La Sacradi San Michele

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La Sacra di San Michele

... è uno tra i più grandi complessi architettonici religiosi di epoca romanica, e dal 1994 è Monumento simbolo della Regione Piemonte. E’ costruita sopra ed attorno alla cima di un monte roccioso, il Pirchiriano, a quasi mille metri di altezza, e ciò spiega il motivo per cui il poeta rosminiano Clemente Rebora la definiva “Culmine vertiginosamente santo”. La costruzione è sicuramente un’opera di ardimento e di intelligenza, ma condivido pienamente il pensiero di Rebora che dice “E’ soprattutto certezza ardimentosa di fede, espressa in pietre, in continua ascensione alla celeste patria.” Penso che la fede sia stata la molla che spinse gli audaci costruttori di questo “Santuario di incomparabile elevazione intima” (Rebora) E il culto di San Michele Arcangelo? Già molto prima dell’anno mille, i pellegrini potevano ammirare una piccola cappella dedicata al culto dell’Arcangelo, fiero combattente contro il male, e per secoli si sono arrampicati sulla nuda roccia per invocare al santo patrono luce e protezione. Non sappiamo se, verso l’anno mille quando le prime cappelline furono sormontate dalla grande chiesa, fosse presente una statua di San Michele. Ma, se anche ci fosse stata, nei duecento anni di abbandono (1622 – 1836), è pensabile che sia stata trafugata, come tante altre cose. Era necessario allora provvedere. Ci hanno pensato la Regione Piemonte, le Soprintendenze, il Comitato sacrense ed in particolare il mio predecessore padre Antonio Salvatori. E’ stato quindi bandito un concorso, a cui hanno partecipato ben 37 artisti di fama nazionale. Il vincitore, Paul Dë Doss Moroder ci ha pregiati di una stupenda statua in bronzo alta oltre 5 metri, ricca di simbolismi e ben incastonata nella roccia, che accoglie i pellegrini prima di entrare nel complesso abbaziale. E’ così ben collocata che sembra quasi sia coeva al monumento stesso, ma per ammirarla e per rendersene conto occorre venire a vederla di persona. Allora: buon pellegrinaggio!

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Il Rettore

sac. Giuseppe Bagattini

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Inaugurazione della statua di S. Michele sul Pirchiriano

L‘Arcangelo Michele è tornato ad abitare il Pirchiriano, il monte che più di mille anni or sono aveva scelto come sua dimora. «E tu, o arcangelo, mio principe glorioso, non disdegnare di assistere me, tuo umilissimo servo, che desidero rendere noto le tue imprese miracolose [...]; tu che hai scelto questo luogo come tua sede con pia e clemente considerazione», così scriveva poco dopo la metà del secolo XI il monaco autore della Cronaca dell‘abbazia della Chiusa, chiedendo la protezione e l‘aiuto dell‘arcangelo per comporre la sua opera (Chronica Monasterii Sancti Michaelis Clusini, a cura di G. SCHWARTZ ed E. ABEGG, in MGH, Scriptores, XXX, Lipsiae 1929, p.959). Il racconto prodigioso della scelta del Pirchiriano, sul quale l‘arcangelo voleva abitare, aveva, per il monaco cronista, lo scopo di rendere sacro il luogo dove Ugo d‘Alvernia, qualche decennio prima dell‘anno Mille, avrebbe fondato l‘abbazia. Ora – suggerisce il cronista –, dopo la scelta fatta dall‘arcangelo Michele, il Pirchiriano, il monte che i monaci designarono come il luogo dove arde e splende tutt‘intorno «il fuoco del Signore», è un monte particolarmente sacro all‘arcangelo, pari a Monte Sant‘ Angelo sul Gargano e a Mont-Saint-Michel in Normandia; è il luogo della sua presenza e dei suoi prodigi, sulla cui cima l‘arcangelo da tempo aveva progettato di costruire un monastero a lui dedicato. Una sorta di «fondazione divina», quella fatta dall‘arcangelo, precedente l‘istituzione dell‘abbazia ad opera di Ugo d‘Alverna, precedente l‘opera stessa dell‘uomo. Pertanto, l‘abbazia fu voluta e fondata dall‘arcangelo; soltanto in un secondo momento intervenne la mano dell‘uomo, intervenne cioè il vero fondatore dell‘abbazia, Ugo d‘Alvernia, che forse senza rendersene conto interpretò e attuò su quel monte la volontà dell‘arcangelo Michele. Il prologo, scritto dal monaco cronista per dar inizio alla sua opera riguardante i primi decenni di vita dell‘abbazia, non è altro che un breve trattato di teologia sulle imprese miracolose dell‘arcangelo Michele, il «principe glorioso, che possiedi come qualità propria e per così dire singolare quella di tenere testa ai superbi per volere del tuo Signore, come è tramandato dal tuo nome»; sono sempre parole del monaco cronista che nel suo scritto si rifà alla tradizione biblica. Una teologia, quindi, attinta dalla Sacra Scrittura, dell‘Antico e Nuovo Testamento, e tramandata per secoli nei trattati di teologia, che rifletteva il culto vivo e mobilissimo attribuito dagli uomini del medioevo all‘arcangelo, l‘angelo della luce che splende sul monte, la fiamma ardente che sconfigge le tenebre del male, il difensore del popolo cristiano in cammino verso la Gerusalemme celeste. Anche la statua dell‘arcangelo Michele, che oggi si inaugura sul monte Pirchiriano, è senza dubbio un riflesso di questa teologia. L‘arte cristiana è infatti – e lo è stata per molti secoli – il riflesso del dibattito teologico in continua trasformazione, così da tradurre in immagini vive i misteri della fede, riscaldare il cuore dei fedeli e invitarli alla conversione della vita. È la via della fede come bellezza, la «via pulchritudinis», additata da Paolo VI nel 1975 ai partecipanti al Congresso mariologico internazionale come un modo adeguato per presentare la Vergine Maria al popolo cristiano; una via accessibile a tutti, accanto alla via dei dotti, la via della speculazione biblica, storica e teologica, riservata a poche persone. Sono note le tre funzioni delle immagini sacre: ricordare, commuovere e insegnare, basate sul principio che il figlio di Dio, nato da una donna, Maria, è l‘epifania, è la manifestazione del volto nascosto di Dio. A partire da questa considerazione, del Cristo fatto uomo, la bellezza

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dell‘arte cristiana non può essere considerata solamente un dato oggettivo, che vede il bello come armonia, perfezione, compiutezza, ma anche come una storia trasfigurata e interpretata liricamente dall‘artista, un‘espressione simbolica del pensiero e della vita cristiana. Miricea Eliade, storico delle religioni, in Immagini e simboli, Saggi sul simbolismo magico-religioso, un libro prezioso edito da Jaca Book a Milano nel 1981, scriveva: «Il pensiero simbolico non è di dominio esclusivo del bambino, del poeta o dello squilibrato, esso è connaturale all‘essere umano: precede il linguaggio e il ragionamento discorsivo. Il simbolo rivela determinanti aspetti della realtà, gli aspetti più profondi, che sfuggono a qualsiasi altro mezzo di conoscenza» (p. 16.). Esprime perciò una conoscenza intuitiva ed emozionale, una esperienza interiore e profonda, di fatti e realtà non raggiungibili con la sola ragione. Artista è colui che contempla la verità con le vibrazioni del cuore e del sentimento, colui che di fronte alla realtà ne intuisce i valori da tradurre in immagini ed espressioni artistiche. Nell‘autentica opera d‘arte nasce ed esplode un linguaggio mai parlato prima, offre l‘occasione per spezzare visioni e criteri precostituiti e imporsi nella sua radicale novità. Cantate a Dio con l‘arte, celebrano i Salmi. Anche oggi esistono tendenze che cercano di recuperare l‘arte cristiana quale fonte di intense emozioni di fede e di spiritualità. Lo fanno attingendo al ricco patrimonio storico, artistico e iconografico della chiesa

e dei grandi maestri, che hanno espresso e continuano ad esprimere anche oggi il mistero della presenza di Dio nel mondo attraverso l‘arte... e che arte! Senza timore di restare delusi, possiamo porre in questo contesto teologico anche la statua dell‘arcangelo Michele che oggi inauguriamo ai piedi dell‘abbazia sul Pirchiriano, opera, una bella opera a mio parere, di Paul dë Doss-Moroder, che sottintende una teologia per molti aspetti nuova ed inedita: la simbologia di un arcangelo di pace, la pace di cui il nostro mondo ha bisogno. L‘arcangelo non vi è infatti raffigurato nella forma trdizionale di un angelo armato

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di spada che sconfigge l‘antico serpente (Gen. 3, 1), il drago dell‘apocalisse (Ap 12, 3-9), o che nelle forme di un angelo giustiziere pesa con la bilancia il bene e il male di chi si presenta alle porte del Paradiso; bensì nelle forme di un angelo della pace, rivestito di un abito simile a quello dei monaci, che dopo aver sconfitto il male, rappresentato dalle ali del principe dei demoni Lc 11, 14) abbandonate senza vita ai piedi della roccia su cui sorge l‘abbazia, depone e getta a terra la spada con la mano destra, mentre il volto e la mano sinistra si aprono a un gesto di pace e di accoglienza, il gesto di pace di chi accoglie il pellegrino che visita la Sacra. È senza dubbio questa una nuova e originale interpretazione dell‘arcangelo Michele, di cui lo stesso autore dell‘opera è consapevole. L‘opera, ha scritto Paul dë Doss-Moroder presentando a suo tempo il bozzetto, «si compone di due parti: in una san Michele arcangelo che sta sulla roccia viva, la stessa su cui è eretta l‘abbazia, vincitore del Bene per la Pace e Portatore della parola di Dio; nell‘altra le ali dell‘Angelo del Male, sconfitto, sprofondano nelle tenebre ai piedi della roccia sporgente. L‘arcangelo è anche custode del Regno di Dio che simbolicamente si apre nella parete alle spalle della scultura». Ma vi è ancora un particolare da notare, che l‘autore ha forse inteso significare: le due ali dell‘arcangelo, una delle quali si apre verso il cielo, mentre l‘altra è rivolta verso la terra, come se il cielo e la terra si unissero in un grande arcobaleno di pace, che le antiche scritture chiamano «arco di Dio», segno dell‘alleanza di Dio con l‘umanità (Gen 9, 12-16), splendore della gloria di Dio sulla terra (Sir 43, 11-12). Segno, in altre parole, di pace fra il cielo e la terra, nel senso della parola

ebraica „shalôm“, parola che proviene da una radice che dice compimento, perfezione, pienezza di pace, e che designa ciò che il credente può sognare di meglio e il meglio che il credente può desiderare per gli altri (lv 26, 3-13). Yahvé soltanto possiede la pace, dice la Bibbia, e la augura a quanti lo servono, a tutti noi qui presenti e ai pellegrini che verranno a visitare la Sacra.

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Giampietro Casiraghi

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LA FUSIONE A CERA PERSA Descritta per la prima volta da Benvenuto Cellini nella “Vita” da lui redatta nel 1558, la fusione a cera persa, mantiene in massima parte le caratteristiche di procedimento che il manierista fiorentino appuntava nella sua opera. Ecco in sintesi le fasi fondamentali. Inizialmente l’artista plasma la scultura in plastilina, creta, gesso, legno o in altri materiali, scegliendo quello a lui più congeniale.

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Dalla scultura suddetta si ottiene successivamente un negativo in gelatina o gesso sul quale viene versata la cera di uno spessore di 4/5 mm. Tolto il negativo, resta in cera il positivo. Accade sovente che ci siano delle sbavature, soprattutto nei punti in cui il lavoro è più sottile o dove si congiungono i diversi pezzi che lo compongono e allora si ovvia con dei ferri caldi. A questo punto si appongono dei chiodi in ferro, la cui dimensione varia a seconda della grandezza dei progetti e che collegano “l’anima-interno” con la copertura in terra refrattaria. Di cera o canna, cioè di materiali distruttibili, sono i canali di distribuzione del metallo - “gli sfoghi”- che vengono poi applicati, mentre altri canali vengono apposti nella parte superiore del lavoro, affinché possano fuoriuscire i gas di scarico quando si versa il liquido di fusione.

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Tutto viene ricoperto con terra refrattaria il cui spessore varia tra i 7 e i 30 cm. Ora occorrono dai cinque ai sette giorni di essicazione nei forni che hanno una temperatura di 900-920 gradi. Quando le forme saranno perfettamente essicate si lasciano raffreddare per altri due o tre giorni, si tolgono dai forni per essere cinte di terra refrattaria affinchè non ci siano spaccature. Nel frattempo il bronzo, la cui effettiva composizione è data da 85% di rame, 5% stagno, 5% di zinco e 5% di piombo, è posto a fondere negli appositi crogioli ad una temperatura di 1200 gradi, per essere poi versato nell’imbuto preparato precedentemente. Altri due giorni di raffreddamento e si possono aprire le forme, mentre tutti i canali trasformati in bronzo verranno poi tolti con apposite cesoie. Il lavoro di cesellatura spetta ora a lime e a bulini e si conclude con la patinatura ottenuta con acidi e calore.

L’opera bronzea di Paul dë Doss Moroder è stata realizzata partendo da una prima struttura composta da ferro, rete e creta per un peso di 3600 kg complessivi ed è stata poi fusa in tre parti distinte: la parte centrale dell’angelo, la spada e le ali del Diavolo. 12

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l’Arcangelo Michele “Quis ut Deus”-“Chi come Dio”, ovvero, chi mai oserebbe avere l’ardita presunzione di commisurarsi con Dio? Nel significato etimologico del suo nome, l’Arcangelo Michele, atterrisce ed esorta gli uomini a rifuggire l’orgoglio e la corruzione, a resistere al male e a sottomersi invece all’autorità dell’amore divino. Michele infatti, riflette la forza e la potenza di Dio, ne è il capo delle milizie, colui che combatte il Diavolo e vince la battaglia escatologica; è depositario delle chiavi del Paradiso e come tutte le schiere angeliche, svolge anche la funzione di psicopompo, mentre quando è musicante suona strumenti a corda come il liuto. Come Giosué del Vecchio Testamento, Michele è battagliero e bellicoso ma per celeste e soprannaturale necessità, poiché entrambi sono figure emblematiche di pace. L’opera bronzea di Paul Moroder Doss nell’abbazia di Sacra San Michele a S.Ambrogio, nei pressi di Torino, ribadisce dell’angelo“ gran principe” ( Daniele, 12,1)

proprio quest’ultimo aspetto. Lo fa aggiungendo note iconografiche nuove come le ali del “Dragone o Antico Serpente”, come Satana viene chiamato nell’Apocalisse (12,7 –8) conficcate nella roccia davanti all’elegante e poderosa statua di Michele. L’artista non licenzia alcuna cessione retorica o favolistica dell’immagine consueta 16

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del Diavolo, anzi, lo rimuove facendolo fisicamente inabissare nel magma della terra, e lasciando di lui iniquo e malvagio, soltanto quel particolare di probità che prima della sua rivolta, lo annoverava tra gli angeli di Dio. E’ un’invenzione grandiosa nell’esegesi formale e nella sigla stilistica, la possente e superba figura di Michele Arcangelo, che quasi senza sforzo, ha battagliato e sconfitto Satana, e parimenti è grande nelle dimensioni, con i suoi 5,20 m di altezza e 3400 kg di peso. Della dura “pugna” un altro oggetto dà testimonianza, è la spada, non più ostentata e brandita nella mano dell’angelo, ma da lui staccata, infilzata anch’essa nella roccia, come se, una volta assolto il compito di morte, si potesse finalmente operare l’auspicio di Isaia ( Isaia, 2,4) quando dice, “ e trasformeranno le loro spade in falci”, in strumenti cioè di lavoro e di vita. Le ali di Satana, la spada e le ali dell’Arcangelo sono disposte secondo linee oblique e parallele e segnano non soltanto una maniera compositiva d’effetto, ma anche un legame eloquente di senso e di coerenza spaziale. Con maestria poi, l’artista permea l’imponderabile sostanza corporea dell’angelo, l’adombra di un accenno di solennità e di un’aurea di semplicità antica; scalfisce la superficie bronzea con segni che paiono trascuratezza tecnica, ma che invece costituiscono un abile espediente per ghermire la luce, rinvigorirne il passo o la sosta nell’ombra e garantire così una pulsante vibrazione plastica all’intera opera. Un’altra licenza alla tradizione, lo scultore Moroder l’opera nelle vesti dell’Arcangelo: il costume non ricalca l’abbigliamento di corte bizantino, con cui è stato musivamente effigiato in una delle sue più antiche raffigurazioni ( Palermo, Cappella Palatina, XII secolo), né indossa lorica e calzari, alla maniera militare romana, secondo il racconto della “Legenda Aurea” di Jacopo da Varagine (XIII sec.) che ha costituito il modello filologico a cui si sono rifatti molti artisti, soprattutto in epoca rinascimentale o barocca. E’ un inusuale ed austero abito monacale, severo nella foggia che si fa subito morbida e sinuosa nelle cadenze del panneggio che la ornano e la semplificano. La sede che accoglie la statua è un’abbazia che dalle origini fino al 1622 è stata benedettina e questo, dunque, ha giustificato la scelta dell’originale indumento. Ma non tragga in inganno l’abito sulla natura teologicamente “focosa” di Michele: Dionigi l’Areopagita ( V secolo) affermava che le diverse qualità delle pietre preziose, menzionate in Ezechiele (28, 13) quali ornamenti di Tiro e riferite alle “sostanze angeliche”, vogliono designare simbolicamente altrettanti aspetti della natura angelica. La gemma dell’ Arcangelo Michele – così come degli altri suoi “compagni”, Gabriele, Raffaele e Uriele – è il carbonchio e il suo color rosso vivo indica il fuoco. E il fuoco ha qualità benevoli, può scaldare e illuminare, ma anche qualità malevoli, può bruciare e distruggere. 18

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E’ calore d’amore o ardore d’ira al contempo, e l’Arcangelo incarna entrambi questi tratti. D’aria ignea sono i corpi angelici, perché permeati di Spirito Santo e ancor di più lo è Michele, secondo la classificazione di Marsilio Ficino (sec. XV ) che designava Principati, Arcangeli e Angeli quale gerarchia proprio dello Spirito Santo, mentre Dominazioni, Virtù e Potenze del Figlio e Serafini, Cherubini e Troni del Padre. Moroder però, preferisce accomodare la sua invenzione sull’immagine di un Michele del dopo-battaglia: dopo aver incatenato il Dragone per mille anni, dopo averlo gettato nell’Abisso, dopo aver rinchiuso e sigillato la porta sopra di lui, perché non seduca più le nazioni fino al compimento dei mille anni, cioè per sempre. Tolto di mezzo il Male, non resta che la pace. Visione certamente utopistica, ma seducente nella sua bellezza di redenzione e che l’uguale bellezza fisica dell’Arcangelo promette: il volto delicato, quasi evanescente nei contorni

fisiognomici, le mani aggraziate ed eteree, le braccia agili nell’accoglienza e il corpo proteso ed esile che il guizzo alare contiene e sublima. Danila Serafini 22

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Sacra di San Michele - PP. Rosminiani Tel. 011-939130 Fax 011-939706 info@sacradisanmichele.com www.sacradisanmichele.com Fonderia Artistica Fabris & Folla Dossobuono di Verona Tel. 045 8600080

testi Dott. Danila Serafini

graphic www.storkdesign.it

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artista Paul dë Doss

photo Egon Dejori © 2006, Paul dë Doss,

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