Scelte Pubbliche

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n. 1 - febbraio 2011

Organo dell’Associazione Romano Viviani - periodico quadrimestrale

Il ritorno alla (buona) urbanistica a cura di LEONARDO RIGNANESE

TESTI DI

Chiara Agnoletti, Felicia Bottino, Riccardo Conti, Campos venuti, ROMANO VIVIANI


Numero UNO - FEBBRAIO 2011

Organo dell’Associazione Romano Viviani, periodico quadrimestrale. Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5671 del 13 agosto 2008. Associazione Romano Viviani via Cavour, 38 - 50129 Firenze www.associazioneviviani.org Direttore editoriale: Riccardo Conti Direttore responsabile: Pippo Russo Tipografia: Nuova Grafica Fiorentina, Firenze Foto: WIkimedia Commons, Stock.xchng, pixelio.de Grafica, editing, impaginazione: Edizioni SICREA via Maragliano, 31A - 50144 Firenze tel. 055 321841 - fax 055 3215216 www.sicrea.eu


EDITORIALE di ADAMO AZZARELLO

Inutile descrivere la rivista: c’è un indice che orienta alla lettura. Dico solo che l’abbiamo suddivisa in due parti: la prima con rubriche “fisse”; la seconda “monografica”. Questo numero si occupa di rendita, consumo di suolo e governo del territorio.

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Il graffio di Pippo Russo

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Il punto di vista di Gianni Cuperlo

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Mappe di Riccardo Conti

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Planning di Silvia Viviani

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Il ritorno alla (buona) urbanistica di Leonardo Rignanese

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Una questione di cultura di Romano Viviani

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Scambi epistolari tra Riccardo Conti e Campos Venturi

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Le cifre sul consumo di suolo in Toscana di Chiara Agnoletti

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Le politiche di contrasto alla rendita: una discussione da aprire di Riccardo Conti

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Il Pd e l’urbanistica di Felicia Bottino

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Monitor di Nicola Sciclone

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Archivi di Cecilia Pezza

Commenti al convegno: paesaggio, democrazia, innovazione

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di Giacomo Scarpelli

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di Patrizio Mecacci

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di Andrea Manciulli

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Lontano di Maurizio Izzo

Voglio parlare dell’Associazione “Romano Viviani” perché si apre il tesseramento 2011. Noi ci diamo da fare ormai da più di tre anni: attività intensa di convegni, seminari, formazione, quindi la rivista. Cerchiamo di mettere a fuoco un punto di vista su problematiche di interesse generale. Siamo un po’ ambiziosi, ma non facciamo da soli. Ci avvaliamo di importanti sinergie, come quella con la Fondazione Italianieuropei, che ci onorano. Oggi, con la nostra autonomia, possiamo vantare anche una stretta collaborazione col Centro Studi del PD e un riconoscimento per noi significativo assegnatoci dal PD della Toscana e quindi dalle Federazioni che lo costituiscono. Evidentemente siamo utili per aprire uno spazio di riflessione e di dibattito culturale di cui i nostri esponenti politici sentono il bisogno: un confronto libero e aperto con professionisti, intellettualità e saperi che intendono contribuire, magari non associandosi direttamente ai partiti, all’elaborazione di un profilo riformista sulle vecchie e nuove problematiche che dobbiamo affrontare. Ce la mettiamo tutta. Cerchiamo sponsor per ogni iniziativa. Con la pubblicità paghiamo questa rivista che per noi è bella e importante. Ma abbiamo una pecca: siamo pieni di volontari. E io loro voglio ringraziare. Giovani e meno giovani, interessati alla promozione e al dibattito delle idee. Osserviamo con piacere la crescita individuale e collettiva di una nuova generazione che sta affermandosi nella politica, nelle professioni, nella società. La nostra associazione vuol essere una “casa” e chi vuol confrontarsi basta che bussi alla porta: questo è il nostro indirizzo.

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Il graffio di PIPPO RUSSO

Orgasmi multiplex. Dice che più siamo e meglio stiamo. Sarà. Però queste grandi agglomerazioni del consumo mettono paura, e ancor più inquieta il sentire che su esse si punti come unica possibilità per rivitalizzare un quartiere o un segmento di città. Abbiamo davanti agli occhi il sorgente multiplex di Novoli, i cui lavori avanzano ma ancora non si sa cosa sarà della struttura. L’impatto per chi arriva da viale Redi è impressionante. E non si tratta soltanto d’una questione estetica. C’è soprattutto un senso dell’incombere, come se da un momento all’altro esso dovesse rovesciarsi sul traffico automobilistico e sui pedoni. Eppure una struttura del genere viene vista come una soluzione, in termini sia economici che sociali. E ciò avviene perché la concentrazione delle attività del consumo e delle esperienze a esse legate s’impone come la soluzione dominante. Di recente l’area metropolitana fiorentina ha visto proliferare complessi di questo genere, sotto diverse formule: centri commerciali, ipermercati, outlet, multiplex. Si è avuta anche l’ipotesi di una cittadella sportiva; per il momento tramontata, ma non ancora dissolta. Forse soltanto propagandata, ma a questo punto non conta più di tanto. Ciò che importa è che a ogni nuova struttura pare scatenarsi una festa, senza lasciarsi sfiorare da un interrogativo: ma quante di queste cattedrali del consumo possiamo permetterci? Non soltanto in termini di spazio (saturato), o di possibilità del consumo, ma anche di socialità. L’ansia di far parte dell’umanità transumante sopravanza i bisogni e le funzioni cui si dà soddisfazione attraverso i comportamenti di consumo. E la ricerca dell’esperienza da affrontare con piglio bulimico diventa la bussola di uno smarrimento, nel quale tutto si confonde. A cominciare dai tempi, indistinguibili fra quello festivo e quello feriale, o quello dello svago e quello del consumo. Tutto quanto in unica fusione, e in una raffica di ripetizioni. Come se si cercasse l’assoluto del principio di piacere. L’orgasmo multiplex.

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Il punto di vista di GIANNI CUPERLO

Forse siamo davvero alla stretta drammatica della crisi italiana. Tanto più è giusto osservarla nel suo insieme: come una crisi dell’economia, dello Stato e del sistema politico e anche del grado di moralità e di civismo complessivi. Al centro di questa trama di fili c’è il fallimento della destra di governo. Tutti gli indicatori sulla crescita, il benessere, la qualità dei diritti nell’ultimo decennio attestano la storia di un paese che, per dirla con Marco Revelli, “ha sperato di crescere mentre declinava”. La verità è che loro hanno liquidato i nostri vecchi punti di forza (un certo dinamismo dell’impresa, soprattutto quella di media dimensione,

e un tessuto solidaristico diffuso) senza sostituirli con nulla. Hanno finito con il colpire valori e interessi senza indicare un’alternativa. E i danni si sono visti, persino nel linguaggio e nel modo di approcciare i problemi. La verità - è sempre Revelli a spiegarlo – è che al vecchio conflitto verticale (tra chi aveva molto e chi aveva poco o nulla) si è sostituito un conflitto nuovo di tipo orizzontale: dei poveri, ma soprattutto degli impoveriti, contro altri poveri, più poveri di loro. Ma esattamente qui vive il paradosso dell’eguaglianza. Nel destino attuale di un valore che fino a ieri ha identificato la modernità, con una spinta alla parità che saliva dal basso, in società via via più corte. Oggi quello stesso valore si dissolve in società sempre più lunghe (dove gli estremi sono sempre più distanti – pensiamo ai famosi stipendi dei manager di tre o quattrocento volte superiori a quelli dei loro operai). Il risultato è che quel principio (l’eguaglianza delle opportunità appunto) in ampia misura viene disertato. In questo quadro l’altro tema fondamentale con cui siamo chiamati a misurarci è la democrazia. E qui, per un verso ci parla il mondo: la potenza di ciò che scuote oggi la Tunisia e l’Egitto è destinata a mutare la storia di paesi come il nostro che si affacciano sul Mediterraneo con una tradizione, interessi commerciali e un peso diplomatico enormi. Per un altro verso la qualità della democrazia entra proprio in casa nostra e ci parla dell’intreccio profondo tra l’impatto della crisi e la fine del vecchio ceto medio. Guardate, se non lo avete ancora fatto, il bel documentario di Michael Moore sul capitalismo americano prima e dopo il brusco risveglio dell’ultima fase. E ascoltate la testimonianza di quel pilota civile transitato in pochi mesi dallo status di privilegiato dei cieli a cliente imbarazzato delle mense popolari. Sono storie e concetti ripresi da poco sul Corriere della Sera dal fondatore della Comunità di Sant’Egidio, per dire che si tratta di parabo-

le umane e sociali assai diffuse anche di qua dell’Atlantico. Il vero rischio è una perdita di cittadinanza, per cui anziché costruire società più accoglienti e inclusive assistiamo a una compressione dei diritti con l’espulsione dei meno fortunati o di quelli che non hanno uno straccio di sindacato o partito a rappresentarli. Tutto questo è il lascito della lunga stagione della destra: molti italiani oggi stanno peggio, a volte molto peggio, di come stavano dieci o quindici anni fa. Ed è da questa fotografia che dovrebbe ripartire l’opposizione per fondare le basi solide di un’alternativa. Povertà, dunque: la parola urta, spaventa, non pare in sintonia coi fasti gloriosi di una modernizzazione spesso evocata a sproposito. Ma i numeri parlano e hanno spesso un linguaggio impietoso. Oltre due milioni e mezzo di famiglie, censite nel 2009, e costrette a una “povertà relativa”. Altri tre milioni di italiani registrati come poveri in senso assoluto. Un minore su quattro a rischio di povertà: materiale, sociale, culturale. Eccolo il declino del paese. Ed ecco la leva da smuovere se vogliamo uscire dalla palude e riavviare i motori dell’economia, della crescita, della cittadinanza. Le parole chiave sono sempre le stesse: istruzione, lavoro, qualità della spesa e dei servizi, investimenti nell’ambiente e nella messa in sicurezza del territorio, infrastrutture, legalità. Per ciascuna di queste voci abbiamo attrezzato un progetto, delle proposte di merito. Cose serie che la grande stampa e le televisioni non considerano, forse perché è più lucrosa la cronaca nera e l’insulto alla politica tout court. Noi però insistiamo. Pensiamo che la qualità del buon governo e delle amministrazioni virtuose alla fine paga. Come accade in Toscana anche adesso e come avviene in tanta parte del paese. Certo, non è un lavoro di corto respiro. E’ una fatica che esige il passo lungo dei fondisti e la tenacia dei ciclisti in salita. Ma la gravità del quadro, il disarmo critico e operativo di una destra prigioniera del crepuscolo del suo Capo, caricano sulle spalle nostre, e non solo nostre, il peso della responsabilità. Salvare l’Italia si può. Anzi, si deve. Ma non accadrà nel solco della conservazione o delle timidezze. Avverrà nel segno del cambiamento radicale di mentalità, contenuti e pratiche. In fondo il Partito Democratico è nato per questo. E allora, se non ora quando?

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Mappe di RICCARDO CONTI

C’è una retorica della crisi, che rischia di imprigionare il discorso pubblico in luoghi comuni e, in fondo, di mascherare la portata del rivolgimento strutturale in corso. È attraverso certe forme retoriche, infatti, che il modello neoliberista ripropone sé stesso come soluzione di contraddizioni da lui stesso generate.

Planning di SILVIA VIVIANI

XXVII CONGRESSO INU. La città oltre la crisi: risorse, welfare, governo. La crisi economica e il drastico peggioramento delle condizioni delle città devono essere risolti congiuntamente, affrontando il problema delle risorse per la costruzione della “città pubblica”: questo il cuore del XXVII Congresso INU, che si svolgerà al Teatro Goldoni di Livorno, il 7 e 8 aprile 2011. Una parte molto estesa del territorio italiano ha conosciuto gli effetti traumatici di dinamiche urbane che la nostra cultura tecnica e amministrativa non ha saputo governare. Oggi, dobbiamo tendere verso forme insediative “a emissione zero”, e alimentare robusti programmi di sostituzione edilizia e di riorganizzazione delle reti infrastrutturali. Il progetto di una città sostenibile deve affrancarsi dal marchio di un’utopia irrealizzabile, per coniugare concretamente il disegno di una nuova forma urbana con le principali articolazioni del benessere ambientale. In questa prospettiva, le politiche per il contenimento del consumo di suolo conquistano una valenza strategica, mentre una maggiore sobrietà dei processi di urbanizzazione e la tendenza a ricompattare la trama urbana esistente possono far leva su un sistema di valori bilanciato e inclusivo. Si può così fare strada una coalizione di interessi in grado di legare insieme gli obiettivi, spesso contrapposti, dei produttori della ricchezza nazionale e

Nel nostro cortile domestico siamo alla riproposizione, sempre più stanca, di un “berlusconismo” d’annata i cui caratteri strumentali, nella loro evidente inconsistenza, non debbono trarre in inganno; sotto la crosta della cronaca politica agiscono forze reali che dell’inerzia della politica si fanno forza. Il caso Fiat insegna.

degli attori delle trasformazioni urbane, in modo tale che su un nuovo e più equilibrato modello insediativo possano misurarsi significative proposte territoriali finalizzate a contrastare la spinta verso un’ulteriore dilatazione degli insediamenti. Fin qui alcuni passaggi del documento congressuale, che sarà illustrato in apertura del Congresso il 7 aprile mattina. È aperto il call for papers, per l’invio di contributi entro l’11 marzo (www.inu.it). Tre ambiti di riflessione, ai quali saranno dedicate tre sessioni consecutive, dal pomeriggio del giovedì 7 alla sera del venerdì 8, riguardano le risorse necessarie per il governo del territorio, i decisori e il modello di governo, i cittadini senza welfare. Molte le iniziative, promosse da INU Toscana, che proseguiranno anche dopo il Congresso: • Un concorso nazionale per un manifesto sulla città; al progetto vincente il premio della copertina di un numero di “URBANISTICA”, la “rivista madre” dell’Istituto. • Una mostra di lavori di progettazione urbana prodotti nelle Università toscane. • Un laboratorio sul Piano strutturale di Livorno, per i ragazzi delle scuole medie e superiori. • Una mostra fotografica su infrastrutture e paesaggio. • Un documento-dossier su portualità e progetti urbani. • Una mostra mercato dei fiori e delle piante, segno fisico della priorità da dare alla qualità ambientale delle città. • Un percorso, segnato fisicamente da totem illustrativi, e accompagnato da una pubblicazione apposita, sugli interventi di riqualificazione urbana a Livorno.

“URBANISTICA INFORMAZIONI”, il periodico più noto dell’Istituto, in occasione del Congresso uscirà sperimentalmente on line, oltre che in tradizionale formato cartaceo; e la sua sezione Viaggio in Italia sarà dedicata a Livorno. Un importante convegno nazionale, organizzato da INU con Cassa Depositi e Prestiti e ANCI, su Edilizia sociale, citta’ e governo del territorio, si svolgerà a Pisa il 16 marzo 2011.

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Il fatto è che nel perimetro politico tracciato dal pensiero mediatico berlusconiano accettano di muoversi anche forze ,apparentemente, molto d’opposizione, in una sorta di gioco delle parti che inchioda il discorso pubblico in un’esplosione populistica; si accentua ,così, la distanza tra l’arena politica e la dimensione sociale sempre più drammatica della crisi. La profondità della crisi è tale da richiedere un passaggio di fase. Anche di ciò cresce la consapevolezza, non solo a sinistra, ma non in tutta la sinistra. Non può sfuggire, allora, che il progetto per l’Italia, proposto dal Pd, apre una prospettiva di grande interesse, un cantiere politico e programmatico attraverso il quale costruire ri-

sposte solide ed inedite, immergere il discorso riformista nella concretezza della crisi, nella morfologia drammatica del sociale, nell’eccellenza dell’Italia che resiste. Associazioni di cultura politica, come la nostra, possono porsi come uno dei luoghi (dei cento luoghi, per carità!) dove possa realizzarsi un incontro e uno scambio tra esponenti di orientamento riformista della politica, della cultura, dell’economia; in qualche modo una mobilitazione civile per contribuire al cantiere del progetto riformista. Dal nostro punto di vista non può esistere un programma di cultura politica, astratto dalle grandi mobilitazioni politiche e civili, ma possono esistere luoghi dove le passioni, le

professionalità, le abilità si confrontano, approfondiscono, insieme aprono un discorso che in altre sedi più deputate potrà svilupparsi. Questa rivista si chiama non a caso Scelte pubbliche! L’intenzione è quella di mantenere aperto il dibattito sull’urbanistica riformista, sulle luci e sulle ombre di questa nostra Toscana, sull’analisi sociale e strutturale di quello che è stato definito sviluppo locale, sui caratteri attuali del rapporto pubblico/privato; tutti temi che o sulla rivista o in convegni e seminari proporremo nei prossimi mesi. Ci occuperemo, e molto, di Firenze, dove interessanti segni di vitalità politica percorrono il “giovane” Pd. Dopo il convegno di Fiesole con Bersani su Paesaggio, democrazia, innovazione (di cui presto il centro-studi del Pd del nostro Gianni Cuperlo renderà disponibili gli atti), dopo il convegno di Campi sull’immigrazione con D’Alema, abbiamo in programma un appuntamento che potremmo intitolare Esiste la Terza Italia?,in cui approfondire i temi dello sviluppo locale, delle infrastrutture,di una nuova geografia economica del paese-Italia nel rivolgimento strutturale in corso. E poi altri numeri di Scelte pubbliche sempre sul dibattito urbanistico, ma anche sui caratteri della crisi, e su Firenze (anche con qualche retrospettiva storico/politica sulle vicende dell’89), un Quaderno che Silvia Della Monica e Massimiliano Annetta cureranno sul grande tema dell’organizzazione della giustizia, e un libretto, di cui trovate un’anticipazione in questo numero, con Tocci e altri amici sulle politiche di contrasto alla rendita. Questo è il nostro programma di lavoro: si tratta di un cantiere aperto, molto attento, nei vari modi, a dare una tribuna a voci giovani, a lavorare su un crinale in cui si possano intrecciare esperienze locali e riflessioni generali,a innovare quel “provincialismo cosmopolita” che è stato croce e delizia della cultura politica della sinistra toscana. Di cui non a caso Romano Viviani fu un attento critico “positivo”.

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Il ritorno alla (buona) urbanistica a cura di LEONARDO RIGNANESE


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ileggere l’intervento di Romano Viviani a quasi cinque anni di distanza, mi riporta alla mente innanzitutto alcuni tratti della suo argomentare e della sua scrittura. Scrivere per suggestioni, per pensieri rapidi, correndo dietro intuizioni, immagini e sensazioni. Una scrittura adatta ad alimentare una discussione, o se vogliamo una discussione in forma di scritto. L’altro tratto del suo carattere era la cultura: tutto doveva partire dalla cultura, ogni azione doveva avere un contenuto culturale, non riusciva a farne a meno. E questo suo ultimo testo lo titola esplicitamente Una questione di cultura. Argomento centrale della sua relazione, ma anche del suo pensiero – su cui abbiamo tanto discusso nelle nostre ultime occasioni di lavoro e nelle rilassate chiacchierate nei viaggi in macchina – è il suo modo di intendere l’urbanistica ela collocazione che le riservava nell’esperienza toscana. La “buona urbanistica” (Convegno “La Buona Urbanistica”, Capalbio, 15 settembre 2006) era per Viviani «… il risultato di una parte consistente della storia del territorio [toscano] che copre i 50 anni dal 1945 al 1995, durante i quali l’urbanistica pretende la propria autonomia dalla programmazione economica, in quanto tesa a realizzare il disegno del territorio regionale». La buona urbanistica si ottiene quando essa è in grado di produrre pensiero e pratica autonoma. E con questa convinzione ricordava l’esperienza toscana e guardava con interesse, ma anche con qualche sospetto, le ultime due leggi regionali sul governo del territorio, di cui temeva alcune conseguenze: «La separazione della pianificazione territoriale dall’urbanistica, già presente nella legge regionale del 1995, sancita definitivamente dalla 1/2005, se da un lato ha dato luogo ad un proficuo chiarimento, ben individuando le finalità e i contenuti degli strumenti di pianificazione, ha contemporaneamente disperso l’urbanistica, annullando il piano come forma, figura del territorio, come disegno, strumento compositivo dello spazio che ha rappresentato la grande tradizione degli architetti-urbanisti italiani: Giovannoni, Piacentini, Piccinato, Quaroni».

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Convinto che non c’è confine netto tra le due figure e che l’urbanistica … era il presupposto [dell’architettura] Viviani intuiva che la separazione tra pianificazione e urbanistica avesse annullato il ruolo e il significato dell’urbanistica come disciplina specifica che elabora forme urbane e assetti territoriali, rivendicava la specificità di una disciplina e di una pratica portatrici di una cultura del progetto - si pensi alla stagione della lr. 59/80 e a quanto ha prodotto sul tema e sulle pratiche del recupero -, ne riaffermava l’autonomia e ne denunciava il suo parziale abbandono. Per Viviani, il piano è (anche) forma nel senso che è teso a realizzare il disegno del territorio, una dimensione che trovava poco riferimento nelle leggi regionali (la 5/95 e la 1/05). E che oltre la legge, bisogna ritornare a fare anche urbanistica, a fare disegno del territorio, forma del territorio, perché il piano è comprensione, …analisi, …progetto politico-culturale, …. disegno e forma del territorio. Il “governo del territorio” ha determinato sicuramente un ampliamento delle dimensioni e dei territori dell’urbanistica, in qualche momento sembrava dovesse essere il suo superamento; oggi possiamo affermare che ha causato il suo abbandono; il governo del territorio sembra che abbia alla fine estromesso l’urbanistica. Il governo del territorio ha dato centralità al territorio e al paesaggio. La stagione dei nuovi piani ha prodotto materiali assolutamente nuovi – quadri conoscitivi, statuti dei luoghi ecc. – che hanno consentito un nuovo approccio al territorio, alle sue risorse, alle finalità del governo del territorio. Abbiamo re-imparato che ogni luogo ha un nome, una storia, una sua specifica razionalità e individualità incorporata e naturalizzate in regole e ordini precisi. Tutto ciò ha consentito la messa a punto di regole per la manutenzione, la conservazione, la tutela e la valorizzazione delle risorse e del territorio. Dopo i piani degli inizi degli anni ’90 che prestavano particolare attenzione al progetto del territorio e della città, il dibattito sulle pratiche e sulle regole per il progetto della


città è stato troppo velocemente abbandonato, disperdendo poche ma interessanti esperienze a cui anche Viviani aveva partecipato. Oggi della città sappiamo poco: le analisi sulla forma urbana sono ormai trascurate; la qualità urbana è tutta espressa in termini prestazionali. La città è essenzialmente forma, ma di criteri prestazionali formali non ne abbiamo. Lo scarso interesse per i Regolamenti Urbanistici come strumento dove approfondire il tema del progetto urbano ha fatto sì che esso si presenti oggi come l’anello debole della filiera pianificatoria, connotato da un linguaggio povero e tradizionale piuttosto che dispositivo per una nuova qualità urbana. A volte, come dice Gasparrini, è imbarazzante lo scarto tra la ricchezza delle interpretazioni e la qualità delle proposte progettuali. La banalità di molti interventi e di molte proposte non è data solo dalla loro ovvietà quanto dalla mancanza di idee e dalla vaghezza di immaginari: c’è un deficit di progetti urbani e di idee di spazio per i nuovi territori dell’abitare. Conosciamo poco i modelli insediativi che si stanno realizzando: le nuove forme dell’abitare, del produrre, del loisir. Ci manca una riflessione sullo spazio: sullo spazio urbano, sullo spazio dell’abitare, sullo spazio territoriale. Anche a fronte di un consumo di suolo contenuto, la Toscana è stata interessata da diversi e intensi fenomeni insediativi, da una crescita generata da funzioni commerciali, produttive e residenziali, che ha interessato soprattutto i fondovalle e le poche aree pianeggianti. Grandi insediamenti commerciali e residenze diffuse consumano suolo e non producono disegno e assetti territoriali definiti. Così come determinano consumo di suolo e poca attenzione al disegno urbano, i trascinamenti di previsioni di piani, in genere sovradimensionati. Per contrastare la crescita caotica, per perseguire un minor consumo di suolo bisogna partire dalla riqualificazione degli insediamenti, una riqualificazione che, per non essere solo una affermazione, deve essere sostanziata da linee di

azione che la rendano efficace e operativa, con chiari e reali strumenti. La Toscana è famosa per il suo territorio e per le sue città. Entrambe costruite da culture locali ed entrambe espressioni di forme urbane e territoriali che sono diventate l’identità stessa del territorio. Credo che vada ripreso un discorso sulla cultura delle città così come auspicata da Mumford e una riflessione sui significati profondi, e non solo contingenti, dell’edificazione e del luogo; una ricerca delle regole che stanno alla base del costruire e del suo modificarsi. Una cultura della città e del territorio è anche un’idea di spazio: da quello urbano a quello territoriale. L’organizzazione di gran parte del territorio toscano fatto di ville, fattorie, coloniche era espressione di un modello produttivo, economico, sociale ma anche di un disegno del territorio. L’una non poteva esistere senza l’altra. Un’organizzazione che ha prodotto efficienza e bellezza. L’autodeterminazione delle comunità sia allora anche capacità di autorappresentazione, capacità di produrre risorse, territorio, città, società, economia, cultura e quindi anche bellezza e identità. La città è il luogo dove sperimentare perequazione, qualità urbana e una nuova visione del welfare. Un nuova stagione – un nuovo modello? – può iniziare dal chiedersi in che rapporti stanno città, individuo e società.

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Una questione di cultura 1

di Romano Viviani

Capalbio, 15 settembre 2006 “L’importanza della libertà culturale, fondamentale per la dignità di ognuno, deve essere distinta dall esaltazione e dalla difesa di ogni forma di eredità culturale che non tenga conto delle scelte che le persone farebbero se avessero l’opportunità di vedere le cose criticamente e conoscessero adeguatamente le altre opzioni possibili nella società in cui vivono”. Amartya Sen “Il nostro disegno quindi non si limita alla rappresentazione grafica di un’idea, è l’idea stessa”. Ludovico Quaroni

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on esiste l’urbanistica buona, esistono i buoni amministratori. Se alla Toscana è stato riconosciuto qualche merito negli assetti e negli usi del territorio, si deve agli uomini e alle donne che fin dalla Ricostruzione seppero governare con capacità e lungimiranza prima le trasformazioni dello sviluppo economico e sociale, poi il consolidamento di una struttura territoriale che è ancora il patrimonio più prezioso su cui contare. È a questo progetto politico e culturale, a cui contribuirono partiti, intellettuali, settori professionali, funzionari pubblici, sindacati, che ci si dovrebbe riferire quando si parla di modello toscano di pianificazione territoriale: non uno schema da riprodurre meccanicamente.

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Ci chiediamo ancora se il cosiddetto modello toscano di pianificazione territoriale possa ambire a divenire riferimento per l’intero Paese, quanto meno utile indirizzo di riforma nazionale. Ci dobbiamo confrontare con altre domande. La prima: questo modello, che ha fatto della Toscana un territorio di eccellenza, può contare su capacità politiche, culturali, amministrative e tecniche – malgrado la proliferazione degli strumenti e delle procedure, la pervasività burocratica, il continuo mutamento di disposizioni e indirizzi – per contrastare – se contrastare si deve! – le iniziative di un’economia nuova che proprio su quella eccellenza fa aggio per piazzare sul mercato mondiale insediamenti ricadenti in zone dichiarate patrimonio culturale dell’umanità?

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Relazione ufficiale preparata per il ciclo di seminari Verso il Piano di indirizzo territoriale 2005-2010, organizzati dalla Regione Toscana e dalla Sezione toscana dell’Inu. Primo incontro su La buona urbanistica, Capalbio 15 settembre 2006.

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Si deve prendere atto della divaricazione tra gli strumenti che pretendono essere di governo del territorio – tuttavia mi chiedevo nel librino dello scorso anno: Chi governa, cosa? Chi effettivamente governa? – e il valore che il nuovo capitalismo (appunto globale) annette a territori (a luoghi, a città) come quello toscano, per strategie che non possono essere definite (unicamente) rendita immobiliare, tanto meno speculazione edilizia – quella che la politica urbanistica combatteva 50/40 anni fa – e che si avvalgono di progetti di qualità (anche su questo fronte la battaglia risulta persa)? Il territorio deve costituire una vertenza nazionale per la nuova compagine governativa che fino ad oggi ha dimostrato scarso interesse per questo fronte di scontro economico e sociale? Sussistono le condizioni e le capacità politiche, amministrative, economiche e sociali generatrici di quel modello? Quali suoi fondamenti risultano “esportabili”, se non è un fenomeno “locale” prodotto da quelle particolari condizioni? Se la pianificazione territoriale non è separabile dalla conquista e dalla gestione del potere, a seguito delle trasformazioni politiche e culturali il modello è destinato al collasso (ma non lo riteniamo un esito scontato)? Pretendere di innovare e di progredire senza cambiamenti radicali è illusorio: per quanto possa dispiacerci, dobbiamo congedarci dal modello toscano di pianificazione territoriale? Nondimeno l’operatività della pianificazione non è mai stata pre-stabilita, imposta, calata dall’alto; si è fatta nell’esperienza politica, amministrativa e tecnica, da cui scaturiva la condivisione di criteri, indirizzi, convinzioni, regole, che nel tempo hanno dato luogo a una riconoscibile figura di piano. E’ emersa da questo piano la forma del territorio toscano: la Toscana dell’odierno immaginario collettivo, la Toscana come è percepita universalmente, non solo dal turista ma anche dalla popolazione autoctona. Se il successo di un’operazione si giudica dai risultati, si può definire urbanistica buona il risultato di una parte consistente della storia del territorio che copre i 50 anni dal 1945 al 1995, durante i quali l’urbanistica pretende la propria autonomia dalla programmazione economica, in quanto tesa a realizzare il disegno del territorio regionale. La separazione della pianificazione territoriale dall’urbanistica, già presente nella legge regionale del 1995, sancita definitivamente dalla 1/2005, se da un lato ha dato luogo ad un proficuo chiarimento, ben individuando le finalità e i contenuti degli strumenti di pianificazione, ha contemporaneamente disperso l’urbanistica, annullando il piano come forma, figura del territorio, come disegno, strumento compositivo dello spazio che ha rappresentato la grande

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tradizione degli architetti-urbanisti italiani: Giovannoni, Piacentini, Piccinato, Quaroni. Edoardo Detti soleva dire che un piano bello è necessariamente un piano buono. La crisi è anche di una figura professionale, divaricando il solco tra architettura, sempre più autoreferenziale e l’urbanistica che ne era il presupposto (nel 1935, Piccinato sosteneva la “netta subordinazione dell’architettura al fatto urbanistico”). Quando si immagina la Toscana è il grande porto, la piatta-

forma logistica, le fasce infrastrutturali nord-sud, est-ovest, gli interporti, le ferrovie metropolitane, le città –, si sta disegnando il territorio regionale, si propone una forma territoriale, si rilancia sul tavolo l’assetto urbanistico. Ma nella 1/2005 gli atti conformativi – che danno luogo all’assetto, al disegno, alla forma –, sono presenti solo a livello comunale (regolamento urbanistico, piani attuativi,


piani complessi di intervento). Quanto tempo c’è voluto per creare la cultura, inscindibilmente urbana e rurale, del territorio toscano? Un artefatto prezioso da conservare, pur senza pretesa di verità. Quando può dirsi conclusa l’evoluzione del territorio toscano? Quando la cultura del territorio toscano si stabilizza in un patrimonio indisponibile? Quando la società regionale, nel suo insieme, trascurando aspetti e situazioni pur rilevanti, assume la conservazione integrale come riferimento stabile della politica territoriale?

La rottura del secolare legame città/campagna, dopo il termine della mezzadria e l’esodo dalla campagna, per un momento profila un collasso territoriale e sociale che la stabilizzazione della cultura del territorio, pur privata dei suoi motivi strutturali, per cause fortuite ma soprattutto per la scelta responsabile della classe dirigente toscana, in breve evita.

Più che in termini economici e sociali, quanto accade e si consolida attiene a una coscienza collettiva diffusa, trasfusa in un patrimonio politico e culturale che caratterizzerà da allora in poi la società toscana, delineandone una figura riconoscibile nel complessivo panorama italiano, le cui trasformazioni territoriali avrebbero allontanato il resto del Paese dalla Toscana. Ricorrerà da allora l’immagine di isola, inevitabilmente felice in contrapposizione alle vicende cariche di traumatismi e di costi che investono le altre regioni italiane. Tanto più la situazione è eccezionale o almeno tale la si giudica, tanto più viene difesa con l’energia che a volte sfiora l’arroganza, pur necessaria a fronte di interventi di puro sfruttamento dell’eccellenza ambientale; l’allarme di documenti recenti di varia provenienza, in merito ai mutamenti economici, sociali e territoriali che vengono avvertiti come una minaccia alla quiete e al benessere finora assicurati, provano quanto si fosse convinti di vivere in un isolamento dei cui vantaggi possono godere i toscani ma anche coloro che provengono da altrove, confidenti di una felicità territoriale in gran parte reale ma in qualche misura dovuta anche a un mito astutamente creato. Le reazioni, a volte scomposte, di chi ha perso un progetto, invece di insistere sulle peculiarità regionali e di affermare l’eccezionalità di una cultura, sembrano rivolgersi verso prospettive estranee, lasciando in un contenzioso diretto, senza pervasive mediazioni politiche, coloro – in primo luogo gli amministratori locali –, che si trovano a dover decidere in merito all’irruzione sui propri territori di iniziative nei cui confronti possono avvertire di essere privi di tale progetto; per altro verso non indifferenti sia per migliorare i magri bilanci comunali sia per affidarsi a una speranza di sviluppo. Dover contare esclusivamente sulle proprie capacità negoziali, concentrate necessariamente sulla contingenza, può aprire brecce nelle condizioni di minore avvertenza e comunque distrae dalla necessità di un progetto politico complessivo di cui si avverte l’insufficienza se non la mancanza. Appunto un modello: per questo motivo, il riferimento al dialogo. Il dialogo non è praticabile in presenza di una pretesa di verità assoluta; è altrettanto necessario che gli interlocutori riconoscano un patrimonio comune di diritti e di valori, pur nella convinzione che ciascun individuo è responsabile del suo progetto di vita. Esiste tuttavia un limite oltre il quale comprensione e tolleranza decadono in rinuncia (ai diritti) e dispersione (dei valori). Distratti dagli aspetti procedurali, non abbiamo colto la innovazione contenuta nella legge regionale del 2005 sul governo del territorio: la netta separazione tra pianifi-

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cazione territoriale e urbanistica, tra piano e progetti, l’abbandono del modello di piano suddiviso tra parte strutturale e parte operativa, presente nella legge regionale del 1995, che nel passaggio in corso tra piani strutturali e regolamenti urbanistici, sta identificando il regolamento urbanistico con un piano, se non con il piano regolatore generale di cui ripete contenuti e fisionomia. Un’ambiguità rintracciabile nella legge del 2005, vuoi perché ripropone il regolamento urbanistico come piano, vuoi perché non libera il piano strutturale dalla parte strategica, dando modo di confondere ancora una volta piano e progetti. I tre strumenti di pianificazione territoriale (regionale, provinciale, comunale) sono inoltre simili: nei tre compaiono una parte statutaria e una strategica e nei tre lo statuto del territorio ha gli stessi contenuti, come matriosche. Cosa si propone? Di togliere dagli strumenti di pianificazione territoriale (piano di indirizzo territoriale regionale, piano territoriale di coordinamento provinciale, piano strutturale comunale) il contenuto strategico, spogliando inoltre il regolamento urbanistico dalla connotazione di piano, assimilato a un testo di regole urbanistiche e edilizie. Lo strumento di pianificazione territoriale si riconosce esclusivamente nello statuto del territorio: quel qualcosa di immutabile, identificabile con la cultura del territorio toscano, nella consapevolezza della sua storicità. Malgrado la complessità, non sempre evidente, della definizione e dei contenuti dello statuto del territorio negli articoli della legge regionale, lo statuto del territorio risulta essere compiutamente uno strumento di pianificazione territoriale. Lo statuto contiene le invarianti strutturali che sono elementi cardine della identità dei luoghi, di cui lo statuto stabilisce le regole d’uso, i livelli di qualità e le relative prestazioni; persegue la tutela del territorio ai fini dello sviluppo sostenibile e a questo fine si compone di un nucleo di regole, vincoli e prescrizioni. Individua inoltre i sistemi territoriali e funzionali che definiscono la struttura del territorio, e ha valore di piano paesaggistico. Lo statuto del territorio è il contenuto della pianificazione territoriale regionale, provinciale, comunale; l’urbanistica opera esclusivamente in ambito comunale. Come è noto, negli strumenti di pianificazione territoriale non risultano localizzazioni edificatorie, non si conoscono le aree ma nemmeno gli intorni (le utoe) di edificazione; determinate aree divengono edificabili solo al momento del progetto (indifferentemente d’iniziativa pubblica o privata): è il progetto che rende edificabile un’area e quindi soggetta a regime fiscale (Dl 223/2006, art. 36, comma 2). Le strategie degli strumenti di pianificazione sono confu-

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tabili, controvertibili, soggette a mutamenti anche in tempi brevi, non lo statuto del territorio. Solo lo statuto del territorio è pubblico, attiene alla totalità sociale. Lo statuto del territorio (il piano pubblico) è per così dire, bendato nei confronti delle iniziative, dei programmi, dei progetti, degli usi delle risorse a fini di sviluppo e delle prestazioni che da esse si attendono: in generale dei propositi e delle azioni dei soggetti pubblici e privati che operano sul territorio (è qualcosa di simile alla “posizione originaria” di Rawls, nella quale gli individui, all’oscuro della loro posizione nella società), stabiliscono le regole. I progetti (programmi d’impresa, pubblica o privata) non sono predisposti, non fanno parte del piano: rispondono alle esigenze e agli interessi (alle strategie) di coloro (indifferentemente soggetti pubblici o privati) che li promuovono, in modi anche concorrenziali. Essi fanno i conti non tanto con la disponibilità di beni e risorse, quanto con la capacità (Amartya Sen), con le funzioni che si è in grado (si è capaci di) esercitare effettivamente con quei beni e quelle risorse. I progetti presuppongono la fiducia nei confronti di coloro che li attivano e la loro responsabilità personale: questo indirizzo limita la pervasività burocratica, ostacolo all’innovazione, fonte di formalismi e moltiplicatrice di strumenti e procedure. Queste conclusioni non pretendono una terza legge regionale dopo che due leggi si sono succedute in breve tempo sottoponendo amministratori, tecnici, operatori a un notevole impegno di risorse, scelte e decisioni; nondimeno non acquietano la domanda essenziale: quanto l’apparato di strumenti di pianificazione territoriale e di atti di governo del territorio, oltre che di procedure, risponde, è adeguato alla nuova tipologia di sviluppo? Si avverte che la legge dello scorso anno non ha determinato quel sussulto politico e culturale che seguì la precedente legge. Indubbiamente non ci si poteva attendere una reazione paragonabile a quella di dieci anni fa: la stagione dei nuovi strumenti urbanistici avviata dalla 5, non è affatto conclusa (è noto che mancano ancora alcuni piani strutturali e molti regolamenti urbanistici, mentre viene dato fondo alle previsioni dei precedenti piani regolatori). Inoltre la 1 è stata considerata modifica e integrazione della precedente legge: per questo motivo non è considerata il riferimento per le nuove linee di sviluppo (i contenuti del PIT in circolazione profilano è o no? - un congedo dalla 1, malgrado le affermazioni di coerenza). La pianificazione ha tempi lunghi: c’è voluto mezzo secolo per sostituire la 1150 con le leggi regionali di riforma della pianificazione; gli assetti e gli usi del territorio toscano


sono stati governati per 50 anni con utensili poveri: la legge del 1942, le zone omogenee e gli standard del Dm. 1444. Di nuovo, gli strumenti di pianificazione definiti dalla legge vigente sono adeguati alla governance della città globale? Sono capaci di governarne le contraddizioni? Rispondono alle esigenze del cittadino-produttore (produttore politico, economico, culturale)? Sono utilizzabili da parte della società del rischio? La domanda è tanto più plausibile se si “visiona” l’intera regione come città globale - non una sua parte -, in cui urbano e rurale sono connessi, inscindibili, ovunque presenti contemporaneamente. L’urbano storico è le città, i borghi, i nuclei, persino i casolari sparsi - non sopravvivrebbe se non fosse emergenza di un contesto rurale, della campagna: Anghiari è, insieme, l’edificato entro le mura e la collina di cui fa parte, fino a comprendere la piana della famosa battaglia: la collina è indisponibile. La piana di Bagno a Ripoli è altrettanto indisponibile della collina di Anghiari! La collina a sé stante, non esiste; separarla dal territorio e sottoporla come tale, a tutela, a salvaguardia è tutt’altra cosa dalla conservazione –, non ne garantisce l’incolumità; la salvaguardia può essere disattesa (accade, e questa non è buona urbanistica), anche in nome di un’equivoca architettura di qualità. Il metaobiettivo della collina è la metafora (l’allusione) del territorio (della cultura del territorio toscano): la norma di

PIT che lo riguarda darebbe corpo al divieto di ulteriore impegno di suolo per insediamenti, contenuto già nella 5, ma rimasto inascoltato. Un criterio di pianificazione che per altro prende atto dell’assenza di una grande capitale regionale, di un forte baricentro urbano, dovuta alla costante, a mio giudizio voluta ma anche per motivi storici, estraneità di Firenze nei confronti del territorio regionale. I comuni toscani sono molto più di centri politico-amministrativi: per un verso sono un patrimonio di democrazia, di appartenenza civica, per altro verso i depositari della cultura urbana, di formazione storica, costituenti con le loro identità la fisionomia della città globale toscana, definibile come un insieme piuttosto che un sistema. Già Foscolo aveva paragonato la Toscana tutta a un giardino: è pacifico che nessuno vuole morire giardiniere, ma l’immagine illumina uno stato di eccellenza, oggi piazzato sul mercato mondiale, a volte con risultati insoddisfacenti. La conservazione del territorio è un dovere per la società toscana: la premessa dell’innovazione e della creatività del nuovo corso di sviluppo. Il modello toscano di pianificazione territoriale che qui si ripropone in quanto espressione di un’irrinunciabile cultura del territorio, non è il procedimento unico o il quadro conoscitivo, la valutazione integrata o la perequazione: è anche questo certo, ma è oltre. È ancora un progetto politico e culturale per una possibile classe dirigente.

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Scambi epistolari Carteggio tra Riccardo Conti e Giuseppe Campos Venuti sui dati del consumo di suolo (novembre 2007)1 Riccardo Conti a Campos Venuti, 22 novembre 2007

Riccardo Conti a Campos Venuti, 28 novembre 2007

Carissimo Bubi, come concordato, ti invio i dati del satellite Corine sul reale uso del suolo in Toscana. Mi fa davvero tanto piacere sapere che sei con noi in questo dibattito. Mi auguro che le tabelle possano essere utili per le tue riflessioni, e magari anche per qualche tuo nuovo intervento. Hai visto, ora anche Pirani ha speso le due colonne del lunedì a sua disposizione per darmi del talebano2! Ti invio intanto un caro saluto sperando di incontrarti presto. Riccardo

Caro Bubi, non ho alcun dubbio sul fatto che le tue idee siano ancora estremamente chiare! Ti allego perciò una breve rassegna stampa che ho fatto fare alla mia addetta; e se hai bisogno di altro materiale farò in modo di procurartelo subito. Un abbraccio, Riccardo

Campos Venuti a Riccardo Conti, 23 novembre 2007 Caro Riccardo, grazie dei dati Corine che non avevo. Ora li confronterò con la produzione di alloggi 1991-2001; ricavandone la conferma che i tuoi conteggi sono sensati (alloggi per ettaro, realizzati). Inviami comunque tutto il “carteggio” per potervi riflettere più approfonditamente. Non posso tuttavia non rammentare che il tuo interlocutore (Emiliani), si è dimenticato di attaccare Romilia l’ecomostro da 300 ettari fra Bologna e Imola, non rifiutato dalla mia Regione, per ora sconfitto -, ma è sceso in campo contro Cofferati che difende la collina di Bologna e mi attacca dimenticando che la collina di Bologna l’ho salvata io nel 1964, quando ero assessore all’urbanistica.. E’ sempre la solita linea massimalista fautrice dell’esproprio diffuso che finanzia la rendita fondiaria, quando non si può più espropriare; ma che non ha espropriato quando era possibile, come io feci invece a Bologna.. Come vedi sono handicappato fisicamente, ma ho ancora le idee chiare. Un abbraccio Bubi

___________________________ 1. Voglio ringraziare l’amico e compagno “Bubi” Campos Venuti per avermi concesso di pubblicare una corrispondenza personale e riservata. 2. Mario Pirani, In mancanza dei Budda aggrediamo il paesaggio, in “La Repubblica”, 19 novembre 2007

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Campos Venuti a Riccardo Conti, 28 novembre 2007 Caro Riccardo, Mi sono arrivati in fotocopia, gli articoli della polemica Emiliani-Conti. Grazie, perchè i dati proposti da Emiliani sono effettivamente da rettificare. Dunque lui cita l’Istat: “3 milioni di ettari consumati fra il 1990 e il 2000”. Vuol dire 30.000 kmq., cioè 1/10 di tutta l’Italia. E ricita: “dei quali 1,8 milioni di ettari di SAU”, 18.000 kmq., cioè il Veneto. Io sono 50 anni che ragiono sui numeri e penso che anche su quelli dell’Istat bisogna farlo. Verificando quanta sarebbe la cementificazione, se realmente i numeri andassero letti come fa Emiliani. Perchè dal 1991 al 2001 secondo l’Istat sono stati costruite 2.263.000 abitazioni. Proviamo a dividere: se tutta la superfice consumata fosse andata in abitazioni, avremmo una densità di 0,75 abitazione per ettaro, insomma meno di una casa ogni 10.000 MQ. Se fosse stata usata solo la SAU, avremmo invece 1,26 abitazioni per ettaro. Non sta in piedi. E’ vero che oltre alle abitazioni, si son fatte le fabbriche, gli uffici, gli outlet...; ma ugualmente la densità dell’edificato, risulta troppo bassa. E allora? Allora, come hai risposto tu: è vero, troppe case e troppe costruzioni, ma la SAU persa e il suolo consumato, non sono stati tutti costruiti. A quali usi è più difficile dirlo; terreni incolti, abbandonati, non utilizzati, dunque usi pessimi, anche per colpa di una cattiva urbanistica, ma anche di una pseudo-ecologia oggi di moda. Come vedi le mie idee sono chiare perchè ragiono. E vorrei che ragionassero anche i miei interlocutori. Un abbraccio Bubi


Le cifre sul consumo di suolo in Toscana di CHIARA AGNOLETTI

L’

animato dibattito sul consumo di suolo e sui processi di cementificazione che hanno coinvolto la Toscana nella fase più recente prende avvio dopo la divulgazione di alcuni dati Istat sulla perdita di quelli che vengono definiti territori “liberi” tra la fine degli anni novanta e primi anni del duemila. «In Toscana, regione delicatissima, fra il 1999 e il 2003 la superficie ancora libera è scesa sotto il milione e mezzo di ettari, diminuendo - per effetto dell’espansione edilizia, residenziale e non delle grandi infrastrutture - di ben 169.345 ettari nel quadriennio, con una erosione pari al 10,2 per cento. Più forte della stessa media italiana che si colloca in quel periodo al 9,5 per cento. Più forte della stessa media del Lazio che, pur comprendendo Roma e il suo cemento continuo, si situa al 9,2 per cento. Se il consumo di suolo dovesse procedere in Toscana a questi ritmi, in meno di mezzo secolo l’intero territorio sarebbe urbanizzato e infrastrutturato, cioè “mangiato” dal binomio asfalto & cemento»1. Pochi mesi dopo, in occasione di un convegno organizzato a Roma dal Comitato per la Bellezza vennero citate altre cifre Istat su quanto suolo libero da costruzioni aveva perso l’Italia fra il 1990 e il 2005. La regione che aveva consumato più suolo, secondo quella graduatoria, era la Liguria: il 45% dell’ intero suo territorio. Seguivano la Calabria (26%), l’Emilia Romagna e la Sicilia (22%), la Sardegna (21%), il Lazio (19%), la Toscana registrava il 15% mentre la media italiana era del 17%. Quella lettura individuava una categoria concettuale non priva di ambiguità quale i “territori liberi” (liberi da insediamenti e infrastrutture?) ma soprattutto identificava, inesattamente, la diminuzione della superficie totale delle aziende agricole (utilizzata e non) con la crescita dei territori urbanizzati e quindi con i processi di cementificazione della Toscana. Se è vero che la crescita degli insediamenti avviene quasi esclusivamente a discapito dei territori agricoli, tuttavia le dimensioni del fenomeno descritto non possono essere considerate attendibili in quanto non tengono conto della quota dei territori che un tempo erano 1.

dedicati alle attività agricole e che in seguito ai processi di abbandono, hanno prodotto una crescita dei territori boscati (e quindi se vogliamo parlare di “liberazione” di territori possiamo ritenerli forse più liberi di prima?). Si trattò in altre parole di una errata interpretazione di dati validati da Istat e quindi certamente attendibili e affidabili ma non adatti a descrivere i processi di urbanizzazione. Tuttavia, anche se l’immagine della Toscana restituita da quella lettura non era certamente corretta qualcosa di costruttivo ne derivò e in particolare il dibattito che seguì fu l’occasione (importante) per evidenziare come il tema della crescita insediativa, scontasse la grave mancanza di fonti informative adatte a descriverne le reali dimensioni. In altri paesi europei, il consumo di suolo è un fenomeno costantemente monitorato e regolato a livello nazionale. La Gran Bretagna ha stabilito con un provvedimento del 1998 che il 60% delle abitazioni deve sorgere in aree già urbanizzate; nello stesso anno la Germania ha fissato la soglia dei 30 ha al giorno entro cui contenere l’espansione insediativa. Mentre in Italia il consumo di suolo è stato a lungo trascurato e forse non a caso, visto che proprio nel nostro paese la rendita immobiliare ha sempre avuto un peso rilevantissimo. Tra le più importanti indagini a scala nazionale

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Vittorio Emiliani, Chi ferma il cemento, in “l’Unità”, 17 marzo 2007.

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sull’impiego di suolo per finalità urbane vi è certamente l’apprezzata ricerca ItUrb coordinata da Giovanni Astengo, la quale comunque risale agli anni ottanta e a questa non hanno fatto seguito ulteriori indagini più aggiornate. Quindi la questione che si poneva e rispetto alla quale furono cercate delle risposte riguardava la quantificazione del cosiddetto consumo di suolo ed in particolare la collocazione della Toscana nel panorama nazionale attraverso la comparazione con le altre regioni italiane. Per rispondere a questo quesito venne utilizzata, peraltro evidenziandone tutti i limiti, l’unica fonte disponibile in quel momento: le rilevazioni satellitari offerte da Corine (coordination of information on the enviroment) Land Cover che offrono una descrizione macro delle principali tendenze evolutive delle singole categorie di impiego di suolo. Dunque, per quantificare il processo di cementificazione che nella fase più recente aveva interessato la Toscana, vennero utilizzate le rilevazioni Corine congiuntamente ai dati Istat sui permessi di costruire. Furono messe in luce le potenzialità offerte da questi strumenti ma anche i limiti, in particolare la scala di rilevazione adottata dal progetto Corine a maglie molto larghe e quindi venne

Ma torniamo alla dinamica dell’urbanizzazione degli anni novanta. La Toscana, congiuntamente all’Emilia Romagna, risultò comunque tra le regioni che avevano avuto una crescita più elevata; in questa prospettiva dunque l’allarme denunciato aveva qualche fondatezza. Infatti, se rispetto alla disponibilità naturale in Toscana l’uso del terrritorio a fini insediativi e infrastrutturali risulta relativamente basso, tuttavia è innegabile come vi sia stata nel corso degli anni novanta un certa accellerazione dei processi di urbanizzazione della nostra regione. In questa fase, lo sviluppo insediativo della Toscana è stato sostenuto e ha interessato prevalentemente i territori pianeggianti e pedecollinari della valle dell’Arno; si tratta tradizionalmente dell’ambito più esposto ai processi di urbanizzazione e dell’area più densa della regione che pur coprendo meno di un terzo del territorio, ospita metà della popolazione regionale e delle abitazioni. La crescita insediativa degli anni novanta, che ha accompagnato quella economica, ha riguardato sia le funzioni commerciali e produttive che quelle residenziali; in particolare sono gli anni della diffusione delle moderne tipologie di vendita (centri commerciali) e degli spazi del loisir, che proprio a

INCIDENZA DELLE AREE URBANIZZATE E LORO DINAMICA NELLE REGIONI ITALIANE. 1990-2000

Fonte: elaborazioni su dati Corine Land Cover

sottolineata la sua attendibilità in termini tendenziali e comparativi più che in termini assoluti. E quali furono le principali evidenze che emersero? Guardando all’incidenza dei territori urbanizzati rispetto alla superficie totale, le differenze regionali apparivano piuttosto marcate: a fronte di un incidenza nazionale del 4,5%, le regioni più urbanizzate, senza grandi sorprese, risultarono la Lombardia (10,4%) e il Veneto (7,7%); la Toscana con una incidenza pari a 4,1% presentava lo stesso livello di copertura del Piemonte ed era prossima ai valori dell’Emilia Romagna (4,7%).

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partire dagli anni novanta hanno fatto il loro ingresso nel panorama nazionale e toscano. Accanto a questo si è comunque verificata una ulteriore espansione delle funzioni abitative, accompagnata da contenuti aumenti del prezzo delle abitazioni, che appare debitrice non tanto delle dinamiche demografiche tout court (sostanzialmente stabili nel corso degli anni novanta) ma piuttosto dei fenomeni di redistribuzione della popolazione sul territorio regionale e dell’aumentato numero delle famiglie. Il raffronto con le ipotesi di crescita definite nella generazione di Prg in vigore nella seconda metà degli anni ot-


tanta, evidenziò inoltre una certa corrispondenza in termini di incremento delle aree urbanizzate indicato dagli strumenti di panificazione e le quantità registrate dalle due rilevazioni Corine. Dunque quella generazione di strumenti urbanistici mediamente sovradimensionati sopratutto in termini di incrementi di abitanti, anche in assenza della crescita demografica prevista, ha interamente attuato le possibilità edificatorie indicate dai piani. A integrazione delle tendenze registrate con le rilevazioni satellitari, portammo i dati sui permessi di costruire di nuovi fabbricati (residenziali e non) relativi questa volta al periodo 2000-2005. In termini di numero di fabbricati, è ancora la funzione abitativa a occupare in quella fase la quota più elevata. Il 70% dei fabbricati autorizzati in Italia nel quinquennio 2000-2005 riguarda la realizzazione di abitazioni; il confronto in termini di volumetria al contrario, registra il valore più elevato per le funzioni non abitative. In ogni caso la volumetria pro capite autorizzata in Toscana nell’arco di questo quinquennio, risulta inferiore a quella concessa nelle altre regioni del centro nord e rispetto ai valori medi nazionali. Ancorchè importanti, le ricerche condotte rispondevano

luogo all’istituzione dell’Osservatorio nazionale sui Consumi di Suolo (ONCS) divenuto poi Centro di ricerche sul consumo di suolo. Parallelamente a livello regionale è stata avviata una nuova rilevazione sperimentale per il territorio toscano che impiega un modulo di rilevazione di dimensioni più ridotte che quindi restituisce una mappatura della aree urbanizzate di maggior dettaglio. Durante una delle partecipazione ad uno dei primi incontri del costituendo Osservatorio fu ipotizzato da Federico Oliva che la sottostima dei dati Corine si potesse aggirare intorno al 50%. Poco tempo dopo la nuova rilevazione messa a punto dal servizio geografico regionale, effettivamente mostrava uno scarto in incremento rispetto a quella Corine di quella entità. La nuova indagine regionale ha dunque consentito di scendere a una dettaglio territoriale più spinto grazie alle ridotte dimensioni dell’unità di rilevazione e questo spiega il conseguente scarto tra i valori forniti sull’estensione delle aree urbanizzate. Altre differenze significative tra le due rilevazioni riguardano la classificazione delle sottocategorie, in particolare la ripartizione tra tessuti continui e discontinui (parametro fondamentale per qualificare i

PERMESSI DI COSTRUIRE. 2000-2005 - Valori in mc pro capite

Fonte: elaborazioni su dati Istat

solo in parte alla forte esigenza conoscitiva espressa dal dibattito proprio perché le fonti utilizzabili presentavano diversi limiti; per ovviare a questa carenza presero avvio alcune iniziative sia nazionali che regionali con l’obiettivo di predisporre delle basi conoscitive con un grado di precisione più elevato rispetto a quelle fino ad allora disponibili. Tra le iniziative recentemente promosse ricordo quella del Politecnico di Milano, INU e Legambiente che ha dato

processi insediativi). Dal punto di vista concettuale e definitorio le due indagini presentano invece diverse analogie classificando come “superfici artificiali” le aree urbanizzate, il sistema infrastrutturale, le aree estrattive, le discariche, i cantieri e le aree verdi. Le principali evidenze della nuova rilevazione mostrano come le aree urbanizzate occupano rispetto alla superficie totale del territorio regionale il 7,4 %. Per quanto ri-

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guarda le destinazioni d’uso, la composizione percentuale delle aree urbanizzate evidenziava una maggioranza di quelle prevalentemente residenziali (51,8%); tra queste spiccano le aree a tessuto discontinuo (27,5%) e gli insediamenti sparsi (21,7%). Alle funzioni industriali e commerciali è destinato il 14% delle aree urbanizzate, mentre la rete infrastrutturale (la quasi totalità della superficie è destinata alla rete viaria) copre il 21,7% di tali superfici. Guardando alla crescita, dal 1996 al 2007, l’urbanizzazione è aumentata di 16.472 ettari, ovvero del 10,7%, con un tasso di incremento annuo dell’1%. In termini assoluti, la crescita annuale è stata di poco inferiore ai 1.500 ettari ovvero circa 4 ettari al giorno. Dunque una crescita piuttosto sostenuta alla quale hanno contribuito in particolare le aree industriali e commerciali, cresciute di poco meno di 4.500 ettari (ovvero del 23,0%). Abbiamo già ricordato che negli anni novanta è collocabile la diffusione delle moderne tipologie di vendita che, a partire da quel mo-

le aree extra o periurbane (quasi 2 ettari al giorno). Dunque, gli insediamenti crescono da un lato per effetto della proliferazione delle grandi strutture commerciali, dall’altro in conseguenza alla diffusione dei nuovi stili abitativi che prediligono modalità insediative meno intensive (la villetta per intenderci) orientate verso le aree più periferiche in cerca di un miglior rapporto tra costo e qualità dell’abitare. Se il fenomeno fosse destinato a consolidarsi, causato come è dai differenziali dei prezzi delle abitazioni e quindi della distanza dai principali centri urbani, provocherebbe l’erosione delle aree che hanno una tradizione rurale consolidata avvicinando i livelli di urbanizzazione di queste aree a quelli degli ambiti metropolitani. Un’altra evidenza che abbiamo registrato è la crescita delle aree verdi in abbandono localizzate nelle aree interstiziali dei tessuti urbani, che possiamo far coincidere con quelle aree non più destinate dall’agricoltura e che attendono di diventare edificabili per beneficiare della conseguente valorizzazione economica.

TERRITORI URBANIZZATI IN TOSCANA. 1996-2007 Valori in ettari, % e indice (aree urbanizzate=100)

Zone urbanizzate di tipo residenziale a tessuto continuo Zone residenziali a tessuto discontinuo Tessuto residenziale rado (case sparse) Aree industriali, commerciali e dei servizi pubblici e privati Reti stradali, ferrovie e infrastrutture tecniche Aree portuali Aeroporti Aree estrattive Discariche Cantieri- edifici in costruzione Aree verdi urbane Aree ricreative e sportive Aree verdi in abbandono TOTALE

Ha

1996 % sul tot reg

Aree urb=100

2007 ha

2007 % sul tot reg

4.292 43.208 33.860

0,19 1,88 1,47

19.312 33.744 480 1.024 3.548 256 2.680 5.528 5.240 748 153.920

Differenza Aree urb=100

Ha

%

2,79 28,07 22

4.416 46.808 37.028

0,19 2,04 1,61

2,59 27,47 21,73

124 3.600 3.168

2,89 8,33 9,36

0,84

12,55

23.756

1,03

13,94

4.444

23,01

1,47 0,02 0,04 0,15 0,01 0,12 0,24 0,23 0,03 6,7

21,92 0,31 0,67 2,31 0,17 1,74 3,59 3,4 0,49 100

35.544 504 1.056 4.544 312 3.196 5.940 6.460 828 170.392

1,55 0,02 0,05 0,2 0,01 0,14 0,26 0,28 0,04 7,41

20,86 0,3 0,62 2,67 0,18 1,88 3,49 3,79 0,49 100

1.800 24 32 996 56 516 412 1.220 80 16.472

5,33 5 3,13 28,07 21,88 19,25 7,45 23,28 10,7 10,7

Fonte: elaborazioni su dati Regione Toscana

mento hanno infatti conosciuto una forte diffusione che prosegue anche nei primi anni del 2000. In termini assoluti, un’altra categoria che ha conosciuto una crescita importante è quella dei tessuti residenziali discontinui e delle case sparse confermando come le recenti preferenze abitative dei toscani siano orientate verso

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Se vogliamo caratterizzare la crescita dell’urbanizzazione per tipologie territoriali, dobbiamo evidenziare da un lato l’espansione dei principali centri urbani, che avviene quasi esclusivamente per saturazione successiva di spazi interclusi, ma anche nelle limitrofe aree collinari, producendo esiti insediativi spesso di dubbia qualità e non sempre re-


PREZZI DELLE ABITAZIONI IN TOSCANA. 1990-2008 Valori medi deflazionati al mq

Fonte: Elaborazioni su dati Agenzia del territorio

lazionati alla trama territoriale esistente. Dall’altro si evidenziano cambiamenti anche in quelle zone della Toscana che hanno accolto la proliferazione dell’industria leggera negli anni sessanta-settanta ovvero quelle porzioni territoriali efficacemente identificate da Becattini nella categoria interpretativa della campagna urbanizzata. Se la distribuzione territoriale delle attività produttive è rimasta abbastanza stabile (per questa funzione i cambiamenti principali sono avvenuti negli sessanta e settanta in conseguenza della diffusione dell’industrializzazione leggera e poi nella seconda metà degli anni ottanta per effetto della dismissione) tuttavia si assiste ad una maggiore diffusione delle funzioni residenziali e alla localizzazione puntuale di alcuni contenitori fortemente specializzati. Alla maglia minuta caratterizzata da una forte commistione tra funzioni residenziali e produttive della campagna urbanizzata viene ora sovrapposto il disegno dei grandi contenitori della grande distribuzione. Un’altra categoria territoriale investita infine da profonde trasformazioni sono le aree rurali, che possiamo considerare come la tipologia territoriale che ha conosciuto i cambiamenti più profondi che hanno investito al contempo la base produttiva e le caratteristiche insediative. Negli ultimi trent’anni gli addetti in agricoltura sono passati da 160.000 a meno di 42.000, facendo segnare un calo del 75% con alcune aree in stato di abbandono (sono quelle aree interessate dalla crescita dei territori boschivi) e altre in cui l’agricoltura ha conosciuto una forte intensivizzazione. Tuttavia sia nei contesti in cui si è manifestato con più evidenza l’abbandono sia nelle aree in cui l’agricoltura continua a mantenere un certo peso ma dove la meccanizzazione è spinta, l’esito territoriale e paesaggistico più evidente è una maggiore semplicazione delle trame agricole. Sotto il profilo degli insediamenti invece grande rilevanza

hanno avuto alcuni provvedimenti regionali quali la Lr 64/95 che ha incentivato il recupero degli immobili rurali di frequente riconvertiti in strutture ricettive turistiche (particolare diffusione hanno avuto nel territorio toscano gli agriturismi, che assorbono il 31% degli arrivi a livello nazionale del settore) e in prime e seconde case, attirando l’insediamento di nuovi segmenti di popolazione. Ma la novità più evidente di questa fase è che quella crescita non era accompagnata, come in passato, da un aumento della popolazione In questa momento cresce solo il numero di famiglie in conseguenza alla continua riduzione del numero dei suoi componenti. Pertanto i processi demografici, almeno da soli, non spiegano le dinamiche dell’urbanizzazione. In quella fase caratterizzata dalla stagnazione economica e da una maggiore incertezza, la casa ha assunto non solo la connotazione di bene “tipico” oggetto delle attese speculative ma anche di “bene rifugio” per il risparmio disponibile o forzoso da creare attraverso gli strumenti creditizi. Ne è conseguito un forte “surriscaldamento” dei prezzi delle abitazioni, più di quanto non fosse accaduto durante tutto il corso degli anni novanta. A questo va aggiunta la crescente debolezza finanziaria delle amministrazioni comunali misurabile con la diminuzione della autonomia finanziaria dei comuni toscani quasi completamente attribuibile all’abolizione dell’Ici prima casa congiuntamente alla possibilità di utilizzare gli oneri per finanziare la spesa corrente. In questo quadro dunque l’attività edilizia è facile immaginare come rappresenti per i comuni una fonte di primaria importanza per assicurare la fornitura dei servizi e più in generale il funzionamento della macchina amministrativa. Ed è evidente come questo si sia potuto tradurre in una maggiore disponibilità ad accogliere sul proprio territorio nuove espansioni insediative.

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INCIDENZA DEGLI ONERI DI URBANIZZAZIONE SUL TOTALE DELLE ENTRATE NEI COMUNI TOSCANI. 2000-2008

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Fonte: Elaborazioni su dati Consuntivi di bilancio dei comuni

Il quadro delle trasformazioni territoriali descritte si è sovrapposto al processo riforma avviato in Toscana dalla legge 5/95, affinato dalla legge 1/2005 e concluso dalla successiva approvazione del Piano di indirizzo territoriale del 2007. Come è noto, la riforma introdotta ha assunto la sostenibilità ambientale come principio informatore. Nella rinnovata prospettiva, le risorse sia territoriali che ambientali (dunque anche il suolo), avrebbero dovuto assumere un ruolo di primo piano nei contenuti strategici e statutari degli strumenti di pianificazione. E in effetti la prima generazione di piani strutturali in particolare, assume il tema della tutela delle risorse e quindi anche del contenimento dell’uso del suolo tra i propri obiettivi. Tra gli orientamenti più ricorrenti troviamo linee strategiche che orientano la crescita insediativa verso gli interventi di recupero o di completamento di tessuti esistenti. Tuttavia la priorità che viene attribuita al recupero o al riutilizzo dell’esistente non è sostanziata da criteri o linee di azione che diano capacità operativa a quelle intenzioni. In altri termini, la preferenza accordata alla riqualificazione urbana, si configura come dichiarazione di intenti che non sempre riesce a tradursi in operatività. A conferma di ciò possiamo indicare anche le modalità con cui i piani definiscono le ipotesi di crescita; se realmente si fosse assunta la prospettiva della sostenibilità, avrebbero dovuto basarsi non più sul calcolo del fabbisogno ma sulla capacità di carico del territorio. Tuttavia è stato evidenziato in varie ricerche come il riferimento metodologico continui a rimanere la proiezione di dinamiche demografiche pregresse e come sia diffuso l’atteggiamento che spinge a confermare in modo del tutto acritico e in blocco le previsioni di crescita che gli strumenti ereditano dai vecchi Prg. In altri termini in molti piani si è dato per scontato che le previsioni ormai approvate fossero da conservare, vuoi perché ormai era una prassi consolidata vuoi perché si andavano a toccare diritti acquisiti dai privati e quindi ne sarebbero potute derivare molte difficoltà per l’amministrazio-

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ne. Nell’economia complessiva del piano queste quantità sono tuttavia di rilevante entità e l’attuazione può talvolta vanificare gli intenti espressi dal nuovo strumento soprattutto in tema di tutela ambientale e paesaggistica, generando dunque una contraddizione tra azioni ancorché riconducibile a strumenti diversi ma attuate dalla stessa amministrazione. Insomma appare piuttosto paradossale preoccuparsi di consumare poco suolo nello strumento che si sta elaborando (peraltro dichiarandolo solo in termini di intenzionalità) senza prendere in considerazione il consumo che produce l’attuazione di quelle previsioni che provengono dai cosiddetti trascinamenti. Tuttavia, seppur all’interno di un quadro non totalmente confortante, dobbiamo ricordare alcune esperienze di pianificazione come il piano strutturale di Borgo San Lorenzo che in questa fase decide, coraggiosamente, di cancellare alcune previsioni di piano che aveva ereditato dal precedente approvato nel 2000. La scelta avviene contemporaneamente ad alcune sentenze che peraltro sostengono il diritto del privato al ristoro del danno subito, tra cui la più nota è quella della Cassazione contro il Comune di Fiesole, che ha condannato l’amministrazione ad un pesante risarcimento a fronte della cancellazione di previsioni edilizie maturate da tempo, ma divenute inaccettabili poiché spalmate su aree collinari di elevato pregio paesistico. Il piano di Borgo, utilizzando lo strumento della valutazione integrata è arrivato a stralciare alcune previsioni (quelle considerate non coerenti) o a sottoporle ad una ammissibilità condizionata alla rimozione di alcune incompatibilità. Si tratta indubbiamente di un caso di rilevante interesse e che dimostra come sia possibile, utilizzando in modo proficuo gli strumenti a disposizione del planner, perseguire realmente una politica di contenimento di consumo di suolo. L’esperienza maturata dal comune di Borgo San Lorenzo, è di notevole interesse non solo per gli esiti territoriali che ha prodotto ma anche perché ha ispirato l’art. 36 della


disciplina del Pit che assoggetta a valutazione anche le quote del piano regolatore generale comunale non attuate. Il primo comma dell’art. 36 della Disciplina del PIT dispone infatti come segue: “Le previsioni dei vigenti Piani regolatori generali e Programmi di fabbricazione riguardanti aree di espansione edilizia soggette a piano attuativo, per le quali non sia stata stipulata la relativa convenzione ovvero non sia stata avviata una specifica procedura esproriativa al momento ella entrata in vigore del presente Pit, sono attuabili esclusivamente alle seguenti condizioni: a) a seguito di esito favorevole della relativa valutazione integrata nel procedimento di formazione del Piano strutturale, per i Comuni che tale piano non abbiano ancora adottato; b) a seguito di deliberazione comunale che -per i Comuni che hanno approvato ovvero solo adottato il Piano strutturale – verifichi e accerti la coerenza delle previsioni in parola ai principi, agli obiettivi e alle prescrizioni del Piano strutturale, vigente o adottato, nonché alle direttive e alle prescrizioni del presente Piano di indirizzo territoriale.” Disposto che si trova anche nell’art. 6 del Regolamento regionale 3R (emanato in attuazione

del Titolo V della Lr 1/2005) che recita come segue: “Il piano strutturale contiene il resoconto dello stato di attuazione dello strumento urbanistico vigente, e sottopone le relative previsioni insediative non attuate a valutazione integrata, nel rispetto delle disposizioni dell’articolo 11 della l.r. 1/2005, e del relativo regolamento di attuazione [omissis]. Qualora dalla valutazione integrata [omissis] emergano, relativamente ad uno o più contenuti del piano strutturale, elementi di contrasto o di incoerenza, il piano strutturale stabilisce le conseguenti misure di salvaguardia, valide fino all’adeguamento del regolamento urbanistico”. A tal proposito è necessario sottolineare come sia significativo che il recente piano strutturale del comune di Firenze abbia adottato, nei confronti dei trascinamenti, lo stesso metodo sperimentato dal comune di Borgo non riconfermando 140.000 mq di previsioni di nuova edificazione. E ben sapendo quanto siano forti gli interessi privati sul territorio fiorentino, non ci resta che guardare agli esiti che produrrà con grande interesse e con molta curiosità.

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Le politiche di contrasto alla rendita: una discussione da aprire di RICCARDO CONTI

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al discorso pubblico è scomparso da anni il tema della rendita urbana. Lo stesso dibattito urbanistico pare orientarsi su altri assi. Nelle agende politiche il tema non esiste; ciò è grave soprattutto per la sinistra. Come rileva Campos Venuti, nella sua intervista a Federico Oliva pubblicata in un libretto di Laterza, questa scomparsa rappresenta una lacuna strutturale della cultura politica ed economica dei riformisti. Il trionfo della rendita urbana si intitola uno degli ultimi numeri di Democrazia e Diritto. Opportunamente. Infatti assistiamo al paradosso dell’esplosione di un fenomeno non compreso nella sua valenza economica, sociale e politica dalle forze di sinistra. Sui caratteri della nuova rendita urbana, sugli intrecci di questa con la “finanziarizzazione” del capitalismo, sui legami di tutto ciò con il ciclo politico ed economico si interroga, sulla rivista citata, mirabilmente Walter Tocci nel suo saggio L’insostenibile ascesa della rendita urbana. Si ripropone, in sostanza, qualcosa di più e di diverso dall’analisi classica sulle antiche tare del capitalismo italiano; assistiamo a fenomeni dinamici, più globali che locali che creano un circuito di declino economico

“nascosto sotto il mattone”. Altri studiosi hanno indagato, del resto, sul legame tra rendita, esplosione immobiliare e bassa crescita: si tratta, però, di studiosi stranieri, perlopiù transalpini, con la lodevole eccezione di Giulio Sapelli (La crisi economica mondiale edito da Bollati e Boringhieri). L’esperienza toscana ha cercato di sperimentare nuove politiche di contrasto alla rendita. “Reddito e non rendita” e “concorrenza per il mercato” sono state parole chiave di un ciclo della pianificazione regionale. La riduzione a cinque anni della durata dei diritti edificatori, la perequazione urbanistica e territoriale, gli avvisi pubblici, la valutazione del pregresso sono divenute pratiche tentate e, comunque, scelte di piano. Avviamo una discussione su “Scelte pubbliche”, a partire da questa nota. All’inizio pensavamo di farlo ospitando un dialogo tra Riccardo Conti e Walter Tocci e un saggio di Stefano Casini Benvenuti. Ma il tanto e ricco materiale raccolto ci ha consigliato di pubblicare un apposito testo, curato da Chiara Agnoletti e Sara Di Maio, che editeremo entro marzo quale primo contributo a un dibattito che questa rivista sarà onorata di ospitare.

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Il Pd e l’urbanistica di Felicia Bottino

Una discussione necessaria. L’articolo di Felicia Bottino, che pubblichiamo di seguito, ci auguriamo sia il primo di una lunga e qualificata serie. È nostra intenzione ospitare su questa rivista un dibattito tra politici, studiosi e professionisti. Dalle agende della politica nazionale sono state espunte parole e concetti riguardanti l’urbanistica e la pianificazione territoriale; prevale, ormai, una pericolosa riduzione agli aspetti dell’edilizia, e nel migliore dei casi ai temi dell’ambiente o del paesaggio, sulla complessità delle politiche di pianificazione. Proponiamo il ritorno a una grande “tradizione” culturale e politica che è stata una prerogativa della sinistra: una attenzione sulla città, riflettendo su cosa è oggi città, su quale pratiche l’attraversano, su quali meccanismi attivare per il governo delle sue trasformazioni. Tutto ciò non può prescindere da una idea di città, da una visione del disegno urbano che vogliamo perseguire, da una chiara definizione dei caratteri dello spazio urbano e delle qualità dei luoghi. Ciò ha riflessi significativi anche sulla disciplina e sul nesso di qualità tra sfera politica e sfera culturale.

L’Analisi

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olendo tentare un’analisi per mettere a fuoco i “nodi fondamentali” della politica del territorio è necessaria a priori una valutazione, seppur sommaria e sintetica, sugli esiti che la gestione urbanistica di questi ultimi quarant’anni ha prodotto nello sviluppo urbano e territoriale del nostro Paese. Pur se in diversa misura e con le dovute differenze, dob-

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biamo constatare che si è costruito molto e male, anche laddove il tutto veniva accompagnato da dichiarazioni di principio sul contenimento dei dimensionamenti di piano e sulla pratica di un’urbanistica riformista. Troppo spesso, una volta fatti i piani, non abbiamo monitorato la loro applicazione e attuazione, peraltro spesso modificata da successive, numerose varianti che ne com-


promettevano la coerenza e le previsioni. Si è persa in questo modo la possibilità di elaborare, in una corretta logica processuale di governo urbano, una costante riflessione critica, politica e disciplinare sull’efficacia e sugli effetti del piano, la sola capace di ri-orientare in tempi celeri scelte e previsioni. Si è invece prodotta una molteplicità di norme e piani settoriali, tra loro difficilmente dialoganti e compatibili, anche se riferiti allo stesso ambito territoriale. Ciò ha moltiplicato in modo insopportabile tempi e procedure, mentre la logica immobiliare più parassitaria conseguiva più numerose opportunità nonché più facili guadagni rispetto all’attività di una corretta logica d’impresa. In sostanza, senza avere la capacità di impostare un’efficace politica di valorizzazione del patrimonio storico, culturale del nostro Paese, per speculazione, per abusivismo ma troppo spesso anche attraverso l’applicazione di piani urbanistici e di vincoli, non si è riusciti ad accompagnare il lungo periodo dello sviluppo economico e della crescita urbana né con la creazione di qualificate identità urbane né con sufficienti misure di salvaguardia ambientale e idrogeologica né con la dotazione di adeguati sistemi infrastrutturali per la mobilità. Le nostre città moderne, cresciute sotto la spinta prevalente della rendita urbana, hanno troppo spesso ignorato il valore sociale ed economico sia del tessuto urbano esistente che del territorio agrario da urbanizzare. La mancata attenzione al corretto rapporto tra città storica e città nuova, così come l’assenza di un’adeguata contestualizzazione progettuale ha di fatto compromesso la possibilità di creare, attraverso i nuovi insediamenti, nuove identità urbane capaci di confrontarsi, in termini di qualità e valore ambientale, con la città storica. Si è così consumata, anziché tutelarla e valorizzarla, quella da tutti riconosciuta – ma quasi mai praticata - grande risorsa culturale ed economica, proprio nel Paese che poteva trarne maggiori vantaggi competitivi a livello globale, senza peraltro realizzare compiutamente la città moderna. Non c’è oggi letteratura che non descriva le nostre città come un insieme di parti tra loro separate, caratterizzate da usi monofunzionali (ipermercati, multisale, quartieri residenziali, …). Non a caso, pur con diversità più o meno positive a livello nazionale, le periferie si assomigliano tutte, prive di quella caratterizzazione urbana e sociale che, sola, può renderle per definizione città. Per contro, invece, i nostri centri storici tutti, piccoli o grandi che siano, marginali, lontani o interni alle aree metropolitane, mantengono ancora, nonostante l’incombenza di un sempre più diffuso degrado, una loro diversa riconoscibile identità. E nella maggior parte dei casi è proprio questa identità che da sola costituisce un valore aggiunto per l’intera città e per il Paese. Ciò porta inevitabilmente a dover prendere atto dei limiti di una pratica di pianificazione urbanistica che, concen-

trata sulla logica di norme e prescrizioni (necessarie ma non sufficienti!), ha completamente trascurato di garantire la qualità urbana e il disegno progettuale dei nuovi insediamenti. Ma si deve anche ammettere che la pratica del piano ha fallito in altri fondamentali obiettivi quali il “controllo dell’uso del suolo” e il “controllo della rendita”. Così come è stato bene evidenziato dalle più recenti ricerche in proposito, per quanto riguarda il consumo di suolo, risultiamo il Paese europeo al più basso tasso di incremento demografico e al più alto tasso di territorio urbanizzato. Questi valori non hanno peraltro risparmiato quelle realtà dove la pianificazione, in nome di un’urbanistica riformista, è stata diffusamente e pienamente praticata e nelle quali il consumo di suolo, nell’arco di un ventennio, si è più che raddoppiato rispetto all’esistente. La rendita fondiaria è stata ed è tuttora una delle principali cause della crescita distorta e disordinata delle nostre città che ha penalizzato, oltre alla qualità ambientale e sociale dello sviluppo urbano del Paese, la stessa possibilità di crescita corretta e competitiva del settore edilizio. Infatti, dopo aver occupato l’agenda politica per diversi anni, la riforma sul regime dei suoli è completamente uscita dall’orizzonte politico e istituzionale. Peraltro, lo strumento della perequazione, introdotto da alcuni anni come rimedio assunto sul piano disciplinare nell’elaborazione dei piani urbanistici, si sta purtroppo rivelando, con la motivazione di ridistribuire volumi e quindi profitti della rendita, una modalità che contrasta, più o meno consapevolmente, con l’obiettivo primario di frenare l’ulteriore consumo del suolo. Non secondaria rilevanza occorre poi attribuire alla procedura di smantellamento, in atto in questi ultimi anni, dell’unica legge di riforma urbanistica in vigore nel nostro Paese (Legge Bucalossi). Una legge che, faticosamente conquistata e salutata come la più importante innovazione urbanistica, introduceva l’obbligo degli oneri di urbanizzazione cercando di arginare gli effetti più dirompenti di una logica privatistica dell’edificazione: per la prima volta, infatti, all’interno degli insediamenti residenziali, veniva resa obbligatoria la realizzazione a carico dei privati delle indispensabili attrezzature pubbliche. Da alcuni anni, infatti, di fronte alle difficoltà di bilancio degli enti locali, con l’acquiescenza di tutte le forze politiche e il silenzio da parte della cultura urbanistica viene consentito ai Comuni di utilizzare tali proventi, anziché nella realizzazione di opere e servizi pubblici o nella loro manutenzione, come spesa corrente fino al 70 %. Con ciò producendo il paradosso che fa diventare la riscossione degli oneri di urbanizzazione, in un momento perdurante di mancanza di risorse finanziarie locali, un incentivo a ulteriori previsioni edificatorie, con il duplice, perverso effetto di consumare il territorio e costruire senza adeguate opere di urbanizzazione.

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< La proposta

Innanzitutto appare quanto mai prioritario e indispensabile promuovere a livello nazionale una riforma fiscale che, affrontando il problema della rendita fondiaria con una specifica normativa, abbia la reale capacità di redistribuire socialmente i valori del surplus che viene determinato dalla mano pubblica attraverso gli strumenti urbanistici. Così come è necessario restituire alla possibilità di edificazione il diritto di garantire realmente un’adeguata dotazione di servizi e attrezzature pubbliche attraverso il pieno utilizzo degli oneri di urbanizzazione. Per quanto riguarda il livello locale, il processo di globalizzazione ormai in atto da tempo costringe a confrontarci con il resto del mondo e ad assumere per le realtà locali visioni strategiche che sappiano sviluppare al meglio le potenzialità delle risorse locali, la competitività e la sostenibilità del patrimonio sociale, culturale ed economico delle nostre città. Due considerazioni di fondo si impongono di conseguenza. Sempre di più, oggi, la città coincide con la società intera e qualsiasi intervento di carattere urbanistico si riflette direttamente o indirettamente sul piano sociale ed economico delle realtà territoriali, accrescendone o riducendone le opportunità e il potenziale, secondo una connessione che raramente i piani urbanistici hanno saputo interpretare e realizzare. Ciò implica che l’attività di governo sia basata su una forte integrazione tra le politiche di welfare (in particolare quella della casa, per lungo tempo trascurata, e quelle della coesione e dell’integrazione), le politiche ambientali, da tempo reclamate ma mai perseguite con efficacia (disinquinamento, risparmio energetico, ecc.), le politiche economiche e le politiche territoriali, dalla mobilità alla logistica. Secondo. Lo sviluppo locale è sempre di più il frutto dell’azione sinergica di più attori: privati, pubblici, sociali, economici, culturali, ecc. che devono reciprocamente autocondizionarsi per adottare una strategia comune, efficace al conseguimento degli obiettivi di sviluppo e assumendo congiuntamente una politica urbana di sostenibilità e di riduzione del consumo di suolo come condizione indispensabile ad un reale interesse collettivo. Si afferma così la necessità di dotarsi di uno strumento di governance basato su un nuovo modello di processo decisionale che superi l’attuale concezione che attribuisce (responsabilizzandola) alla sola amministrazione pubblica il perseguimento dello sviluppo locale. Ciò richiede la disponibilità, da parte pubblica, di assumere, assieme a una forte leadership, una rinnovata cultura di governo basata su una forte capacità relazionale instaurando la prassi di visioni di sviluppo condivise e una concertazione trasparente con le diverse realtà che operano e investono sul territorio. Una pratica che oppone alla logica di pianificazione-deregolamentazione, che oggi

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viene diffusamente attuata nella gestione dei piani, quella di un quadro di coerenza territoriale continuamente ritarato e verificato nella sua gestione. Uno strumento, il Piano Strategico, non elaborato a tavolino da consulenti del sindaco o prodotto dai soli decisori economici, ma basato su una reale partecipazione e condivisione di tutti gli attori pubblici e privati responsabilizzati sulla consapevolezza che solo lo sviluppo dell’intera comunità può garantire lo sviluppo individuale. Un piano riferito opportunamente a territori di area vasta e con orizzonti temporali di lungo periodo, per consentire


la proiezione corretta di quelle scelte che, assunte oggi, posssono essere capaci di costruire in modo strutturato ed efficace il futuro della città. In questo senso, accanto al Piano strategico, il piano urbanistico dovrà divenire uno strumento di attuazione, molto più snello e direttamente operativo, redatto in funzione degli obiettivi di sviluppo preordinati. Le finalità operative dovranno favorire e accompagnare quel processo di rigenerazione urbana e di riqualificazione di un patrimonio edilizio, già oltremodo datato o in disuso (capannoni, fabbriche, caserme, residenze, ...), da riprogettare e ricon-

vertire secondo la nuova domanda di funzioni e standard ambientali e sociali, con l’obiettivo di sostenere l’innovazione di qualità in tutti i settori economici e culturali. Questa sarà anche una fondamentale occasione per la disciplina urbanistica, anche in adempimento al dettato discipinare e concettuale introdotto dalla Convenzione europea del Paesaggio, per recuperare quella capacità di progettazione urbana e paesaggistica che ha progressivamente perso negli ultimi decenni non riuscendo a garantire il perseguimento del prodotto finale: la qualità urbana..

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MONITOR di NICOLA Sciclone

Le rendite in tasca. In Toscana una famiglia su dieci fa fatica ad arrivare a fine mese….Calano i redditi delle famiglie toscane… questi, alcuni dei titoli apparsi nei giorni scorsi nelle edizioni locali dei principali quotidiani. Per capire come stanno i toscani, volgiamo allora l’attenzione agli stipendi, ai profitti, alle rendite, che sono le categorie più vicine al portafoglio dei singoli. L’occasione ce la fornisce la nuova serie dei Conti regionali pubblicata qualche giorno fa dall’Istat. Cosa si osserva? Non c’è dubbio che la crisi economica abbia peggiorato il tenore di vita di molti cittadini, ma i problemi erano già presenti da tempo. Nel 2009 il reddito disponibile delle famiglie toscane è diminuito rispetto al 2008, in termini reali, dell’ 1,3%. Dal 2000 al 2007 (ultimo anno prima dell’avvento della crisi) l’aumento medio annuo era però stato di appena 0,5 punti percentuali. Se poi ragionassimo - come sarebbe giusto fare- in termini pro capite, commisurando i redditi al numero delle famiglie o della popolazione, avremmo addirittura variazioni reali negative: -2,1% nel primo caso (2009 vs 2008) e -0,2% nel secondo (media annua 2000-2007). La recessione in atto peggiora quindi un quadro già parzialmente compromesso. Non è difficile - numeri alla mano- capire cosa sia successo, concentrandoci sulle dinamiche distributive. Fra i settori, famiglie, imprese e pubblica amministrazione, è questa ultima che ha aumentato il proprio peso rispetto al passato, prelevando sotto forma di imposte e contributi una quota maggiore del reddito prodotto (dal 33% del 2000 al 36% del 2009). Fra i fattori produttivi, in questi anni sono rimasti sostanzialmente al palo tanto i redditi da lavoro (appena 0,5 punti l’anno è l’aumento reale delle retribuzioni lorde unitarie dall’inizio del nuovo millennio), quanto i profitti: nonostante la moderazione salariale le imprese non sono cioè riuscite a riorganizzazione adeguatamente i luoghi e le modalità del lavoro per fronteggiare

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le sfide dell’economia globale. L’unica categoria che registra sensibili aumenti è la rendita immobiliare: i fabbricati hanno infatti conquistato quote crescenti del reddito primario (dal 6% del 1995 al 10% di oggi), non tanto in virtù di un aumento delle quantità quanto soprattutto per un consistente processo di aumento dei prezzi (solo in parte attenuatosi a causa della recessione). E’ un fenomeno preoccupante che rischia di compromettere, per il negativo riflesso sugli investimenti e sulla efficienza del sistema, la possibilità di rilancio della nostra economia. Inoltre esso contribuisce ad ampliare la disuguaglianza fra ricchi e poveri. Oltre i dati del Pil, quindi, nulla di buono all’orizzonte. Niente è però acquisito per sempre. Dipende dai comportamenti individuali e soprattutto dalle politiche nazionali e locali che saranno messe in atto per creare nuova ricchezza, introdurre nuovi valori, rompere vecchi equilibri. Dove intervenire? La sfida dei prossimi anni si giocherà, sul fronte distributivo, sulla rottura della dicotomia insider/outsider, che caratterizza troppi ambiti del nostro stato sociale e sulla riduzione dell’immobilismo sociale, che rende i figli dei più forti a loro volta più protetti e avvantaggiati rispetto ai loro coetanei. Sul fronte della crescita, su un rilancio degli investimenti pubblici, per aumentare la produttività complessiva del sistema produttivo. Come fare? Nel primo caso, attraverso la lotta all’evasione, mediante il raggiungimento dell’equilibrio, oggi assente, fra il valore delle prestazioni ricevute (da molti) e il contributo (di pochi) al loro finanziamento e, infine, con la valorizzazione del merito; nel secondo caso, attuando una rigorosa politica di rientro dal debito pubblico e di tassazione dei patrimoni, capace di liberare il risparmio oggi spiazzato da remunerazioni troppo facili (titoli pubblici) e a basso rischio (investimenti immobiliari). Hic Rhodus hic salta, l’esortazione ad affrontare i nodi strutturali del nostro modello di sviluppo mai come oggi ha il tono della urgenza e della ineluttabilità.


ARCHIVI di CECILIA PEZZA

“Se questo è in concreto il nostro programma, se cioè il nostro impegno sarà rivolto a quella porzione del nostro Paese che si chiama Toscana riteniamo di poter affermare che uno dei punti fermi del nostro lavoro sarà rappresentato dal più assoluto e totale distacco da quegli atteggiamenti culturali – a metà ricerca di tempi perduti o mai esistiti, a metà tentativi di valorizzazione turistica – ispirantisi alla valorizzazione del mito della Toscana, della cultura toscana, della agricoltura toscana, o magari della cucina toscana. Nessuno più di noi è infatti (ci pare di poterlo affermare con serena coscienza) lontano dal mondo degli stanchi adoratori della Toscanina della quale discettava or è un secolo un gruppo di colti ed amabili signori che nella regione possedeva grandi estensioni di terra, che era il depositario del sapere come del potere e che ha lasciato dietro di sé tanti sospiri languorosi ora magari repressi ma non spenti: una Toscanina che significava vita tranquilla per i beati possidentes, capacità di elaborare gruppi di validi anche se non sempre vigorosi ingegni intellettuali, povera agricoltura mezzadrile, contadini impigriti e non dirremmo egemonizzati ma addirittura succubi del buon padrone, con elegantissime ma silenziose città ed aviti castelli o rinascimentali ville dova la grande proprietà andava a braccetto con la borghesia antica e recente e con l’intellettualità delle pandette e del verso a godersi vicendevolmente i frutti del loro raffinato mondo”. “Una rivista che riprende”, in La Regione anno X n° 1, 1963

Con questi principi ispiratori, contenuti in un editoriale, riprende nel 1963 la pubblicazione de La Regione, la rivista dell’URPT. La direzione che ne cura l’edizione è rinnovata ed allargata: vi compaiono tra gli altri Mario Fabiani, primo e principale animatore della rivista, ed Elio Gabbuggiani, che succede a Fabiani alla presidenza della Provincia di Firenze. L’editoriale “programmatico” imposta di fatto il filone politico culturale in cui si muove negli anni la classe dirigente toscana: è chiaro l’intento della lotta alla rendita e del sostegno allo sviluppo, motore fondante della sinistra in questa regione. La redazione infatti chiarisce subito quale sia la Toscana a cui si rivolge. Non la regione da cartolina, passata alla storia come locus amoenus immobile, cristallizzato nei tempi antichi, protetto da un’aurea quasi sacra che avvolge coloniche di campagna, filari di cipressi e discussioni accademiche da salotti aristocratici. La Toscana di chi amministra e conosce il territorio è un’altra cosa: è la regione della crisi della mezzadria, delle grandi masse che cercano nuovi sbocchi lavorativi, che si muovono dalle campagne verso i centri abitati. È la Toscana dei distretti industriali che stanno nascendo, con tutte le fratture sociali e culturali che ciò comporta; la Toscana della piccola impresa che riparte, favorita

dal boom economico; la Toscana dei porti, delle vie di comunicazione da incentivare. La Toscana che produce e che cresce. A questa realtà in movimento si devono dare risposte: l’editoriale de “La Regione” descrive il conflitto sociale vissuto dai toscani in anni di profondi cambiamenti. Dove si collochino gli amministratori comunisti e, con loro, le forze politiche della sinistra è chiaro: il loro intento è quello di minare la stabilità dell’aristocrazia toscana, di intraprendere una feroce lotta alla rendita. Una lotta forse ancora un po’ acerba, ma concreta e risoluta, condotta senza distogliere mai l’attenzione dalle esigenze dei cambiamenti che vanno delineandosi. Negli anni, queste prime esperienze amministrative in Toscana verranno valutate, sviluppate e nel caso corrette: dall’idea di misurare il benessere per metri cubi pro-capite, si passerà ad un nuovo modello di governo dello sviluppo, al passo con l’esigenza sempre più presente della tutela del paesaggio e della sostenibilità. Resta il fatto che a quel dibattito aperto in pieno boom economico e agli uomini politici che lo animarono, a quell’impostazione culturale e al rifiuto della “Toscana-cartolina”, la nostra regione deve il suo particolare assetto economico-sociale che – anche e forse sopratutto in tempi di crisi come quelli attuali – viene ancora oggi indicato come modello armonioso.

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COMMENTI di GIACOMO SCARPELLI

al convegno: paesaggio, democrazia, innovazione

Il paesaggio è forse una delle migliori rappresentazioni della storia. È stato ribadito più volte durante la giornata di Convegno del 6 dicembre dal titolo Paesaggio, democrazia, innovazione. Tela sulla quale individuare il modo in cui ha agito la mano dell’uomo, scenario su cui il suo lavoro ha determinato la trama delle mutazioni sociali ed economiche, immagine che, sin dalle a noi prossime, colline toscane, ci mostra culture e civiltà dell’uomo più o meno lontane. Paesaggio urbano, paesaggio industriale, paesaggio agricolo, non sono solo oggetti estetici di percezione del bello o del brutto, ma vere e proprie immagini del mutamento strutturale, del sistema economico e di potere. Appunto paesaggi che mostrano il processo di modernizzazione. Dalle grandi rivoluzioni politiche e industriali della fine del ‘700 alla fase fordista fino ai giorni nostri, la globalizzazione e il post-industrialismo. Tutti i movimenti della storia hanno prodotto i loro paesaggi, la loro materia da modellare, il loro modo di vivere lo spazio e di utilizzarlo. L’uomo in forma più o meno organizzata ha convissuto, modificato, determinato il paesaggio nel corso del tempo. Lo si rintraccia nei grandi edifici di archeologia industriale all’interno delle nostre città, nell’impronta fisica di un epoca caratterizzata da sobborghi operai come gli Slam inglesi, o negli Hinterland del fordismo delle grandi città europee e italiane. Ma anche nella campagna urbanizzata toscana, quel peculiare assetto territoriale del secondo dopoguerra, che ha delineato una periferia a misura d’uomo, senza palazzoni, vicina agli insediamenti produttivi di Firenze, in cui si è determinata una commistione tra urbano e rurale dove la classe operaia, che proveniva dalle campagne, dava origine a quell’industrializzazione leggera descritta nei saggi di Giacomo Becattini. Infine oggi figure della globalizzazione sono gli Ipermercati. Immense cattedrali post-industriali in cui impera l’individuo consumatore a scapito di quello produttore. Veri e propri simboli del passaggio di ricchezza dal reddito alla rendita. Celebre è il brindisi della Thatcher, al momento in cui c’è il sorpasso dei lavoratori azionisti su quelli iscritti al sindacato, che sancisce l’inizio di un’epoca. È stato più volte detto durante il convegno: l’ultimo trentennio ha lasciato il segno anche sul territorio. Se un tempo scuola, industria e infrastrutture erano elementi di innovazione e crescita su cui il potere pubblico, lo stato, investiva le proprie risorse, in questi anni si è delocalizzato, si è sostituito all’economia reale, al lavoro, la speculazione finanziaria, transazioni di denaro che producono altro denaro senza l’intervento di un ulteriore fattore produttivo. O meglio spesso le componenti della produzione di un’impresa, come la manodopera o i macchinari, possono essere negativi per la valutazione dei titoli finanziari – la vicenda Fiat di queste ultime settimane parla chiaro. Insomma, un modello di sviluppo come quello neoliberista ha aumentato le diseguaglianze, deprimendo il lavoro e il mondo della produzione, ha promosso il welfare finance, sostituendo il welfare state e, riducendo la democrazia, ha edificato non luoghi, ambienti privi di identità. L’Italia dei

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nostri giorni è un paese depresso, disperato, smarrito, stretto nella morsa di una destra che ha prodotto una pericolosa crisi democratica e non sa dare risposte a quella economica. Una nazione che stenta ad individuare una guida che le indichi una direzione verso cui iniziare a procedere. Si potrebbe dire un paese che non ha idea del paesaggio che vuole disegnare e costruire. Se quello dei pochi, delle villette, delle opere inutili come il Ponte sullo Stretto, dell’abusivismo e dei condoni o se quello delle grandi infrastrutture democratiche che sostengono lo sviluppo e la sostenibilità del sistema economico nel suo sviluppo e nella sua crescita. Qui sta la scelta, cioè la politica. Qui sta il primo compito del riformismo: ridare respiro alla politica, alla sua dimensione collettiva di scelta pubblica, di governo democratico del bene comune, ristabilendo la sua funzione di direzione degli interessi particolari verso l’interesse generale di un paese intero, non di un territorio, di una porzione di stato, di una categoria economico sociale, di una corporazione. La politica, che tiene tutti assieme che rappresenta quell’Italia che resiste, delle eccellenze e dei talenti, è l’attività che assicura sia la tenuta democratica dello stato sia l’equità sociale. Il riformismo, tuttavia, in questo ruolo non può far leva solo sul pragmatismo: non può accontentarsi del “fare”; esso necessita di idee. Per soccorrere l’emergenza democratica ed economica che l’Italia sta attraversando è indispensabile una prospettiva, una visione del mondo e, soprattutto, un progetto di realtà. Dal convegno sono emerse molte idee e si sono delineati quei valori fondamentali per invertire la rotta e avviare una fase nuova di crescita e di sviluppo del nostro paese. L’Italia dei giorni nostri ha bisogno di un forte impianto valoriale, di un programma economico e sociale che guidi il paese fuori dal torpore del gossip e dai drammi della recessione. Dobbiamo immaginarci un paesaggio futuro; il Partito democratico è l’unico soggetto politico che può sostenere il peso di questa missione.


COMMENTI di PATRIZIO MECACCI

Ogni paesaggio ha bisogno di un uomo. Voglio introdurre questa discussione provando ad avanzare alcuni spunti di riflessione sull’opera dell’artista che ha prestato alcune sue visioni per questo convegno e che sono state riprodotte negli inviti e in apertura di questa prima sessione dei lavori di oggi. Incontrare un artista come Giacomo Costa (per una presentazione della sua creatività, riconosciuta in tutto il mondo, invito a visitare www.giacomocosta.com), nel mezzo di un ragionamento collettivo su democrazia, innovazione, paesaggio promosso per celebrare il decennale della Convenzione Europea del paesaggio, è una cosa perlopiù inedita per una discussione politicoculturale di questo livello. Sono occasioni alle quali dovremmo prestarci più spesso di quanto comunemente si faccia nelle nostre riflessioni

al convegno: paesaggio, democrazia, innovazione

politiche. La nostra politica, anche quella dei democratici, vive in una dimensione continua di scambi e confronti tra una ristretta cerchia di addetti ai lavori, che misura il suo successo nella quantità di autocitazioni quotidianamente raccolte a riportare e testimoniare una personale visibilità. La formazione politica di ciascuno di noi non passa nemmeno attraverso la lettura dei quotidiani - cosa che già conterrebbe più di un elemento discutibile, visto il livello- ma finisce col sostanziarsi nello sfoglio distratto di una selezione di selezioni di articoli: rassegne stampa in bianco e nero preparate e spillate da anonimi uffici, che standardizzano e rinchiudono il confronto pubblico e la giornata politica in un vissuto asfissiante e controproducente. La forza di una tematica come quella del paesaggio è invece proprio un’altra, quella di obbligarci di per sé a uno sforzo preliminare. Per definizione, infatti, il paesaggio è un’esperienza umana, una delle esperienze umane più significative, che si attua proprio attraverso l’essere umano: è questo il soggetto di tutte le letture, la carne viva ed il punto di orientamento focale di ogni sguardo sul mondo. Per questo credo che la visione dei paesaggi di Costa catturi una particolare attenzione, proprio per un significativo elemento antropologico e allo stesso tempo pienamente politico: la completa scomparsa dell’uomo. A mio avviso, il messaggio e gli interrogativi più stringenti che l’opera di questo artista solleva nei confronti della politica partono proprio da qui. La ricaduta più probabile dell’assenza di scelte pubbliche all’altezza dei tempi che viviamo è rappresentata proprio dal rischio dell’espulsione della dimensione umana dai paesaggi futuri, o più precisamente dalla fine di ogni possibile paesaggio. Un rischio che, continuando ad illuderci, scordiamo quanto tocchi a noi affrontare e scongiurare giorno dopo giorno. L’umanesimo e la fiorentinità della rappresentazione di Co-

sta saltano agli occhi anche di un osservatore distratto, già a partire dalla scelta dei mezzi espressivi, che incorniciano, attraverso la fotografia, una dimensione tutta prospettica ed architettonica. Forse le descrizioni letterarie di Cormac McCarthy potrebbero avvicinarsi alle istantanee di questo artista. Ma almeno in McCarthy restano elementi stilizzati e universali (un uomo, un bambino, una strada ) che raccontano, esperiscono e vivono il paesaggio circostante, o quello che resta agli ultimi attimi di una specie umana ormai alla fine dei suoi giorni. Qui invece l’umanità sembra rifugiata solo nello sguardo della prospettiva, ma ha perso probabilmente per sempre tutto il suo protagonismo, è scomparsa dalla scena, si è ritratta nell’osservazione, o semplicemente non è. Potrebbe essere il fotogramma di una macchina o di una webcam rimasta accesa, e nulla cambierebbe. Perché l’umanità non c’è e non si vede, ma soprattutto perché non governa più, perché non ha saputo interpretare e governare le trasformazioni e il cambiamento che la riguardavano sopra ogni cosa. È una umanità che ha perso un suo rapporto con le cose e con la materialità, che ha smarrito la principale dimensione della politica per lasciare tutto il terreno al ritorno drammatico ed angosciante di uno stato di natura. L’accelerazione con cui alcuni fenomeni si manifestano all’agenda sociale e politica degli ultimi anni è impressionante, come dimostrano le repentine trasformazioni climatiche che attraversano anche il nostro paese e l’intero pianeta. Se il riformismo ha bisogno di trovare coraggio, se la politica necessita di richiami forti per uscire dal suo teatrino, per tornare capace di misurarsi intorno a nuovi principi di responsabilità, uno sguardo al silenzio tragico di Costa è più che consigliabile, perché costituisce i presupposti di un ambientalismo per niente contemplativo che deve trovare scelte pubbliche coerenti e misurate.

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COMMENTI

al convegno: paesaggio, democrazia, innovazione

di ANDREA MANCIULLI

Riflessioni nel 150˚ dell’Unità d’Italia. Quando Riccardo Conti mi ha chiesto di fare questa relazione e di farla pensando al mio vecchio mestiere, quello di storico, più che a quello attuale di segretario di partito, ho pensato subito al fatto che dopo un po’ che non si fa un mestiere non è semplice tornare a farlo. Lì per lì non ero molto contento per la fatica che mi sarebbe costato, ma ora mi sento di ringraziarlo perché questo fine settimana è stata davvero una bella soddisfazione lavorare per preparare questo intervento. La riflessione che voglio fare parte da lontano. Volutamente. Il nostro paesaggio, quello per il quale siamo qui, è stato negli ultimi anni al centro di un dibattito talvolta anche spiacevole. L’immagine classica della Toscana, quella dei cipressi, delle campagne ordinate, dei centri storici, ha fatto della nostra regione una specie di “icona immutabile”, che nel mondo è finita per diventare uno stereotipo. Ma è la parola “immutabile” che proprio è sbagliata. Il paesaggio non è mai immutabile. Anzi, esso si può trasformare in maniera spontanea oppure può essere prodotto dalle mani dell’uomo, talvolta anche con metodi dirompenti e fortemente impattanti. E io voglio partire in questa mia riflessione proprio da questo secondo caso, il paesaggio trasformato dall’uomo, riscoprendo un vecchio libro, che oggi purtroppo non pubblicano più, di Emilio Sereni. E’ uno dei suoi libri migliori, una raccolta di saggi che lui scrisse durante il periodo della prigionia attorno al tema dell’agricoltura. In particolare mi preme analizzare qui il saggio che ha dato origine al titolo del volume “Terra nuova e buoi rossi”, un saggio molto bello, che, a mio avviso, meglio di altri, nella storia dell’agricoltura, spiega l’asprezza con la quale l’uomo ha cercato di dominare la natura, talvolta anche assoggettandola con metodi brutali di uso del suolo. La chiave sta nelle parole del titolo, “Terra nuova e buoi rossi”, che dette così possono suonare misteriose, ma che invece meglio di ogni altra cosa possono essere svelate nel loro significato

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più profondo da questa storia antica della Sila, che ora vi leggerò, con la quale comincia il saggio di Sereni. La storia narra il confronto tra un contadino e un mago a proposito delle sue terre infruttuose: “C’era ai tempi antichi un contadino di queste parti carico di figli e di miseria e di anno in anno i raccolti mandavano le cose di male in peggio finché il contadino disperato decise di rivolgersi al mago Salomone. Sentito il guaio dei raccolti sempre più cattivi Salomone subito rispose ‘Per te figlio mio ci vogliono terra nuova e buoi rossi’. Il contadino se tornò a casa e, raggranellati i suoi ultimi risparmi, seguì il consiglio di Salomone, non mancò anzi di andare persino in debito pur di comprarsi un pezzo di terra e un paio di buoi rossi. Ma che fu o che non fu, al momento del raccolto le cose andarono ancora peggio. Sicché il contadino più che mai disperato con pianto e con grida tornò da Salomone a fargli rimostranza per i suoi inetti consigli. Ma udite le rimostranze dal contadino, Salomone rispose che ‘Non è il mio consiglio che è inetto, sei tu che non l’hai seguito. Hai comprato una terra nuova che non è nuova perché come l’altra esausta da lunga coltura. Terra nuova è solo quella della foresta che mai alcuno diede ancora a raccolto di segale o grano e la tua terra esausta hai lavorata con buoi rossi che non sono rossi perché rosso è solo il fuoco, rossa è sola la sua fiamma. Va dunque nella foresta e là, di anno in anno, scegliti un pezzo di terra nuova da arare col fuoco e con la fiamma senza altro aratro, semina poi segale nella cenere degli alberi e il raccolto abbondante non ti mancherà’”. Questa storia è cruda, racconta di come è nato il debbio: la pratica agricola dell’incendio dei boschi per ottenere terra fertile. Fu un’usanza assai diffusa in tutta l’area del Mediterraneo, capace di cambiare il paesaggio per i secoli seguenti. Ciò che vediamo oggi e che a noi sembra così dolce e bello spesso fu frutto di questa violenta trasformazione voluta dall’uomo. Anche quella che era l’area boschiva della Val d’Orcia, tanti anni

fa è diventata il paesaggio che noi conosciamo oggi attraverso questa pratica. Quelle armoniche colline la cui vista accarezza i nostri occhi furono il prodotto della caparbia volontà dell’uomo di trasformare la natura in campi coltivabili o pascolabili. Questa storia ci fa capire come il paesaggio non esisterebbe senza la mano dell’uomo. Ciò che noi definiamo paesaggio in realtà non è che il risultato del confronto dell’uomo con la natura, una tensione nella quale l’uomo cerca di trasformare l’ambiente che lo circonda alla ricerca di una utilità necessaria alla sua sopravvivenza. Senza questo confronto ciò che noi definiamo paesaggio non esisterebbe ed è per questo che non esiste nessuna forma immutabile del paesaggio. Per questo anche la fase attuale di discussione sul paesaggio sarebbe infruttuosa se fosse fondata su un principio di conservazione assoluto delle forme dell’ambiente. Nella storia dell’uomo l’individuo è perennemente alla ricerca di scelte


necessarie per rendere più vivibile la società ed è questa tensione quando è guidata dalla cultura, dall’armonia e dall’utilità che trasforma positivamente il paesaggio. Così è stato nella nostra storia. E così, volendo riflettere sulla storia del paesaggio a 150 anni dalla nostra unità, mi pare utile fare una breve analisi storica sull’evoluzione del nostro paesaggio confrontandolo con l’evoluzione del paesaggio di un altro paese, la Francia, che ha conosciuto un processo di unificazione molto più precoce. In effetti questa analisi comparata ci fa capire quanto il nostro regionalismo tardivo abbia plasmato la varietà del nostro paesaggio. Ed è altrettanto chiaro quanto la precocità del potere assoluto francese abbia fortemente pesato nella maggiore unitarietà di quel territorio. Fare questa riflessione naturalmente rimanda a due personaggi che in anni non distanti fecero studi importantissimi su questi aspetti che hanno marcato la storiografia sul paesaggio. Si tratta di Emilio Sereni e Marc Bloch. Emilio Sereni e Marc Bloch avevano molti tratti comuni. Non furono soltanto degli storici, furono due resistenti al nazifascismo e due simpatizzanti di una stessa cultura politica, quella della sinistra europea, in quella particolare fase storica. Dopo aver messo da parte gli studi, entrambi militarono nella Resistenza e questa loro scelta gli costò cara. Marc Bloch pagò questa

sua scelta coraggiosa con la vita e venne fucilato a Lione nel ’44. Emilio Sereni riuscì invece a superare la guerra da resistente dopo anni di prigionia. Ebbe un futuro politico divenendo ministro e senatore di un grande partito come il Pci. Entrambi ebbero l’idea che per studiare il divenire del proprio paese fosse necessario studiare la storia e la trasformazione del paesaggio. Mettendo accanto le loro due opere oggi noi possiamo trovare una chiave per costruire il futuro dell’ambiente che ci circonda. Marc Bloch è lo storico che in Francia ha fotografato l’evolversi dello stato nazionale attraverso la trasformazione delle forme dei campi coltivati, delle proprietà agricole, mostrando come la mano dell’uomo trasformò uno stato feudale in una monarchia nazionale. Chiunque oggi vada in Francia, se si mette a osservare il paesaggio agrario, grossomodo ritrova i lineamenti di quella classificazione in tre macro-modelli che Bloch propone nel suo bellissimo libro sulla storia del paesaggio francese. La Francia è fatta prima di tutto di una zona di campi allungati, come quelli che si trovano nella Beauce, nel Nord, nella Piccardia, e nelle grandi pianure centrali. Questa parte del territorio francese è il frutto di un potere monarchico che si è costituito presto, fondato come regime di governo sulla signoria feudale, sulla cultura intensiva, sulla rotazione triennale, sull’alternanza di pascolo e coltivazione. In queste zone lo spazio feudale fu inglobato dal potere assoluto, che lo utilizzò come granaio per le esigenze dello stato, rendendo i campi allungati e capaci di grandi quantità produttive. La parcellizzazione della proprietà diffusa subì la trasformazione impostagli dagli aratri delle grandi proprietà feudali. C’è poi una parte della Francia che ha conservato i caratteri comuni al mondo celtico, fondata prevalentemente sul pascolo e la pastorizia, e sui campi la cui limitazione è determinata più dalle esigenze delle mandrie che dalla produttività agricola. E’ una zona dove la recinzione, quella che gli inglesi definirebbero enclosure, spesso fatta di muri a secco o canalizzazioni, è il tratto comune. Questa zona va dalla Bretagna al massiccio centrale, ad alcune zone prealpine. Il suo andamento bucolico e pastorale nel quale lo spazio per l’agricoltura è minore, le foreste sono più abbondanti e il pascolo fa da grande protagonista. Per ultima in Francia c’è la zona meridionale,

quella di più chiara impronta latina, dove la vite e l’olivo furono portati dai romani e la proprietà originariamente si strutturò in forma più parcellizzata. E’ una parte, questa, molto più simile al nostro paesaggio, dove, come da noi, si sviluppò una coltura promiscua e un paesaggio vario e accattivante. Ma questa parte della Francia subì, con l’avvento dell’assolutismo e il suo consolidamento, una trasformazione “violenta” del suo regime proprietario, passando dalla parcellizzazione a proprietà più grandi e una conseguente modifica del paesaggio verso forme più allungate ed estensive. Questa parte della Francia porta in sé i segni dell’impatto del potere dello stato sul paesaggio. Ed anche oggi, agli occhi attuali, non potrà sfuggire come, pur in presenza della vite e dell’olivo, sia differente l’andamento degli appezzamenti e delle colture. In definitiva, sul territorio francese, l’avvento dello Stato fu portatore anche di una trasformazione del paesaggio. E il carattere precoce del consolidamento di questa forma di potere monarchico dette a quel paese una maggiore omogeneità paesaggistica che anche oggi è appezzabile. Nel volume di Sereni c’è la storia del paesaggio italiano, nel quale l’impronta del regionalismo e delle divisioni statali si percepisce pienamente. Infatti siamo di fronte a più di venti modelli di territorio, gli uni diversi dagli altri e caratterizzati quasi tutti da regimi proprietari, sistemi di colture e forme paesaggistiche molto differenti. Non possiamo dilungarci ed analizzarli tutti. Ci è sufficiente concentrarci sul nostro modello, quello toscano, che è senza dubbio, uno dei modelli più vari ed emblematici della storia paesaggistica del territorio italiano. Esso è il frutto di una forte azione dell’uomo, capace nei secoli di piegare le aree boschive e l’incolto ad una forma paesaggistica fra le più armoniche al mondo, nella quale la mano dell’uomo si percepisce con nettezza. Fu così che nei secoli, come già detto, i boschi della Val d’Orcia divennero colline di pascolo. Fu così che la pianta sacra del cipresso circondò le aree urbane e i luoghi di culto e di sepoltura. Fu così che si formò quel territorio che assomiglia ad una coperta multicolore, nella quale gli appezzamenti di piante di olivo, di vite e di cereali sono come i riquadri di tessuto. Ma senza la coltura promiscua e la proprietà parcellizzata, senza la mezzadria, questo effetto armonico non esisterebbe ed è quindi chiaro che questa armonia, senza la

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< mano e la volontà trasformatrice dell’uomo,

oggi non la potremmo ammirare. E se si vuole essere onesti, si deve anche dire che la trasformazione dell’uomo su questo territorio è stata spesso imposta con una certa asprezza, con il debbio di cui parla Sereni, con l’imposizione di colture non necessariamente naturali, quali ad esempio la vite, con ampie opere di disboscamento e di contrasto all’avanzare dell’incolto. Talvolta anche con grandi opere democratiche del potere granducale, basti pensare alle due grandi bonifiche. Esistono molti commentari medioevali che descrivono l’insalubrità pericolosa della Maremma nel medioevo e nella prima epoca moderna. La Maremma fertile che conosciamo oggi è stata strappata agli acquitrini dalla capacità dell’uomo, talvolta anche contro la volontà conservativa delle popolazioni che l’hanno vissuta. La nascita di un certo conservatorismo rispetto all’impatto dell’uomo sul paesaggio e sulla natura è un fenomeno recente. In gran parte della storia dell’umanità, la volontà di strappare, con la tecnica e la conoscenza, uno spazio di vita migliore alla natura ha rappresentato la bussola della parte emergente della popolazione. Un po’ come il mito di Prometeo, l’anelito dell’uomo di strappare la tecnica agli dei per migliorare la propria esistenza. E se si dovesse immaginare una storia della cultura progressista, ce la dovremmo immaginare, così come successo nella Rivoluzione francese, come lo spazio di chi usa la tecnica e la trasformazione per vincere l’assolutismo della terra posseduta per diritto divino. Solo recentemente nasce il con-

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servatorismo che teorizza la necessità di rendere immutabile una parte del territorio e nasce nelle fila di chi ha già ottenuto uno spazio per sé nella società. E’ un atteggiamento che, se si vuole, nasce con la rivoluzione industriale, prima che nel paesaggio, rispetto alle macchine. Si arriva a teorizzare che il bene acquisito non vada messo in gioco. Questa è una tensione nella quale ancora oggi viviamo: da una parte l’esigenza di creare un nuovo spazio nella società e dall’altro il rimando di chi non vuole perdere le proprie prerogative, che si tratti di un pezzo di paesaggio o di una conquista sociale. In realtà, la bellezza del paesaggio è il frutto di una continua trasformazione e di un continuo confronto fra uomo e natura. Quando sono la cultura e l’utile necessità a guidare la mano dell’uomo il paesaggio non si peggiora, ma si modifica in meglio. E se nel medioevo i contadini di allora, alla ricerca di una loro migliore qualità di vita, non si fossero dedicati all’impianto delle viti e al disboscamento propedeutico alle colture e alla pastorizia, oggi non avremmo quella Toscana che qualcuno pensa di difendere mettendola in una campana di vetro. Per difendere il paesaggio bisogna avere l’ambizione di modificarlo in meglio e di accettare questo confronto. Io vorrei che tutto questo contribuisse ad aprire una riflessione nel centrosinistra attuale, fra chi teorizza la conservazione del paesaggio e chi invece pensa che sia necessaria una forte azione di modernizzazione e trasformazione del nostro Paese. Anche perché questo dibattito è quasi tutto nel nostro campo e se noi non fossimo capaci di

affrontarlo finirebbe per rendere meno credibile la nostra offerta politica. Io in questo dibattito mi schiero dalla parte di chi pensa che la mano dell’uomo sia necessaria e fondamentale per il futuro e il progresso della società. Oggi molte delle città più belle in Europa, penso alla mia cara Parigi in primo luogo, ma anche ad altre importanti realtà, hanno saputo migliorarsi sfruttando l’innovazione e la ricerca nella contemporaneità e producendo nuova bellezza. E non può essere un caso se quelle città sono le più vive e ricche, quelle che ospitano più arte e una trasformazione dei luoghi pubblici e dello spazio più moderna. La ristrutturazione dei Docks di Londra, alcuni nuovi quartieri di Barcellona e di Berlino saranno paesaggi apprezzati da chi verrà dopo di noi. E se non ci fosse stato chi voleva innovare nessuno li avrebbe mai visti. Ed anche scrivendo questo intervento mi sono potuto accorgere, nel mio piccolo, di quanto produrre modernità modifichi il paesaggio e insieme la vita delle persone. La nuova grande biblioteca “François Mitterrand” di Parigi è una bellissima opera architettonica, ma è anche un nuovo spazio di uguaglianza e libertà, perché, a differenza di tante biblioteche italiane, è stata interamente indicizzata attraverso le nuove tecnologie, grazie alle quali un libro si può leggere da casa così come ho fatto io in questo fine settimana andando a cercare alcuni saggi di Marc Bloch che non sono pubblicati nel nostro paese. In quell’opera urbanistica che ha cambiato il paesaggio non c’era quindi soltanto la volontà di modificare lo spazio, ma anche quella di incidere sulla vita delle persone modificandone in meglio la qualità. E non si può negare che un giovane che possa leggere da casa i libri di una delle biblioteche più grandi del mondo sia infinitamente più avvantaggiato di chi non lo può fare. Così come un tempo chi aveva accanto a casa campi frutto della coltura promiscua viveva meglio di chi aveva accanto a sé incolto e boschi. In Europa si va con l’alta velocità in due ore da Parigi a Londra, in tre e mezzo da Parigi e Berlino, mentre noi siamo ancora qui ad attendere che sia completata la prima linea di alta velocità in cantiere da decenni. Mi domando se il nostro partito non debba, riflettendo su questo, trovare anche una spinta di coraggio a schierarsi perché le cose vadano avanti. Perché alla fine solo i fatti cambiano la vita delle persone.


LONTANO di MAURIZIO IZZO

Uno sguardo lontano. La prima volta che sono stato a Johannesburg, una ventina di anni fa, Soweto, il ghetto che fu al centro della rivolta antiapartheid, era già a tutti gli effetti una parte della città. Un po’ di mattoni avevano sostituito le lamiere, qualche baracca aveva una finestra, un elementare sistema di strade interne garantiva la circolazione, ma soprattutto la città si era arresa alla presenza di questo disordinato sistema di baracche e lo aveva in qualche modo inglobato. Poco più in là però nuove baracche disegnavano un orizzonte senza fine, chilometri di vite ammassate, una processione continua che portava migliaia di persone ogni giorno a riversarsi verso la metropoli alla ricerca di un’esistenza basata sugli scarti di chi è arrivato prima. Quando, per la prima volta, le autorità locali decisero di intervenire per fronteggiare questa migrazione, lo fecero partendo proprio dagli ultimi arrivati, anzi da quelli che stavano arrivando, riconoscendo così l’assoluta impossibilità di operare in alcun modo per gestire quello che era successo negli anni precedenti. Così, una decina di anni dopo la mia prima visita, la periferia di Johannesburg mostrava un insolito paesaggio fatto da collinette artificiali, su cui geometricamente erano state disseminate piazzole composte da una cannella e uno scarico. Quello era l’embrione su cui potevano nascere i nuovi insediamenti, l’acqua e le fogne rappresentavano

infatti la primaria soluzione per accogliere i nuovi migranti. Per difendere questi insediamenti ed evitare che fossero presi d’assalto le autorità avevano dispiegato l’esercito. Le armi a difendere le fogne. L’Africa in questi anni è cresciuta soprattutto così, a ridosso della grandi città moltiplicando orizzontalmente gli spazi. Un fenomeno nuovo, senza precedenti, a cui non sembra le classi dirigenti africane siano in grado di offrire soluzioni. Anzi, la città africana divora quotidianamente la popolazione rurale senza un piano di sviluppo industriale, senza strategie per l’impiego e l’integrazione sociale. Crescendo la città chiede invece di offrire. Chiede un apporto crescente di derrate alimentari a campagne che sono sempre meno capaci di produrne. La periferia della megalopoli africana è destinata a diventare nei prossimi anni il grande bambino affamato del pianeta, con gli occhi ingordi e la voce piangente sempre rivolti agli aiuti umanitari di un Nord del mondo in stato di costante e strutturale sovrappiù. La sfida del prossimo futuro, per l’equilibrio produttivo e ambientale africano - e direi per le stesse condizioni di vivibilità di un continente che cambia la sua geografia umana a velocità altrove sconosciute -, è ridisegnare dalle fondamenta l’architettura sociale, economica, politica della relazione fra mondo urbano e mondo rurale.

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Numero UNO - FEBBRAIO 2011

Organo dell’Associazione Romano Viviani, periodico quadrimestrale. Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5671 del 13 agosto 2008. Associazione Romano Viviani via Cavour, 38 - 50129 Firenze www.associazioneviviani.org Direttore editoriale: Riccardo Conti Direttore responsabile: Pippo Russo Tipografia: Nuova Grafica Fiorentina, Firenze Foto: WIkimedia Commons, Stock.xchng, pixelio.de Grafica, editing, impaginazione: Edizioni SICREA via Maragliano, 31A - 50144 Firenze tel. 055 321841 - fax 055 3215216 www.sicrea.eu


n. 1 - febbraio 2011

Organo dell’Associazione Romano Viviani - periodico quadrimestrale

Il ritorno alla (buona) urbanistica a cura di LEONARDO RIGNANESE

TESTI DI

Chiara Agnoletti, Felicia Bottino, Riccardo Conti, Campos venuti, ROMANO VIVIANI


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