n. 2 - giugno 2011
Organo dell’Associazione Romano Viviani - periodico quadrimestrale
TESTI DI
Speciale Toscana
nicola bellini, stefano Casini Benvenuti, Riccardo conti, andrea giorgio, Cristiano Pardossi
Numero DUE - giugno 2011
Organo dell’Associazione Romano Viviani, periodico quadrimestrale. Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5671 del 13 agosto 2008. Associazione Romano Viviani via Cavour, 38 - 50129 Firenze www.associazioneviviani.org Direttore editoriale: Riccardo Conti Direttore responsabile: Pier Francesco Listri Tipografia: Nuova Grafica Fiorentina, Firenze Le illustrazioni di questo numero sono tratte dal volume Firenze espone la grande avventura fiorentina del 1861 con uno sguardo sul ventesimo secolo di Pier Francesco Listri. Le Monnier, Firenze 1992. Grafica, editing, impaginazione: Edizioni SICREA via Maragliano, 31A - 50144 Firenze tel. 055 321841 - fax 055 3215216 www.sicrea.eu
EDITORIALE di ADAMO AZZARELLO
Quorum, ovvero “dei quali”, ovvero il numero legale di cittadini che chiede una fase nuova per l’Italia. Questo numero di “Scelte Pubbliche” va in stampa mentre si finiscono di contare le schede dei referendum del 12 e 13 giugno 2011, svolti appena poche settimane dopo un voto amministrativo che ha reso evidente la fine dell’era berlusconiana. Dalle parti nostre, di quelli che stanno col centrosinistra, s’aggira anche un po’ lo spettro dell’euforia; ed è una bella sensazione. Soprattutto si percepisce la richiesta di classi dirigenti serie e preparate e la crescente diffidenza verso incantatori di serpenti. È un fatto estremamente positivo, data la stagnante e preoccupante situazione della cosa pubblica e dei suoi conti e dato l’arrancare dell’impresa privata in Italia, perché qui c’è bisogno di Politica senza che quel sostantivo sia preceduto o seguito da un aggettivo qualunque, tipo “nuova”, tipo “seria”, tipo quel
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Il punto di vista di Gianni Cuperlo
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Primo Piano di Pier Francesco Listri
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Il Pd e l’urbanistica di Luciano Piazza
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Speciale Toscana
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La Toscana in quale Italia? di Nicola Bellini e Riccardo Conti
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Il Pil, e poi? di Andrea Giorgio
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C’è un po’ di sud dappertutto di Stefano Casini Benvenuti
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Le vie dell’integrazione di Cristian Pardossi
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Per un’agenda riformista sulla rendita urbana di Walter Tocci
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Dizionario di Pier Francesco Listri
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Lontano di Maurizio Izzo
che può venire in mente. Politica contiene già in sé la novità, la serietà, in quanto, ci insegnano dirigenti e pensatori importanti, Gramsci per tutti, essa è storia in atto. Noi proporremo su questa rivista, tra qualche numero, una riflessione sui nuovi linguaggi; l’abbiamo messa in cantiere, quindi mi fermo qui con l’euforia per le attese possibili della politica italiana dato che l’analisi della situazione la farà per noi anche questa volta l’amico e compagno Gianni Cuperlo già nelle pagine seguenti. In questo numero si parla di economia, si continua la riflessione sull’urbanistica. Soprattutto salutiamo l’arrivo di un nuovo direttore, Pier Francesco Listri, un professionista stimato che entra in corsa per dare maggiore ordine all’organizzazione dei testi e delle tematiche che affrontiamo. Lo ringraziamo e siamo fieri: vorrà dire che qualcosa di buono s’era seminato. In questi mesi non ci siamo fermati nemmeno un istante. L’Associazione Romano Viviani si è resa protagonista di iniziative rilevanti nel panorama fiorentino e toscano, con qualche significativa
attenzione nazionale che ci ha onorato. Del lavoro fatto renderà conto Marta Romanelli, che è diventata la nostra colonna anche in redazione, insieme al prezioso e qualificato lavoro di cui è stato protagonista il giovanissimo Andrea Vignozzi, il nostro webmaster, se così si può dire. Questa rivista e i due quaderni che abbiamo recentemente pubblicato e presentato, uno sulla giustizia (curato da Silvia Della Monica e da Massimiliano Annetta), uno sulle nuove sfide dell’economia urbana (curato da Sara Di Maio e Chiara Agnoletti), grazie a lui si possono consultare on-line sul nostro sito, si trovano sui social network in versioni così eleganti che tutto questo non sembra solo il frutto di un preziosissimo volontariato politico-culturale. Siamo contenti. In questa fase storica ci sentiamo di poter dare un piccolo ma prezioso contributo alla qualità della politica di questo Paese. Siamo a disposizione, come si suol dire, per partecipare ad un dibattito che finalizzi proposte concrete di trasformazione e di miglioramento della vita di tutti noi. Siamo riformisti, siamo qui.
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Il punto di vista di GIANNI CUPERLO
Torino Milano Trieste Bologna Napoli Cagliari… la sequenza è piuttosto impressionante. Diciamo in sintesi che stavolta abbiamo vinto noi e hanno perso loro. Perso molto e malamente. Per cui è giusto partire da qui, dal dato di fondo che è semplice: la svolta c’è stata. Lo ha scritto bene un commentatore attento come Stefano Folli, “in 15 giorni il volto dell’Italia è cambiato”. E non soltanto per il risultato in sé ma per il sentimento di fondo. Perché è vero che hanno perso la Moratti e gli altri candidati del centrodestra, ma il vero sconfitto è Berlusconi. Lui aveva chiesto un referendum sulla sua persona. Quel referendum c’è stato e ha travolto la destra anche in alcune postazioni storiche. In questo senso Milano è davvero lo spartiacque. Quella è la città simbolo di un sistema di potere consolidato nell’arco di vent’anni. Parliamo di una realtà che è crocevia dei grandi interessi economico e finanziari che da lì si proiettano sul Paese e sull’Europa. E parliamo della città dove la parabola, prima imprenditoriale e poi politica, del capo del governo ha vissuto tutti i suoi passaggi più significativi. Quindi sconfiggere Berlusconi in casa sua è la conferma di un declino dell’uomo e del leader. Penso abbia ragione chi ha individuato una chiave della sconfitta di Berlusconi nella sua “dismisura”. Nel senso che lui non ha solo abusato del potere enorme che detiene tuttora ma ha abusato del Paese: della sua capacità di sopportazione, della sua dignità. A me pare un aspetto rilevante perché in questo c’è, allo stesso tempo, la forza e la fragilità degli italiani. Il loro affidarsi periodicamente a un “Salvatore”, un “Liberatore”, creando intorno a quella figura un cordone di impunità, di perdonismo… salvo poi, a un certo punto, rompere quel legame spesso patologico, e trasformare un credito all’apparenza infinito in un discredito che non perdona. Con tutti i distinguo del caso è stato cosi col fascismo, con Craxi. E secondo me questa è un po’ oggi la condizio-
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ne di Berlusconi. Si è accesa una scintilla che potrebbe alimentare l’incendio. Detto ciò mai come questa volta il voto è stato univoco. Nelle realtà sopra i 15mila abitanti, noi vinciamo in 85 Comuni su 133. Erano 76 cinque anni fa. Loro vincono in 40 Comuni contro i 55 della volta precedente. Cinque amministrazioni vanno al Terzo Polo e 2 a liste civiche. Il dato più significativo è quello del Nord, anche per le nostre difficoltà in quella parte del Paese. Alle regionali di un anno fa loro avevano sei punti di vantaggio sul centrosinistra. Adesso i rapporti di forza si sono rovesciati con noi avanti di 8 punti. Sempre nel Nord, se consideriamo solo i 23 Comuni capoluogo, il centrosinistra ottiene circa il 50% dei voti contro il 37,4 della destra. Tredici punti di scarto nell’area più dinamica del paese non sono pochi. In concreto oggi noi siamo maggioritari al Nord e al Centro, mentre il centrodestra resta davanti nel Sud, anche se con una situazione molto diversificata da regione a regione. Sempre al Nord, da tempo eravamo abituati a uno schema di gioco che si riassumeva più o meno così. Quando Berlusconi è in difficoltà e perde consenso subentra la Lega che funziona come una rete di protezione dei voti in uscita dal PdL. Edmondo Berselli parlava addirittura di un bacino elettorale comune che aveva soprannominato “forzaleghismo”. Bossi ha sempre giocato questa carta pensando di aumentare così il proprio potere contrattuale dentro la maggioranza. Queste elezioni hanno smentito quello schema. La Lega perde consenso anche nelle zone dove più forte è il suo radicamento, e per la prima volta viene sconfitta in roccaforti come Novara o Gallarate. Insieme alla Lega viene sconfitto pure il mito del “Nord padano”. Anche qui contano i dati: se escludiamo Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta, tutti i capoluoghi regionali del Nord sono amministrati oggi dal centrosinistra. E tu non governi un’area vasta come quella se non controlli le capitali di un
territorio tanto vasto. Dobbiamo sapere, però, che questa rivoluzione nel consenso è anche figlia di una profonda trasformazione che ha inciso sulle fondamenta sia del vecchio sistema finanziario che dell’impresa. Lo scrivo così: ci sono molte aree del Nord, e in parte del Centro, che sembravano finora immuni dalla crisi e che invece cominciano a soffrire le conseguenze di un calo drammatico dell’occupazione, dei redditi familiari, dei consumi. Questa parte più debole della società (diciamo il ceto medio impoverito) non è più disposta a dar credito alle promesse del governo ma non ha ancora firmato un atto di fiducia nei nostri confronti. E noi dobbiamo riuscire a conquistare il consenso di questi lavoratori (spesso precari), piccoli imprenditori, pensionati. E adesso veniamo al Pd. I Democratici escono dal voto rafforzati. Ed esce rafforzato Bersani che ha scelto il tono e i contenuti giusti. Non era facile e non era scontato. Anche perché venivamo, in particolare in alcune realtà, da primarie che non avevano premiato i nostri candidati o complessivamente il Pd. Penso a Milano e a Cagliari, e naturalmente penso all’enorme pasticcio delle primarie napoletane. Ora, l’argomento usato da alcuni e cioè “non avete vinto voi perché molti sindaci sono espressione della sinistra radicale” è un argomento completamente sballato. E non solo perché i numeri dicono l’opposto, ma perché il voto spazza via l’idea che per vincere, al Nord come al Sud, sia necessaria una svolta moderata. La verità è che noi abbiamo vinto mobilitando l’intero popolo del centrosinistra, dalle sue componenti più moderate a quell’universo della sinistra diffusa che è decisivo per vincere la sfida del governo del Paese. Per altro se guardiamo al profilo dei nuovi sindaci diciamo che dentro c’è di tutto. Da un leader storico della sinistra come Fassino a un giovane brillante come Zedda; da un bravissimo funzionario del Pci-Pds-Ds-Pd come Cosolini (per inciso: è il candidato che ha avuto lo scarto maggiore di
consensi tra candidato e coalizione), a un amministratore sperimentato come Merola; e poi un professionista che ha sempre rivendicato la sua storia politica come Pisapia fino a un ex magistrato che è approdato alla politica poco più di un anno fa come De Magistris. Penso che questa pluralità di biografie sia una ricchezza per il centrosinistra, ma sia anche la smentita di un modo troppo sbrigativo di affrontare il tema del rinnovamento del nostro campo e della sua classe dirigente. La realtà è che se vogliamo vincere noi abbiamo bisogno di tutti: e quindi prima la smetteremo di espellerci a vicenda meglio sarà per il bene della ditta e del Paese. Ancora su di noi. Penso che abbia premiato la scelta di essere, con lealtà e anche con umiltà, al servizio della coalizione. Né prima né dopo il voto, abbiamo avuto l’ansia di mettere il cappello sopra i nuovi sindaci. E questo profilo ha contribuito al nostro successo. La realtà è che noi sempre di più siamo il perno dell’alternativa. Non siamo autosufficienti, come il voto dimostra. Ma senza di noi, senza la nostra forza e i nostri contenuti, il centro sinistra non ce la fa. E allora il voto ci consegna due messaggi. Il primo è la fine di ogni “sconfittismo”. Tradotto, Berlusconi si può battere e noi, con altri, lo abbiamo appena dimostrato. Il secondo messaggio è che noi non abbiamo già vinto la sfida decisiva che sarà quella per il governo. Ma come questa
volta ci serve moderazione, lucidità, consapevolezza che un pezzo fondamentale della strada è stato fatto ma c’è un altro pezzo che abbiamo davanti. Questa responsabilità ci viene anche da alcuni dati quantitativi che non possiamo sottovalutare. Il primo riguarda l’astensionismo. Alle ultime elezioni politiche, nel 2008, l’astensione aveva toccato il picco più alto dell’intera storia repubblicana (il 19,5%). Alle Europee del 2009 quella percentuale è salita al 33% con un incremento di sei punti rispetto alle precedenti. Alle Regionali dell’anno scorso l’astensione è stata del 36% che diventava il 40 sommando schede bianche e nulle. Questa volta poco meno di quattro elettori su 10 sono rimasti a casa. Percentuale che, nel caso delle Provinciali, è salita a un elettore su due. Dobbiamo sapere che le elezioni politiche vedranno un incremento significativo dei votanti rispetto al turno amministrativo. Per capirci in questa tornata ha votato per le liste di partito circa il 60% degli aventi diritto. Alle politiche del 2008 fu l’80%. Tradotto, sono circa 10 milioni di elettori in più. Questo significa che non esiste alcun automatismo tra il risultato di adesso e la competizione che dovremo affrontare tra pochi mesi o forse tra un anno. E allora prepararsi bene e per tempo prima che una convenienza è un dovere. Questo significa due cose. Prendere atto che le primarie per la
scelta del candidato premier e dei parlamentari è una strada obbligata oltre che vantaggiosa. E lavorare da subito a quel programma per l’Italia che non potrà essere solo un elenco dettagliato di obiettivi ma avrà bisogno di una sintesi e di una immagine chiara del Paese che immaginiamo. Lo dico perché la spinta civica, la passione e l’entusiasmo che hanno accompagnato la campagna di Pisapia a Milano ci dicono molto dell’equilibrio che dobbiamo costruire, anche sul piano nazionale, tra le proposte programmatiche e uno sguardo più ambizioso sui valori e i principi che sono in grado di motivare un popolo intero nella battaglia per il governo del Paese e contro una destra pericolosa ed eversiva. In conclusione, per una volta dobbiamo essere sereni e anche un pochino orgogliosi del lavoro che stiamo facendo. C’è un partito forte, unito e capace di guardare con fiducia ai mesi che abbiamo davanti. Diciamo che non c’è tempo per riposare. Adesso avremo la stagione delle feste e l’avvio della discussione sulla conferenza sul partito. Ma questo Pd c’è. E’ vivo. Non abbiamo risolto tutti i nostri problemi e però neppure siamo più un’ipotesi o una incognita. Siamo una grande realtà dell’Italia che vuole voltare pagina. Riuscirci adesso dipende da noi. Ma in fondo siamo nati per questo e per questo verremo giudicati.
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Primo Piano di Pier Francesco Listri
L’esposizione nazionale del 1861. L’italia unita si presentava sulla scena internazionale. Torna, imprevista, la stagione delle Esposizioni dopo che la globalizzazione e l’informazione planetaria ne aveva di molto ridotte l’utilità e anche la suggestione. Il 2015 segnerà il traguardo della grande Esposizione di Milano, i cui preparativi, da tempo iniziati, appaiono per altro, a tutt’oggi, piuttosto travagliati. Sarà questa un’Esposizione all’insegna del gran tema dell’innovazione, motivo assai di moda e del resto l’unico in grado di stupire le folle che, si prevede, converranno a Milano. Intanto, si sta in questo 2011, fra infinite iniziative e qualche inopportuna polemica, celebrando il secolo e mezzo dell’Unità d’Italia. E proprio centocinquant’anni fa, nel 1861, ebbe lungo in Firenze non ancora capitale, la prima, grande Esposizione Nazionale che voleva celebrare il nuovo Regno da pochi mesi unito. L’Esposizione, che ebbe luogo nella stazione di Porta a Prato, vide 2.500 prodotti in mostra, oltre 135.000 visitatori, fu inaugurata da Re Vittorio Emanuele II ( per la prima volta ospite di Firenze) e durò dal 15 settembre al 15 novembre di quell’anno. Di quell’eccezionale evento è utile rammentare alcuni significati e qualche curiosità, non prima però di qualche riflessione sull’epoca gloriosa delle Esposizioni. Esse erano nate, forse sull’esempio dei celebri Salons parigini, addirittura già nel Settecento, ma fu l’Ottocento il loro grande secolo. La borghesia rampante, la nuova epoca industriale, la stagione dell’utilitarismo, i grandi traffici e scambi fra nazioni, incoraggiavano questi straordinari circhi del progresso a mettere in piazza novità e prodotti ma soprattutto a mostrare al mondo i muscoli delle grandi potenze europee e americane.
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Quasi ogni città o capitale ebbe la sua. Il 1756 celebrò la prima a Londra, cui seguirono negli scorci di quel secolo, Ginevra, Amburgo, Praga e Parigi. Già nel primo decennio dell’Ottocento prima Torino e poi Milano ebbero le loro Esposizioni locali. Ma il mondo ricorda nel 1851 la prima grande Esposizione Universale di Londra, seguita due anni dopo da quelle di Dublino e di New York. Appena quattro anni dopo, nel 1855, fece scalpore la prima Esposizione Universale di Parigi con i suoi 25.000 espositori e con ben cinque milioni di visitatori. Fra cento altre, si rammenta soprattutto l’Esposizione Universale, ancora a Parigi, del 1889 quando per celebrare la nuova stagione edilizia del ferro si costruì quella Torre Eiffel che doveva esserne il simbolo e che poi non fu più smontata. Ogni Esposizione, oltre che celebrare il potere economico e industriale del paese, cercava anche di accompagnarsi a qualche evento speciale. Così l’Esposizione di New York del 1853 volle affermare l’efficiente nord industriale a confronto col sud agricolo americano; Milano con la sua esposizione del 1906 celebrò il traforo del Sempione, mentre, nella stessa città, quella del 1911 coronava il primo cinquantennio dell’Unità italiana. Le Esposizioni furono dunque i primi grandi spettacoli di massa dell’epoca del progresso, delle nuove scienze, della luce elettrica e del telefono, e anche degli imperialismi e nazionalismi montanti. Ma contribuirono anche alla reciproca conoscenza fra popoli e nazioni e a travasare oltre confini mode e andazzi culturali dei paesi più lontani ed esotici. Il primo lontano paese rappresentato fu l’India, sia in quella di Londra che in quella di Parigi del 1878 (raccontata agli italiani dal De Amicis con le sue corrispondenze e poi dal giovanissimo Rudyard Kipling), mentre
nella Esposizione di Chicago del 1893 la sezione dell’India contò oltre duemila espositori. Altrettanta fortuna toccò al Giappone rivelata all’Europa dall’Esposizione parigina del 1867 che presentò oltre mille cinquecento prodotti di quel paese, subito venduti. Non meno fortunata la lontanissima Cina che impose da metà Ottocento agli europei sete, libri, dipinti, oggetti e perfino la ricostruzione di un padiglione del tè del Palazzo d’Estate di Pechino. Folgorante fu per l’Europa la scoperta dell’Egitto, della sua cultura e archeologia da parte delle esposizioni, sull’onda delle non lontane campagne napoleoniche e poi grazie
all’apertura del Canale di Suez. Fu allora che lo Stato sabaudo acquistò la celebre e imponente Collezione Drovetti, grazie all’opera del grande archeologo Jean Francois Champollion, allora a Torino. Ricchezza industriale, espressione di potenza, lusinga di nuove mode esotiche, desiderio di reciproca conoscenza: questi i motori della grande stagione delle Esposizioni. Poco di tutto questo toccava però l’Esposizione Nazionale di Firenze del 1861, la prima del nuovo Regno d’Italia. La quale vale qui ricordare, non solo perché ne cadono, in coincidenza con l’Unità, i centocinquant’anni, ma anche per misurare, all’ingrosso, il cammino
fatto dall’Italia in questo secolo e mezzo e l’esiguità di risorse da cui era partita. Un grande e oggi rarissimo Catalogo del tempo (redatto dal giornalista Yorick, e dal quale sono tratte le illustrazioni di quest’articolo) ce ne dà l’occasione. S’è detto dove si svolse, quanto durò e quanti visitatori ebbe. Quei visitatori scoprirono un panorama assai vario dei prodotti nazionali che andavano dalla gastronomia all’arte. Tuttavia l’effetto complessivo non era esaltante e il paese, quasi totalmente agricolo non poteva che puntare su questo settore: erano esposti centinaia di tipi di vanghe di zappe e di aratri
(fra quest’ultimi una novità fu il ‘coltro’, nuovo aratro inventato da Cosimo Ridolfi, capace di penetrare più profondamente nella terra per rivoltarla). Questo a scomodo confronto con alcune macchine agricole inglesi a vapore di gran lunga più avanzate. Un altro padiglione italiano era addirittura dedicato a svariati tipi di candele tanto che si accese un dibattito se fossero da preferire quelle steariche o quelle di sego. Fra gli alimentari facevano parte da leone i vini (ma curiosamente a vincere alcuni premi finali non furono i vini toscani, fra cui quelli di Bettino Ricasoli, bensì quelli siciliani). Tuttavia l’Esposizione mostrava anche alcune novità significative. Per la prima volta compariva in pubblico il motore a scoppio di Barsanti e Matteucci, cioè l’anticipatore dell’automobile. Il senese abate Caselli presentava una sua invenzione, il ‘pantelegrafo’ che era una geniale anticipazione dell’odierno fax. Mentre i tedeschi avevano inviato i giganteschi cannoni della Krupp, l’Italia metteva in mostra il ‘cannone Cavalli’, ideato dal generale omonimo che presentava la novità di essere ricaricabile dalla culatta. Moltissimi i prodotti del cosiddetto artigianato artistico in legno ferro bronzo, distinti da eleganti ornati. Nel settore delle arti figurative compariva poi questa sì, una novità straordinaria – ma ahimè trascurata dal frettoloso pubblico - : esponevano per la prima volta alcuni pittori Macchiaioli fra cui il giovane Fattori, cioè la più importante nuova scuola pittorica italiana che inaugurava la pittura moderna. Così andò in quel fatale 1861, a coronamento dell’Unità Nazionale raggiunta pochi mesi prima. Rileggere oggi quel catalogo – mentre si celebra un secolo e mezzo di Unità Nazionale, e mentre si aspetta la prossima Esposizione di Milano – dice più cose di tante pagine scritte sulla faticosa storia italiana.
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Il PD e l’urbanistica di LUCIANO PIAZZA
Nella convinzione di molti, dopo la caduta del muro di Berlino il mondo avrebbe dovuto essere più unito. La globalizzazione ha invece attivato la competizione internazionale, prodotto la frantumazione delle società e messo in discussione gli stati nazionali. Si sta affermando una nuova divisione internazionale del lavoro e l’asse del mondo si sta spostando dall’Atlantico al Pacifico. Ha vinto il mercato senza regole, frutto
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di un capitalismo senza freni. Il nostro futuro è incerto e l’Unione Europea è divisa. Il pensiero fatica sia a cogliere del tutto la crescente complessità sia a spiegarla. Ne hanno sofferto il welfare e i diritti, così come l’economia e la coesione sociale. Inevitabile, quindi, che ne soffrisse anche la politica: incerta nel proporre un progetto lungimirante di società, risucchiata nel conflitto contingente
dalla miriade di interessi che reclamano risposte immediate. Può esistere un progetto di territorio senza un progetto di società? Se deve essere l’uomo il riferimento costante delle politiche riformiste, a quale uomo pensiamo oggi? In quale società e, dunque, in quale territorio? Accettare il mercato non significa subirlo, ma volgerlo al bene comune. Anche se è difficile, in un’epoca che sembra negare le regole e che vede l’economia basarsi più sulla rendita, sulla finanza e sullo sfruttamento delle risorse piuttosto che sulla produzione. Da sempre, nel nostro Paese, la rendita costituisce un cancro nelle politiche territoriali: le condiziona in funzione di interessi privati e
sottrae risorse alla città pubblica. Nel territorio, così, come nell’economia, la rendita è dunque un fenomeno patologico, i cui effetti negativi vanno combattuti con decisione. In mancanza di un forte progetto politico di società e di territorio, tuttavia, la rendita non si combatte. Tale tema, infatti, tranne rare eccezioni, è assente dall’agenda politica italiana. Tutto ciò avviene in uno scenario internazionale che vede crescere la competitività e che ci chiede di liberare risorse e di attrarre investimenti. Occorrerà, per raggiungere questo obiettivo, tenere insieme sviluppo e progresso, mettere sul piatto la qualità attrattiva della nostra terra, sostenere il lavoro e l’impresa. Sarà necessario, però, anche frenare il consumo di suolo, quindi, la corsa al mattone e superare le chiusure del NIMBY, senza dimenticare le preoccupazioni dei cittadini. In altri termini, pur evitando la certezza delle utopie, diviene fondamentale trovare in esse gli stimoli per alzare lo sguardo e stare in campo come protagonisti del nostro futuro, attivando azioni trasversali, lungimiranti, integrate e finalizzate: il governo del territorio insomma. Chi può fare tutto questo se non una politica, che, anziché gestire interessi particolari, spesso contraddittori, ritrovi il rapporto con i bisogni umani e con il bene comune? Che provi a interpretare e a correggere i processi globali, oggi nelle mani di oligarchie spesso irresponsabili? Che porti a sintesi una riflessione sulla società e sul territorio capace di senso e di prospettiva comune? I partiti, in Italia, sembrano poco interessati alla politica. Ammesso che la politica abbia ancora la capacità, nell’epoca dell’economia globale, di tenere la barra del potere decisionale è questo, però, che ci si aspetta dal riformismo democratico e in primo luogo dal PD. Il resto viene di conseguenza, anche se certo non in modo automatico. Così, ad esempio, gli strumenti di governo, di cui oggi, spesso, si discute (leggi, piani, progetti), servono ad attuare le politiche; non valgono di per sé, ma rimangono contraddittori e difficilmente utilizzabili se le politiche sono incerte. Allo stesso modo, il ruolo dei tecnici non può sostituire quello dei politici, ma coadiuvarli poggiando, però, sulla autorevolezza delle discipline tecniche. Tra poli-
tica e tecnica, in sostanza, non ci devono essere dubbi di leadership. La politica, però, deve recuperare la sua mission e riuscire a distinguere (cosa che la tecnica non potrebbe fare) ciò che giusto e ciò che è buono da ciò che è solo utile e vantaggioso. Bisogno di politica, dunque, soprattutto nel governo del territorio. Dove troppo spesso manca un progetto condiviso capace di ispirare le azioni locali. Chi dovrebbe elaborare questo progetto se non la politica? Quando si afferma che la Toscana deve attrarre investimenti dall’estero, basandosi sulla qualità del territorio senza svenderlo, si afferma un obiettivo politico che deve essere tradotto in un progetto declinato ai diversi livelli istituzionali e perseguito attraverso la filiera interistituzionale. Per garantire coerenza al progetto, però, è necessaria una regia e l’unica possibile o è politica o è istituzionale. Dopo la variante Fiat-Fondiaria la politica non ha più espresso un progetto organico per l’area a nord-ovest di Firenze. Né le istituzioni sono riuscite a colmare questo vuoto. Così, il cuore della regione è stato oggetto di scelte separate, che oggi richiedono, a posteriori, la collocazione in un progetto unitario. Le difficoltà di ricomporre questo progetto, in presenza di alternative strategiche, sono note. Chi può riuscire in questo compito arduo se non la politica? Il PD può dunque occupare questo spazio attraverso la capacità del riformismo di andare al cuore dei problemi: rifiutando il pregiudizio, indicando, attraverso il territorio, una prospettiva per i luoghi di vita e di lavoro della società, concependo il piano territoriale come strumento propositivo di questo indirizzo, oltre che chiara manifestazione di interesse per investimenti economici coerenti. Si tratta, dunque, di considerare il piano come prospettiva di vita e occasione di impresa. Esso deve, quindi, essere capace di esprimere un progetto politico che travalichi i confini amministrativi e che guidi le azioni locali verso obiettivi di ampio respiro comune, un modo per dare senso all’impegno di tutti noi, per aiutarci a superare l’autoreferenzialità, facendoci sentire meno soli in un mondo troppo frastagliato ed eccessivamente complesso.
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Speciale Toscana 2030
La Toscana in quale Italia? Terza Italia, Italia di mezzo, Centro-Nord: prospettive a confronto di NICOLA BELLINI e RICCARDO CONTI
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n quale Italia sta la Toscana? Anche di recente, interventi di varia natura, da quelli giornalistici a quelli politicoistituzionali, hanno riproposto l’ipotesi di una collocazione “geo-politica” della Toscana in un’Italia terza, l’“Italia di mezzo”. Per collocazione “geo-politica”, senza volerci troppo addentrare in questioni di metodo e di teoria, va intesa una condizione di appartenenza a un’area più ampia di quella regionale, che sia geograficamente identificabile e al tempo stesso possieda fattori di integrazione (sia per analogia che per complementarietà) sul piano politico, economico e sociale tali da farne emergere rappresentazioni identitarie di una certa consistenza. Alcuni elementi di quest’ultima tornata di enunciazioni sembrano andare in questa direzione, anche se ciò che filtra nei media è soprattutto un tono prevalentemente rivendicativo nei confronti
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di un dualismo in cui un Nord sviluppato e “arrogante” e un Sud in perdurante ritardo e “assistito” schiaccerebbero un’Italia terza e “diversa”. La questione, invece, mantiene una rilevanza ben maggiore, che è sostanziale, strategica e - in ultima analisi - politica e su cui vogliamo qui proporre alcune riflessioni e qualche ipotesi per una fase nuova di discussione e di ricerca1. Per alcuni aspetti la ricerca di una collocazione diversa, che sia insieme non-Nord e non-Sud, richiama l’antica discussione sulla Terza Italia. In questo dibattito l’analisi delle dinamiche e dei modelli di sviluppo economico si è spesso sovrapposta a visioni politiche più generali sui destini dell’Italia contemporanea. Così è avvenuto, in particolare negli anni sessanta, quando scelte anche di politica economica, specie di carattere infrastrutturale, sono
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Gli autori riconoscono il loro debito nei confronti dei partecipanti ad un seminario tenutosi nel marzo scorso presso la sede dell’Associazione Viviani.
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state ispirate dall’esigenza da parte della DC di esorcizzare e confinare il regionalismo toscano e l’avvento delle “regioni rosse”. Negli anni ottanta un’idea diversa di Terza Italia trovava nella Toscana del “modello” distrettuale e di piccola impresa, narrato da Becattini, non solo il paradigma delle valenze economiche del territorio, ma anche un riferimento politico importante. Ad esso il Pci aderiva, seppur con atteggiamenti dubbiosi e critici in cui traspariva (non diversamente da quanto accadeva in Emilia) il perdurare delle tradizionali interpretazioni della piccola impresa come risultato del decentramento produttivo, se non, addirittura, come espressione di una patologica arretratezza dell’apparato industriale del Paese. Comunque, ne scaturì un dibattito di grande livello, contrassegnato da lavori importanti: dalla critica alla cultura antindustriale delle classi dirigenti toscane di Cantelli e Paggi, alla rivisitazione di stampo “sraffiano” del modello distrettuale di Sebastiano Brusco, fino all’insieme di ricerche e pubblicazioni di Bagnasco e Trigilia, sulle filiere territoriali e politico/culturali alla base dello sviluppo dei sistemi di piccola impresa. È soprattutto dagli anni novanta che le riflessioni dell’Irpet sul declino della Toscana hanno messo in crisi contenuti e implicazioni del modello e la relazione virtuosa tra sviluppo toscano e paradigmi della Terza Italia. Lo stesso Giuliano Bianchi, in un celebre saggio dei primi anni novanta2, suggeriva un Requiem per la Terza Italia, concetto che gli pareva aver perso “validità epistemologica, interpretativa o anche solo descrittiva”, specie a fronte della divaricazione tra la capacità di trasformazione dell’Emilia Romagna e del Veneto e l’eclissi industriale della Toscana. La rivelazione di un processo di deindustrializzazione precoce e insieme di una Toscana felix, il cui conclamato benessere era però fondato sulla rendita immobiliare, aprono il campo a dibattiti, che, se da un lato ridanno voce a mai sopiti scetticismi sul modello distrettuale (si riveda ancora nella seconda metà degli anni novanta il confronto tra Becattini e Varaldo), dall’altro si fanno carico di togliere le ultime illusioni su una possibile sopravvivenza del modello toscano ereditato dal passato. Sarà proprio l’Irpet a “chiudere la partita”, sul piano intellettuale e politico, con uno studio di prospettiva (“Toscana 2030”) che dimostrava l’insostenibilità economica, finanziaria, ma anche sociale e politica di uno scenario “inerziale” in cui gli attori del sistema economico toscano (imprese, istituzioni, famiglie) venivano ipotizzati immobili in un contesto di trasformazioni. La provocazione dello scenario inerziale stava nel fatto che, pur ammettendone la funzione didattica e di simulazione (quindi non previsionale), esso non era uno scenario del tutto “irrealistico”. Era, anzi, lecito temere che
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il “modello toscano” esprimesse ormai un tale groviglio di interessi, rapporti di rappresentanza e sub-culture da non poter sperare in un dinamismo autonomo, se non come risultato di choc economici esogeni e/o di discontinuità politiche. In vari ambiti istituzionali e tematici (dalla struttura economica all’urbanistica e alla gestione del territorio) si è posto insomma il problema di una non rinviabile modernizzazione e a tal fine è apparso necessario proprio un distacco dal concetto/mito della Terza Italia, o meglio da ciò
che ne era rimasto dopo la frattura con l’Emilia Romagna ed il Veneto: un’idea che tendeva ad esaurirsi in un mix di stereotipi post-industriali e culture anti-industriali delle classi dirigenti toscane e a esprimere una diversità riproposta in chiavi di vincolo allo sviluppo come unica opzione
Giuliano Bianchi, “Requiem per la terza italia? Sistemi territoriali di piccola impresa e transizione postindustriale”, in Garofoli G. e Mazzoni R. (a cura di), Sistemi produttivi locali: struttura e trasformazione, Milano, Franco Angeli, 1994, pp. 59-90
per la tutela del territorio (e unica, in particolare, in una presunta prospettiva “progressista”). Rimane la questione geo-politica. Esiste un’Italia mediana in cui collocare la Toscana? L’area geografica di riferimento comprenderebbe, in una prima accezione più ristretta, le regioni della fascia che va dal Tirreno all’Adriatico, con un’estensione, verso sud, a Lazio e Abruzzo (che però ne annacqua le omogeneità) ed un’importante a nord, verso l’Emilia Romagna che, sul piano economico e politico, è oggi quella più problematica, dato che appare indiscutibile
ormai la sua integrazione nell’Italia settentrionale (anche in termini di perdita di una diversità politica). In questi ambiti non sono mancati passaggi politico-istituzionali importanti e lungimiranti. Un’occasione rilevante avrebbe potuto essere la costituzione della sede unica per le rappresentanze regionali a Bruxelles da parte di Abruzzo, Lazio, Marche, Toscana e Umbria, avvenuta nel 1999. Il
significato della costruzione della “casa comune” è stato più nella proiezione esterna delle regioni coinvolte (che si riteneva danneggiata dalla dominante lettura dualistica del Paese) che non in un effetto di coordinamento delle politiche e di costruzione di identità. Piena di ottime intenzioni è stata poi la nascita nel gennaio 2010 di un coordinamento delle istituzioni del Centro, promosso dai presidenti delle province di Firenze e Roma. Qui più netta era la motivazione politica: offrire un modello di aggregazione e di coesione nell’Italia incamminata verso il federalismo, ma chiara era anche la consapevolezza di un percorso tutto da compiere per far emergere i contenuti (e i bisogni) di un modello comune di sviluppo economico sostenibile. Neppure vanno scordate certe iniziative apparentemente minori (pensiamo in particolare all’Agenzia per la valorizzazione integrale e coordinata del Bacino del Tevere Consorzio Tiberina) che hanno dalla loro la concretezza del bottom-up e partono appunto dalla identificazione di interessi comuni e aggreganti. Proprio questo sembra essere, invece, il punto fragile delle iniziative più ambiziose: una sovrastruttura di volontà politiche, progettualità generose, a cui non corrisponde una realtà effettuale di rapporti socio-economici. Almeno sino ad oggi, mancano infatti le prove dell’emergere di un corrispondente sistema di relazioni economiche. Proprio in ragione di relazioni economiche, finanziarie, commerciali e infrastrutturali la Toscana e le altre regioni del Centro appaiono, inoltre, proiettate verso il Nord e verso l’Europa (talora “saltando” il settentrione, come nel caso degli aeroporti). Se si guarda ai fatti e ai numeri delle relazioni economiche ed infrastrutturali, l’ipotesi di una rinnovata importanza delle connessioni con il Nord emerge con grande rilevanza. Per la Toscana il dato più clamoroso è quello legato alle infrastrutture ferroviarie ad alta velocità, con l’ingresso di Firenze nel circuito dei centri urbani per i quali lo spostamento giornaliero da e per Milano è diventato una realtà praticabile. Anche un dato spesso trascurato, ossia quello delle relazioni commerciali interregionali, ci restituisce l’immagine di una Toscana il cui export interregionale è fortemente specializzato verso le aree del Nord-Ovest e del Nord-Est. A tutto ciò, con minore entusiasmo, aggiungeremmo la quota delle proprietà immobiliari, specie ad uso di vacanza, posseduta da soggetti settentrionali. È allora - ci chiediamo - percorribile un’ipotesi alternativa a quella dell’Italia di mezzo, ossia una collocazione della Toscana (ma probabilmente anche delle altre regioni centrali e almeno di Umbria e Marche) in un “Centro Nord”? In questa ipotesi molti sono gli indizi che richiedono approfondimenti, discussione e verifiche e dai quali di-
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pende la sua validità e utilità. Il principale riguarda il fatto che non esista, in realtà, una frattura tra Nord e Centro, in un’Italia in cui invece si approfondisce (per riprendere la terminologia europea) quella tra regioni della “convergenza” e regioni della “competitività”. In effetti una prima analisi3 non vede alcun distacco della Toscana dalle regioni settentrionali sugli indicatori dei potenziali cognitivi (determinanti in un’economia fondata sulla conoscenza) e neppure - in prospettiva europea - si può parlare di vero e proprio gap, ma di condivisione di un posizionamento medio-alto per quanto riguarda il prodotto interno lordo e le dinamiche occupazionali. La questione va vista anche dalla prospettiva del Nord. La fondamentale ricerca avviata dalla Fondazione IRSO con Progetto Nord4 ha evidenziato le forti interdipendenze esistenti tra i sistemi produttivi locali e regionali del Nord Italia: nei flussi logistici, nella condivisione di filiere e reti produttive, nella distribuzione delle funzioni superiori nei centri urbani, nell’organizzazione degli insediamenti nel territorio, nelle utilities, nei sistemi della conoscenza e dell’innovazione. Resta, tuttavia, da approfondire almeno una questione di rilevante importanza strategica per delineare gli scenari e le prospettive di sviluppo della city-region del Nord e delle sue reti di imprese: fin dove si estende il Nord? A fianco di un nucleo centrale di territori e regioni che sono immediatamente riconoscibili come appartenenti al modello, vi sono aree di confine che certamente condividono assetti produttivi, modelli organizzativi, reti e flussi, anche se non sono totalmente riconducibili al sistema-nord. La Toscana, dunque, potrebbe essere considerata come parte integrante (anche se “di frontiera”) del Centro-Nord? Una possibile obiezione è quella che questo percorso di integrazione, a maggior ragione se rafforzato da consapevoli scelte politiche, crei una situazione di minorità e di pericolosa dipendenza della Toscana. L’obiezione funziona sul piano retorico, ma per essere convincente su quello sostanziale richiederebbe di esplicitare in cosa consista la dipendenza, ossia quali concrete opportunità di sviluppo siano rese possibili dall’Italia di mezzo e rese impossibili e condizionate da una maggiore integrazione verso Nord. Ammesso (e non concesso) che tali dipendenze esistano, varrebbe la pena di analizzare anche le nuove opportunità legate alla combinazione tra accorciamento dei tempi di percorrenza e attrazione della Toscana, ad esempio, nello spostare fuori dall’area milanese centri decisionali e strutture terziarie qualificate. Accettare questa ipotesi non significa poi dare del CentroNord una lettura inequivocabilmente omogenea e positiva.
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La citata ricerca IRSO ha opportunamente proposto una distinzione e un passaggio che non sono solo di tipo nominalistico. Si suggerisce, cioè, di passare da un’analisi della “questione settentrionale” ad un’analisi della “questione del Nord”. La prima è una questione italiana, che riguarda il rapporto tra due parti d’Italia, il Nord nei confronti del Sud; è il ribaltamento polemico della questione meridionale, che ha dominato la storia del nostro Paese dall’Unità. La seconda è invece ciò che la ricerca suggerisce di affrontare – riguarda il posizionamento del Nord non tanto in Italia, quanto in Europa e nell’economia globale. Quindi, si pone la domanda se e in che misura il Nord dia o non dia un contributo significativo e sufficiente allo sviluppo del Paese, con il sospetto che il Nord sia il vero protagonista della crisi dell’Italia e del suo declino, anche perché, pur essendo traino e motore del Paese, nei confronti dell’economia globale è troppo spesso una periferia. Inoltre, se è vero che il Nord è di molto avanzato nell’integrazione sistematica delle relazioni economiche, molto inferiore è stata la sua capacità di integrarsi sotto il profilo istituzionale, se si eccettuano le fusioni bancarie, le aggregazioni camerali e quelle nelle utilities, e assai poco sul piano delle visioni politiche, nonostante la teorica omogeneizzazione indotta dal successo leghista. Lo stereotipo, secondo cui il Nord rappresenta un’Italia virtuosa nei confronti di un’Italia del Sud, non virtuosa, illegale, amorale e arretrata, appare oggi improponibile di fronte ad un quadro del Nord, come quello rappresentato dall’IRSO, caratterizzato da un’anomia, che produce la prevalenza di interessi piccoli e piccolissimi. Il Nord è oggi il palcoscenico di una modernità incompiuta, tutt’altro che immune all’illegalità, alla criminalità, alla mafia, alla corruzione. Anche il triste spettacolo di questi anni di declino del berlusconismo si rappresenta sul palcoscenico del Nord “operoso e virtuoso”. Milano, Torino e altre città del Nord oggi si distinguono per la evidente incapacità di gestire il problema dell’immigrazione, testimoniata dalla creazione dei veri e propri ghetti urbani. Con modalità tanto inedite quanto serie, la coesione territoriale e sociale vi è messa in crisi. Dualismi e squilibri sono indotti dalle dinamiche di sviluppo, portando a convivere, fianco a fianco nei medesimi contesti, gruppi sociali le cui condizioni e prospettive sono divaricate. Il Nord non è nemmeno (altro stereotipo) il luogo della concretezza, dello spirito imprenditoriale e della progettualità. “Malpensa 2000” è storia emblematica, anche per il clamoroso risultato di avere una grande area di 20 milioni di abitanti priva di un aeroporto intercontinentale degno di questo nome. Ancora, si potrebbe ricordare almeno
Qui siamo debitori di alcune riflessioni e dati propostici da Paolo Perulli. Paolo Perulli, Angelo Pichierri (a cura di), La crisi italiana nel mondo globale. Economia e società del Nord, Torino, Einaudi, 2010
la vicenda della linea ferroviaria Torino - Lione che delinea una rinuncia possibile e gravissima ad ospitare uno dei grandi corridoi infrastrutturali all’interno dell’Europa. Dovremmo poi raccontare le storie dei tanti localismi che si accapigliano su aeroporti, interporti, caselli autostradali, quartieri fieristici. Le omogeneità “macro” coesistono con numerose differenziazioni e gravi fratture su scala microterritoriale. Appare quindi evidente che collocare la Toscana nella prospettiva del Centro-Nord significa posizionarla in una prospettiva fatta di opportunità, ma anche di sfide. Rispetto all’ipotesi di un’Italia mediana, la prospettiva è quella non tanto di scommettere sull’autarchia delle diversità, quanto sulla capacità di contribuire a progetti di valenza nazionale, che sappiano mettere in campo anche le risorse del Nord in modo innovativo. Se allora parlare di Centro-Nord ha un senso, questo va ritrovato appunto non solo nell’evidenza delle statistiche o nella forza aggregante delle infrastrutture, ma anche in grandi progetti che contribuiscano a costruire un’identità e una motivazione, fattori coesivi comuni per un contesto più vasto di quello definito dalle tradizionali rivalità regionali. I titoli sono facilmente immaginabili: la costruzione del nuovo welfare, una strategia per il Mediterraneo, la crescita di nuovi soggetti economici trans regionali. Su tutto questo crediamo che valga la pena fare una riflessione seria. Resta aperta la questione di come dare una (per ora inesistente) rappresentazione politica ed istituzionale, in termini appunto non rivendicativi ma progettuali, a questo CentroNord o – al suo interno – ad aggregazioni funzionali e/o geografiche “a geometria variabile”. Non si tratta né di aprire una discussione su improbabili nuovi livelli di governo né di avventurarsi su sentieri di ingegneria istituzionale, ma di mettere in campo capacità progettuali autentiche e una mobilitazione di energie sociali e culturali, vogliose di contribuire ad un disegno di modernizzazione di impianto riformista e disponibili ad uscire da rassicuranti tradizionali modelli. Il modello toscano, come quello emiliano erano
legati, gloriosamente, ad una fase storico/politica della repubblica ed erano anche la rappresentazione sociale, simbolica, retorica di un non professabile riformismo “comunista”. Lo schema odierno è del tutto diverso, l’inerzia dei modelli tradizionali ( di nuovo “Toscana 2030”) apre la strada a traiettorie di declino sociale e economico e, sul piano politico, a riflessi difensivi inefficaci; secondo tale prospettiva, i confini delle regioni “rosse”apparirebbero come confini di territori assediati. L’idea della Toscana come regione di frontiera dell’Italia della competitività ci apre ad un efficace e inedito ruolo nazionale ed europeo. Ciò è ancora più vero nel momento in cui al Nord emerge la possibilità di un enorme cambiamento e comincia la partita del post-berlusconismo, perché, in epoca di federalismo, le autonomie non assumano connotati autarchici e neppure siano presupposto di riflussi identitari. Ai grandi progetti/paese di cui parla Bersani è bene si intrecci una forte e integrata capacità di progettazione territoriale. Non a caso lo stesso Bersani propone, opportunamente, l’istituzione di un nuovo ministero dell’economia e del territorio, come interfaccia – diciamo noi – di diffuse autonomie capaci di progettare riforme, sostenibilità e modernizzazione, anche a scale territoriali inedite. Guardiamo – da questi punti di vista – alla realizzazione dell’Alta Velocità, in fondo l’unica nuova grande infrastruttura di cui il paese è riuscito a dotarsi. Guardiamo alla progettazione di Alta Capacità (AC) che dovrebbe accompagnarla, in termini di integrazione tra le città, di nuove inedite forme di accessibilità, di progettazione di nuovi bacini e di nuove piattaforme logistiche, fino a nuovi corridoi di integrazione con il Mediterraneo. Chi scrive pensa alla centralità che l’AC possa restituire alla portualità livornese, alla progettazione di un grande corridoio logistico e neo-industriale tra Valle dell’Arno e via Emilia e di un polo di servizi e di cultura integrato fiorentino-bolognese, oltre che al necessario raccordo con l’area perugina. Ecco cosa può essere la potenzialità della “città toscana” come frontiera dell’Italia della competitività.
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Il PIL, e poi? di ANDREA GIORGIO
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on troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi del Paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL). Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine settimana... Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi... Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. In questo celebre discorso pronunciato all’Università del Kansas il 18 marzo del 1968, Robert Kennedy rese pubbliche le crescenti diffidenze rispetto all’utilizzo del PIL come indicatore del benessere delle nazioni, facendo proprie le critiche che già si erano diffuse nell’opinione pubblica americana. Il PIL, strumento elaborato da Kuznets nel 1934, all’indomani della grande crisi, è stato fino ad oggi l’indicatore che tutti hanno usato per definire il livello di attività economica, ma la sua inadeguatezza a descrivere il benessere fu sottolineata dal suo inventore già alla presentazione dell’indice. Il fatto che spesso ci sia stata una correlazione positiva tra l’aumento del PIL e quello di alcuni degli elementi del benessere sociale, ha reso il suo aumento un obiettivo primario di ogni governo ed ha portato a perdere il senso delle parole di Kuznets. Oltre a non essere tecnicamente valido per misurare il flusso di ricchezza di una nazione, il PIL non tiene poi conto di una serie innumerevole di fattori quali il tempo libero, la produzione domestica, la qualità dell’ambiente e della vita, la povertà e le disuguaglianze. Dà insomma solo una valutazione semplicistica ed approssimativa di un flusso, non può quindi essere la stella polare dei gover-
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nanti; né il suo aumento, l’obiettivo ultimo di una società. La “Commission on the measurement of economic performance and social progress”, coordinata da Stiglitz, Amartya Sen e Fitoussi e composta da sociologi, politici ed economisti di fama mondiale, ha provato, stimolata dal presidente francese Nicolas Sarkozy, a lavorare su un tema controverso come questo, conseguendo un risultato non banale: aver portato nell’arena politica una discussione del genere nel momento in cui si cercano nuovi modelli di sviluppo alternativi a quelli stroncati dalla crisi finanziaria ed economica, e screditati dalla devastazione dell’ambiente e della biodiversità. Abbiamo insomma bisogno più che mai di un nuovo faro per le politiche pubbliche, ma per la sua costruzione è fondamentale sciogliere un nodo prioritario: cosa è benessere? La qualità della vita è un concetto più ampio rispetto alla produzione economica e al tenore di vita, comprende infatti un’intera gamma di fattori. Solo con l’attenzione alla multidimensionalità della misura del benessere, che tocca le condizioni economiche ma anche l’educazione, la salute, la qualità della democrazia, le reti sociali, l’ambiente, la vivibilità delle nostre città, la capacità di spostarsi, la dimensione del lavoro ed il suo rapporto coi tempi di vita, la sicurezza, le disuguaglianze, il rapporto con lo straniero, potremo dare risposte al futuro. Questi devono essere elementi centrali con cui promuovere un’idea di sviluppo forte e innovativa. Per ripartire, tanto in Toscana quanto in Italia, diventa imprescindibile un ragionamento sulla sostenibilità del modello di sviluppo, tanto ambientale, quanto economica, politica quanto sociale. La nostra regione ed il nostro Paese hanno bisogno di cambiare il sistema economico e produttivo, provando a rompere l’ossimoro tra sviluppo e sostenibilità. Senza limitare la dimensione di quest’ultima al solo aspetto ambientale. In questa ottica una crescita del PIL fine a se stessa non sarà in grado di offrire ai cittadini un maggior benessere: per una Sinistra che intenda reinventare un paradigma di sviluppo, la considerazione per cui il PIL deve essere uno strumento di governo, e non un suo fine, deve essere centrale.
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C’è un po’ di sud dappertutto di Stefano Casini Benvenuti
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l modello di piccola impresa è al capolinea? A seguito della recente crisi che ha colpito così pesantemente anche l’economia italiana la riflessione sullo sviluppo locale è tornata ad assumere toni spesso critici, come del resto è sempre accaduto negli ultimi decenni ogni volta che si presentava una crisi più acuta. Del resto, anche prima del biennio 2008-2009 si era a lungo parlato di presunto declino della nostra economia, attribuendo la principale responsabilità proprio ad alcune caratteristiche strutturali del nostro sistema economico: la prevalenza di piccole e piccolissime imprese, la specializzazione in settori tradizionali, più esposti alla concorrenza dei paesi emergenti. La Toscana si identifica perfettamente con tale modello: è terra di piccole e piccolissime imprese specializzate nella produzione di beni di consumo durevole e semidurevole; quindi il presunto declino dell’economia italiana trova nella Toscana uno dei suoi esempi più rappresentativi. Ed in effetti a partire dalla seconda metà degli anni novanta anche l’economia toscana rallenta la propria crescita, così come accade però alla maggior parte delle regioni del paese: pertanto, se per l’Italia si tratta di declino, anche la Toscana non si può sottrarre a questa definizione. I sistemi di piccola impresa, così dinamici nei decenni precedenti – ma in Toscana già gli anni ottanta segnano un significativo differenziale negativo rispetto alle altre regioni – sarebbero oggi incapaci di reggere la concorrenza mondiale perché, a seguito dell’ingresso nel palcoscenico internazionale di nuovi paesi, non hanno saputo adeguare la propria struttura produttiva investendo, come sarebbe stato necessario, in ricerca, innovazione ed internazionalizzazione. Del resto sono proprio questi i limiti della piccola impresa che, se da un lato è, più della grande, in grado di garantire flessibilità, dall’altro non ha risorse sufficienti da investire in modo strutturale in tali attività. Sviluppo locale e sistemi di PMI: quale legame Anche se sviluppo locale e sistemi basati sulla piccola
impresa non sono la stessa cosa, la presunta debolezza del modello della piccola impresa porta con sé anche una messa in discussione dello concetto stesso di sviluppo locale. Nell’economia globalizzata in cui le distanze si affievoliscono è ancora possibile immaginare uno sviluppo che basa le sue radici sulla conoscenza contestuale, in cui la prossimità tra gli attori gioca un ruolo centrale? Il territorio può essere ancora considerato protagonista dello sviluppo? È giusto continuare a pensare che è proprio nel territorio che sono radicate e tramandate le conoscenze e che da lì non fuggiranno altrove? Questa discussione parte da lontano; in essa proprio l’Italia centrale ha avuto un ruolo particolare, soprattutto perché qui, più che altrove, si è affermato un modello particolare in cui la piccola impresa non nasce da processi di decentramento guidati dalla grande, ma si sviluppa in modo autonomo; nasce, cioè, dal basso, sfruttando abilità imprenditoriali presenti nel mondo agricolo (la mezzadria) e conoscenze produttive presenti nello stesso mondo contadino e in quello artigianale. L’enfasi posta sullo sviluppo locale nasce prevalentemente da questa esperienza; è proprio in Toscana che l’Irpet di Giacomo Becattini “scopre” il modello di piccola impresa, avviando quel dibattito sullo sviluppo locale che ha avuto in seguito così tanti seguaci. Due, tre tante Italie Il filone di studi sullo sviluppo locale che si è affermato da quei primi studi rifugge dalle spiegazioni dello sviluppo italiano allora in voga, non solo quelle più tradizionali, basate sul dualismo nord-sud, in cui un nord industrializzato attira forza lavoro da un sud depresso e quasi esclusivamente agricolo; ma anche quelle che puntano a testimoniare la presenza anche di una terza Italia, corrispondente sostanzialmente alle regioni centrali, e un po’ frettolosamente dimenticata dalle versioni dualistiche. Il filone di studi sullo sviluppo locale a queste rappresentazioni a due o tre Italie, contrappone quella di
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uno sviluppo “a pelle di leopardo” fatto di tanti sistemi locali ciascuno con le sue caratteristiche, con le sue specializzazioni. Molti di questi sistemi locali sono caratterizzati dalla diffusa presenza di piccole imprese tra loro strettamente interconnesse o perché si distribuiscono le diverse fasi del processo produttivo, o perché realizzano varianti dello stesso prodotto. Sono questi i sistemi più rappresentativi del concetto di sviluppo locale, ma non mancano sistemi diversi in cui, invece, a guidare lo sviluppo sono alcune grandi imprese attorno alle quali ruotano piccole imprese legate alle prime da rapporti di subfornitura. In ogni caso, il territorio gioca un ruolo fondamentale dal momento che sempre le imprese che vi si localizzano – e, soprattutto, mantengono lì la loro localizzazione – lo fanno perché in quell’ambito trovano quelle economie esterne all’impresa in grado di rendere le loro produzioni più competitive. I fattori che generano tale maggiore competitività possono essere i più diversi, ma sono in larga misura riconducibili alle conoscenze presenti in quell’ambito territoriale. Fino a che questo legame col territorio resiste il sistema locale si mantiene compatto ed interconnesso e in grado di produrre e, soprattutto, riprodurre nel tempo sviluppo economico e, più in generale, benessere alle popolazioni che vi sono insediate. Per questi motivi quel sistema può essere riconosciuto come un “luogo” con le sue specificità distinto da altri “luoghi” con specificità diverse, ma anche dai “non luoghi”, ambiti territoriali in cui non vi è invece la capacità di produrre e riprodurre un proprio modello di sviluppo. Si può tornare a parlare di nord-centro-sud? Come dicevamo, questa visione allenta di fatto il ruolo delle categorie di nord-centro-sud, riconoscendo i “luoghi”, ovunque essi siano situati, come i veri protagonisti dello sviluppo. Certo la diffusione di tali luoghi è diversa nelle diverse parti del paese, recuperando in parte il significato delle macroaree geografiche tradizionali. In realtà, nell’immaginario collettivo, ciò che si associa alle tre aree geografiche è un certo modo di fare sviluppo: nel nord esso sarebbe trainato dalla grande impresa, nel sud sarebbe determinato da diffuse forme di assistenzialismo in grado di sostenere la domanda locale, nel centro si sarebbe affermato un modello di sviluppo dal basso basato su sistemi locali di piccole imprese. Se accettiamo questa rappresentazione stilizzata dell’economia del Paese, è però facile scoprire che in realtà c’è un nord, un centro e un sud dappertutto: è solo il dosaggio dei tre ingredienti che è diverso. Cos’è un sistema locale Per comprendere bene cosa intendiamo dire, dobbiamo
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partire dall’idea che un sistema economico locale per considerarsi tale deve avere alcuni caratteri. Dovrà avere un sistema di imprese, una pubblica amministrazione in grado di fornire ai cittadini i beni e servizi di cui hanno bisogno, ma siccome nessun sistema è autosufficiente ciò richiederà di importare i beni e servizi che le imprese locali non sono in grado di produrre da sole. Questi beni e servizi – fondamentali per garantire il livello di benessere ai residenti – dovranno essere pagati e questo può avvenire in due modi diversi: o esportando almeno altrettanti beni e servizi o ricevendo redditi dall’esterno. Stilizzando all’estremo questa rappresentazione possiamo dire che ogni sistema sarà fatto di due pezzi: uno rivolto a soddisfare i bisogni dei residenti, l’altro volto a recuperare le risorse per garantirsi l’acquisto dei beni e servizi necessari per soddisfare i bisogni. Si comprende bene come i due subsistemi siano tra loro legati, ma si comprende altrettanto bene che, mentre il primo accomuna un po’ tutti i sistemi locali rendendoli molto simili tra di loro, il secondo si basa sulle abilità produttive esistenti in ogni area e quindi caratterizza ogni sistema differenziandolo da tutti gli altri. Ad esempio, quando si parla del distretto tessile si pensa ad un sistema locale in cui il secondo subsistema è specializzato nel produrre tessile, differenziandosi per questo da quelli delle calzature, della pelletteria, e così via. Puntando sulle differenze si trascura, però, il fatto che all’interno di ognuno di questi sistemi esiste anche un complesso di attività più o meno presenti ovunque (imprese commerciali, cinema, scuole, asili nido, trasporti, eccetera). Insomma il dibattito sullo sviluppo locale enfatizzando le specializzazioni di ogni luogo ha dimenticato le comunanze. Fronte e retrovia In “Toscana2030” l’Irpet ha cercato di richiamare l’attenzione proprio sulle comunanze utilizzando una felice definizione di Grillo M. (Dentro un’economia che non gira, Il Mulino, Bologna, 2004) che suddivide le imprese in imprese che stanno sul fronte e imprese di retrovia. Questa rappresentazione è estremamente efficace per rappresentare i due subsistemi sopra descritti. Nel primo subsistema – quello volto a soddisfare i bisogni locali – stanno le imprese “di retrovia” le quali operano spesso in un regime protetto e possono permettersi di sopravvivere senza grandi sforzi; nel secondo subsistema stanno soprattutto le imprese “sul fronte” costrette ad essere efficienti e competitive se vogliono sopravvivere nella competizione mondiale. La domanda che allora è legittimo porsi è se la difficoltà
del sistema produttivo toscano (ma anche nazionale) sia attribuibile solo al secondo subsistema fatto soprattutto di Pmi aperte alla concorrenza internazionale, o sia invece determinato anche dalle inefficienze del primo, rimasto per lungo tempo protetto da tutta una serie di limiti posti allo sviluppo della concorrenza. In questo senso diciamo che vi è un po’ di sud dappertutto, perché in effetti molte aree del mezzogiorno hanno potuto mantenere una forte presenza di attività di retrovia, la cui inefficienza ha spesso garantito la creazione di un buon numero di posti di lavoro. In parte però questo meccanismo si è diffuso anche nei sistemi produttivi del centro e del nord del paese e rappresenta oggi forse uno dei problemi principali per la crescita della nostra economia. Quando in questi anni si è parlato di rendita come freno dello sviluppo si faceva in realtà riferimento a molte delle attività che stanno in questa parte dei singoli sistemi locali, la cui consistenza è divenuta crescente costituendo una vera e propria zavorra per la parte restante del sistema produttivo. Questo non deve servire a scagionare il sistema che sta “sul fronte”, in quanto evidentemente anche esso è stato a lungo protetto dalla concorrenza internazionale dalla costante svalutazione della lira avvenuta fino alla metà degli anni novanta. Effettivamente le piccole imprese dei nostri sistemi locali trovatesi di fronte alla concorrenza internazionale, senza avere più la protezione della moneta, hanno manifestato tutte le loro debolezza; ma
tra queste occorre considerare anche il basso livello dei servizi fornito dalle imprese di retrovia, tra cui anche quello della pubblica amministrazione. Recuperare competitività non significa solo far sì che le imprese sul fronte siano in grado di investire in innovazione, ma significa che anche la restante parte del sistema, dalle banche alle imprese di trasporto, dagli asili persino al panettiere, siano sottoposti alle stesse tensioni costringendoli ad innovare e ad essere efficienti. Anche le loro inefficienze si scaricano su quelle delle imprese aperte ai mercati internazionali. Tutto questo ragionamento naturalmente può essere interpretato esso stesso come una critica al concetto di sviluppo locale: in effetti se le comunanze prevalgono sulle differenze non vi è più una specificità locale. In effetti un po’ ne siamo convinti; siamo convinti cioè che paradossalmente proprio nel paese in cui più si è affermato il dibattito sullo sviluppo locale la scarsa attenzione a ciò che accadeva nel settore di retrovia (peraltro quantitativamente più rilevante) ha finito con l’attenuare le specificità dei luoghi accomunandoli un po’ tutti in un percorso di bassa crescita. Questo non significa che l’attenzione al territorio debba essere abbandonata; al contrario significa richiamare al fatto che tutti i soggetti presenti nei luoghi, dall’impresa esportatrice, al ristorante, dall’asilo nido al panettiere, concorrono a formare la competitività di quel luogo e che senza il concorso di tutti quel luogo è destinato a scomparire.
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Le vie dell’integrazione di cristian pardossi
Santa Croce sull’Arno e Campi Bisenzio:due realtà diverse sotto molti aspetti eppure simili per il modo con cui stanno affrontando l’importante e delicato tema del governo dell’integrazione delle proprie comunità. Eccellenze di un panorama – quello toscano – che si caratterizza sempre di più come terra di integrazione tra popoli, culture, religioni: sarà per le origini incerte dei suoi abitanti originari - gli Etruschi - che qualcuno vuole provenienti dall’Illiria (l’attuale Albania) o dai paesi asiatici. Citazioni storiche a parte, il sistema di città della Toscana – di cui Santa Croce e Campi Bisenzio sono le punte avanzate che non hanno però la presunzione di assurgere a idealtipo – si candida ad essere un vero e proprio laboratorio nazionale dove elaborare politiche che affrontino il tema dell’immigrazione, dell’integrazione e dell’interazione tra generazioni e genti in modo alternativo a quello della destra che oggi ci governa. Quello dell’inte(g)razione è uno dei banchi di prova per la classe dirigente che è chiamata a dare vita ad un nuovo progetto politico per l’area progressista. Occorre partire da un assunto: l’immigrazione non è più un fenomeno eccezionale, ma un dato strutturale che continuerà a caratterizzare il nostro pianeta, almeno fino a che esisteranno i profondi squilibri che lo caratterizzano oggi. L’arrivo di persone con storia, cultura, abitudini profondamente diverse da noi rappresenta un elemento di potenziale difficoltà da governare e la fonte del possibile insorgere di conflitti sociali. Si tratta di un fenomeno che per il nostro Paese è piuttosto recente: per molto tempo siamo stati terra di emigrazione, basti pensare che nel XX secolo dall’Italia se ne sono andati 20 milioni di nostri connazionali. Sfide simili a quella che stiamo vivendo in questo periodo storico si fa fatica a trovarle nella storia del nostro Paese: qualcuno fa riferimento al fenomeno di migrazione interna che negli anni del boom economico portò migliaia di nostri connazionali dal meridione verso le regioni del centro-nord. Ma è una storia diversa, perchè al di là della diversità dei dialetti e delle usanze, c’era comunque un insieme di elementi – seppur
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debole - che permetteva la tenuta sociale delle nostre comunità: la lingua, la storia recente del nostro Paese, con la guerra di liberazione, la Repubblica, la Costituzione, i diritti civili e politici riconosciuti a tutti; e – dato non secondario – un’offerta di lavoro abbondante. Oggi il quadro complessivo è profondamente mutato. Non solo per effetto della crisi economica intervenuta negli ultimi anni, ma per le differenze che esistono sia tra italiani e immigrati che tra immigrati di diversa provenienza. E allora come favorire le vie dell’integrazione? Penso occorra ripartire dalla città come progetto politico che prende corpo nello spazio, in un contesto però profondamente mutato e caratterizzato dalla disponibilità limitata di risorse economiche, dalla debole strutturazione delle compagini partitiche, dall’evidente affaticamento delle tradizionali forme di rappresentanza. Non basta più (solo) il lavoro, primo obiettivo di chi approda nel nostro Paese con la speranza di poter affrontare con maggiore dignità la propria esistenza: certamente esso è un fattore di integrazione molto forte, ma oggi la crisi ne mina il potere aggregante e lo trasforma – nella visione distorta della legge Bossi-Fini – in un ricatto. Non basta la scuola dove si pianta il seme della convivenza e del rispetto in classi multietniche in cui la percentuale di bambini con genitori stranieri supera abbondantemente il 50% (segno del contributo non solo economico ma anche demografico che i migranti danno ad una regione come la nostra che altrimenti avrebbe tassi di invecchiamento piuttosto alti e una ricchezza di diversi punti inferiore). Non bastano le politiche sociali di assistenza e supporto ai soggetti più svantaggiati economicamente. Oggi la sfida investe ed interroga altri settori: dalle politiche per la casa, a quelle urbanistiche, fino a quelle attinenti la cittadinanza politica. Torna davvero al centro della riflessione la città come progetto politico e come insieme di soggetti capaci di esprimere a pieno la propria dimensione di cittadini. Serve un progetto politico che partendo dalle città sappia promuover nuove forme di interazione e cittadinanza.
Da dove partire? La sfida è epocale per i temi che coinvolge. Una questione spinosa da cui partire, facendo chiarezza, è quella dell’identità. Quando ci riferiamo ai tratti identitari di una comunità non possiamo immaginarli come un insieme statico di elementi e caratteristiche. L’identità infatti – alla stregua del concetto di paesaggio – è intimamente legata a fenomeni antropici e sociali, che ne fanno mutare le caratteristiche nel lungo variare della vicenda umana: ci sono aspetti che oggi consideriamo irrinunciabili e che solo un secolo fa non facevano parte del nostro bagaglio identitario. Significa che per promuovere l’integrazione dobbiamo annullare la nostra identità? Assolutamente no: questa è stata una convinzione sciocca in cui è caduta anche una parte della sinistra nei decenni passati. Ma come è giusto non rinunciare alla nostra identità, al tempo stesso dobbiamo esser coscienti che anche chi arriva nel nostro Paese non è più disposto a rinunciarvi in cambio di integrazione e tolleranza. Ecco uno dei compiti di un nuovo progetto politico: costruire la nuova identità degli italiani, che attorno ad una nuova (forse la prima) religione civile sappia rilanciare spirito unitario e coesione sociale. Il cuore del problema sono le politiche di cittadinanza. Siamo un Paese in cui chi nasce sul nostro territorio, se ha genitori di altra nazionalità, non può essere cittadino italiano fino al compimento del diciottesimo anno di età. Una ferita inferta a chi nasce, cresce e sviluppa la propria rete di relazioni nel nostro stesso territorio: un vulnus che provoca in chi lo subisce un sentimento di estraniamento, di integrazione incompiuta. Per questo il nuovo progetto politico che abbiamo l’ambizione di elaborare non può che partire da una legge nuova sul diritto di cittadinanza basata sul principio dello ius soli. I Comuni della nostra regione hanno portato avanti molte lodevoli iniziative per coinvolgere anche dal punto di vista civile e politico i migranti presenti sul territorio: dalle consulte, ai consigli per stranieri, sino al caso campigiano in cui in giunta siede un assessore di origini cinesi. Oggi però, a fianco di questi strumenti serve una iniziativa politica nuova. La Toscana, terra di Comuni e municipalità, di case del popolo, ma anche di strutture
e associazioni espressione del cattolicesimo sociale più aperto e maturo, può trovare su questo tema il terreno su cui costruire un nuovo laboratorio di politica e cittadinanza, capace di interagire anche con le realtà che possono scaturire dal mutato quadro amministrativo di città come Milano, dove fino ad ora alla sordità del livello amministrativo faceva – per fortuna – da contraltare un forte impegno del mondo cattolico sociale e del volontariato di matrice socialista. La recente vicenda dell’accoglienza dei tunisini e del modo con cui la Toscana ha governato il loro arrivo, affermando un modello ragionevole e alternativo a quello del governo delle destre è un ulteriore esempio che dimostra le potenzialità di questo progetto. La Toscana delle città è a sua volta una media città europea: un concetto ribadito nel PIT e caro al nostro presidente della Regione: è giunto il momento di costruire un nuovo progetto politico per la “città Toscana”, che tragga dall’interazione tra i soggetti che la animano la forza per eliminare alcune sue tare storiche, guadagnando in competitività, coesione sociale, dinamismo, e al tempo stesso sapendo aggregare attorno a questo progetto politico un nuovo blocco sociale (e geografico) in grado di rendere sempre più concreta la contendibilità del governo nazionale
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L’attività dell’Associazione “Romano Viviani” ha registrato negli ultimi mesi un’intensità crescente nella promozione di seminari, convegni, iniziative editoriali e siamo contenti dei tanti riconoscimenti che ci sono stati rivolti. Siamo soprattutto soddisfatti di aver trovato e in qualche caso ritrovato l’impegno attivo, fatto di partecipazione e di proposte, di tante persone a vario tipo qualificate. Ricordare quanto fatto in pochi mesi, da febbraio a giugno 2011, non può essere considerato amarcord: abbiamo presentato il precedente numero di questa rivista, il primo nella nuova veste grafica, parlando di urbanistica, paesaggio, editoria, informazione” insieme al nostro caro amico Gianni Cuperlo; abbiamo presentato un quaderno sulle sfide dell’economia urbana, curato da Sara Di Maio e Chiara Agnoletti, con gli autorevoli autori e con la partecipazione di Guglielmo Epifani; abbiamo presentato e discusso un quaderno sulla giustizia, curato da Silvia Della Monica, Massimiliano Annetta, Roberta Rossi e Stefano Pagliai interloquendo con i massimi esponenti del Foro fiorentino. Un grande impegno che ha attirato l’attenzione di tante persone. Sono in corso le Giornate di studio in preparazione del Piano Strutturale Territoriale di Coordinamento della Provincia di Firenze articolate in tre incontri seminariali di ottimo livello che sviluppano un ragionamento su frasi suggestive e significative di personalità della cultura politica e urbanistica italiana: “La città è un progetto politico organizzato nelle spazio”, “Non esiste l’urbanistica buona, esistono i buoni amministratori”, “La città: il bello e il pittoresco”. Il cammino intrapreso è ambizioso e impegnativo per un’associazione nata da soli tre anni che vuol essere un centro di cultura politica militante che realizza i propri obiettivi attraverso l’autofinanziamento, in modo da poter essere autonoma, ma con la volontà di coinvolgere altri soggetti che hanno la stessa ambizione, con l’idea di fornire un contributo alla cultura politica del centrosinistra. In questo senso sono per noi davvero sempre più decisive le collaborazioni con la Fondazione Italianieuropei e con il Centro studi del PD., con cui stiamo progettando iniziative future. Ci pare che il momento storico richieda uno sforzo in più in termini di contributi per l’elaborazione programmatica di un nuovo governo per l’Italia. Sappiamo che l’autofinanziamento è faticoso (per questo vi invitiamo a facilitarlo compilando numerosi le schede di adesione qui a fianco), ma sappiamo e vogliamo ricordare a chi legge che è lo strumento principale e fondamentale per mantenere un’autonomia di iniziativa e una presenza. E noi vogliamo insistere nella fidelizzazione da cui nasce il volontariato che ci consente di andare avanti ogni giorno, con fatica ma con passione ed entusiasmo. Proseguendo la nostra campagna di tesseramento 2011, vogliamo porgere un ringraziamento sincero e forte a tutti i vecchi e nuovi soci e un grazie a tutti i vecchi e nuovi volontari! Marta Romanelli Segretaria di Redazione di Scelte Pubbliche
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Per regolarizzare l’iscrizione all’Associazione è necessario versare la quota associativa tramite: Bonifico bancario intestato a Associazione Romano Viviani presso la Banca CR Firenze Agenzia 2 in Via dei Serragli - Firenze sul C.C. n° 12256 CIN K ABI 06160 CAB 02802 IBAN IT52K0616002802000012256C00 Il Socio dichiara altresì di aver letto e approvato il contenuto dello statuto dell’Associazione. Nota: L’iscrizione sarà effettiva solo a pagamento ricevuto e sarà comunicata formalmente dalla Segreteria dell’Associazione Romano Viviani. Tale iscrizione dà diritto all’accesso alla mailing list e a tutte le attività riservate ai soci.
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Per un’agenda di WALTER TOCCI riformista sulla rendita urbana Oggi si parla molto poco di rendita urbana, proprio mentre il fenomeno è diventato fattore cruciale nell’allocazione delle risorse e nella regolazione dei processi. La sua potenza è aumentata in seguito all’intreccio con la rendita finanziaria. Il mattone ormai si comporta come un derivato, ci ricorda Giulio Sapelli. La rendita urbana è una prosecuzione della finanza con altri mezzi, per dirla con von Clausewitz. Paradossalmente l’attenzione è stata maggiore quando il fenomeno era meno rilevante nel ciclo economico. Certo la speculazione edilizia degli anni cinquanta e sessanta ha avuto un impatto disastroso nel territorio italiano, ma tutto sommato era espressione di settori arretrati rispetto alla trasformazione capitalistica. In un’intervista dei primi anni 70 Agnelli proponeva di combattere la rendita urbana perché provocava l’aumento degli affitti, la diminuzione dei redditi disponibili per i lavoratori e di conseguenza una maggiore conflittualità in fabbrica. Era l’argomento principale su cui poggiava l’offerta al movimento sindacale di un patto tra produttori. Venti anni dopo la Fiat e tutti gli altri grandi gruppi industriali danno vita ai fondi immobiliari per utilizzare le rendite come margini per le rispettive ristrutturazioni aziendali e come via di fuga dalla competizione internazionale. Da Sullo a Bucalossi il tema è stato centrale nell’agenda politica e nel dibattito pubblico. Perfino l’arte ha contribuito a denunciare il problema, ad esempio con il film Mani sulla città di Rosi e il romanzo La speculazione edilizia di Calvino. Per l’urbanista, infine, la rendita costituiva non solo un decisivo argomento disciplinare, ma perfino una tappa della formazione etico-professionale. Su tutto ciò è calato un lungo silenzio da quando la rendita è diventata la forza indisturbata dello sviluppo territoriale e parte integrante della finanziarizzazione dell’economia. Sono cominciati grandi
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dibattiti sugli strumenti di pianificazione, sulla governance, sull’architettura istituzionale e ultimamente anche sul ritorno a strumenti emergenziali. Tutto ciò rivela non solo una difficoltà a governare i processi, ma anche una grave rimozione della causa strutturale di tale difficoltà. Tornare a occuparsi di rendita è quanto mai necessario se si intende governare davvero gli esiti della trasformazione. E su questo la Toscana può fare molto, perciò ho accolto con molto interesse l’invito del mio amico Riccardo a discuterne. Qui c’è un potere pubblico che pur giocando sulla difensiva lo ha fatto meglio di altre regioni italiane. E da qui può partire la controffensiva. D’altronde, le riforme sul territorio partono se c’è un territorio che fa da battistrada, come avvenne per i centri storici, forse l’esperienza migliore del riformismo italiano in urbanistica che prese avvio proprio dalle esperienze delle regioni rosse. Oggi, voi riformisti toscani avete la responsabilità di contribuire a riaprire su basi nuove il discorso nazionale sulla riforma urbanistica. Se non va dimenticata, la rendita non va neppure demonizzata. È pur sempre una produzione di valore. Ma la questione riguarda chi la produce e chi se ne appropria. A produrla sono gli attori collettivi. Non soltanto l’operatore pubblico con le infrastrutture, con le regolazioni d’uso dello spazio e in generale anche col buongoverno. Perfino la buona immagine di una città in tempi di marketing urbano è un forte fattore di crescita della valorizzazione immobiliare. Hanno ovviamente un peso rilevante anche i comportamenti collettivi privati per la cura degli immobili, per le attività che aumentano il prestigio e il glamour della città e in generale per la crescita economica. Lo squilibrio nasce dall’appropriazione da parte di pochi di questo valore che nasce dall’impegno di molti. E anzi si può verificare il paradosso che ad appropriarsene sia anche il proprietario che
non ha contribuito alla valorizzazione. Se in una strada vengono restaurate le facciate dei palazzi l’aumento di valore sarà acquisito anche dal proprietario che non lo ha fatto. Questa appropriazione non solo è ingiusta ma è anche inefficiente. Se infatti la rendita non cadesse nelle mani di pochi speculatori, ma rientrasse nel circuito di valorizzazione in termini di investimenti pubblici farebbe crescere la stessa valorizzazione. Una città che sa governare l’immobiliare aumenta sia la ricchezza pubblica sia quella privata. Al contrario, l’appropriazione privatistica avvantaggia solo alcuni e di solito produce bolle immobiliari che a lungo andare esplodono e determinano un impoverimento generale, come si è visto anche nell’ultima crisi. Quindi è necessaria una nuova agenda del riformismo urbanistico e deve comprendere almeno tre problemi. Investimenti – Sulla base di parametri calcolati dal Cresme per l’anno 2006 si può stimare la rendita totale italiana, intesa come la differenza tra prezzi di vendita e costi di realizzazione comprendendo un alto utile di impresa del 25%, in un ordine di grandezza
di 15-20 miliardi di euro. Se questo plusvalore fosse acquisito dal pubblico si potrebbe finanziare ogni anno un poderoso programma di infrastrutture. Invece, i proprietari, non contenti di impadronirsi della quasi totalità di tale valore, pretendono altri diritti edificatori per realizzare le infrastrutture, secondo la moda ormai diffusa del project financing. Le costruzioni aggiuntive richiedono evidentemente ulteriori infrastrutture non compensate dai miseri interventi a carico del proprietario, il quale incamera in questo modo una quota aggiuntiva di rendita e scarica sulla collettività ulteriore deficit in termini di servizi pubblici. Tutto questo avviene sulla base del falso alibi della mancanza di risorse pubbliche. È vero esattamente il contrario, i comuni non hanno soldi perché lasciano la ricchezza al proprietario e questo fingendo di risolvere la penuria pubblica in realtà la aggrava e se ne avvantaggia. Che tutto ciò avvenga senza alcuna consapevolezza dell’opinione pubblica è sintomatico di come il partito della rendita sia riuscito i questi anni a imporre il suo primato. Bisognerebbe prima di tutto restituire trasparenza a queste transazioni che mettono in gioco valori di gran lunga superiore ad ogni
altra politica comunale. Esiste un’evidente asimmetria informativa che andrebbe colmata con un obbligo normativo a produrre una sorta di Certificato delle rendite e dei costi almeno per le operazioni urbanistiche più importanti per dare la possibilità di verificare la tutela dell’interesse pubblico. Ma soprattutto andrebbe completamente rivista la materia degli oneri urbanistici e concessori, oggi gestita scandalosamente a favore della proprietà, con adeguamenti in grave ritardo rispetto alle dinamiche di mercato e senza alcun riferimento agli effettivi costi scaricati sulle casse comunali dai piani urbanistici realizzati. Si tratta di riportare a un minimo di decenza questo strumento di controllo economico della trasformazione, facendo in modo che tutti i costi pubblici siano coperti dalla formazione della rendita. E i costi vanno calcolati non solo all’interno dei piani urbanistici, come si fa oggi, ma comprendendo quelli delle infrastrutture di collegamento con il sistema urbano. Questo ampliamento di scala, tra l’altro, renderebbe molto più costosi per i proprietari gli insediamenti più esterni ai centri abitati e avrebbe l’effetto di contenere il consumo di
suolo e di favorire il recupero urbano. Tutto ciò si riferisce solo alla rendita che si genera nella trasformazione urbanistica, ma ormai, con la finanziarizzazione, molto più importante è la rendita che emerge nelle compravendite dello stock edilizio esistente. Qui si può intervenire per via fiscale, ripristinando quel principio di tassazione dei plusvalori comunemente accettato quando la rendita era un fenomeno agricolo e si parlava di contributi di miglioria. Oggi nelle compravendite la tassazione è inferiore alle parcelle dei notai e si aggira intorno al 5% dei valori immobiliari, senza tenere conto della valorizzazione accumulata nel tempo poiché non dipende dal periodo di possesso. In un’intervista (“Corriere della Sera” del 26-1-2011) Pellegrino Capaldo, che non è certo un estremista, si è spinto a immaginare una tassazione più alta fino a coprire la metà del debito pubblico italiano. La sua proposta è stata demonizzata da tutti i difensori dello status quo, a cominciare dal presidente del Consiglio intervenuto appositamente per bloccare quella che era solo un’ipotesi giornalistica. Nessuno dei solerti critici è riuscito comunque a proporre una soluzione alternativa per ridurre il debito almeno nella
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quota che ormai impongono le regole europee, se non una serie di manovre economiche da 50 miliardi l’anno che impedirebbero qualsiasi investimento pubblico e metterebbero in ginocchio la nostra economia. Comunque tra l’ipotesi “rivoluzionaria” di Pellegrino Capaldo e il non far niente ci sono tante possibili strade intermedie che consentirebbero un forte rilancio degli investimenti pubblici sul territorio italiano. Concorrenza – Si trascura spesso l’importanza per il soggetto pubblico di poter confrontare proposte progettuali diverse prima di decidere l’attuazione di un piano urbanistico. Se questo potesse essere messo in gara, sulla base di chiare prescrizioni comunali, si avrebbe un confronto competitivo sulla qualità, sulle funzioni, sui costi e sul vantaggio pubblico della valorizzazione. Oggi tutte questi aspetti sono condizionati fortemente dal monopolio della proprietà, la quale costituisce anche un collo di bottiglia nella scelta delle funzioni da insediare. Il mercato della proprietà è infatti molto più piccolo di quello della domanda di localizzazione. Per questo di solito si procede a ondate successive, spingendo una determinata funzione fino alla saturazione prima di individuare un altro tipo di attività. Il territorio italiano porta i segni di queste vere e proprie mareggiate, dal residenziale, al terziario e ai grandi centri commerciali. Le funzioni innovative rimangono così negli auspici della retorica dei sindaci e di improbabili agenzie di sviluppo territoriale che non hanno alcun potere verso i decisori della rendita. Anche nel caso di suoli pubblici si tende a ripristinare la condizione di monopolio procedendo alla sdemanializzazione prima di approvare il piano urbanistico. Oggi, invece, proprio in questo campo si potrebbe giocare una carta molto importante per introdurre qualità urbana e affrontare alcune priorità come l’offerta di alloggi in affitto. Se nelle sdemanializzazioni in corso si procedesse, dopo un’attenta pianificazione urbanistica, mediante strumenti competitivi si otterrebbero diversi risultati positivi:
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massimizzazione dei vantaggi pubblici, certificazione competitiva dei costi e delle rendite delle trasformazioni, diversificazione e innovazione delle funzioni, promozione di un’imprenditoria qualificata per la capacità realizzativa e non per il gioco sulle aree. Tutto ciò definirebbe uno standard favorevole al pubblico che diventerebbe poi ineludibile anche per i per i piani gestiti dai privati. Indifferenza – È un vecchio sogno dell’urbanistica riformista quello di liberare
la matita del progettista dai condizionamenti della proprietà. Per tale obiettivo sono stati pensati due strumenti: nel primo trentennio repubblicano si è puntato all’esproprio preventivo delle aree, mentre nel secondo trentennio è prevalsa l’idea della compensazione dei diritti edificatori. Si potrebbe fare una storia degli errori e dei fraintendimenti che si sono accumulati nell’esperienza pratica e nel dibattito teorico. Ma una cosa è certa, nessuno dei due approcci è riuscito a realizzare l’auspicata indifferenza, a parte alcuni casi
meritori. In particolare, il secondo strumento, l’unico legittimato oggi nella pratica e nella teoria del mainstream urbanistico, dovrebbe essere sottoposto ad un’analisi sincera dei risultati ottenuti. Si può facilmente concludere che si è rivelato una barriera piuttosto fragile di fronte alla potenza della nuova rendita alleata con la finanza. Sono evidenti i suoi fallimenti rispetto a tutti e tre i problemi qui indicati. Il riparto di rendita a favore degli investimenti pubblici è stato piuttosto scarso nella quantità e poco trasparente nella modalità
attuativa. La concorrenza è stata negata poiché la perequazione rafforza il monopolio dei proprietari trasformando in molti casi i diritti edificatori in beni senza limiti temporali che si possono trasferire a piacimento nel territorio, come se il comune fosse una zecca immobiliare. E specificatamente non si è realizzata certo l’indifferenza progettuale, come si può vedere dal dilagare dello sprawl nell’area vasta. Mai come negli ultimi tempi la proprietà immobiliare è stata padrona assoluta delle scelte localizzative, come mostrano quasi
tutte le vicende urbanistiche delle città italiane. È il momento di immaginare nuove politiche urbane. Il problema dell’indifferenza rispetto al proprietario non è una questione insormontabile. Anzi, su di esso la teoria economica si è impegnata molto negli ultimi tempi ma soltanto per il caso della liberalizzazione delle reti dei servizi pubblici. Sono state proposte soluzioni sofisticate per impedire all’incumbent di condizionare l’accesso dei concorrenti, dalla separazione proprietaria, all’Authority che detta le regole di gestione, ai contratti pubblici di accesso alla rete e così via. In teoria il problema di limitare i diritti proprietari per favorire la concorrenza è analogo a quello che si presenta nella regolazione urbanistica. Anzi, in questo caso è più facile perché la limitazione si rende necessaria solo nel momento della trasformazione, mentre nelle reti si protrae nel tempo. Eppure nessuna attenzione è stata riservata da questa impegnativa elaborazione teorica verso la regolazione della rendita urbana. A conferma che la teoria economica ortodossa va sempre dove la porta il cuore. Però, gli economisti dovrebbero aver capito che la belva immobiliare tanto trascurata dai loro studi è cresciuta ed è diventata tanto forte da demolire il castello di concorrenza perfetta costruito nei modelli econometrici, come si è visto con la recente crisi globale, originata non a caso dai subprime dei mutui immobiliari. Ci sarebbe bisogno di nuovi approcci da parte della cultura economica per riscoprire il territorio come fattore di ricchezza collettiva. Lo scoprì proprio in Toscana negli anni settanta il filone di ricerca allora eretico che iniziò a studiare i distretti. Oggi, qualcosa di analogo servirebbe per comprendere la forza delle città nell’economia della conoscenza. Ma questa prospettiva di crescita e di innovazione si può aprire solo se si riduce il potere della rendita nelle decisioni strategiche della città. A tale scopo sarebbe necessaria l’elaborazione di nuovi strumenti di regolazione integrando le competenze di economisti, urbanisti, giuristi e politici. Con la consapevolezza che non è solo una questione tecnica. La chiamiamo indifferenza, ma è la sovranità della democrazia nella città.
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DIzionario di PIER FRANCESCO NISTRI
La parola bellezza. Al contrario della parola ‘bruttezza’ che oggi ha molte declinazioni (la bruttezza delle periferie, la bruttezza della politica etc.), la parola bellezza è caduta in disuso, la si pronuncia poco quasi per pudore. Nelle arti – che sono il suo regno – si parla di emozione, sperimentalismo, innovazione, ma un galateo diffuso impedirebbe di dire che il Davide e la Gioconda sono ‘belli’. Nella sua Storia della bellezza Umberto Eco dice giustamente che il nostro secolo ne ha perduto i canoni precisi sicché gli artisti giocano più sull’emozione che sull’estetica. Mi diceva un eminente critico inglese che quando ha chiesto a qualcuno un esempio di bellezza quasi tutti hanno risposto descrivendo un paesaggio. La bellezza dunque, sarebbe finita proprio laddove le insidie del degrado sono più forti. Da sempre la bellezza è stato un attributo co-
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niugabile con la donna. Ma oggi perfino la cosmetica preferisce parlare di snellezza, linea, benessere, forma, gioventù anziché di dichiarare il traguardo più ambito, cioè appunto la bellezza. Perfino delle automobili si decanta la velocità, la comodità, la sicurezza, piuttosto che la bellezza della forma. La parola bellezza sembra rifugiarsi in alcune, velatamente triviali, espressioni domestiche: ‘una bella giornata’, ‘una bella mangiata’ etc. Forse tutto ciò deriva dall’aver perduto da tempo, quello che gli antichi chiamavano il concetto del sublime. E poi la bellezza è un dono e noi oggi viviamo nel mondo utilitaristico. Eppure nelle masse un desiderio e quasi un bisogno di bellezza esiste, basti pensare al grande successo del turismo nelle città d’arte. La bellezza è ormai piuttosto un antidoto che una speranza.
LONTANO di MAURIZIO IZZO
La tigre senza rete. In Vietnam Facebook non funziona. Come in altri regimi anche qui il governo comunista teme evidentemente che proprio sulla rete possano coagularsi forme di dissenso organizzate, soprattutto tra i giovani. Una limitazione che stride particolarmente in un Paese ad alto tasso di sviluppo tecnologico e soprattutto straordinariamente giovane. A parte che sui social network, navigare in rete a Saigon è più facile che a Firenze, quasi tutti gli esercizi commerciali, dai ristoranti agli alberghi, dai bar ai centro commerciali hanno una propria rete wi-fi che deve essere aperta e accessibile a tutti. Ne viene fuori così in pratica una gigantesca rete di connessione libera e gratuita che permette appunto di navigare su internet in quasi tutta la città. Certo Saigon è il centro economico del Paese ma qualcosa del genere si trova anche ad Hanoi e nelle principa-
li città della costa, quelle più turistiche. Quello vietnamita è un popolo giovane e in continua crescita. Il Vietnam ha raddoppiato la popolazione negli ultimi cinquanta anni e promette di fare altrettanto nei prossimi venti. La maggior parte dei vietnamiti ha meno di quaranta anni e si vede. I giovani sono ovunque, soprattutto nelle città e si danno un gran da fare, le donne ancora di più. Sorprende per noi “paese di vecchi” vedere tanti ragazzi all’opera. Negli alberghi non si vede mai al lavoro una persona di più di venti anni, i ristoranti sono in mano a bande di ragazzini, giovani donne portano le barche sul Fiume Rosso e si inventano imprenditrici turistiche, i tassisti sembrano appena usciti da scuola, nelle banche e negli uffici turistici si fa fatica a credere che chi ti sta davanti sia lì a lavorare tanto è giovane. Quel 60% di popolazione sotto i 30 anni è uno dei
vantaggi competitivi di questo Paese che è divenuto progressivamente una delle economie più veloci al mondo (con una crescita media annua dell’8% tra il 1990 e il 1997, del 6,5% tra 1998 al 2001, del 7,7% tra 2002 e 2006 e del 6% tra 2007 e 2009). Una ricchezza che in parte è stata redistribuita, almeno nelle città, visto che il salario pro capite medio annuo è passato dai 200 dollari del ’93, a quasi 500 nel 2003, fino ai 1.000 del 2009. Giovani e sempre più ricchi tanto che per comprare una casa da 200.000 dollari bisogna partecipare a una lotteria tanta è la richiesta, per avere un motorino da 1.000 euro in su c’è la fila e sulla terrazza del Hyatt Hotel si serve brandy francese da 4.000 dollari a bottiglia. Solo nei mercati si vedono donne anziane offrire le proprie verdure, anche qui l’agricoltura “è roba per vecchi e disgraziati”.
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Il trasporto pubblico, Il nostro mestiere
Bicchiere d’acqua del rubinetto: neanche 1 centesimo Suona bene. I numeri contano. Comprare 1000 litri di acqua in bottiglia all’anno costa 250 euro. Nello stesso periodo si pagano 240 euro per 110.000 litri di acqua del rubinetto, per la fognatura e la depurazione. Si risparmia bevendo acqua di casa. Suona bene? Maggio Musicale Fiorentino e Publiacqua, partner di qualità www.maggiofiorentino.com www.publiacqua.it
Numero DUE - giugno 2011
Organo dellâ&#x20AC;&#x2122;Associazione Romano Viviani, periodico quadrimestrale. Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5671 del 13 agosto 2008. Associazione Romano Viviani via Cavour, 38 - 50129 Firenze www.associazioneviviani.org Direttore editoriale: Riccardo Conti Direttore responsabile: Pier Francesco Listri Tipografia: Nuova Grafica Fiorentina, Firenze Le illustrazioni di questo numero sono tratte dal volume Firenze espone la grande avventura fiorentina del 1861 con uno sguardo sul ventesimo secolo di Pier Francesco Listri. Le Monnier, Firenze 1992. Grafica, editing, impaginazione: Edizioni SICREA via Maragliano, 31A - 50144 Firenze tel. 055 321841 - fax 055 3215216 www.sicrea.eu
n. 2 - giugno 2011
Organo dellâ&#x20AC;&#x2122;Associazione Romano Viviani - periodico quadrimestrale
TESTI DI
Speciale Toscana
nicola bellini, stefano Casini Benvenuti, Riccardo conti, andrea giorgio, Cristiano Pardossi