Ke e il dal meno conosciuto Ryusuke Hamaguchi. Ci sono anche due italiani: Matteo Garrone e Alba Rohrwacher. Non c’è, almeno al momento in cui scriviamo, Sorrentino che però è alle prese con un progetto diviso in due parti il che, ha detta di molti esperti, potrebbe aver influito sulla scelta. Da segnalare nelle rimanenti sezioni gli ultimi lavori di Bi Gan dopo il folgorante esordio con Kaili Blues, Apichatpong Weerasethakul e Wim Wenders, che ha girato un documentario su Papa Francesco. In attesa di sapere qualcosa di più sui film (in questo senso Sorrentino ha fatto scuola riuscendo a far rispettare un embargo quasi totale sul suo Loro) a tenere banco sono le polemiche. Oltre alla cancellazione delle anteprima stampa – di cui si parla diffusamente nell’editoriale – quest’anno banditi anche i “selfie” sul red carpet. «A Cannes si viene per guardare film, non sé stessi» ha affermato seccamente il Direttore del Festival. Come dargli torto, verrebbe da dire ma, riflettendoci, sembra davvero strano che il festival abbia voluto occuparsi di un simile argomento e il sospetto che sia solo “fumo negli occhi” per insabbiare altre polemiche. La prima riguarda Netflix i cui film, a differenza dello scorso anno, sono stati esclusi d’ufficio dalla Selezione Ufficiale. L'uscita in sala fa la differenza, l'ha detto Steven Spielberg parlando degli Oscar, l’ha rimarcato Theirry Fremaux alla stampa. Cannes non vuole film che "si perdono nell'algoritmo", film di cui non sapremo nulla (in effetti Netflix non fornisce le cifre delle visioni dei suoi abbonati per cui è impossibile sapere quante persone hanno visto l’uno o l’altro film). È una scelta precisa, di campo, quella del festival, e non sarà senza conseguenze, anche in considerazioni delle future produzioni del colosso dello streaming. Ed è forse anche un segnale che il Festival - e qui si apre la seconda polemica - dopo qualche eccesso di troppo, stia riflettendo sul suo lato (eccessivamente) glamour. Sarebbe quest’ultimo infatti ad avere fatto allontanare dalla Croisette alcuni autori. È il caso di Xavier Dolan il cui attesissimo La mia vita con John F. Donovan, storia di una star della tv americana costretto ad affrontare una tempesta mediatica sul suo conto per via di una presunta relazione con un ragazzino di soli 11 anni, pur essendo stato selezionato avrebbe declinato l’invito. Il motivo si legge in una mail mandata al sito IndieWire “Abbiamo deciso che Cannes non era il luogo ideale per la premiere del film, e non posso dire di non essere d’accordo. Sono nato a Cannes. Amo Cannes. Il mio film che si focalizza, tra le altre cose, sulla fama e l’ammirazione e parla di come gli artisti possono vivere le loro vite con integrità morale. Può sembrare un tema adatto per Cannes, un festival che celebra artisti e l’arte del cinema. Ma è anche famoso per essere, storicamente, un festival glamour.” Gli argomenti per tenere viva l’attenzione sul festival nelle prossime settimane non mancano dunque, ma la speranza è che, alla fine, a parlare siano i film. E la nostra è che parlino italiano. Tre i nostri portabandiera: in concorso troviamo Dogman di Matteo Garrone e Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher, in Un Certain Regard Euphoria, opera seconda di Valeria Golino interpretata da Riccardo Scamarcio, Valerio Mastandrea e Isabella Ferrari. Garrone ha dichiarato di essersi ispirato alla vicenda del “Canaro” della Magliana - Pietro De Negri, feroce assassino soprannominato «Canaro» per via della sua attività di toelettatore di cani – per una spaccato di violenza (non fisica ma umana) ambientato in una sgangherata periferia urbana. Di tutt’altro profilo Lazzaro Felice, che attraverso la fiaba di Lazzaro, un giovane contadino “tanto buono da sembrare stupido” racconta la possibilità della bontà attraverso una grande amicizia che nasce nel bel mezzo di trame segrete e bugie. Infine Valeria Golino che in Euphoria, una commedia amara porterà sullo schermo due fratelli, diversissimi, a cui la vita darà l'occasione per conoscersi e scoprirsi sorprendentemente uniti, in un vortice di fragilità e tenerezza, paura ed euforia.
L'attualità di un capolavoro raccontato al pubblico da Paolo Zelati
La notte dei morti viventi 50 anni e non sentirli
Silvia Moras
George Romero e il New Horror
Il 16 luglio del 2017 si spegneva George Romero universalmente noto come il “padre degli zombie”. Pochi mesi prima in una calda mattinata di aprile, ospite del Lucca Film Festival dichiarava: «I miei film non sono tanto sulla vita dopo la morte, quanto sulle persone e sugli individui che non capiscono quello che sta accadendo intorno a loro; gli zombie sono una costante, sappiamo benissimo cosa ci possiamo aspettare da loro ma siamo noi umani che non siamo pronti ad averli nella nostra vita». George Romero è stato ed è ancora il regista più politico tra i maestri del New Horror americano, i suoi film sui morti viventi sono dei preziosissimi ritratti dell'evoluzione della società americana dalla fine degli anni ’60 ai giorni nostri. Proprio nel febbraio del 1968 quando era soltanto un giovane regista di «shorts» pubblicitari decise di riunire gli amici in un bar di Pittsburgh, in Pennsylvania. Aveva bisogno di 100 mila dollari per realizzare il suo sogno, girare un film, un lungometraggio. E così nacque uno dei più clamorosi successi della storia del cinema, La Notte dei morti viventi che quest'anno festeggia i 50 anni dalla sua realizzazione.Riferendosi alle sequenze in bianco e nero che vedono come protagonisti decine di corpi claudicanti attaccare la casa/tana in cui un il paradigma umano si nasconde dichiarò che «mentre là fuori stava succedendo qualcosa di straordinario, le persone all’interno della casa erano lì che si scannavano sul bucato e su chi doveva stare al piano alto o al piano basso, bloccati nella loro stupidità quotidiana». Ad accorgersi dell’uso metaforico del genere che fece Romero fu per prima Pauline Kael, la critica del New Yorker famosa per i giudizi taglienti. Secondo Kael, nel film convergevano Martin Luther King, Sigmund Freud e la guerra in Vietnam. E questo perché il protagonista era nero (e sarà ucciso per sbaglio dai «soccorritori», una pattuglia di sudisti); una bambina diventata morto vivente uccide i genitori e li divora in un vero e proprio pasto totemico; i metodi che l’esercito usa per debellare gli zombie sono rastrellamenti coadiuvati da elicotteri, proprio come avveniva in Indocina e con risultati ugualmente fallimentari. Romero si divertì molto per quella lettura politica: «Io volevo fare un film che incassasse, ma non potevo nascondere a me stesso e agli altri che quelle bare che ogni settimana tornavano dal Vietnam avevano profondamente segnato me e i miei coetanei. C’era una guerra che nessuno capiva, e tanta gente moriva. Non si poteva fare a meno di raccontare quello stato d’animo, qualunque storia si volesse raccontare. Anche Bonnie and Clyde era Vietnam, anche Il laureato, anche Easy Rider. Non si poteva svicolare». Romero tra l’altro si ispirò al romanzo fantastico Io sono leggenda (I am legend) di Richard Matheson, in cui un solo uomo è rimasto sulla terra dominata da degli zombie-vampiri. Altri adattamenti cinematografici del romanzo sono L'ultimo uomo della Terra di Sidney Salkow/Ubaldo Ragona (1964), 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra di Boris Sagal (1971) e Io sono leggenda (2007). Di queste e tante altre curiosità, alcune assolutamente inedite, ci parlerà Paolo Zelati venerdì 11 maggio 2018 alle 20.45 che presenterà in Sala Modotti la versione restaurata de La notte dei morti viventi dopo aver tenuto un incontro in Mediateca alle 17.30 sull'arte dell'intervista. Di origine mantovana, Paolo Zelati oltre ad essere stato un amico molto vicino a Romero, è giornalista e critico cinematografico, autore di diverse pubblicazioni specialistiche, collabora con numerose riviste, tra cui Nocturno cinema. E’ autore di molti libri di cinema, soprattutto di genere. Ha pubblicato per Profondo Rosso il volume American Nightmares, che contiene numerose interviste esclusive tra le quali Richard Matheson, Tobe Hooper, George Romero, Clive Barker, i Chiodo Brothers, John Landis, Joe Dante e molti altri ancora tra i più famosi registi e sceneggiatori del nuovo cinema horror americano.
Bilanci e prospettive della rassegna pordenonese giunta all’XI edizione
Lorenzo Codelli
Le Voci dell'Inchiesta 2018
Is this real?
«Muhi incarna le nostre speranze, ci invita a riconoscere l'umanità comune nei due popoli, palestinese e israeliano, oltre le divisioni e i pregiudizi. L'anima di questo bambino è più forte di ciò che lo circonda». Così afferma la fotoreporter israeliana Rina Castelnuovo-Hollander, regista di Muhi - Generally Temporary. Muhi, pimpante palestinese di 7 anni, ha dovuto subire l'amputazione di gambe e braccia a causa d'una rara malattia autoimmune. Viene seguito amorosamente dal volontario israeliano Avraham "Buma" Imbar e dal nonno Abu Naim (nella foto qui sopra). A questo film commoventissimo sono andati sia il premio della giuria presieduta da Italo Moscati che quello votato dal pubblico all'11 edizione de Le Voci dell'Inchiesta. Ha colpito gli spettatori la "realtà" portata sullo schermo, oppure il tono incoraggiante, pacifista, del racconto? Esiste davvero la realtà, aldilà di "fake news" e manipolazioni? La rassegna pordenonese ci ha posto quotidianamente simili quesiti, rovesciandoci addosso una serie di cataclismi. Da quello nucleare, alle guerre civili, alla lotta di classe. Su quest'ultima, apparentemente obsoleta, battaglia ricchi contro poveri, apporta nuova luce The Workers Cup di Adam Sobel (qui sotto). Il reporter americano emigrato in Qatar segue alcune squadre di operai - sono un milione e mezzo in totale - che stanno costruendo le mega strutture per i Mondiali 2022. Gli sceicchi allestiscono apposta per loro un campionato di calcio. Tanti miserabili immigrati da Africa e Asia lo giocano appassionandosi, e illudendosi di diventare Lionel Messi. Nel caso di Muhi non stupisce la libertà di accesso a testimoni e luoghi, avendo già visto un bel po' d'inchieste girate tra Gaza e Gerusalemme da Amos Gitai e altri cineasti. In The Workers Cup colpisce invece come mai i principi arabi plurimiliardari abbiano concesso di filmare, a due passi dai loro grattacieli da cartolina, fenomeni di sfruttamento che dissuaderebbero chiunque a visitare il Qatar. In A Woman Captured dell'ungherese Bernadett Tuza-Ritter, ecco un caso di schiavismo che supera ogni immaginazione, o fiction. Marish, cinquantenne, da decenni viene trattata come una bestia da soma in una famiglia della periferia budapestina. Apprendiamo dai titoli di coda che si tratta solo di una dei 22.000 servi della gleba del bel paese di Viktor Orban. Le riprese, effettuate in pericolosa clandestinità, contribuiscono alla presa di coscienza da parte della protagonista, la quale finalmente scappa via. Liberazione indimenticabile, e collegabile, per gli appassionati del cinema magiaro, alle catarsi raffigurate da István Szábo e Miklós Jancsó. Tante scatenatissime coreografie dei film, e dei divi, di Bollywood possono sembrarci apici di disinibizione erotica. Nelle case di Mumbai accade tutt'altro, spiega Ask the Sexpert di Vaishali Sinha. Con lo spirito del Pasolini di Comizi d'amore, il regista indiano mette a confronto il popolare sessuologo novantatreenne Mahinder Watsa con i numerosi lettori della sua rubrica di consigli erotici su un quotidiano della metropoli. Oltre che con donne e uomini che si vergognano di confessare la propria intimità. Che dire della realtà re-inscenata apposta per l'obiettivo? Di questo trend, in cui primeggia il geniale autore statunitense Joshua Oppenheimer, a Pordenone si sono visti Teatro de guerra dell'argentina Lola Arias, e The Congo Tribunal dello svizzero Milo Rau. Due ricostruzioni volutamente brechtiane su piaghe belliche ancora sanguinanti. Riccardo Costantini, curatore della rassegna, si è dichiarato «orgoglioso di contribuire con la nostra selezione di film a dar voce all’istinto di libertà». Agli interessanti dibattiti con numerosi registi e esperti del settore abbiamo avuto una conferma consolante: parecchie di queste opere stanno per librarsi nelle nostre sale o su tv e siti vari.
A Cinemazero in anteprima l’esordio del regista friulano Renzo Carbonera
La resina è fondamentale sai.. tiene insieme tutto
Marco Fortunato
Intervista a Renzo Carbonera
Un coro di uomini. Un direttore donna. Una famiglia e una piccola comunità, che hanno bisogno di ritrovare il senso d’unione, per affrontare la sfida del domani. Un caleidoscopio di personaggi tinge di ironia e ritmo il racconto di un piccolo mondo, alle prese con lo spauracchio del cambiamento climatico. E’ l’esordio al lungometraggio - dopo numerosi documentari e docufiction dii Renzo Carbonera che, a fine mese, sarà ospite di Cinemazero per l’anteprima del film. Lo abbiamo raggiunto per chiedergli qualche anticipazione MF: Resina è un film sulla musica, sul cambiamento climatico e sul rapporto conflittuale che abbiamo con la bellezza" C'è un tema predominante rispetto agli altri? RC: Direi che tutti e tre i temi mi stanno molto a cuore, e sono strettamente legati: la musica è bellezza, mentre il cambiamento climatico è un’espressione della nostra crescente incapacità di “fare bellezza” e di vivere in armonia con ciò che ci circonda. Eppure il bello è qualcosa di cui abbiamo bisogno. “La bellezza salverà il mondo” è forse la frase più citata di Dostojievski, ma sempre più spesso ce ne dimentichiamo, perdiamo le cose belle, non ci concediamo il tempo del bello, lasciando che la fretta o una prospettiva limitata lo ingoi. Certo bello è un concetto molto soggettivo e opinabile, ma non è fondamentale riflettere su cosa è bello e cosa no, piuttosto sul fatto che in linea di massima ci stiamo allontanando sempre più dalla bellezza, nella quotidianità, nel nostro rapporto con la natura, con la storia e con l’arte, nella scarsa lungimiranza delle idee che produciamo per immaginare il nostro futuro. Resina vuole rappresentare la bellezza,con la musica, paesaggi, le atmosfere, e vorrebbe far riflettere un pochino sul rischio che corriamo, perché abbandonare la bellezza è una involuzione, non una evoluzione. Protagonista femminile la bravissima Maria Roveran, come hai scelto di coinvolgerla nel progetto e quel'è stata la sua reazione? Avevo visto Maria in Piccola Patria, poi quando ci siamo conosciuti per ore abbiamo parlato di noi stessi, delle nostre vite, delle nostre cose. Mi sembrava di conoscerla da sempre, quando riesci ad aprirti a una persona che di fatto non conosci, vuol dire che la persona ti mette nella condizione di farlo ma anche che dentro te è scattato qualcosa: credo si chiami empatia. Non abbiamo quasi parlato del film, sembra un paradosso ma proprio per questo motivo ho capito che era la persona giusta. Io, un po’ per tutti i ruoli nei film che non siano semplici comparsate, sono piuttosto scettico verso la classica procedura di casting, cioè i provini. Preferisco prendermi più tempo, cercare la persona giusta scommettendo su altre sensazioni, fidarmi del mio istinto a distanza. C'è un personaggio onnipresente, l'ambiente, il territorio. In quali zone hai girato e perchè? Il film è interamente girato sugli altipiani cimbri, quasi tutto nel comune di Luserna, al confine tra Trentino e Veneto. Il luogo mi ricorda molto il paese da cui viene mia madre, in Baviera, e anche la lingua che parlano in questi luoghi, il cimbro, ha origini medievali che riportano alla bassa Baviera. Infatti riuscivo a capire piuttosto bene i “discorsi del bar”: mi sembrava di sentir parlare mio nonno, a cui peraltro dedico il film. Mio nonno è stato direttore per più di 20 anni del coro del suo paesino, una vera istituzione sociale. Quel coro, e mio nonno, erano una “resina” appunto. Così mi è sembrato naturale andare a Luserna, prendere contatto con molte persone del luogo e includere questa comunità nella mia storia. E’ un po’ il mio modo di lavorare: trovo una storia, la sviluppo, la scrivo, e poi trovo gli attori e le location e modifico lo svolgimento in virtù di tutto ciò rendendolo parte integrante del racconto. Malgrado le difficoltà, il film chiude con un "grido di speranza", quello di chi - come Maria - sceglie di crederci contro tutto e tutti.A chi è rivolto questo messaggio? Il film ha un inizio piuttosto “scuro”, poi lentamente si apre all’ironia, alla bellezza della musica, ai conflitti e a ciò che di positivo può portare l’energia che questi conflitti liberano. Mi sembra giusto che ci sia un messaggio positivo alla fine di un film cosi intimo e malinconico. Tornando al concetto di bellezza dell’inizio, la bellezza è forse il lasciapassare che noi tutti dobbiamo inseguire con ostinazione e perseveranza, è la nostra speranza appunto ed è importante che non smettiamo mai, e ripeto mai, di cercarla.
Torna la rassegna primaverile a cura della Sezione di Pordenone del Club Alpino Italiano.
Appuntamento con il CAI
“Inquadrature” diverse
Tre serate, tre occasioni per scoprire le “inquadrature” diverse, i tanti modi di vivere la montagna che ogni anni sono protagonisti dalla rassegna primaverile curata dalla Sezione di Pordenone del Club Alpino Italiano. Si parte giovedì 10 maggio con Seimila chilometri a piedi attraversando l'Italia, serata incontro con Lorenzo Franco Santin. Ventisette anni, residente ad Azzano Decimo Lorenzo e socio del Cai di Pordenoneo Lorenzo ha percorso a piedi in solitaria l'intero Sentiero Italia, l'itinerario escursionistico del Club Alpino Italiano che unisce idealmente la nostra penisola e le sue isole maggiori e che con i suoi 6.166 chilometri è il trekking più lungo del mondo. Partito il 30 marzo 2017 da Santa Teresa di Gallura, in provincia di Oristano, passo dopo passo ha attraversato tutto il Paese, conquistando un record importante: è il primo escursionista che ad averlo completato. Il suo successo è frutto di un lungo impegno, Lorenzo già nel 2016 aveva affrontato questo lungo itinerario, ma dopo 121 giorni di cammino era stato costretto a lasciare il percorso per le difficili e soprattutto pericolose condizioni, a causa delle prime nevicate cadute a metà ottobre sopra i 2500 m. Nel 2017 ha deciso di ripartire, con ben 7 settimane di anticipo con un chiaro progetto: “Il mio obiettivo è riuscire a percorrere tutto il sentiero. Completarlo questa volta, e non ci sarà un terzo tentativo.” E così è stato: il 25 agosto 2017, dopo cinque mesi, è giunto a Muggia dove, ad accoglierlo e festeggiarlo, c’erano familiari e amici, Istituzioni e rappresentanti del Cai. Il giovedì successivo - 17 maggio - andremo invece alla scoperta del lato più bello della fauna e della flora delle nostre montagne, nelle foto di Ferdi Terrazzani, fotografo e giornalista che con passione racconta “in multivisione” il nostro territorio. Una multivisione che racconta “emozioni naturalistiche”, un mondo vario e spettacolare immortalato da Ferdi negli ultimi anni, con pazienza e passione. Grazie al suo occhio attento e alla sua sensibilità, possiamo scorgere cose che la nostra immaginazione faticherebbe a visualizzare. Ferdi Terrazzani è un personaggio eclettico, con una vita professionale e personale intensa e variegata. Nato fotograficamente nell’era dell’analogico, dello sviluppo e della stampa è stato fotografo ufficiale del Messaggero Veneto. Il mestiere intrigante di fotoreporter gli ha fornito le basi per una solida esperienza in campo fotografico. Negli anni successivi la fotografia divenne un hobby condiviso con lo sport e natura. Oggigiorno con le sue immagini promuove il territorio tramite la rivista “Piancavallo Magazine” della quale è il fotografo ufficiale e redattore fin dagli esordi. Conclude il cilo di incontri - giovedì 24 maggio - il film documentario sul Soccorso Alpino e Speleologico Senza possibilità di errore, che racconta la difficile ma importantissima attività dei soccorritori del Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico. Presentato in occasione dell’apertura del Trento Film Festival 2017, questo film è una testimonianza della grande preparazione e del professionismo che sono indispensabili per far parte del CNSAS. Lo scrittore Marco Albino Ferrari ci guida, in un crescendo di emozioni ed esercitazioni mozzafiato, alla scoperta di come si preparano gli uomini e le donne di questa associazione di volontari, che è una Sezione Nazionale del Club Alpino Italiano. La produzione del film ha richiesto ben due anni di riprese realizzate in tutta Italia seguendo le esercitazioni delle diverse stazioni del CNSAS e rappresenta una soddisfazione anche per la società di produzione trentina GiUMa che con questo film, che ha ottenuto il patrocinio del CNSAS, vede coronato il sogno di raccontare questa importante attività. La proiezione sarà presentata dalla locale Stazione del Soccorso Alpino e Speleologico, di cui Luca Diana è l’attuale Capostazione, e che conta 17 volontari, preparati e sempre pronti ad intervenire per soccorrere gli infortunati, i dispersi e recuperare i caduti nell'esercizio delle attività connesse all'ambiente montano e delle attività speleologiche.
UNA VICENDA ISPIRATA AL CRIMINE PIÙ EFFERATO DELLA STORIA DI ROMA
DOGMAN
DI MATTEO GARRONE In una periferia sospesa tra metropoli e natura selvaggia, dove l'unica legge sembra essere quella del più forte, Marcello è un uomo piccolo e mite che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo modesto salone di toelettatura per cani, l'amore per la figlia Sofia, e un ambiguo rapporto di sudditanza con Simoncino, un ex pugile che terrorizza l'intero quartiere. Dopo l'ennesima sopraffazione, deciso a riaffermare la propria dignità, Marcello immaginerà una vendetta dall'esito inaspettato. Dogman è un film che si ispira liberamente ad un fatto di cronaca nera accaduto trent'anni fa, ma che non vuole in alcun modo ricostruire i fatti come si dice che siano avvenuti. "Ho iniziato a lavorare alla sceneggiatura dodici anni fa: nel corso del tempo l'ho ripresa in mano tante volte, cercando di adattarla ai miei cambiamenti. Finalmente, un anno fa, l'incontro con il protagonista del film, Marcello Fonte, con la sua umanità, ha chiarito dentro di me come affrontare una materia così cupa e violenta, e il personaggio che volevo raccontare: un uomo che, nel tentativo di riscattarsi dopo una vita di umiliazioni, si illude di aver liberato non solo se stesso, ma anche il proprio quartiere e forse persino il mondo. Che invece rimane sempre uguale, e quasi indifferente". Ha dichiarato il regista Matteo Garrone. Il film è in concorso al 71° Festival di Cannes che si terrà dall'8 al 19 maggio. [www.mymovies.it]
i film del mese
Un film di Matteo Garrone. Con Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano. Or.: Italia, 2018. Durata: 120’
Un film di Abdellatif Kechiche. Con Shain Boumedine, Ophélie Baufle, Salim Kechiouche. Or.: Francia, 2017. Durata: 180’
UN RACCONTO DI FORMAZIONE POETICO E CARNALE
MEKTOUB, MY LOVE - CANTO UNO
DI ABDELLATIF KEChIChE Amin ha lasciato gli studi di medicina per scrivere il suo film. Ma è estate, ci penserà domani. Lasciata Parigi per le spiagge del Mediterraneo, torna a casa e agli amici di sempre. Torna da Ophélie, compagna di giochi che non smette di guardare e fotografare. Ophélie che vuole sposare Clément ma fa l'amore con Toni, tombeur de femme incallito. A due passi dal mare, Amin flirta con Charlotte e Céline, inaugurando un'estate di giochi d'acqua e di promesse appese in cui le azioni restano senza conseguenze. C'è un volto che ci afferra e che la caméra di Abdellatif Kechiche non smette di scrutare. È quello di Amin. Lo sguardo spiegato, il sorriso luminoso, la sua bocca, le sue labbra, tutto inizia da lui e rimanda immancabilmente a quello di Ophélie, più morbida e abbandonata, più impaziente e febbrile. Studio vertiginoso della (loro) giovinezza, Mektoub, My Love: Canto Uno è un coup de foudre carnale e poetico su un tempo essenziale della vita: la formazione. E il modo in cui Kechiche lavora sul tempo, sulla durata del tempo, è davvero prodigioso. Tre ore fissate sui volti dei suoi protagonisti di cui non fa che scoprire lo stato dello spirito. La durata permette una precisione dei dettagli che accresce l'empatia per il personaggio. La maniera in cui Amin posa lo sguardo su Ophélie, la maniera in cui Ophélie si sostiene ad Amin, per infilare una scarpa o rivelare una confidenza, sono gesti ordinari che disegnano un'attitudine verso il mondo. Ancora una volta Abdellatif Kechiche scrive la cronaca di un'educazione fuori norma che lega Amin a un'accolita di ragazze e ragazzi, i cui volti esplodono in grossi piani, superfici espressive di nuance infinite. Grazie allo straordinario rapporto con la durata, che è la cifra stilistica dell'autore, Mektoub, My Love: Canto Uno dispiega la vita, il suo corpo, la sua pelle, le sue emozioni. Il cinema di Kechiche incarna letteralmente l'uomo. Non ha interiorità da esprimere o un intimo da esplicitare, il suo sguardo è tutto quanto di fuori. Come quello nero e limpido di Amin, rivela quello che vede: il mondo, gli altri, gli scambi, le danze, la gioia, la febbre, l'inquietudine, l'amore, il sesso. Il protagonista osserva la pluralità di espressioni che è possibile adottare nel mondo, una varietà di pose e di comportamenti che si affermano come potere di esistere in quel mondo. E cos'è che determina pose e comportamenti se non la passione amorosa? Perché l'amore si costruisce attorno al corpo e al linguaggio, alle (im)posture e agli stati d'animo. Amin, Toni, Ophélie, Céline, Charlotte affrontano ciascuno a suo modo il tempo mitico della giovinezza come un bisogno, come un impulso. Sono loro il ritmo del film, il succedersi degli accenti, la pulsazione che contrae e distende, rallenta e precipita, raggiungendo con lo spettatore uno stato di trance. Daccapo il cinema di Abdellatif Kechiche svolge una storia forte di piaceri carnali, che fonda il suo impero dei sensi. Se le gambe delle donne per Truffaut erano compassi che misuravano il mondo, per Abdellatif Kechiche è il loro culo, forma pura e perfetta, che dona a quello stesso mondo equilibrio e armonia. La curvatura di Ophélie è l'architettura che sostiene una dichiarazione d'amore frontale alla vita e al cinema. Affondato in un realismo magnificato dall'eclatante sensualità del creato, Mektoub, My Love: Canto Uno chiude, come La schivata e La vita di Adele, su un personaggio che si allontana e che (forse) non si volterà più. Amin esce stonato dalla grande centrifuga della rappresentazione, dove tutto si confonde e rovescia. Che cosa ha appreso? Che cosa abbiamo appreso? La risposta è incerta ma l'esperienza folgorante [www.mymovies.it]
RICORDO DI PIERLUIGI CAPPELLO
Domani accadrà ovvero se non si va non si vede
Casarsa della Delizia, teatro Pasolini - giovedì 16 maggio 2018
Un doppio omaggio in immagini per ricordare, a pochi mesi dalla sua scomparsa, Pierluigi Cappello: ad aprire la serata il film Parole Povere, diretto nel 2013 da Francesca Archibugi, ritratto affettuoso della vita del poeta e riflessione sul senso profondo del far poesia. Seguirà Pierluigi Cappello: dialogo con Pasolini, filmato inedito girato nel 2010 da Valter Colle durante una visita del poeta a Casa Colussi a Casarsa in dialogo ideale con Pier Paolo Pasolini. Iniziativa nell’ambito della Settimana della cultura friulana promossa dalla Società filologica Friulana, entrata libera. Info: www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it
ÈSTORIA - MIGRAZIONI -
Gorizia - dal 17 al 20 maggio 2018
Migrazioni: sono un tema cruciale della quotidianità. Rappresentano il dramma e la speranza per milioni di persone, dominano la conversazione pubblica, animano la polemica sui social network e influenzano la discussione politica. Eppure, le migrazioni non sono un’invenzione o una novità del XXI secolo: hanno interessato più o meno l’intero percorso dell’umanità sulla Terra. E qual è il volto della storia sul grande schermo? Se la storia è scritta dai vincitori, cosa possiamo dire della sua rappresentazione? èStoria, festival internazionale della storia, apre anche al cinema con una nuova sezione curata da Paolo Lughi e cerca di rispondere a questi interrogativi, con una rassegna di proiezioni che, anche attraverso il commento di critici autorevoli, esplora il legame tra storia e cinematografia, intrecciando fatti, interpretazioni, simboli e regia. Info: www.eStoria.it
HUMUS PARK. INTERNATIONAL LAND ART FESTIVAL
Pordenone, Caneva, Polcenigo - dal 13 al 26 maggio 2018
È il più importante evento italiano di Land Art (da land = terra, territorio, è una forma artistica che utilizza materiali naturali presi da un territorio le cui opere rimangono "in mostra" nel territorio stesso). La Natura offre la scenografia ed i suoi materiali. Lavorando a coppie, gli artisti italiani e internazionali li scelgono e li lavorano creando opere uniche, nate “in e per” un luogo specifico. Il pubblico cerca le opere, le scopre e ne gode, finché la Natura non se “le riprende”. Quest'anno le location saranno quelle del Palù di Livenza a Caneva e Polcenigo e i parchi del Castello, della Villa Romana e del Seminario di Torre di Pordenone. Info: www.humuspark.it
VICINO / LONTANO. PREMIO TERZANI Udine - dal 10 al 13 maggio 2018
L’1% della popolazione del pianeta è più ricco del restante 99%. È un mantra che ormai tutti ci ripetiamo da tempo. Quale equità in un mondo nel quale 43 singoli individui posseggono più beni di quelli a disposizione di 3,7 miliardi di persone? Negli ultimi anni si è allargata a dismisura, e con una formidabile accelerazione, la forbice socioeconomica tra le classi. La crisi ha generato nuove forme di diseguaglianza, sommandole alle antiche. Squilibri è il filo conduttore della 14/a edizione del festival vicino/lontano – Premio Terzani. La manifestazione vuole quest’anno analizzare le diseguaglianze e gli scompensi che caratterizzano in modo sempre più evidente le nostre società e in generale il nostro pianeta. Per quattro intense giornate, dal 10 al 13 maggio, centinaia di protagonisti del mondo della cultura e dell’informazione saranno coinvolti in pubblici dibattiti nel centro storico della città friulana: oltre 100 gli appuntamenti in calendario. Tra gli ospiti del festival anche Domenico Quirico autore di Succede ad Aleppo (Laterza), intenso affresco sulla guerra in Siria che gli è valso il Premio Terzani 2018 che gli verrà consegnato sabato 12 maggio. Info: www.vicinolontano.it