Sommario
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Napoli fuori legge e fuori dalla storia
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Morire di Napoli
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Pulcinella non abita più qui
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Le rose di maggio
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Nathalie, Napoli, Nathalie
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Un libro come grano in un campo di gramigna
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Un Museo per ripartire, un luogo nuovo per vivere ancora di Napoli
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Suicidio doppio e perimetri di parole dei figli del tempo
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La città come speranza per l’architettura e l’architettura come speranza per l’urbanistica
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Perché Napoli
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L’architetto e la città: progettare l’utopia
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Una città da cui non si può fuggire
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La casa ed il cosmo. La casa Kaplan
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Uscire dalla prigione perfetta e conquistare spazi di libertà per gli altri ma anche per sé
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Un quartiere si fa città per vincere la malinconia civile
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Entriamo in città
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Un Pianoforte si fa città
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Morire per vivere
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Partenze rallentate
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Inchiesta sulla scomparsa di Bassolino
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Il ritorno del Principe nelle sue scuderie di Palazzo Sansevero: una rigenerazione urbana
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Caggiano, la città dei numeri sette e l’enigma di Napoli al quadrato
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La lezione su Napoli 1
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NAPOLI FUORI LEGGE E FUORI DALLA STORIA
Era partito, come tante altre volte, con la nave da Palermo verso Napoli, ed aveva dato appuntamento a suoi studenti di Architettura della sua classe di Urbanistica ed ad altri giovani di altre facoltà, per il giorno seguente a quello del suo arrivo. Loro dovevano partire in pullman e dopo un viaggio di 12-14 ore sarebbero arrivati a Napoli alle 9 del mattino. Era stata organizzata una visita-lezione di due giorni per parlare di Napoli e del futuro delle città. C’era in lui uno strano sentimento, questa volta il viaggio non sarebbe stato tranquillo, il suo amore per Napoli ed il suo rigore di studioso avrebbero impegnato la sua mente ed il suo cuore più del solito. Come descrivere con gli occhi della modernità il paradiso abitato dai diavoli di cui tutti parlano e che di recente, più intensamente di altre volte, era stato descritto dai media come un vero e proprio inferno abitativo? Per Napoli era stato un anno terrificante, un eccesso di comunicazione negativa aveva fatto massa critica dominante ed avversa in tutti i giornali del mondo; il sole illuminava un’altra Napoli. La Napoli civile, tollerante e sapiente, apparsa nel film L’oro di Napoli e quella orgogliosa e coraggiosa, raccontata, anche, da Erri De Luca nell’ultimo suo spettacolo su Le quattro giornate, era stata completamente cancellata, e sostituita con l’immagine di una città ormai incapace di risalire, abitata da un sociale impotente ed immobile, dove nemmeno un comportamento di legalità minima era estendibile a parti di città. Napoli viveva come Gomorra invece che come città bella, luogo invivibile, invece che parte della Campania felix. Da dove partire per le sue giornate di lezioni su Napoli città antica, moderna e contemporanea? 3
In effetti, l’ambizione era maggiore, scrivere un libro su Napoli e la città che verrà. L’urbanista che sentiva di essere e la città possibile dovevano emergere all’unisono, come speranza di progetto, analisi e ripartenza: la città di Napoli doveva essere vista come ricerca da proporre sempre, con una metodologia morale, capace di guardare oltre l’attuale stato di sfiducia, di incapacità di vivere la città. Avrebbe detto la verità fino in fondo ai suoi studenti o era più giusto adottare un metodo prudente, fatto di restrizioni mentali, per lasciare spazio a scenari più ottimistici? La condizione di Napoli forse impedirà una rapida risalita verso una condizione civile; e come dirlo in parole diverse, con ipotesi di ricerca verso traiettorie non ancora esplorate? La complessità ed il caos in cui è immersa l’intera area metropolitana napoletana allontanavano dalla sua mente la speranza di trovare accogliente la città possibile. C’era, poi, un’onda lunga fastidiosa ad accompagnare di poppa il viaggio della nave; l’annuncio di un mare in rialzo, non appena il vento avrebbe dato il suo contributo, questa volta a differenza di altre, lo aveva innervosito. Sentiva di non poter deludere i suoi ragazzi, doveva trovare la chiave per parlare della speranza dell’improbabile. Eppure il viaggio via mare era quello più amato, si pentì; aver assecondato la voglia di risparmio del suo dipartimento era stato un errore, quel viaggio per i suoi ragazzi non sarebbe stato il modo giusto per arrivare a Napoli. Da Est Napoli non è Napoli, o forse non lo è oggi. Per lui, come sempre, all’alba, Capri si sarebbe annunciata e gli avrebbe presentato il golfo come bacino di beni culturali ed ambientali di straordinaria armonia. Napoli sarebbe apparsa come sempre, Napoli città madre. Paradossalmente la luce del sole gli avrebbe nascosto ancora una volta quell’inferno urbano descritto e vissuto dai suoi stessi abitanti. Anche se i suoi studenti avrebbero attraversato paesaggi devastati prima di arrivare a Napoli, lui non avrebbe dovuto accettare l’idea di un ingresso a Napoli diverso dal mare. O forse era stata, questa, una casualità favorevole. Gli avrebbe consentito di parlare della propensione di massa a violare i principi 4
minimi di convivenza; avrebbe potuto illustrare con immediatezza quel lasciare campo alla criminalità nel controllo totale del territorio; questo allontanarsi delle istituzioni dalle politiche per la città sarebbe stata la chiave per spiegare i fatti: essi avrebbero incontrato, con gli occhi, lo sciame di non urbanistica, da Sorrento fino a Pozzuoli, per non parlare di quello che è accaduto intorno al Vesuvio. Tutto poteva evidenziare il monopolio dell’uso del suolo che dallo Stato si è trasferito a mille caporali con diritto di uccidere il territorio e gli uomini. Quale urbanistica raccontare? Come spiegare a loro che prima di parlare di urbanistica occorrerebbe spiegare che a Napoli, la società, lo Stato e la politica non vogliono riappropriarsi di quel paradiso abitato da diavoli, al massimo vogliono negoziare solo la loro sopravvivenza subordinata. Eppure sapeva che le sue sarebbero state lezioni appassionate, sapeva che quella continua opera di devastazione del territorio, quel controllo di spazi da condonare, quell’enorme spazio dato all’inciviltà, non gli avrebbero impedito di pensare ad una lezione ponte verso la speranza. Perché Napoli meritava una risposta chiara, una descrizione credibile sul perché vivere di Napoli e morire di Napoli; sapeva che la città che verrà sarà sia la città invisibile che quella visibile, ambedue hanno bisogno di nuove decodifiche, di svelare il potenziale evolutivo, fatto di nuovi incroci, di nuove partenze e di nuovi arrivi. Del resto la storia della sua famiglia ne era già rivelatrice. Suo padre da artista contemporaneo si era comportato sempre come angelo; con la sua voglia di vivere di Napoli, aveva ispirato tanti comportamenti ed ancora oggi ogni giorno si sentiva artista della città. E poi suo fratello e sua sorella, la loro capacità di far vivere i personaggi di Napoli e soprattutto il linguaggio popolare, il loro teatro delle marionette, con Pulcinella protagonista. Napoli alla sua famiglia era apparsa sempre la città delle opportunità, in alcuni periodi addirittura la città delle opportunità moltiplicate; Napoli è città della nuova Europa, dei 25 e poi ancora di più nazioni in unione, e allo stesso tempo, città del cosiddetto continente mediterraneo nuovamente al centro dei grandi traffici tra oriente ed 5
occidente. La città di Pulcinella era anche la città delle partenze e degli arrivi, merci e turismo in evoluzione continua. Il Porto, presentato nel libro Gomorra, era un pugno forte al volto della città angioina, alla sua voglia di sentirsi ogni tanto ancora capitale mercantile e culturale. Tornò con la mente al suo sentire giovanile, quando giovanissimo già approntava schizzi di architettura su Napoli, il suo vedere il futuro, era allora un futuro in discesa piuttosto che in salita; la realtà svelata dai media e analizzata da Saviano era una realtà dominante e lui non era mai stato consapevole fino in fondo di questa realtà soffocante che emergeva già allora. Questa altra città che vive e si sviluppa di più della Napoli raccontata dalla politica e dagli intellettuali, quanta divaricazione irrecuperabile avrebbe provocato rispetto alla città possibile? Doveva pensare al nuovo equilibrio da ritrovare, ai pensieri nuovi da raccontare, per la prima volta sentiva una tensione indescrivibile per quella conversazione programmata per i suoi studenti. Stava esagerando, quell’onda lunga lo agitava più del normale, il suo star sveglio era dovuto ad altro, al suo amore per quella città infernale; doveva prender sonno per risvegliarsi un’ora prima dell’arrivo, come sempre, non per le necessità del mattino ma per godersi ancora una volta il suo arrivo a Napoli e trovare le giuste emozioni, anche rischiando nuovi pensieri tristi. Il silenzio della luna illuminava il mare e la luna stessa, a quell’ora colorava d’argento il dove andare.
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MORIRE DI NAPOLI
Palazzo Sansevero lo vide uscire sul presto; si sarebbe incontrato con Giovanni Caggiano, sindaco di Caggiano, importante paese a Sud di Salerno. Nel territorio tra Caggiano e Pertosa, per una serie di circostanze storiche, vi erano state presenze importanti di fisici e matematici. Il sindaco gli chiedeva di rendere visibili alcuni documenti ed oggetti che svelavano tracce di soste del matematico Renato Caccioppoli nell’antico territorio Caggianese. Del resto, il fedele assistente Savino Coronato, l’assistente prete, era proprio di Pertosa, paese poco distante. Professore al Suor Orsola Benincasa di Turismo culturale, Giovanni Bilo, proponeva spesso ai suoi studenti lo studio del patrimonio culturale di Caggiano, non solo luogo d’origine della sua famiglia ma luogo di Bonito Oliva, il più apprezzato critico d’arte italiano, di Giovanni Abamonte, presidente dell’assemblea popolare della Rivoluzione del ’99, condannato a Napoli insieme a tanta altra intelligenza napoletana. La notizia era apparsa su «Il Venerdì» di Repubblica. Pierre Zweiaker, fisico dell’università di Losanna, aveva scavato tra le cronache ed aveva trovato 67 casi di ‘Morts pour la Science’ e li aveva raccolti in un libro pubblicato da Presses Polytechniques ed Universitaires Romandes, un libro di inchiesta e romanzo. Lo studioso di Losanna, dopo aver raccontato del matematico giapponese Yutuaka Taniyama (nato nel 1927) e delle sue notti insonni, passate tutte a risolvere problemi che chiedevano anni e secoli per la loro soluzione, insiste nel collegare quelle notti con quelle di Renato Caccioppoli. Per il fisico di Losanna, anche il tragico suicidio dell’8 maggio 7
1959 era da assimilare a quello del matematico giapponese (17 novembre 1958). L’ipotesi verosimile che la passione per l’algebra avesse divorato la mente del matematico Napoletano è stata sempre un’ipotesi concorrente a spiegare alcuni fatti relativi alla sua malinconia e alla sua sopraggiunta depressione. La sua discesa verso quello status vivendi e verso il baratro, apparentemente desiderato, era avvenuta prima, molto prima della sua dedizione all’alcol. Il bere non fu altro che una tossicodipendenza che tendeva a nasconderne un’altra. «La matematica, come altre scienze hard, è una disciplina implacabile, essa può avere effetti psicotici devastanti». Dai racconti delle tante persone che a Napoli e nella sua famiglia parlavano dell’accaduto, l’ipotesi dello studioso svizzero vive minoritaria accanto ad altre due: Morire per amore e Morire di Napoli. Le tesi che si contrappongono a quella di Zweiaker vivevano ambedue come enigma irrisolto. Lui, Gianni Bilo, le aveva ascoltate più volte e le enfasi diverse erano apparse in romanzi e sceneggiature diverse, rappresentazioni di una realtà napoletana sempre difficile da raccontare. Uscendo da Palazzo Sansevero, il prof. Bilo volle ripassare per l’ennesima volta da Via Cisterna dell’Olio, quasi a ripetere il percorso che il Matematico Napoletano aveva sicuramente fatto infinite volte. Si ricordò del libro di Piero Antonio Toma, il giornalista e scrittore che, nel suo libro L’enigma, cammina nella vita di Renato Caccioppoli e accarezza tutte le ipotesi possibili. Incontra le persone che lo hanno frequentato, incontrato, subito, amato, venerato, protetto, dimenticato, avversato, ridicolizzato, un tentativo di incontrare anch’egli il Matematico attraverso i personaggi, reali e fantastici che lo hanno conosciuto. Questo giornalista sapeva che scrivere un libro su Caccioppoli significava scrivere un libro su Napoli, ma egli, scrivendo, non vuole sciogliere il nodo ma vuole raccontare la vita di una persona che la gente comune chiamava ’O Genio. Il libro non è un elenco completo delle ragioni di una vita, e l’autore lo dice: «è stato angosciante tentare di ricostruire una vita, i comporta8
menti sprezzanti, la fede politica, la solitudine di un uomo e la grandezza di uno scienziato. Ogni giorno, la scoperta di un nuovo fatto, che mi faceva ricadere nell’Enigma. Alla fine ho dovuto dire basta». Rimangono i fatti: tre persone che lo frequentavano una dopo l’altra si sono uccise... Il racconto è lucido ed appassionato, pieno di emozioni e suggestioni, con atmosfere d’incanto, come quelle in cui è realistico il racconto tra il matematico napoletano e il personaggio che lo stesso matematico aveva in fotografia sul suo comodino: ‘Evaristo Galois’. Quest’ultimo era il matematico che, anche per la giovane età, non aveva ancora scritto niente, conservava tutto nella mente, teorie e calcolo. Avvenimenti imprevisti lo costrinsero a scrivere delle sue nuove teorie in sole due notti. La sfida a duello era l’evento sopravvenuto, esso non lasciava scampo; un testamento necessario era dovuto al mondo, la sua genialità appariva come bene pubblico puro, un testamento scientifico di valore apparve come restituzione necessaria. Il racconto di Toma si sofferma sulle notti del matematico napoletano, e della empatia latente con Galois. Le notti passate al piano, spesso sembravano un modo per far compagnia al gemello d’amore per l’algebra. Quelle notti immaginate come un modo di stare insieme, valevano un vita. Sembrava che Caccioppoli si volesse sostituire al fratello di Galois per farsi dire: «non piangere, suona, ho bisogno anche del tuo coraggio per morire così giovane». La musica dolce del piano e quella drammatica delle parole stavano insieme; ambedue concorrevano a far nascere sessanta pagine. Una sintesi veloce di tutti i pensieri della mente, una pietra miliare per la matematica viene poggiata sulla scrivania del mondo per formare altre mille reti di conoscenze, per accumularle nella storia della disciplina. E la domanda fantastica fatta da Galois al temporaneo fratello Renato Caccioppoli lascia nuovamente aperte le tante domande sull’Enigma. «Ma dimmi, sei ancora persuaso che non sia possibile un gemellaggio 9
tra la tua e la mia vita? E della morte, Renato, che mi dici della morte?» La risposta immaginaria, ma possibile, parla delle morti che appartengono alla quarta dimensione, la dimensione della storia, non alla storia della matematica. Questa quarta dimensione non sempre è nei libri di storia ma in ogni caso va oltre le dimensioni cui la mente ci ha abituato. La morte necessaria ha attraversato la storia degli uomini ed è spesso raccontata insieme alla storia degli uomini come segno di una sensibilità fuori dalla normalità, come un sentire di ribellione al mondo che sembra sempre volersi adattare all’esistente. Non tutti sono pronti al rientro negli schemi, vi sono situazioni inaccettabili. La mente abituata a rompere gli schemi per sentirsi vitale e creativa, non può vivere lo stato stazionario. «Per quanto mi concerne, ti dico che finché c’è morte, Evaristo, c’è speranza... e te lo dico con un preludio di Chopin, quello di soli 40’’». Il preludio n.1.
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PULCINELLA NON ABITA PIÙ QUI
Quel pomeriggio d’inverno era scesa con il solito desiderio, rivedere ad uno ad uno i Pulcinella di Lello Esposito. Giovanni Bilo, nella breve sosta sotto il Palazzo Sansevero, l’aveva notata, ma non sapendo chi fosse, si era limitato a dire che Lello stava arrivando, gli aveva da poco offerto un caffè. Lello le aveva parlato di novità, di progetti e lei, che lo seguiva da sempre, sapeva che Lello, informando dei sui progetti gli amici a lui più vicini, finiva per chiedere a se stesso la conferma della bontà delle sue decisioni. Lei, professore di Fisica affermata e nota dell’università degli studi Federico II, era stata allieva di Renato Caccioppoli; l’episodio dell’esame riportato nel film di Mario Martone era in realtà la cronaca del suo. Alcuni particolari erano stati accentuati, ispirati dal romanzo di Ermanno Rea Mistero Napoletano; quei particolari disegnavano i caratteri del Matematico che, mostrando ostilità alle donne della classe mostrava anche le sue difficoltà ad incontrarle. Nonostante le lacrime di rabbia per le umiliazioni subite, la sua ammirazione per il maestro geniale rimase intatta e volle, fortissimamente volle, continuare gli studi di matematica e fisica. Durante le lezioni quel disprezzo per le donne che volessero sapere di matematica e fisica era apparso più volte una nevrosi evidente che nessuna prova di idoneità avrebbe potuto eliminare. Anzi, quelle ostilità avevano avuto un effetto di stimolo, la sua passione si era ampliata e nel tempo quegli ostacoli verbali erano diventati incitamenti mentali a dare di più. I capelli color perla e gli occhi color del mare rendevano il suo sguardo attraente, la sosta era terminata, il sorriso di Lello l’accolse come sempre, non sorpreso della sua venuta. 11
Del resto, lei abitualmente bussava al suo studio anche quando era piccolo ed in disparte, a Salita Arenella, lei aveva sempre saputo che nella stanza accanto all’ingresso le metamorfosi di Lello erano pronte per il volo. L’artista si raccontava a lei con semplicità e lei lo ascoltava con gioia. Questa volta il racconto partiva da lontano quasi a voler far presagire le decisioni che riguardavano il futuro. Venivano ricordate in sequenza le prime mostre dopo le esperienze di viandante che rivisitava il saper far pastori del presepe napoletano. Poi il suo segno esploso e comunicato al Suor Orsola e poi, ancora, al San Massimo di Salerno. La Certosa di Padula lo accoglie per la sua capacità di farsi congiungere dall’antico, e poi le sue mostre in giro per il mondo, Francia e Spagna come prime tappe. In tutti i luoghi e nelle tante città ad identità consolidata la modernità del suo segno, che in definitiva rivisitava una identità abusata, il Pulcinella, comunicava l’importanza della metamorfosi; tutto il suo linguaggio, pulcinella prima, il Vesuvio e San Gennaro poi, riproponeva il paradigma identità e sviluppo. L’uovo, segno delle nascite di ogni giorno si ripresenta in sequenza cadenzata dopo il segno della morte, annuncia la vitalità della città e inizia un percorso lungo di ricerca che lo porterà alla pittura in poco tempo. «Ti ricordi del libro d’arte presentato con Aldo Masullo a Monte di Dio, presso l’Istituto di studi filosofici?» «Si, è bellissimo ed annuncia crescite importanti, a partire dal titolo: Pulcinella non abita più qui». Quelle parole erano state dette anche altre volte, ma ai due faceva piacere ripercorrere parte delle emozioni che, in maniera diversa, erano state vissute come cambiamento di progetto. Si, perché quel libro annunciava la decisione di abitare nel Palazzo Sansevero. Quelle che un tempo erano le scuderie o i luoghi di sosta temporanea dei cavalli erano state rigenerate; un cotto napoletano proveniente da i Rufoli di Ogliara, frazione della città di Salerno, poggiato in alcuni ambienti diventava linguaggio complementare a quello più tradizionale della pietra vesuviana. 12
Lello Esposito, L’urlo dell’uovo, 1993
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L’artista raccontò, quasi a voler sorprendere la sua amica, che quando visitò la cartiera di Fresco di Porcara a Tramonti, insieme ad un suo amico economista, aveva già in mente di comprare uno spazio grande per riempirlo di progetti più grandi della città. Fu facile allora produrre un libro d’arte che parlasse di questa possibile evoluzione. Pulcinella non abita più qui divenne subito un libro d’arte e progetto. In una giornata d’ombre e di traffico, visitando la cartiera, l’artista si impossessa del luogo e riempie tutti gli spazi del potenziale produttivo. Un pulcinella cresce ad ogni pagina fino a diventare frammento del progetto esploso, un frammento di maschera esce dal libro come annuncio che pulcinella non può essere più contenuto in uno spazio chiuso, luogo o città che sia. Quel frammento di sé annuncia la necessità dello spazio allargato. Una tela di 20 metri quadrati riporta lo stesso titolo del libro ed un pulcinella inizia ad abitare il nuovo spazio in Palazzo Sansevero annunciando già che quello spazio pur essendo concettualmente grande, è in ogni caso incapace di contenere la metamorfosi necessaria. «Ti ricordi Elena che fila per entrare quel giorno, presenze importanti e gente comune mischiata come folla della città possibile? Quella tela è ancora qui e segna anche il mio cambio di passo, la pittura come potenziale espressivo che moltiplica quello di scultore». «Io amo le tue sculture, quella sequenza di pesi che hai portato in Germania e poi venduta a collezionisti diversi, sì i pesi, i pesi di Napoli e della storia degli uomini. Ma tu non mi avevi detto che volevi informarmi di altro, ancora dei successi a New York?» «Voglio in realtà parlarti del nuovo spazio che ho acquistato, uno spazio simmetrico che però scende ancora di più nel sottosuolo. Voglio imitare mio padre, lui scendeva per ripulire, io voglio scendere nel ventre per far diventare questi spazi un luogo città. Nei continui viaggi in varie parti del mondo ed a New York in particolare, c’è desiderio di creatività nuova e Napoli ed i suoi segni possono dare ancora molto, moltissimo, al progetto contemporaneo. Io mi sento la 14
forza e l’entusiasmo addosso, forse proprio per orgoglio dopo tanta comunicazione spazzatura sulla impossibilità della risalita. La città che sarà è la città che saremo. Voglio sentire le tue emozioni ancora più vicine». «Ma io sono venuta per acquistare ancora il tuo segno di sempre prima della metamorfosi definitiva. Ecco, questa maschera d’alluminio, grande e da sola può occupare lo spazio di un’intera parete, può riempire una casa come dici tu nel tuo libro, dipende dalla decodifica del significato di quello spazio in apparenza non occupato». Quella visita solitaria era per lei una cerimonia, e per il modo in cui si emozionò lo fu anche per l’artista. La sua discesa lenta per i nuovi pensieri era stata una Inauguratio, quasi un cerimoniale ripreso dai Romani. Il suo tornare indietro l’affermazione della Limitatio, il confine della nuova città. Certo la consacrazione, la partenza definitiva del progetto spettava a Lello, a lui spettava la responsabilità di generare un luogo città, fatto di frammenti significativi poggiati ad una distanza breve dal decumano maggiore (est-ovest come direzione), ma capaci di coniugare anche gli orientamenti sul cardo, per non dimenticare né il sud né il nord. Un progetto sotterraneo che chiede di diventare mundus, Pulcinella non abita più qui, come annuncio che la città non ha paura della metamorfosi, cerca l’improbabile per diventare nuovamente città nuova. Mentre l’artista confezionava i pacchi regalo una domanda entrò nella testa della scienziata innamorata dei pulcinella di Lello Esposito: che differenza c’era, per lei, tra Caccioppoli e Lello Esposito? Si guardò intorno, le mura bianche annunciavano mille gradi di libertà per la risposta aperta, fatta di più argomentazioni, alla fine ne trovò una semplice, nella quale ritrovava un po’ di sé: nessuna differenza, ambedue geniali e completamente presi da Napoli. Gli oggetti che aveva comprato avevano un valore aggiunto inestimabile. La voglia di un artista, capace di avere successo in tutto il mondo, di investire ancora su Napoli era una sicurezza da portare nel cuore. 15
L’importanza della sfida del proprio tempo è un segnale di appartenenza forte; nel deserto trovare l’acqua è la volontà di essere attore, riuscire dove generazioni precedenti hanno fallito. La presenza di opere d’arte di assoluto valore internazionale di Clemente e Lello Esposito in uno degli alberghi più prestigiosi di Napoli finisce per segnalare l’importanza delle diverse strade per affermare un’identità. La sfida di Lello è quella di non diventare subalterno, restare a Napoli ma abitando ugualmente il mondo per i dialoghi necessari, significa voler cambiare il mondo dall’interno, non voler accettare l’idea che l’altrove è migliore del posto in cui si nasce. Ma questo progetto di nuova identità ha necessità di ibridazioni, di reti sempre aperte, di sfide infinite, di diventare perdente invincibile e questo per la scienziata professoressa di Fisica non era altro che vivere la complessità in maniera contemporanea.
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LE ROSE DI MAGGIO
Silvio Perrella lo aveva invitato più volte, e lui nonostante tutto continuava a venire nella sua città. Questa volta in via ufficiale, il comune di Napoli sollecitava la sua partecipazione al Maggio dei Monumenti; parlare di Napoli e a Napoli sarebbe stato un peso ma anche una nuova opportunità. L’amico Silvio Perrella, subentrato a lui in qualità di Presidente della Fondazione Premio Napoli, lo aveva accolto in Piazza del Plebiscito, ed Ermanno Rea si era fermato ancora una volta davanti al Palazzo Reale prima di incamminarsi verso la chiesa di San Ferdinando. Egli doveva parlare e raccontare di Napoli. Il Comune aveva coinvolto scrittori ed esperti affinché l’edizione del 2009 fosse interpretata come una ripresa ancora più consapevole dell’investimento in cultura. Silvio Perrella gli aveva parlato di una recensione molto appassionata e, per certi versi provocatoria, uscita sul giornale «La Repubblica» e riferita al suo libro più recente Napoli Ferrovia. L’autore della recensione era entrato nel libro fino a forzarne un punto importante, forse sottinteso ma non esplicitamente emerso. Veniva fatta l’ipotesi che la partenza definitiva da Napoli, annunciata dal personaggio principale, fosse in realtà l’annuncio di un suicidio necessario. Il libro, scritto in prima persona, conteneva l’ipotesi che lui, Rea, come intellettuale di sinistra, finiva per riconoscersi dentro la ribellione necessaria. Dopo l’invasione dei Russi di Budapest, quando emerse con chiarezza che anche città come Napoli non avrebbero potuto svolgere un ruolo nuovo e contemporaneo, non subordinato, nella storia della città che sarebbe arrivata, molti furono i gesti imprevisti, di dissenso e di dissociazione. L’improbabilità del cambiamento di Napoli e del Mezzogiorno, 17
raccontata già in più libri, ma svolta con passione nel libro Mistero Napoletano da lui e nel Resto di Niente da Striano, era ancora l’ipotesi principale del suo ultimo libro. Il regista Martone aveva lavorato anche lui su questa ipotesi, iscrivendo il suicidio (Morte di un matematico napoletano) tra le morti che si ribellavano alla morte del comunismo, come gesto disperato per il cambiamento. In Napoli siccome immobile, l’ultima conversazione intervista del filosofo Aldo Masullo, si sostiene la stessa ipotesi. Il libro insiste proprio sull’inesistenza di una massa critica sociale capace di organizzare il cambiamento. Nella Napoli descritta da Ermanno Rea in Napoli Ferrovia, la situazione è ancora più drammatica, ed allora, per l’autore della recensione, la partenza definitiva era la metafora del suicidio dell’intellettuale Rea, del comunista Rea. Questo partire virtuale si ricongiungeva alla partenza fisica di Rea avvenuta negli anni sessanta ma mai annunciata come perdita di identità. Emergeva, così, una riflessione profonda, basata sul capitolo Addio Caracas, capitolo conclusivo della sua cronaca diario dedicata a Napoli. A riflettere bene, l’autore della recensione, lo riscattava, dava ancora più drammaticità alla partenza, non si accontentava della sua definizione di se stesso: «ottantenne dimissionario, tutto livori e ricordi che si chiama come mi chiamo io», Rea aveva scritto nel libro. Era stato lui ad autodenunciarsi, dichiarando l’impossibilità di ipotizzare per Napoli un cambiamento. Una Napoli futura era impossibile da immaginare in coerenza con i principi e la tensione di un comunista degli anni ’60, ancora oggi desideroso di affermare la necessità di un nuovo progetto morale, di riscatto definitivo. Da lì a poco avrebbe dovuto parlare al pubblico del Maggio dei Monumenti, parlare della sua città. Certo doveva svolgere il suo ruolo, ricongiungersi alle prime manifestazioni volute e promosse da Mirella Barracco molto prima che la prima giunta Bassolino tentasse di annunciare un Rinascimento culturale a Napoli. Quella rendita di posizione veniva rilanciata e lui si era impegnato a riempirla di racconti, di luoghi intrecciati, di nuove immagini topologiche, insieme a tanti altri scrittori e studiosi. 18
Del resto, per lui non sarebbe stato difficile raccontare di Napoli e dei luoghi cospicui. Il suo vissuto a Napoli era stato denso. Oggi il suicidio è entrato nella storia, non solo come bisogno di altra vita, ma con significato ampio, dal pilota giapponese kamikaze al soccorritore eroico, dal combattente per la libertà alla giovane irachena con la bomba sotto le vesti. Cecenia e New York possono stare dentro la stessa scena. L’impulso di morte non va più interpretato come una mossa contro la vita. Quel tratto di strada tra Palazzo Reale e la chiesa sembrava interminabile. Si era fermato più volte quasi a voler possedere nuovamente tutta Napoli. Rileggeva mentalmente la recensione e per un momento pensò che ‘il suggeritore inesistente’ di Caracas fosse il recensore del suo libro. Piazza Garibaldi, così come raccontata nel libro, quello spazio urbano a mutazioni storiche continue, misurava la mutazione biologica della città, specie la domenica mattina. La piazza, di mattina, diventa ancor più di domenica, luogo cosmopolita, tutte insieme le centodiciannove nazionalità si mostrano con un avvicendarsi febbrile. La piazza si colora di dimenticanze, si mostra multiculturale e paurosa allo stesso tempo, rappresentativa e premonitrice, vuota e piena. Ebbene quella piazza, con i suoi significati, si sovrapponeva continuamente nel racconto mentale che si era preparato per la conversazione nella chiesa di San Ferdinando. Sarebbe stato impossibile non ricordarsi delle speranze per Napoli, delle diverse direzioni possibili. Poteva tornare mentalmente indietro, nel tempo e verso Sud, ripassare per la piazza della Montagna di Sale del dopo G7, l’immagine planetaria dell’artista Paladino voluta dal Soprintendente arch. Giuseppe Zampino prima degli altri; questo poteva essere un modo per raccontare di un sale sapiente scomparso. Avrebbe potuto affacciarsi su un compendio di architettura sovrapposta o incrociare con lo sguardo un potenziale geomorfologico incredibile: il Vesuvio, Capri e Posillipo che ti salutano all’unisono non appena ti affacci sul mare dopo via Santa Lucia. Ma lui riprese il suo cammino verso Nord, con l’antica via Toledo che gli faceva vedere il cammino per attraversare la città, per andare 19
fino al Museo Archeologico Nazionale e a Capodimonte. Si ricordò, allora, di Jean Paul Sartre, che nel risalire lungo quella strada e percorrendo anche i quartieri spagnoli, finì per entrare in uno spaesamento non previsto, fino a non riuscire a vedere Napoli, come è avvenuto ed avviene ancora, per molti turisti impauriti. Come Sartre, questa volta, sentì una estraneità imprevista per la densità delle contraddizioni esistenti. Erano forse le stesse contraddizioni esistenti da un tempo impensabile, forse, per aver voluto Essa, essere città prima delle altre. Certo avrebbe potuto parlare delle altre due direzioni potenziali. Andare a Est verso il Porto, passando per il San Carlo, in ristrutturazione; rivivere alcuni luoghi emblematici, la Galleria e la Biblioteca Nazionale, il Maschio Angioino fino a rivedere il Vesuvio ed il Mare delle Partenze verso direzioni opposte. Ma c’era anche da andare ad Ovest, risalire Pizzofalcone, l’Istituto di Studi Filosofici ed i luoghi della Rivoluzione, fino a quelli dei pensieri lasciati nelle teste decapitate, i pensieri del cambiamento. Che straordinaria città, avrebbero detto gli urbanisti di tutto il mondo, ma lui non se la sentiva di trasmettere al pubblico convocato per il Maggio dei Monumenti una nuova voglia di Napoli. Questa sensazione di felicità che pure aveva attraversato più volte il suo cuore e la sua mente era scomparsa. Certo avrebbe fatto una presentazione appassionata, piena di Napoli, ma la consapevolezza del momento storico gli avrebbe suggerito altro; lui non avrebbe voluto dare spazio ed enfasi a questo suo nuovo stato d’animo. Tornava Masullo nella sua mente: nella comunità civile il destino di tutti è sentito come il proprio destino. In ciò è l’essenza della ‘Polis greca’, lo spirito della politicità è l’appartenenza. Nel suo libro, Napoli Ferrovia, ed in altri, egli aveva raccontato di un tempo in cui questa essenza civile c’era, oggi di questo vi è poca traccia. Iniziava ad aver paura, aveva paura di incontrare gli occhi del pubblico e scoprire come nel racconto del libro che non vi è più traccia di tensione morale, di essenza civica. Tornavano in mente le immagini sulle spazzature di Napoli, metafore della città soffocata dalla separatezza, tra uomini ed istituzioni, mille frammenti di città esplosi a loro volta. 20
Lo stesso commissariamento, lungo, interminabile con l’arrivo del salvatore di turno, aveva già fatto ripiombare Napoli nella immagine di Città Palcoscenico. Napoli e le sue anime del purgatorio ad implorare salvezza. Le litanie delle compassioni uscivano nuovamente dal suo libro, il suo libro che annunciava a tutti che Napoli non era più un paradiso abitato da diavoli, ma nemmeno un inferno abitato da angeli. Era una città sospesa, piena di storie ma senza storia collettiva. Una folla di pensieri da scacciare prima della conversazione sui luoghi di Napoli. Una olla putrida (piatto spagnolo con mille componenti a base di lardo) di pensieri, pensieri che gli impedivano di vedere in quel momento luoghi abitati da persone: solo persone sospese, non borghesia, non intellettuali volitivi, non comici, non uomini faber, solo le anime del purgatorio di Masullo, tutte esistenze strane. La malinconia civile annunciata nella recensione stava prendendo il sopravvento, per fortuna sopraggiunse il suo amico temporaneo. «Vedo che stai ripassando la recensione». «Sì, rispose». In realtà i suoi pensieri erano andati ben oltre. Aveva forse il tempo per scrollarsi di dosso l’idea che si fosse già suicidato e che stava per incontrare persone dall’esistenza inesistente.
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NATHALIE, NAPOLI, NATHALIE
Si era quasi barricata nella sua splendida casa di Palazzo Spinelli, sembrava di essere tornata alla stessa tensione e alla stessa disperazione del ’92. Sembrava che gli abitanti di Napoli e tutti i suoi governanti volessero lasciare alle generazioni future una città devastata ancor più di Sarajevo. Questa volta la devastazione non era dovuta ai bombardamenti o agli incendi o alle espropriazioni ma, proprio quell’oggi, un bombardamento di immagini e di parole dei mass-media più importanti del mondo descrivevano una città immersa nei rifiuti, senza possibilità di uscire dallo stallo, anzi con problemi nascosti enormi, a partire dai rifiuti pericolosi. La devastazione era mentale, mancavano punti di riferimento minimi per trovare l’uscita. Paura e solitudine, una sorta di limbo per assenza di fattori positivi, con montagne di fattori negativi. La Napoli dei colori di base, dei colori fondamentali, del giallo del tufo e del sole, del blu del mare e del cielo, del rosso fuoco del Vesuvio, era stata sostituita dalla Napoli dei colori indesiderati, questi dipingevano la scomparsa dei colori per la ricerca della città possibile. Lei si era battuta, 17 anni prima, perché nascesse un libro capace di svegliare le coscienze del mondo e far riconoscere, sotto le macerie evidenti, una città, a partire dalla sua biblioteca. Questa volta, vedeva che i giornalisti di tutti il mondo, arrivati anche da lei, non erano disposti a parlare della possibilità di salvare Napoli, erano interessati solo a scrivere e a raccontare la scomparsa della città bella. La biblioteca universitaria di Sarajevo fu bombardata il 6 aprile 1992, poi incendiata in seguito ad un altro bombardamento nella notte tra il 23 e 24 agosto. Un milione e mezzo di volumi, un oceano di saperi incrociati, un 23
oceano di conoscenze, un luogo di insegnamento e di cultura, di ricerca e di incontri, un vero luogo città, concettualmente più grande della città che ospitava la biblioteca stessa, si era dissolto. Quel luogo sacro, appartenente a tutto il mondo era sparito e sembrava che ciò stesse accadendo anche per i luoghi cospicui di Napoli, sommersi dall’ingovernabilità e dall’inerzia del mondo civile. Nel ’92 il suo orgoglio ed il suo amore si erano trasformati in furore civico, voglia di salvare una città, a partire dalla biblioteca. Allora aveva sfogliato gli album di foto di viaggio di suo nonno, Charles Marcel Heidsiek, e in quelle foto aveva trovato la chiave per un appello al mondo. Un libro per una biblioteca nasceva come progetto di ripartenza. «Cosa diventeremo tutti noi, che cosa sarà di questa città e di questo Stato? Come si vivrà in quelle che furono un tempo Mostar e Sarajevo?» Non era difficile capire, le sue domande erano una ribellione a quello che era accaduto. Questa ribellione doveva essere comunicata fino a coinvolgere le istituzioni di tutta l’Europa, a partire dalla Comunità Europea. Riesce a comporre il libro, le foto del 1929 raccontano di paesaggi, di persone e di armonie perdute, e diventano testimonianze a supporto degli appelli sul perché ricostruire una biblioteca ed una città. Il libro è realizzato è pubblicato in Francia, lei pretende che lo stesso libro sia luce anche in Italia. Vi erano però difficoltà, ma Napoli e la sua città metropolitana accolgono l’iniziativa, i costi si abbassano, ecco un buon segno per riconoscere in Napoli la città generosa del mondo. A Napoli incontrò allora Giuseppe Morra, gallerista e mecenate importante, e questi l’aiutò, insieme ad altri, orientandola nella cattura delle risorse; il libro e la sua realizzazione diventavano così un percorso nella città possibile. Camminando nei vicoli del Maggio dei Monumenti della prima edizione, a Nathalie sembra di ritrovare la città che stava scomparendo a Sarajevo e in molte altre città del mondo. Una città che nel suo ventre accoglie strati sociali diversi e multiculturali, vivendo un arcaico futuro contemporaneo. La città antica si fa riconoscere e la nascita del nuovo piano rego24
latore progetta la possibilità di conservare, riposizionare il centro storico più grande del mondo. Napoli città madre si rivela e lei vive la sua esperienza di redazione del libro come opportunità per rileggere il potenziale di Napoli. Arriva la comunicazione del G7, Bassolino e Ciampi comunicano al mondo che la città vuole entrare nella storia ed il Palazzo dove ha sede l’Istituto di Studi Filosofici apre dopo 200 anni il portone principale per accogliere la nuova classe dirigente, volitiva e moralmente protesa a far vivere il progetto nuovo ed il cambiamento. Il portone verrà chiuso tre anni dopo, l’avv. Marotta, presidente dell’Istituto, ritenne già sparita la speranza per la città nuova. Ma, per lei, la città dove realizzare il libro, forse è anche la città dove provare a realizzare un altro progetto, completamente nuovo, contemporaneo, di appartenenza al mondo. Dalla Francia a Napoli arrivano incoraggiamenti, comportamenti istituzionali si congiungono, presenze colte francesi vivono bene Napoli. Un numero impressionante di testimonianze, un oceano di testi poetici, scritti drammatici, parole di speranza e progetti innovativi, rabbia e guerra si mischiano, mille linguaggi per descrivere la gravità dell’accaduto in Bosnia. Più di cento editori appongono il loro logo sul libro finito, Sarajevo è salva? Le bombe continuano a cadere, ma Sarajevo viene rappresentata e ricordata. In quei giorni era importante tentare l’impossibile, un libro per salvare una biblioteca, una biblioteca come segnale per ricostruire una città, l’entrata nella biblioteca come invito ad entrare nuovamente in città. Che ne sarà di noi domani se oggi non facciamo nulla? Aveva teorizzato, allora, che anche solo un libro, un libro di verità può far tornare la libertà e la gioia di vivere. Villaggio Balcanico, con sottotitolo Un libro per una biblioteca, viaggio nella complessità della storia era anche il tentativo di riparare a una vergogna indicibile per la politica della propria patria e delle nazioni sorelle, quasi un dover lavorare contro il proprio paese. Del resto sfogliando gli album fotografici di suo nonno, aveva scoperto che suo nonno, come ogni uomo o donna sulla terra, era un libro. 25
Più un uomo vive e fa esperienza, suo nonno aveva scelto il viaggio come essenza del vivere, più un uomo ama e comunica. Più il libro-vita si trasforma in romanzo, più un uomo sogna e crea itinerari per raggiungere nuove città. Il libro trabocca, diventa germinativo, nascono tanti altri libri, la comunità di libri si fa biblioteca e la comunità di uomini si fa città. Non vi è differenza tra biblioteca e città, ambedue vivono di storie di uomini e donne che raccontano della loro città. Un libro germoglia solo se è aperto e letto, una città rinasce solo se da questa possibilità a tutti. Allora quella speranza aveva invaso Napoli, la speranza di aprire nuovamente a Sarajevo la biblioteca di Babele come città universale. Ma da allora era passato tanto tempo, quel giorno troppi colori indesiderati la circondavano, non riusciva a sfogliare nessun libro. I suoi progetti d’accoglienza per l’arte e la vita contemporanea sembravano insostenibili: Napoli-Ferrovia come libro d’ispirazione per raggiungere un’altra città? Nuovamente a Sarajevo, questa volta per salvare Napoli? Lei che un giorno aveva abbandonato il suo appartamento di Parigi per trasferirsi a Napoli per dedicarsi all’associazione, al progetto Kaplan n. 1, ‘Il purgatorio’ da connettere a quello della Galleria, Kaplan n. 3, faceva scorrere pensieri senza gioia di vivere. I suoi pensieri condivisi con un’amica erano stati travisati e la sua partenza da Napoli era stata annunciata sui giornali, a riprova che Napoli non poteva più essere la sua città e nemmeno la città di Kaplan. Ma chi era Kaplan e perché era venuto a Napoli? Quella notizia era, in fondo, falsa, ma la notizia sulla sua voglia di restare era anch’essa non completamente vera.
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UN LIBRO COME GRANO IN UN CAMPO DI GRAMIGNA
Le corone di spine erano, per Francesco Saverio Nitti, i paesi-città che a Nord di Napoli formano una barriera socio economico, di ostacolo allo sviluppo. In questi ambiti territoriali c’era la camorra, allora organizzazione non estesa, a dettare le regole del vivere. Per Nitti e molti altri pensatori del ’900, lo sviluppo industriale di Napoli avrebbe potuto rimuovere questi ostacoli formando una classe antagonista e una nuova coscienza civile. Il progetto industriale ad Est ed a Ovest di Napoli segnala vuoti ed aspettative della città, simboli contemporanei di problemi irrisolti, e la camorra si è impossessata di un territorio molto più vasto della corona di spine. Fin dai tempi del lavoro di ricerca presso l’Osservatorio sulla camorra, in Roberto Saviano era cresciuta la fiducia nelle persone. L’uso corretto della parola nella cronaca vera dei fatti avrebbe potuto svelare definitivamente l’allargamento e la diffusione della corona di spine. Oggi le attività della camorra si sono moltiplicate e sono penetrate in ogni dove fino ad essere oramai immagine e sostanza dell’area metropolitana di Napoli. Anni di lavoro a coltivare grano da piantare nel mondo della comunicazione. Un libro pieno di cronaca e di verità che si fa letteratura per fare più luce, attraverso emozioni e sgomento, su linguaggi e verità nascoste che chiedono azioni nuove. Il suo paese, come la sua città e tutto il territorio napoletano, portano addosso un’identità pesante, come impossibilità o improbabilità al cambiamento Roberto Saviano era arrivato a Maratea in una magnifica giornata d’estate, il sole stava tramontando su capo Palinuro, avrebbe presentato, dopo qualche ora, nella magnifica piazzetta del Gesù di Fiumicello, il suo libro: la parola come grano da seminare e la verità 27
come germoglio per mille azioni. Gomorra il titolo ed una platea estiva che non sapeva nulla di lui e nemmeno del libro. La comunicazione ed i media non avevano ancora prodotto il successo; i cambiamenti di vita erano solo annunciati come pericolo latente o come verifica delle sue aspettative. Morire per una causa giusta era la verità già raccontata più volte. Quel giorno si sentiva particolarmente sereno, come se la consapevolezza delle sue parole lanciate contro i poteri maligni stessero ancora in volo. Sapeva che sarebbero arrivate e che molti sarebbero stati colpiti, sapeva anche dei pericoli che sarebbero arrivati per lui e che lui stesso sarebbe stato preso prigioniero e che con tutta probabilità sarebbe stato condannato a morte dalla camorra e dai suoi infiniti fiancheggiatori. Sembrava che Maratea fosse lontana da tutta questa tensione e fosse solo un’opportunità di comunicare idee e raccontare di Napoli e delle sue spine, un altro dramma della storia di Napoli. Del resto, il suo ruolo era quello, raccontare la verità e far decodificare agli altri i segnali terribili che arrivavano ogni giorno da quella razza avversa costituita da tutti gli affiliati ai clan. Un mondo da rivelare, codici e linguaggi da svelare, fatti terribili da raccontare. Non era lui che doveva sciogliere i nodi, ma poteva fare luce sulla ferocia dei clan che, combattendo per il loro potere e per la loro sopravvivenza, diventavano nuova classe di riferimento per una popolazione allargata di simpatizzanti e affiliati. Aveva rivelato e ribadito nel suo libro che la corona di spine di cui parlava Nitti aveva invaso un territorio esteso, con il Nord d’Italia, l’Europa ed altri Stati pienamente coinvolti dall’allargamento del potere dei clan e dalla loro capacità di differenziare le aree di accumulazione di denaro e potere. Un parassitismo come meccanismo di accumulazione primario, la droga come settore d’impiego ad alto rendimento, la finanza e le attività immobiliari come patrimonializzazione allargata. Dal mare, guardando il Cristo di Maratea, si accorse delle tracce di territori abbandonati, anch’essi in attesa di nuovi speculatori, persone insospettabili che anche a Maratea si avvantaggiano dei cambiamenti di destinazione dell’uso del suolo. 28
Frane e smottamenti annunciati faranno giustizia o diventeranno occasioni di nuova speculazione, l’immagine nasconde la realtà, non vi è curiosità di sapere e Maratea, appare ancora, come un invidiabile equilibrio ambientale. Non vi fu pressione su di lui, fu possibile aspettare che la piazza si riempisse a metà di persone inconsapevoli e che le analisi ed i racconti del libro fossero così spietate da far male al lettore. Saviano usò parole forti ed il pubblico si sentì chiamato a schierarsi, a dire sul che fare. Il duello tra autore e i clan era stato annunciato, pur essendo palese leggendo il libro. Nessuno aveva sottolineato che il giovane giornalista e scrittore aveva collezionato e letto documenti su documenti, per svelare trame terribili, connivenze indicibili, violenze impensabili, degrado morale e comportamenti inumani. Galois sullo sfondo, era partita una sfida impossibile. Saviano voleva ribadire che quando si parla di camorra e dei loro comportamenti, si deve capire che si tratta della formazione di altra specie umana, una gramigna in un campo di grano e che presto questa invasione totale non potrà più dare immagine a Napoli ed al suo territorio fertile, anzi distruggerà questa immagine per sempre. Un numero infinito di parole diventa spada per un duello; esse, ricollocate in una sequenza scioccante, avevano la forza di un romanzo-denuncia di mille verità. Sì, la crudezza e la bellezza della verità camminavano insieme, la sfida era spregiudicata, un pericolo di vita per tutti coloro che come Saviano sapevano e volevano dire ogni giorno la verità sulle cose, ed anche sulle cose da fare. Un suicidio necessario per la sua città o una prigione perfetta si annunciavano come futuro? A Maratea, però, tutto sembrava differibile, la tensione rallentata, il pubblico distratto, ancora un diaframma tra le parole scritte e le parole percepite. Ma proprio quella pausa, quella serenità dei luoghi, quei silenzi indesiderati lo convinsero a dare ancora più forza alle parole dette e di gridarle nelle presentazioni da fare. Le metamorfosi da annunciare erano profonde, la città ed il suo territorio erano in cancrena evidente. Lui era pronto a saltare nella nuova vita, come Galois, sapeva 29
che le forze in campo erano impari, ma un processo nuovo sarebbe potuto partire, la speranza dell’improbabile lo rapÏ, lui poteva stare dalla parte di chi si prendeva il compito di tentare di estirpare tutta la gramigna. Il sole era tramontato immergendosi nel mare di Parmenide. Lui si ricordò di Seneca e di Socrate e diede forza ai pensieri da presentare. Napoli-Camorra, Camorra-Napoli, Napoli Inferno e Gomorra sempre, erano le immagini che avrebbe presentato. Un territorio da rappresentare in metamorfosi mortale, con un potenziale distrutto, da bonificare, in primis con la parola, un esercizio collettivo di ecologia della mente, una battaglia da vincere a tutti i costi, un suicidio necessario, bellezza come emozione, e inferno come prospettiva di vita. Quella sera venne accarezzato della luna; questa lo aveva protetto per una notte intera, differendo lo sgomento delle difficoltà da vivere.
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UN MUSEO PER RIPARTIRE, UN LUOGO NUOVO PER VIVERE ANCORA DI
NAPOLI
Il restauro può essere una modalità del vivere. I manieristi vedevano anche nel progetto di ripristino la capacità di produrre il nuovo. Il metodo d’intervento si deve poter applicare all’opera d’arte come alla città intera. La parola restauro, anche se non soddisfacente appieno è l’unica che si può far carico del dialogo necessario tra antico e moderno nella città storica. Un metodo riservato non più solo al monumento ma al territorio, una sorta di restauro evolutivo. Altri termini, come risanamento urbano, riqualificazione urbana, rivitalizzazione dei centri storici, hanno anch’essi storie compromesse. Ma l’ambizione di parlare di restauro urbano, quasi a contenere anche quello territoriale ed ambientale, per essere praticata ha bisogno di idee e progetti con radici profonde da sviluppare. Napoli ha consumato il termine, come altre città, con l’idea di dover restaurare il patrimonio Unesco della città storica. Questa chiede di essere salvaguardata e conservata e la parola restauro torna ad essere un termine riferito a tutta la città che, restaurandosi con valori nuovi, rivede se stessa e porta l’ipotesi di restauro del centro antico e del centro storico alla dignità di progetto contemporaneo della città di Napoli. L’impostazione del Piano regolatore di Napoli ha questa ambizione: il restauro della città storica come grande progetto contemporaneo della città che verrà. Ma come confrontare le teorie sul restauro, sul ripristino e sul cambio d’uso, affrontando contemporaneamente il passaggio di scala concettuale cui si è fatto riferimento? Il racconto di fatti e di storie già esistenti, con l’ambizione di raccontarli come romanzo contemporaneo, finisce per far luce su dibattiti altrimenti inaccessibili. 31
Qualcuno potrebbe dire, ma come si fa a parlare di restauro quando il problema è inventare il futuro? Perché insistere sul concetto di restauro urbano e/o territoriale ed ambientale quando anche quello edilizio manca? Ma la qualità urbana è quella del cambiamento possibile e riconoscibile, e pertanto il restauro va pensato e realizzato dentro un processo sociale ed istituzionale orientato al cambiamento. La storia breve e significativa del Museo Nitsch a Napoli e la probabile sua evoluzione è una storia che racconta un’azione indispensabile per costruire l’ambiente urbano e naturale del futuro. Giuseppe Morra, la Fondazione Morra e altri protagonisti possono raccontare storie parallele, tutte storie convergenti con l’idea che a Napoli l’arte e le arti, come linguaggio multiplo, sono necessarie a farci capire dove andare. Sicuramente accanto a queste storie potrebbero essere raccontate altre storie, tutte capaci di interpretare itinerari paralleli, tutte capaci di raccontare le mille vitalità ancora esistenti del tessuto sociale napoletano, questo è ancora capace di riprodurre grano invece che gramigna. Giuseppe Morra non ama definirsi, si ritiene un semplice incompleto, desideroso di incontrare altri consapevoli della propria incompletezza. Dichiarare tutti insieme l’amore per un progetto-processo di città morale, cioè utile anche agli altri, alla loro evoluzione artistica e sociale, diventa una possibilità solo dopo una condivisione esplicita. Il convivio e la frugalità, l’azione e l’incontro, il viaggio e la ricerca devono essere vissuti come metodologia di apprendimento, stare in cerchio aperto come girotondo è il metodo necessario alla crescita. Napoli sempre come voglia di vivere, erano tutti questi sentimenti che sembravano essere scomparsi dalla città. Morra insegue il sogno di vivere bene la città con l’arte. L’arte dentro la normalità del vivere. Una presenza costante per migliorare la cultura e l’apprendimento del vivere. Egli si addestra ai linguaggi, conosce tutte le avanguardie, vive con esse e le accoglie a Napoli già negli anni sessanta nella sua Galleria di Via Calabritto. È il tempo a Napoli di Lucio Amelio e della cultura dell’arte contemporanea, Bonito Oliva, già accademico, muove i primi passi verso il successo ma già è amico di riferimento. Dopo qualche anno, Morra 32
intuisce che, per lui, il tempo delle gallerie è passato, il trasferimento in altra parte della città è necessario. Si sposta in un quartiere simbolo, la Sanità, rione raccontato anche da Eduardo De Filippo. Un quartiere ad identità strutturata, l’arte contemporanea, le avanguardie hanno difficoltà a muovere il quartiere e la città. Morra non si arrende, aspetta l’improbabile, non cambia città ed il suo progetto, con questa scelta, diventa progetto ad identità forte. Una centrale elettrica in disuso può essere acquistata in un altro quartiere ed il suo restauro può accogliere una parte del patrimonio di opere presenti a Napoli. Per suo merito, l’artista più rappresentativo del movimento di azionisti viennesi, solo in parte collegabile all’avanguardia del movimento Fluxus, Herman Nitsch vedrà nascere un Museo a lui dedicato. Un improbabile luogo urbano diventa nuovo ambiente urbano, viene riconosciuto a poco a poco. Nitsch e Morra, fermati e processati durante le prime azioni d’avanguardia diventano nuovi sacerdoti urbani. Si susseguono le manifestazioni d’arte, la centrale diventata Museo Nitsch comunica al mondo che a Napoli è il Nuovo Museo Nitsch a comunicare il desiderio di nuova urbanità. Il termine incompleto riguarda la necessità di avere un progetto di identità in continua metamorfosi e Morra è consapevole di dover ogni giorno andare alla ricerca del nuovo. Accoglie la poesia visiva e la musica elettronica, ed è clemente con la contaminazione con le altre arti. Il museo diventa luogo nuovo, una nuova densità urbana annuncia nuove sonorità al quartiere ed alla città. Anche l’acquisto di Vigna San Martino, l’immenso spazio verde della collina dove è insediata la Certosa di San Martino, fatto anni addietro, era il tentativo di vivere meglio le esperienze proposte da Nitsch, il teatro dei riti e delle azioni aveva bisogno di spazio e Vigna San Martino era un luogo per mille iniziative e per produrre arte. Anch’esso è vissuto come luogo nuovo della Città, bene culturale e bene contemporaneo. Da quel luogo è possibile avvicinarsi alla geomorfologia dell’area metropolitana di Napoli. Da lì, possono nascere mille pensieri di architettura rigeneratrice e questi pensieri si sovrappongono ai milioni già esistenti. 33
Italo Ferraro, professore dell’Università Federico II, progettando i suoi atlanti su Napoli, oltre a realizzare un’opera incredibile, decide anch’egli di vivere di Napoli, raccontando e studiando la sua evoluzione, pietra su pietra, palazzo per palazzo, piazza per piazza, strada per strada, spazio per spazio. Nei suoi atlanti sono evidenti le mille città accolte nella città madre, stratificazioni storiche, della natura e dell’uomo. Racconta Napoli come città contraddetta, dirà lui, dando spessore scientifico alla evoluzione continua tra vincoli ed opportunità. Egli ha anche l’opportunità di fornire alla città le basi conoscitive per la regolamentazione urbanistica. Svelando l’importanza degli stili, delle tematiche, delle visioni immaginative, della storia, farà capire, a quelli che lo vogliono, l’irriducibile della città. L’accento si sposta dalla semplificazione alla complessità. Appare il tormentato gioco delle ricombinazioni, esercizio multiplo per nuove possibilità, l’accento si sposta dalla semplicità alla complessità. L’armonia del tutto non è più garantita dalla persistenza di un piano. La bellezza è conquistata attraverso la disarmonia delle parti, mediando i conflitti, sposando i compromessi necessari. Il XX secolo ha sgretolato l’edificio del sapere e le conoscenze non sono più cumulative. L’enciclopedia non è più la ricognizione dei percorsi di apprendimento. I nuovi percorsi non sono prescrivibili, essi nell’attraversare la città non sono una sistemazione dei risultati. La città è ancora una sequenza di percorsi da scoprire. La città è ancora un’irriducibilità di punti di vista, di linguaggi, di modelli, di temi, di immagini, che concorrono (cooperando e contraddicendosi) alla produzione del vivere. Non a caso anche il Museo Nitsch nasce come progetto improbabile; uno spazio bellissimo, inimmaginabile come progetto pensato ex-ante, proprio perché contraddice l’esistente, lungo percorsi che attraversano la città da sempre, appare come nuova vitalità. Durante il processo di costruzione del progetto-museo nascono nuove empatie, nuovi incontri con persone che vogliono vivere di Napoli. Nicoletta Ricciarelli architetto, Francesco Coppola architetto e Roberto Paci Dalò artista, spingono Morra a diventare architetto ed urbanista di città. 34
Del resto Nicoletta è funzionaria appassionata, vorrebbe trasferire il suo amore per i luoghi d’arte nei cuori degli abitanti di tutti i luoghi cospicui. Spesso ci è riuscita; influenzando i comportamenti delle persone, ha educato queste al bello e alla storia delle pietre che calpestavano. Anche Francesco Coppola può essere classificato tra coloro che vivono di Napoli non solo per i suoi trascorsi accademici ma soprattutto per l’instancabile desiderio di spingere perché vengano avviati processi di condivisione e convivialità intorno al progettare. Una esibizione artistica di Roberto Paci Dalò, legata alla musica elettronica, svelò definitivamente molte opportunità del luogo. Viene lanciata l’idea di allargare il ruolo dell’arte, non solo nel Museo e per il Museo. Il Museo spingerà perché la creatività si estenda e che tutto il quartiere diventi un quartiere dell’arte. Ma allora il quartiere è parte di Napoli o può essere più grande di Napoli? Una nuova densità abitativa dovrà e potrà vivere di Napoli? Utopia o Realtà è in ogni caso una storia che comincia a Napoli per il mondo.
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SUICIDIO DOPPIO E PERIMETRI DI PAROLE DEI FIGLI DEL TEMPO
«La ribellione vive per denunciare che la modernità va ripensata a qualsiasi costo se dalla “discendenza” si desidera “la risalita dal profondo”». Questa frase viene ripresa dalla presentazione che Marco Amendolara, poeta e saggista, fa al libro di poesie di Filippo Cecere, giovanissimo poeta, Entriamo in Città. Essi non si conoscevano ma condividevano l’impossibilità di vivere le città del mondo dove l’odio e la vendetta pascolano indisturbati. La loro incapacità di entrare in città per vederla risalire dal profondo come città degli uomini è simile a quella segnalata da mille episodi della storia degli uomini. Filippo si suiciderà, un suicidio morale fatto per gli altri, l’addizione necessaria al vivere fino a ieri dopo la perdita di beni individuali e di beni astratti necessari alle storie della convivenza e del progresso. Marco avrà letto mille volte nella sua mente quello che Filippo aveva detto in Figlio del Tempo e si è specchiato nella impossibilità contemporanea di vivere il progetto. «Figlio della roccia Tuo padre è il tempo che accompagna e che sostiene Tua madre è il caos che si ribella Io sono quel che si dice e non trattengo l’eternità Posso e non fuggo il divenire Non fuggendo concepisco Figlio del Tempo La tua città è come una rocca su di un monte E di li ti vedo risalire... Ma ancora molto c’è da fare 37
Ad elaborare il contro della discendenza E risalita dal profondo». Anche Marco qualche anno dopo si suicida. Campani entrambi, rappresentano l’impossibilità del vivere nelle città difficili del mondo, ogni giorno ne nasce una e Napoli, in passato, le ha abbracciate tutte; anche oggi accoglie i loro cittadini nella speranza di un nuovo viaggio di risalita, ci sarà sempre la paura di entrare nelle città fino a quando il nostro interno sarà più piccolo dell’esterno della città che vorremmo vivere. Erano nate città già quando l’esterno era più importante dell’interno, il comune sentire più importante del proprio, ma oggi il sentire comune è scomparso; poi arrivarono le mura, ad impedire l’entrata in città, ragioni di difesa e di potere si mischiarono, e le difficoltà di entrare in città si mischiarono con le difficoltà a stare in città, oggi la città si è frammentata, le mura si sono moltiplicate; esse sono dannatamente invisibili. A denunciarlo oggi è anche Nanni Balestrini, il poeta che parla con gli occhi del linguaggio. Egli come Cassandra vede il cannibalismo incombente nel progetto politico della città desiderata. «La scrittura nasce come atto visivo, è il linguaggio che si imprime sulla pietra, nell’argilla, nel marmo, che dalle stele, dagli obelischi, dalle lapidi delle antichità impone sentenze immutabili, ed oggi ricopre le metropoli con effimere lusinghe della pubblicità e con la violenza dei graffiti sovversivi. È la scrittura pubblica che anticipa quella privata..., i laceri della stampa disegnano inedite costellazioni mentali ed invitano il pubblico volenteroso a misurarsi con la sua capacità di interpretare le ragioni della sua irrimediabile passività». La città frammenta i pensieri e il progetto politico diventa utopia triste. «Come disegnare allora, verbalmente, le mura di uno spazio urbano ed avvicinarlo? Con Orfeo fioriscono Lino, Anfione, Museo ed altri poeti eroi, de’ quali Anfione da’ sassi innalza le mura di Tebe». Gian Battista Vico ci racconta, così, che un tempo poeti e musici38
sti potevano costruire città. Oggi, versi d’amore e di rabbia, poesie come frammenti, diventano racconto impervio; i luoghi celesti e i luoghi lontani si mescolano con il grigiore e la polvere degli eventi storici; l’intera cultura occidentale si svela come cultura delle incapacità. Le parole dei poeti si decompongono, i poeti non vedono il futuro, si ribellano, la vitalità della morte nuovamente in cattedra. Gli eventi e le città protagoniste nascono e muoiono attraversando millenni di storia. Parole e frammenti ci entrano dentro per tracciare una linea cronologica tra le origini della cristianità e gli orrori che la smentiscono. In tale quadro parlare dello spazio urbano e ripensarlo è impresa quasi impossibile, superiore alle possibilità umane L’uomo perde i luoghi e mostra l’affanno che deriva da questa perdita, questo stesso affanno diventa occasione per dare voce a messaggi profondi, intimi, indicibili. Lo spazio esterno diventa qualsiasi cosa o persona fuori dall’io, diffidenza, estraneità ed affettività si mescolano. ‘Entriamo in città’ diventa invito drammatico a disegnare nuovamente quegli equilibri necessari a vivere la città. Ma quelle stesse sequenze sono anche dubbio, ribellione, impossibilità a vivere la città, producono sconnessioni mentali impossibili da annodare.
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LA CITTÀ COME SPERANZA PER L’ARCHITETTURA E L’ARCHITETTURA COME SPERANZA PER L’URBANISTICA
Napoli e Palermo erano già state rappresentate nel suo libro Logos & Topos. Ambedue le città si sono espanse sgarbatamente, per usare una terminologia dolce. Questa espansione, però, era ben diversa da quella di altre città. A Napoli la geomorfologia del territorio, la natura, fanno ancora da suggeritore per la possibile evoluzione, del possibile ‘piano’. Tre grandi archi sul mare incisi da strade e colline... Napoli è così. A Palermo il paesaggio di natura è lontano, anche se imperioso e metafisico. Il territorio delle due città appare ancora ricco, al di là del disordine urbano. Conoscere, conoscere ancora, prima di fare, era questo il suggerimento del libro, e conoscere significa sempre rifare il viaggio. Questa volta la sua Palermo, già disegnata come un gabbiano, lo invitava a fare un nuovo viaggio, a ripartire più che a partire; Napoli doveva essere ancora scoperta, c’era un nuovo viaggio da fare. La nostra è una civilizzazione non abituata a conoscere; chiusi in cento, mille stanze ognuno progetta, ognuno per suo conto, poi si esce per litigare, chi la spunta costruisce ed alla fine si scopre che non c’era il progetto morale. Lui, il professore, non poteva che insegnare a conoscere, il progetto era ricerca sull’intermedio. Occorre trovare nuove metodologie per comportarsi diversamente: insegnare ad accelerare i tempi dell’azione conoscitiva, scoprire l’allegria profonda della ricerca, inseguire l’intelligenza che è solo pensiero lungo. Ai suoi allievi doveva saper dire della bellezza del saper vivere di architettura e di urbanistica pensata. 41
Come scoprire la ricchezza dell’intermedio, come saper camminare tra conoscenza ed intuizione progettuale? Quanta voglia di disegnare abbiamo? L’onda lunga si era abbassata finalmente, il mare invitava a guardare lontano. L’aurora era appena abbozzata, ancora due ore per l’arrivo al porto di Napoli. Nicola Giuliano Leone decise di salire sul ponte e di vedere Napoli ancora prima che apparisse. La volle disegnare nuovamente, come aveva fatto sempre, prima di una conferenza sulle città o sul paesaggio; la sua passione per il disegno e la sua genialità rappresentativa potevano sintetizzare le diverse definizioni di Napoli, città da sempre. Chiuse gli occhi, ed apparvero le tre visioni concettuali da trasferire ai suoi studenti, una rappresentazione visiva dell’evoluzione della città. Il fenomeno urbano è apparso in maniera indipendente in luoghi differenti, gli archeologi non hanno ancora smesso di trovare genesi diverse delle città, e la loro definizione di città è ancora in evoluzione teorica e rende sempre attuale la domanda: perché ci sono le città? La risposta sarà sempre incompleta e lascia aperta la voglia di ulteriori ricerche: archeologia, filosofia, urbanistica, economia urbana, religione, storia, geografia, lingue e letteratura sono tutte discipline in affanno su questo argomento, hanno perso il filo. Eppure la città è per gli uomini (per la comunità politica) ciò che il mondo è per il genere umano nel suo insieme. Nella sua mente Napoli esisteva da sempre, ancor prima che i greci la rifondassero. Avrebbe riassunto la sua evoluzione in tre tavole. Nella prima provò a stilizzare Napoli come monumento, quasi a poter definire l’estetica e l’architettura della città come insieme o storie dei centri culturali, politici e militari. Ecco Napoli, una città si costruisce e si struttura per essere essa stessa un Mondo. Essa non è solo luoghi o residenza dei re e governatori, o di monasteri e chiese, dove vivono un numero limitato di persone, o fortezza a protezione della città. La città monumento già si mostra come insieme di luoghi e piazze, e questo a dispetto della volatilità dei re o dei vicerè. Essa si mostra con la splendida geomorfologia dei luoghi, e que42
sta già definisce la traccia urbanistica della città. Napoli di allora appare anche come la città di adesso, lui l’aveva ripulita dai tessuti sovrapposti, l’aveva disegnata sopra un nuovo letto d’amore circolare. La città appare nel primo disegno come città cosmica che già connette Europa e Mediterraneo. Possedendo la sola Milano non si controllava l’intera penisola, occorreva anche una base a Napoli; Napoli era una splendida retrovia politica, logistica e militare. Non solo, sul piano figurativo si mostrava, era anche articolazione spaziale di terra, mare e cielo. Già la sola articolazione spaziale, il suo perimetro antico, la sequenza dei suoi palazzi e dei suoi castelli, delle dimore pubbliche e private, la facevano rappresentare come città grande. Si era soffermato abbastanza su questa prima tavola e la ritenne sufficiente per restituire ai suoi studenti l’immagine di una città nata bella e di città vissuta come Campania Felix. La città non appare solo come luogo di monumenti e palazzi, è già città dentro un paesaggio desiderato. Non c’è città senza paesaggio e non c’è paesaggio senza un pensiero di città, avrebbe detto ai suoi studenti, ma anche ai suoi colleghi. L’architettura si è fatta urbanistica e la città ha già forma piena, l’urbanistica si fa città, appare come tessuto cognitivo in evoluzione. Questo concetto poteva essere anche la prima parola chiave della sua lezione, una rappresentazione metafisica fatta di essenzialità urbana già confrontabile con altre città: Toledo, Parigi, Dresda, Praga, Cracovia, Mosca ed altre con monumentalità più modeste. Le emergenze storiche avrebbero annunciato esse stesse la loro insostenibilità urbana, la necessità di rappresentare il tessuto connettivo alle reti esterne alla città avrebbe dato allora la seconda definizione di città, una città macchina, sistema complesso aperto. La prima tavola mostrava anche tutta la contemporaneità del piano regolatore vigente. L’anima del piano sarebbe apparsa come necessità da perseguire, come Utopia dei ragazzi del piano; l’utopia dei Giannì e delle Travaglino, di tutti coloro che come loro, Roberto Giannì e Laura Travaglino, erano considerati gli storici protagonisti del nuovo piano regolatore, fino a moltiplicarsi anche oggi. L’ufficio urbanistico del Comune poteva essere disegnato come 43
nuovo monumento da riconoscere, anch’esso patrimonio Unesco, patrimonio dell’umanità distratta. Nella rappresentazione della macchina complessa, del tessuto esterno alla città monumento, la città contraddetta, della definizione di Italo Ferraro appariva ancora bella. La città contraddetta si mostrava come città creativa e città dall’obsolescenza sospesa. Le difficoltà del disegno stavano nascoste nelle difficoltà di offrire un dispositivo tecnico a supporto dell’idea di una macchina sociale non scomponibile, in ritardo evolutivo ma anche capace di saltare in avanti, di anticipare emergenze urbane ancora non rappresentabili in altre città. Napoli industriale, Napoli turistica, Napoli terziaria, Napoli post industriale, Napoli post contemporanea, Napoli città d’arte, avevano difficoltà ad essere rappresentate come macchine urbane ad identità definita. Il disegno non riusciva ad esprimere tutta la irrazionalità della costruzione incompleta. Come se il disegno urbano avesse tenuto dietro una irrazionalità amministrativa e politica, una incapacità di completare il progetto, ecco chiarita la proposizione di Ferraro: Napoli si sviluppa contraddicendosi e contraddicendosi si conferma capace di produrre nuova urbanità. Molti dubbi sopraggiunsero, doveva riuscire a far cogliere nel disegno il senso delle domande da farsi. Dov’era a Napoli la razionalità amministrativa e progettuale di cui parla Max Weber? Cioè la necessità di riconoscere una organizzazione. Nel tessuto rappresentato per raccontare dell’evoluzione dalla Napoli monumento alla Napoli appartenente al contemporaneo, dov’era il progetto? Il disegno istituzionale dello Stato, dove l’amministrare significa il dominare in virtù dei saperi e del saper fare, era debole, inesistente. Dov’era la Napoli dello sviluppo? Napoli Est e Napoli Ovest, Napoli Nord e quella vicino al Mare appaiono come vomito urbano. Lello Esposito in una bellissima scultura restituisce questa sintesi visiva, spaghetti e pulcinella in fuoruscita libera dal corpo di Napoli. E questa scultura messa di fronte all’altra, ‘l’ascesa’, dove Pulcinella 44
è legato di spalle ad una scala, impossibilitato a risalirla, finisce per dare voce figurativa al gesto dei poeti, Cecere e Amendolara. Ma no, lui, non poteva ribellarsi come gli artisti, ce l’avrebbe fatta a disegnare questa Napoli in sofferenza urbana, ce l’avrebbe fatta a rappresentare la speranza dell’incompleto come prospettiva urbanistica ancora in campo, con le emozioni da dare ai suoi ragazzi per spronarli al difficile, al compito del pensiero lungo. Fu così che la seconda tavola si riempì di luoghi, di spazi sospesi, di ruderi cosmici, di pause urbane, di labirinti urbani, di luoghi desiderati e di luoghi indesiderati. Finalmente il mare era meno ostile alla sua necessità di disegnare. La sua mano aveva bisogno di velocità, sembrava la penna di un sismografo impazzito, sembrava che la terza immagine stesse per cancellare definitivamente le altre due tavole. Discontinuità ed irreversibilità prendevano il sopravvento. Anche per Napoli poteva ipotizzarsi la scomparsa della città, la frammentazione urbana, moltiplicata dalla comunicazione virtuale, si stava sostituendo definitivamente alla pianificazione pensata, debole? Le utopie rappresentate come paesaggio sublime erano scomparse; la restituzione visiva della prima tavola era già un reperto archeologico; la città è in disfacimento e Napoli non è più la sua città. Napoli, città come macchina tecnica, come macchina economica, come luogo di attività industriali e finanziarie che ha caratterizzato il ’900 in tutto il mondo, non ha immagine consolidata, solo frammenti sparsi, Bagnoli è già da anni tentativo di conservare un’archeologia compiuta. Nicola Giuliano Leone si sentì rinato, era riuscito a produrre nuovi disegni, in cui era evidente che le nascite erano progetti a bassa sostenibilità, nascevano già come archeologia di storie industriali. Il suo sorriso accompagnava lo sguardo sul foglio: dai cantieri di Castellammare e, poi, seguendo il disegno verso Torre Annunziata, e poi Pietrarsa, San Giovanni, e poi ancora verso Bagnoli e Pozzuoli, i progetti, a differenza di altri luoghi industriali europei, non avevano compiuto nemmeno gli anni giusti per farsi riconoscere come identità storica. 45
Questo territorio frammentato era il racconto visivo di una possibile estinzione dei luoghi e della città stessa, o era l’annuncio di una metamorfosi veloce, di un’esigenza di nuova architettura? Era necessario che si sviluppasse la capacità di leggere i frammenti per poggiare su di essi nuove densità e nuove interconnessioni. Avrebbe suggerito ai suoi ragazzi un nuovo ritornello capace di cantare della città ricomposta, dell’urbanistica possibile? Bisognerà dire ai giovani urbanisti che Napoli, come città industriale, non ha beneficiato della macchina urbana, necessaria alla crescita dell’industria, le periferie hanno un’altra storia. Napoli non ha accumulato saperi contemporanei e, oggi, l’industria moderna non ha bisogno di questa città. Napoli non ha nemmeno il tempo giusto per rincorrere le continue emergenze che si susseguono anticipando quelle delle altre città. L’arcipelago urbano è tanto vorace da minare le sorti della stessa città. Certo le città del golfo non hanno più separazioni cospicue tra spazi urbanizzati e spazi liberi, perfino il Vesuvio appare come torre circondata ed assediata: la ville n’a plus de dehors. Il sole e la luce dell’alba restituivano, però, ancora memorie visive piene di emozioni, lui riusciva ad immaginare ancora i luoghi della sua adolescenza, perfino ora che i monumenti di Napoli venivano nascosti dalle incoerenze urbane. Il Museo di Capodimonte era riconoscibile insieme alla Certosa di San Martino anch’essa assediata dal basso, con lo spazio di Morra, Vigna San Martino con i suoi aranceti e uliveti ancora incredibilmente espressivi. La sua memoria visiva era più forte dell’immagine reale, riusciva ancora a decodificare la Napoli contraddetta di Italo Ferraro, con la sua vitalità ancora in campo. La storia raccontata e rappresentata nei grandi volumi di Italo Ferraro, diceva che, a differenza delle città reticolari o ad estensione lunga, come Los Angeles e la conurbazione W. Boston, o i 600 Km tra Tokio e Kobe, una ricerca sullo spazio urbano, sulla pausa urbana, e sulla città desiderata, a Napoli, era ancora possibile. L’architettura potrà avere a Napoli ancora uno spazio vitale, lo 46
Lello Esposito, Ascesa negata, 1990
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spazio urbano avrà più probabilità di diventare ambiente urbano appartenente ad un paesaggio ad identità riconoscibile. L’architettura può ancora salvare la città Ecco la speranza per i suoi architetti-urbanisti. Sì, forse non aveva sbagliato a proporre il viaggio in Bus, con la visione altra della Napoli esistente, da est ad ovest con Ischia e Procida nascoste come patrimonio di riserva. La terza tavola, pur negando la prima, doveva apparire come la degenerazione della seconda, la città macchina incompleta. Essa deve rappresentare il dramma, ma parlare anche della ripartenza, della resistenza della città e del territorio alla frammentazione e al declassamento urbano. Egli voleva riuscire a contrapporre ad una visione dell’inevitabile scomparsa della città, nebulosa area metropolitana ingovernabile, una visione rigeneratrice di tessuti con l’aiuto dell’architettura. Era, questo, un buon modo per incoraggiare la ricerca di una nuova figura di architetto: l’architetto che ha la consapevolezza di agire in un’area vasta ed ha l’obbligo morale di non accelerare l’entropia potenziale. Per lui, le mélange disegnata, la città, non aveva nascosto la vitalità potenziale del territorio, inoltre, gli apparivano i luoghi amati, le antiche funzioni sociali, le reti organizzative interrotte. La sua urbanistica chiamava tutto questo ancora città, ed era questa sua capacità di riconoscere la persistenza che lo aiutava da immaginare una risalita. Questa sua capacità doveva essere trasmessa agli urbanisti studiosi, e a tutti coloro che pensano che le città non possono morire. Sarebbe andato in giro per due giorni e due notti fino a ritrovare con i suoi studenti la capacità di disegnare l’obsolescenza degli spazi urbani e i segni della nuova partenza. Riuso, riqualificazione urbana, qualità urbana, rigenerazione urbana dovevano assumere nuovi significati e la densità urbana di Napoli lo avrebbe aiutato, sarebbe stata in grado di suggerire la città che verrà, una prefigurazione urbanistica non astratta, non di sole forme, ma di contraddizioni vitali, di salti di scala necessari, di amministrazione intelligente. 48
Lello Esposito, Moto rigenerativo, 1993
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Quante densità da riposizionare, quante a-centralità da riconoscere come potenziali centralità? Un problema aperto, un nuovo modo di vedere la città. Il pino della cartolina era lontano, la palma ammalata era l’immagine di oggi, e da Capri Napoli gli appariva la città giusta per parlare di città e di luoghi, di densità territoriale e di paesaggi urbani. La città dei diavoli nuovamente città desiderata, una ricerca di nuova architettura per la nuova urbanistica, una prospettiva bellissima per gli urbanisti architetti e per gli architetti urbanisti, figure sempre più vicine e bisognose di ibridazioni fertili con tante altre discipline. Napoli è vicina, nuovamente città dove andare.
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PERCHÉ NAPOLI
Il titolo del libro tradisce il racconto, Toma nel raccontare l’empatia tra Caccioppoli e Napoli cammina dentro un’idea precisa sulla morte. Questa è ancora amore per Napoli. Essa può essere rappresentata come impossibilità di ascoltare tutti i rumori che arrivavano da dentro e da fuori Napoli; pertanto, è un urlo necessario, di appartenenza alla città contraddetta, è la vitalità di appartenere al presente. Renato Caccioppoli era la sua città, egli come Napoli poteva eccellere nella musica come nella matematica, ma era anche un grande critico di cinema e di letteratura, ed in lui era solo assopita la voglia di ingegneria. Egli era anche un politico, non iscritto, anche perché i suoi comportamenti avevano avuto sempre un significato radicale. Egli come suo nonno Bakunin aveva voluto credere che da Napoli potesse partire un cambiamento, una possibile speranza di rivoluzione. Una rivoluzione vera o un sogno, in ambedue i casi la sua fiducia in Napoli era una manifestazione d’amore per Napoli, città, da sempre, senza progetto politico. Caccioppoli aveva anticipato il concetto di Napoli Città Madre, l’opera di Ugo Marano, artista concettuale e utopico, che accompagna le altre opere della stazione metropolitana di Salvator Rosa a Napoli. L’Artista vede le mille città, nate per metamorfosi ed anticipatrici di città ancora non nate; tutte queste annunciano città dimezzate, incomplete, quasi a voler parlare della impossibilità di costruire una città ideale: Neapolis mai disegnata come rappresentazione finita. Del resto, anche il matematico napoletano lo aveva spiegato mille volte fino ai suoi trent’anni: «la lunghezza della diagonale non è commensurabile con la lunghezza di un lato». 51
È impossibile trovare numeri interi che ci diano questo rapporto, dobbiamo andare in altri spazi mentali. Era il suo modo di vivere, di affrontare i teoremi di esistenza. L’esistenza di Napoli (appartenere alla storia) come città nuova era stata ipotizzata anche da suo nonno Bakunin. Questi si era fatto suggestionare dalle prime manifestazioni della Napoli operaia, Napoli era a lui completamente sconosciuta. Michail Alexandrovic Bakunin, esule russo, inviato da Marx ed Engels, conoscitore di molte città europee, si lasciò prendere da Napoli; si lasciò prendere per amore dei luoghi e delle persone? Egli arrivò nel 1865, comunista cinquantenne, e trovò nella Napoli post-unità la possibilità di vivere la sua vita come ‘febbre’ per la libertà totale, fino a confondere i fuochi sparsi per fiamme della rivoluzione in arrivo. Tutte le polizie d’Europa lo tenevano d’occhio, esse sapevano che Napoli era un campo d’illusione mentre per Bakunin, più che per Gramsci, Napoli era il cuore del ‘problema Italia’. Ma come era possibile fare questa ipotesi per una città ancora in bilico tra Medioevo ed arretratezza economica? Napoli doveva rinnegare l’importanza di Mazzini e Garibaldi, mascherare il patriottismo, farlo apparire come veleno perché la libertà deve coltivare altro? La rivoluzione sociale poteva arrivare dai contadini meridionali? Napoli il punto di forza di queste ipotesi? Anche Caccioppoli, come il nonno, si fece cullare da ipotesi simili. Nel Veneto, dove era apprezzato professore, si fa prendere dalla nostalgia; differisce la sua andata a Roma, pur essendo stato chiamato dal suo amato Picone. Vivere di Napoli e Morire di Napoli è anche il racconto di ogni giorno. Caggiano, paese poco distante da Polla, a sud di Salerno conserva i suoi pensieri inusitati. Vi sono testimonianze nascoste di modelli fisici e matematici costruiti da Caccioppoli. Prima di lui, e da Eulero in poi, altri colleghi matematici e fisici, studiando le teorie sui grafi, anticipano gli attuali disegni urbani; le città non più monumenti o macchine semplici ma macchine complesse, dipendenti dall’esterno o comunque disegnate come equilibri tra spazi per l’interno e spazi verso l’esterno. La sua città, nel suo girovagare notturno, era rappresentata, nella 52
sua mente, come inversione tra alfa ed omega. In questo senso la morte diventava ipotesi di rigenerazione. L’enigma di Toma forse conserva altre risposte; la sua risposta a Caggiano? Perché anche l’artista Ugo Marano ispirato dal luogo aveva chiamato Caggiano città dei numeri 7? No, la risposta è già tutta nel libro di Toma, e non è nascosta, a Caggiano, in quel piccolo paese vi è solo una conferma. Vive, forse, una rappresentazione complessa della Città contraddetta di cui parla Ferraro. Napoli e la sua storia stanno già nel racconto dei gesti di sfida, di messa in discussione del presente, di esaltazione del cambiamento, di interpretazione del bello, di amore per l’imprevisto. Non a caso Caccioppoli vive con malinconico entusiasmo il riscatto di Napoli nelle magnifiche quattro giornate e cade nella profonda malinconia civile a partire dal ’56. Napoli non può essere un’isola come la fa apparire la sua borghesia, piccola ed immobile, fuori dalla storia. L’inverno ungherese diventa un inverno infinito, e la morte appare come una primavera possibile. Molti scambiarono per imbecillità il suo chiudersi nel privato, l’isolamento era invece una denuncia forte, non era la conferma che il suo malessere era per la perdita di un bene privato (l’amore per Sara). La nostalgia per la freschezza di Sara non potrà mai render conto della vitalità della sua morte. La diminuzione delle cose da fare, a partire dal ’56, doveva avere anche un significato più ampio. L’irrazionalità vinceva sulla matematica, i sentimenti dominavano il campo, la vitalità politica voleva ancora esprimersi. Il disamore per le cose di Napoli facevano viver il suo amore per Napoli come città della Storia, l’ipocondria veniva cantata come veglia lunghissima d’amore per la Musica. La radicalità del suo vestire diveniva disprezzo per se stesso, una malinconia diffusa lo avvolge, il civile ed il privato si fondono pressati dai segni che arrivano dal mondo. Se le funzioni sono infinite, come si fa a gestirle come famiglie finite di funzioni? Il concetto di ‘distanza’ appariva insieme alla città inesistente, era questa la città sognata? Una città senza distanza dalle altre? 53
Il 1953 era lontano, il premio nazionale di Scienze Fisiche Matematiche e naturali e gli altri riconoscimenti apparivano tardivi e fuori squadra, non funzionavano da contrappeso alle metastasi evidenti della politica per la sua città. Napoli abbandonata insieme alla Napoli saccheggiata degli spazi naturali, le bellezze e le vocazioni culturali non più certezze contemporanee, occorreva gridare con uno sparo. Certo la malinconia per Sara ritornava, ma quel congresso del PCUS del Febbraio 1956 ancor prima del novembre di Budapest erano diventati un melanoma crescente nella sua testa. Erano la causa della sua afasia, le parole si erano frammentate, la sua torre politica più incerta di quella di Babele. Siamo certi che la sua mente cercava di ordinare, trovare punti di equilibrio, fissare in qualche istante il tempo del sapere; questo compito diventava sempre più improbabile. Il materiale da trattare, la matematica e la città, erano sempre più aggregazioni in movimento, spazi-cerniera che si spostavano, di concetti che circolavano e rinascevano, sempre in trasformazione lontani dai punti di partenza. Gli approcci scientifici finivano per confonderlo ancora di più, non cooperavano armonicamente ad un’immagine unitaria del sapere e dell’universo da interpretare, ma al contrario si accavallavano, si intersecavano, si ignoravano, si contrapponevano, si fondevano e si scindevano continuamente. Sintesi ed antinomie affollavano la sua mente. Riuscì ancora a suonare, cercava di allontanare l’idea che il XXI secolo sarebbe arrivato senza la città di Napoli, senza la speranza. Doveva suonare per sé, per convincersi della speranza dello sparo, prefigurare quella ribellione solitaria, quelle note dovevano ancora essere riconosciute da se stesso. Renato perché ci abbiamo messo tanto a capire? La domanda di Sereni, comunista anch’egli, fatta a tutti, sembrava che riguardasse, ora, solo lui. Il genio era diventato imbecille? L’intelligenza dell’adesso negava l’intelligenza di adesso? Chi avrebbe ritrovato i suoi pensieri? Le sue idee sulla città? Caggiano era lontana e così tutti gli altri luoghi del Mondo, tranne Napoli. 54
Da due anni non andava a riunioni di partito, e quel giorno aveva una sola risposta per annunciare definitivamente il suo amore per Napoli; uscire di scena con una rappresentazione lunga, un urlo per la sua città prigioniera, impotente, sopportata, dipendente, senza parole nuove, nuda rispetto alla storia futura, senza latenze evidenti. L’urlo di morte come speranza di una risorgenza, rigetto fertile di una vita oramai in frantumi.
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L’ARCHITETTO E LA CITTÀ: PROGETTARE L’UTOPIA
Utopia è il nome che, a partire da Tommaso Moro, si associa comunemente ai sogni, quando per inerzia o per trascuratezza, per difficoltà o impossibilità i progetti e le forze che dovevano realizzarli sono cadute a pezzi, quando i rituali hanno mostrato i loro logorii e quando la violenza e le sopraffazioni sono diventate la moneta corrente. Tommaso Moro alludeva alla possibilità di purificare il mondo dalla insicurezza e dalla paura. Egli alludeva a due parole: eutopia cioè ‘buon luogo’ e outopia che significa ‘nessun luogo’. Eleonora e Emanuela, Luigi e Davide, Attilio e Marco, Davide e Sun, Gina e Maria Concetta, Cecilia e Francesa, Anna e Arianna, ancora Francesca e Luisa, come Giorgia e Xiaodong, hanno avuto l’opportunità di frequentare il II Master d’eccellenza di progettazione nei centri storici delle città, promosso dalla Facoltà di Architettura di Napoli. Il centro antico è diventato il loro laboratorio di progettazione. Subito, la città è apparsa come un labirinto di apprendimento, il laboratorio di progettazione è diventata la scoperta della Napoli contraddetta: buon luogo, nessun luogo e luogo malvagio si sono presentati in maniera indistricabile, ma nessuno ha avuto paura di non poter uscire dal labirinto: presunzione, non conoscenza e speranza di progetto si sono intrecciate. Essi hanno abbandonato la retorica del ‘non luogo’ ed hanno cercato il valore delle nuove densità urbane. Hanno riconosciuto la frammentazione come potenziale inesauribile e non si sono fatti scoraggiare dal pessimismo di Nanni Balestrini, si sono ispirati a Derrida, il filosofo della decostruzione, e si sono interrogati sui binomi irrisolti della pianificazione urbana: antico e moderno, pianificazione forte e debole, restauro e antirestauro, identità e sviluppo, 57
spazio pubblico e privato, competitività e equità, tempo breve e tempo lungo, sostenibilità urbana e sostenibilità profonda. Hanno indagato i processi nascosti, le retoriche diffuse, hanno decostruito i concetti, non come gesto filosofico ma come metodologia della ripartenza, hanno cercato la semplicità per svelare la complessità dei processi di costruzione del progetto innovativo. Sono diventati diffidenti quando la verifica di turno fatta da professionisti affermati ha complicato i percorsi, o trovato scorciatoie improbabili; hanno capito che la società che abiterà la città futura avrà forme di vivere la città che non hanno niente a che fare con la società poco disunita di ieri. L’ospitalità, l’amicizia, la comunalità, i valori della giustizia sociale, la percezione del diritto, la democrazia politica e quella economica hanno suoni diversi da ieri, le parole a corredo della loro definizione si sono frammentate. Questa nuova frammentazione urbana è specchio della frammentazione ambientale; i sistemi ecologici non trasmettono sicurezza sulla qualità e quantità di servizi potenziali, i centri storici hanno una vitalità artificiale scollegata dal potenziale di servizi disponibili, sono in emergenza continua. In questo senso le riflessioni sui centri storici sono sempre riflessioni sulla vita e sulla morte. Napoli ed il suo centro antico sono pieni di nuove densità, l’amicizia, il saper stare insieme, i valori della giustizia, la democrazia, le avanguardie, sono parole che convivono contraddette dallo spazio accanto, alimentando il generatore di vitalità che è l’apparente morte dei luoghi. L’architettura si è presentata ai giovani come la scrittura capace di opporsi alla morte dei luoghi, del resto il loro studio sui luoghi conferma quello che è già visibile nei libri antologia di Italo Ferraro: le discontinuità sono vitali ed i frammenti si fanno riconoscere come sequenze di storie. Lavorare sui frammenti, sui ruderi è opportunità nuova, un progettare sapendo vedere il paesaggio urbano, leggere con gli occhi del progetto il passato, il presente ed il presente che si fa futuro. Fare architettura è ancora scrivere per contrastare la morte apparente, è far vivere il presente. Essi sapevano che il loro scrivere di architettura non avrebbe avuto vita se non avessero chiarito, aprendo una discussione lunga, quegli 58
elementi che determinano la società. Il progetto doveva agganciarsi a processi appartenenti alla storia possibile, l’eutopia da cercare come dinamica di risanamento sociale. Solo così il loro decostruire, il loro volere disimparare dalla lezione avuta dai mille professori incontrati, sarebbe diventata una rivoluzione metodologica. Essi non dovevano accettare le semplificazioni delle correzioni accademiche, dovevano mettere in discussione perfino la soluzione trovata ieri, l’utopia doveva essere temporaneamente indistruttibile. Questa critica sfrenata doveva avere dentro la tensione di Ippocrate: Breve è il tempo lunga è l’arte. Valeva anche per loro, l’architettura come arte del pensiero lungo, senza la presunzione del manufatto immortale. Essi si sono divisi in gruppi e si sono concentrati su tre luoghi irrisolti, gli spazi del policlinico antico fino a Piazza San Domenico, il rudere e la strada che si incrocia salendo San Gregorio Armeno ed, infine, Largo Avellino e le contiguità intrecciate. Un compito di riscrittura, di destrutturazione e strutturazione innovativa, frammenti di luoghi a monte e a valle del decumano maggiore. Felicia Sembrano, architetto e funzionaria della Provincia di Napoli, durante le sue lezioni, si era specchiata in essi, aveva rivisto il suo stato di benessere giovanile, e li aveva fatti navigare nelle regole del piano, nella capacità di queste di diventare modello e strumento di pianificazione. Essi avevano percepito che questa volta l’analisi teorica della nozione città come parte fisica della vita urbana, di solito studiata in profondità dagli architetti, non poteva essere contrapposta alla città intesa come corpo sociale già esistente che spesso contraddice gli usi ideali, previsti dall’architettura del tempo t-1, il tempo precedente. Essi, architetti di domani, dovevano usare il tempo breve per capire e per osare, per cercare in quell’intrigo di strade ed usi, di slarghi, la proposta di un nuovo spazio civico. Ancora lo spazio urbano come ricerca azzerata, con tutta la progettualità esistente obsoleta. Essi dovevano dare un valore alla probabilità non nulla di parlare ancora di nuovo spazio urbano che diventa ambiente urbano, vissuto ed interpretato come città nuova, città contemporanea. Essi avevano capito che il loro compito era più difficile, non era un compito di nuova edilizia urbana, o progetti di riqualificazione 59
urbana legati agli spazi della nuova metropolitana. Essi sapevano, dalla storia dell’architettura, che produrre programmi integrati, durevoli è quasi impossibile, quando non vi è corrispondenza e buon comportamento tra città e società civile, tra progetto politico e strumenti di governance. Un sistema istituzionale sano ha capacità cognitive, è in grado di stabilizzare i nuovi riti, sa guidare i processi virtuosi ed ostacolare le incoerenze, non crea ostacoli al nuovo. Ma il loro compito non era di un compito vicino all’utopia? Di più, o eutopia o niente! Sebbene in cammino verso l’utopia essi non rinunciano al sano empirismo, induttivo e deduttivo, insieme al terzo apprendimento, quello dell’immaginazione spinta che trascina il razionale. Sopralluogo e disegno ogni giorno, per sognare di notte il progetto possibile, disfarlo poi e ricomporlo di notte come metodologia dell’apprendimento del progetto temporaneo sostenibile. Un palazzo, due palazzi, un palazzo ed uno slargo, uno scavo infinito fino all’ellisse del silenzio, 20 botteghe vitali, una piazza sgombra di macchine, il tutto ricucito da un percorso di scoperta della città ritrovata. Tornava Eulero, i sette ponti della città di Königsberg e i tredici luoghi di Parigi, ma essi non lo sapevano. Cercavano la semplificazione e la modernità, lavorare solo su una strada, un solo luogo, a vocazione naturale, magari puntando su un incrocio che si fa città. Essi inseguivano la scala giusta del progetto significativo, si rifiutavano di lavorare su un insieme definito, il piano di attuazione urbanistica del linguaggio dei piani era lontano. La destrutturazione era più importante, era il luogo che doveva diventare città. Inventare o trovare un progetto più grande della città esistente era il loro compito. Dovevano trovare lo spazio della nuova densità urbana, espressa dal progetto esistente e da quello ibridante; doveva nascere un progetto per nuovi comportamenti, nuovi rapporti tra il dentro e il fuori della città esistente, o almeno tra il dentro ed il fuori del quartiere. Le raccomandazioni dei professori prudenti seguivano le raccomandazione del filosofo Remo Bodei, un pro-getto è sempre un tentativo di proiezione del luogo verso il fuori fino al cosmo, il luogo ed il sublime nuovamente in rete. 60
Questa volta, occorreva scoprire il sublime come conoscenza, come nuova emozione che scopre nuovamente lo spazio urbano contemporaneo. Entrarono nella cappella Sansevero e scesero al di sotto, nella cavità sotto il Cristo Velato, e capirono che la morte era legata alla interruzione dei flussi di sangue. Ma allora i loro progetti dovevano essere capaci di generare nuovi flussi, ossigenare i tessuti urbani, magari accelerando la metamorfosi potenziale. Essi dovevano anticipare i tempi della nascita di nuove farfalle senza farsi influenzare dalla visione dominante dei bozzoli inerti, le larve vivono anche venti anni, le farfalle solo un giorno. Si misero in cerca di nuove densità cognitive, potenziali e realizzate. N-Up, il network tra spazi di nuova contemporaneità venne vissuto come esperimento necessario, poi visitarono T293, lo spazio denso di progetti d’arte di via Tribunali 293, uno spazio noto a Los Angeles come in tutta Europa per la capacità di scoprire il nuovo dell’arte contemporanea; entrarono nello spazio di Main Design, altra scommessa coraggiosa, si specchiarono infine negli occhi della ragazza che poco prima di Piazza San Domenico produce saponi nuovi, quasi a voler lavare nuovamente l’immagine di Napoli e riproporla come nuovo climax-urbano desiderabile, le zone umide di Napoli anch’esse patrimonio mondiale. Scoprirono l’a-centralità dei luoghi nuovi, alcuni in net altri in network. Segni e persone già appartenevano a questi luoghi, essi dovevano risolvere i problemi, riconoscere la valenza del loro progetto potenziale e connettere, connettere fino a scoprire la densità nuova del nuovo progettato. Laura Travaglino, l’appassionata funzionaria dell’ufficio urbanistico del Comune di Napoli, che aveva dato un contributo chiave per far nascere la filosofia della nuova regolamentazione, si rese disponibile per accompagnare nuovamente i giovani architetti. I ruderi e gli spazi interdetti apparvero, questa volta, come luoghi nuovi pieni di potenzialità, nascosti, decentrati o centrali. I racconti di Laura sulle sovrapposizioni, sugli errori di interpretazione dei manufatti, sugli spazi progettuali lasciati aperti dalla regolamentazione 61
intelligente, aprivano discorsi sulla vitalità delle densità contigue, facevano presagire che l’utopia era vicina. Lo sforzo doveva consistere nel tenere in rete di progetto i frammenti individuati fino a farli sentire nuovi milieu urbani. I loro disegni dovevano assumere ipotesi di flessibilità d’uso fino a far diventare elastico e temporaneo il processo di utilizzazione degli spazi, questa volta riconnessi a identità da costruire. Non era facile navigare dentro ai temi della fattibilità amministrativa ed economica, ma essi sapevano che questa fattibilità dipendeva dal grado di apertura e dalla densità delle loro ipotesi, e non dai finanziamenti soltanto. Un luogo si fa città come eutopia ancora non disponibile come laboratorio di progettazione. Del resto il suggerimento di Laura era evidente; in quei frammenti di città, ancora espressivi e occupati da usi impropri, doveva essere proposto un nuovo ritornello capace di legare i frammenti, una sorta di nuova partitura scritta come arte del fare architettura, lunga è l’arte anche per loro. Certo la metodologia proposta dalla regolamentazione del piano urbanistico non lasciava molti gradi di libertà, ma la sovrapposizione a frammenti di storia passata di altri frammenti di storia contemporanea era possibile, e la riscrittura di storie passate poteva essere fatta con ritmi diversi e con colori diversi per raccontare di una città sempre esistita. Questa volta non dovevano lavorare guardando in verticale, come avevano fatto i grandi costruttori di chiese e monumenti, né solo in orizzontale come era stato fatto per le strade e le piazze, ma il loro sguardo doveva essere non lineare, anche obliquo, per cucire frammenti sparsi, parti di città che chiedevano un ricongiungimento concettuale per riposizionarsi dentro la nuova visione urbana con funzione a massa critica persistente. Questa volta la metodologia doveva esplorare l’invisibile, guardare la città con gli occhi degli altri, essi dovevano accelerare la metamorfosi latente fino a far apparire la città desiderata, l’utopia possibile. La lezione degli storici dell’architettura era presente: l’indagine, finalizzata al progetto, doveva essere completa; essi dovevano guardare dentro e fuori l’evoluzione dei luoghi, dettagliando segni e sovrapposizioni, dovevano sviluppare il progetto non astraendosi dalla 62
geomorfologia esistente, il passato e le regole dovevano comunque essere visti come tecnologia di progetto, ma la ricerca dell’anima del progetto era altra cosa. La ‘restituzione’ del luogo alla città doveva assumere altra prospettiva. Lello Esposito aprì per loro il suo studio, video e voce dell’artista raccontarono la storia di una metamorfosi, un luogo che fino a qualche anno fa era stato muto, con la sua espressività legata al passato (si racconta che in quella stalla o ricovero dei cavalli si nascose Gesualdo da Venosa, prima della tragica notte in cui dovette uccidere, per le pressioni del tempo, sua moglie ed il principe Carafa). Lui gigante della musica dolce dovette riempirsi di pensieri tristi, estranei al suo pensiero europeo. Quel luogo era stato inaugurato da Lello poggiando sulla parete e sul pavimento una tela lunga, lunghissima. La testa di pulcinella era rappresentata, il corpo ancora non dipinto, ma la sua immanenza probabile invadeva l’intero spazio. Pulcinella non abita più qui era il titolo dell’opera, essa si mostrava come densità espressiva raggiunta, traboccante, comunicava la voglia di abitare il mondo. Fin dal primo giorno di apertura l’artista aveva scommesso sull’improbabile. Ingrandire l’immagine di pulcinella fino a lasciare a Napoli solo un frammento del progetto, con un significato preciso, quel frammento avrebbe parlato di Napoli, mentre la ricerca degli altri frammenti sarebbe stato il viaggio da fare nelle città del mondo. Lello parlò con il ventre dei suoi progetti, e con il cuore li invitò a Caggiano. Una mostra nel castello con opere di due mostri sacri, Warhol e Fontana e di due artisti del tempo come lui e Ugo Marano avrebbe dato il via ad un progetto di nuova centralità. Lì una sua opera, già esposta a New York, lo avrebbe spinto nuovamente verso New York, e poi a Chicago dove già un’altra sua opera avrebbe inneggiato alle 234 libertà costituenti della democrazia americana. A Tokio e Londra frammenti di Napoli si sarebbero ibridati con frammenti di altre città, identità e densità contemporanee come partiture da riconoscere. Frammenti di una città interna, dell’arte e del63
l’artista, con la voglia di esportarsi parlavano di Napoli, senza rinunciare ad una identità di città che tiene dentro un inferno visibile e un paradiso imprendibile. Uscirono dallo studio di Lello Esposito felici e frastornati, colori e progetti avevano mostrato loro una scala concettuale mille volte più grande dello spazio fisico visitato; Giuseppina Malinconico, la ragazza dei saponi era appena a venti metri, colori desiderati e colori indesiderati riempivano la loro mente, Il filo di Partenope, la libreria laboratorio di arte applicata di Lina ed Alberto ancora più in là, tutti quei luoghi a metamorfosi evidente li spingevano verso nuove metodologie da sperimentare. Disegnare e colorare gli spazi fino a sentirli frammenti concettuali significativi, incompleti e vitali come cocci urbani illuminati, futuri arcaici desiderati.
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UNA CITTÀ DA CUI NON SI PUÒ FUGGIRE
Doveva parlare di Napoli in bene, non del groviglio irrisolto di passato e presente. Avrebbe potuto leggere la recensione e parlare della sua ossessione, del suo amore tradito e del suo suicidio, una testimonianza letteraria, una denuncia necessaria. Non era la giornata giusta per parlare di quel che aveva sentito, della necessità di un distacco definitivo come ricongiungimento definitivo. La recensione era giusta, il suo essere esule dal ’57 con l’intermezzo del 2002 come presidente della Fondazione Premio Napoli gli aveva alleviato le sofferenze per i suicidi del ’58 e di quello ancora più eclatante del ’59. Oggi la sua trilogia del disincanto, Mistero Napoletano, La Dismissione e Napoli Ferrovia, appariva come un tentativo di autoanalisi curativa, un sogno tragico, un racconto lungo sulla morte delle speranze e delle illusioni. Rosso Napoli è il titolo della raccolta oggi. In essa egli ricorda il titolo che diede al libro Mistero Napoletano prima ancora di terminarlo: La città di Alcesti. «Perché una donna, così fuori dall’ordinario, aveva deciso di uccidersi? Alcesti, una delle grandi figure della classicità greca, sceglie di morire al posto del marito, dopo che i genitori di questo si erano rifiutati di farlo». La città di Alcesti era, allora, la città dei destini incompiuti, dove la storia all’improvviso si ferma, si pietrifica. La partenza definitiva, raccontata nell’ultimo libro, appariva un suicidio necessario, una denuncia inderogabile della gravità della situazione esistente; era lui Alcesti, oggi, era lui a sacrificarsi al posto di altri? Giunto ai piedi dell’altare maggiore, rilegge mentalmente la recensione di Napoli Ferrovia: «l’ultimo romanzo di Rea aggiunge malinconia alla tanta che già è presente nei cuori e nella mente dei tanti 65
che, ancora, e nonostante tutto, pensano alla possibilità di una ennesima ripartenza di Napoli e delle sue istituzioni. Napoli con i luoghi rivisitati della sua infanzia e giovinezza, la Ferrovia, Piazza Principe Umberto e Piazza Mercato diventano, per Rea, pretesto per un’autoanalisi profonda fatta da ‘cariatide comunista’. Napoli Ferrovia diventa l’ultima stazione, quella della partenza definitiva, del distacco da una città che non ha più identità solida, l’ha persa definitivamente con le decisioni politiche prese durante la guerra fredda che hanno favorito la rinascita dell’Humus della decadenza fino a portarla al fondo del pozzo (ipotesi già avanzata anche da Erri De Luca nel suo Napòlide). Non parla esplicitamente Rea, e non può farlo, della sua malattia; il padre della psicanalisi l’aveva definita come perdita di un bene astratto, di una fede, di una speranza, di un’utopia realizzabile. In epoca elisabettiana la stessa malattia depressiva era stata battezzata come malinconia civile, cioè perdita della speranza del cambiamento. Una società corrotta, senza ideali, senza progetti continuava a riprodursi parlando male e bene di sé, per fortuna arrivò la rivoluzione industriale e tutte le aspettative vennero riposizionate. Ermanno Rea, il comunista del dopoguerra, l’analista studioso della società napoletana, il giornalista che legge il funzionamento delle istituzioni, lo scrittore che con il romanzo ha da sempre voluto tracciare un bilancio su Napoli com’è, non poteva non contrarre questa malattia che, a differenza della malinconia per la perdita di una persona cara, non può essere curata nel tempo breve della vita, ha bisogno del tempo lungo della storia. Napoli è diventata una puttana drogata che non riesce a camminare su altre strade? Napoli non ha una borghesia volitiva e progettuale? Napoli ha una classe politica incapace di far funzionare le istituzioni? Napoli ha una generazione di giovani che dimentica di innamorarsi del progetto giusto? Napoli è invasa da centodieci razze di immigrati, anch’essi senza progetto e senza speranze, che moltiplicano i problemi irrisolti? Napoli è una città dalla quale anche gli scienziati, i poeti e gli artisti vogliono fuggire? 66
Napoli adda murì accussì (che poi significa deve vivere così), come dicono gli artigiani del presepe, quelli diventati ricchi per caso a San Gregorio Armeno, quelli incapaci di immaginare un riposizionamento collettivo di quel patrimonio di identità? Napoli è definitivamente una colonia e non potrà essere nuovamente una capitale di niente, a dispetto di quanto la politica della comunicazione propone ogni giorno? In realtà lo scrittore e saggista non vuole dare una risposta a tutte queste domande, vuole raccontare la sua solitudine, la sua incapacità di sollevare la testa, la sua incapacità di essere napoletano, il suo desiderio di non voler essere nemmeno l’Icaro del volo impossibile. La malinconia si fa avvolgente, si riempie di dubbi, perfino gli amici diventano inesistenti, traditori. Non resta che il suicidio; ma lo scrittore non lo può raccontare, perchè non può nemmeno ipotizzare che il comunista ha oggi paura del labirinto, dell’inferno inteso come città abitata solo da diavoli. Per lui, per il comunista di un tempo, lo scrittore racconta di una partenza definitiva, con la scomparsa anche dei testimoni che lo hanno visto indagare su se stesso, per assolverlo da un’ipotesi di eutanasia, unica chiave di uscita dalla malinconia civile. Napoli da raccontare è scomparsa definitivamente, come se non fosse mai entrata nel cuore e nella mente, protagonista di un tradimento collettivo, immorale rispetto al progetto possibile, quello del dopoguerra, dal potenziale, allora, ancora vivo. Allo scrittore ed al comunista sembra mancare la saggezza dei nonni, quelli che sanno dare ai bambini messaggi di tranquillità, raccontare favole dove il male prima o poi andrà via. No, questa volta non possiamo capire, non possiamo assorbire come una cronaca lunga il racconto di una partenza definitiva, non necessaria, né sufficiente a darci la misura di una incapacità degli uomini. Napoli Ferrovia, però, è la provocazione dolce rispetto al libro del pugno in faccia, il best seller Gomorra; è la provocazione che gioca sui sentimenti, sui ricordi, sulla capacità di amare, riconoscendo le persone del nostro passato che riappaiono come portatori di semplicità ed impegno. Enzo Striano, l’amico mai cercato dopo il primo distacco da Napoli, appare come sfondo tragico di una incapacità: stringersi in 67
cerchio per un ultimo girotondo mischiando visi e colori di bambini, giovani ed anziani e riconoscere Napoli come città dell’inferno contemporaneo, globale e mediterraneo. Ma Rea è lo scrittore vitale che tutti amiamo e per lui saremo disposti a tradire Croce che non darebbe più la parola su Napoli a chi non la sente Patria». Una riflessione lunga che lo portava dentro al suo libro ed al suo sentire, l’emozione si divideva in due, riconoscersi ed essere riconosciuto. Il sindaco e l’assessore lo avevano invitato a parlare di Napoli, magari in positivo. Egli sente che non riuscirà a farlo, non c’entra la recensione, si volta verso il pubblico e rifà il percorso della sua trilogia. Di fronte a una folta platea di turisti e cittadini, chiama in causa i personaggi dei suoi libri, la giornalista Francesca Spada, il Pci della guerra fredda, l’operaio dell’Italsider Vincenzo Bonocore, Caracas, il re della stazione centrale. Parla di piazzetta Matilde Serao, «era la sede dell’Unità dove ho cominciato a lavorare come giornalista, ho fatto lì le mie prime esperienze, era un vivaio di firme promettenti, un centro culturale molto interessante, frequentato anche da Renato Caccioppoli, il matematico». «Napoli», dice Rea, «è una grande città che a volte mi appare “pietrificata”, è di questa Napoli e di questa Italia che non riesco a parlare. Quando vado in Francia, dove vive mia figlia, e mi chiedono che sta succedendo, io non dico, provo vergogna». Napoli non è affatto un «altrove dell’Italia» marchiato da un destino malvagio, bensì, a pieno titolo, «Italia». E che il «caso Napoli» nient’altro è che la declinazione di un male nazionale, effetto di un deficit generale di politica. Come al solito, i napoletani ed i turisti presenti non avevano capito, non lo avevano visto soffrire, non avevano percepito che parlando di sua figlia, ospite in una città gemella europea lui avrebbe voluto che un’altra figlia, mai nata, fosse stata anch’essa ospitata da una Napoli diversa, senza i tanti reucci che assomigliano al suo Caracas. Si cibò dell’affetto napoletano, quello spontaneo di sempre e per un momento si dimenticò della sua assenza, perché a Napoli lui che era già morto di Napoli? Non poteva ribadire che quello che lui aveva chiamato «il mio teorema su Napoli» aveva necessità di esibire una prova estrema, magari per aprire un dibattito vero, oggi come allora. Lui Alcesti, oggi ancora oggi al posto di Napoli? 68
LA CASA ED IL COSMO. LA CASA KAPLAN
Un ‘end run’, un racconto per aggiramento, i dettagli di una storia per raccontare di altra; una poesia raccontata come realtà esistente, è questo un passaggio dal particolare al generale. Questa volta la casa, nata per vivere come viene, è diventata metafora e progetto possibile, vissuto e perduto, come sogno temporaneo irrinunciabile. La città delle mille partenze è anche la città dei mille arrivi, ci suggerirebbe Calvino, che non ama le storie di città dove la gente dice di voler vivere sempre. La città delle cose meravigliose ha sempre una duplicità nascosta. Solo il cinema ha saputo raccontare storie affascinanti di contingenza, di temporaneità meravigliose. La reinterpretazione di una storia grande e meravigliosa potrebbe tradire la storia; la stessa storia potrebbe, invece, essere raccontata come storia o storie di sequenze casuali, che difficilmente avrebbero portato ad una storia di durata. Due osservatori racconteranno la stessa storia in due modi diversi ma questo non toglierà alla storia la sua drammaticità e la sua bellezza. Il silenzio sveglia il tempo e lei, Nathalie-Napoli, in quei giorni voleva diventare sorda. Del resto anche i suoi pensieri e le sue parole erano stati travisati, ed i suoi progetti, le sue infinite iniziative d’arte e di accoglienza erano stati travolti dalla nuova direzione della comunicazione su Napoli. Napoli come città morta doveva essere comunicata e tutti dovevano dire di dover partire. In questo modo Napoli morta colava ed appariva città liquida. L’Utopia venuta su per caso, i progetti che chiameremo la casa di Kaplan, stavano per sciogliersi per il fuoco acceso sulla Napoli-inferno. Lei, Napoli-Nathalie che aveva navigato già con coraggio dentro i focolai del mondo, che aveva vissuto incertezze indicibili in luoghi bruciati dal tempo dell’adesso, non poteva assecondare la corrente, farsi omologare dalle notizie della possibile fuga. 69
Le forme sociali che aveva sviluppato e condiviso sul decumano maggiore e su quello inferiore non riuscivano più ad orientare l’opinione degli amici giornalisti, e gli amanti dell’arte erano già in cerca di altri luoghi, questa volta incapaci di vedere oltre la parola scritta o raccontata. Le Istituzioni non erano in grado di stabilizzare le opinioni. Anche a Napoli la storia presente della città stava spianando la strada alla “modernità liquida “ di cui parla Bauman, le istituzioni si stavano sciogliendo e con esse la capacità degli uomini di andare oltre l’adesso. Riferimenti credibili non se ne vedevano ed i progetti apparivano senza gambe, la cognitività delle istituzioni era assente e le associazioni culturali immaginavano un tempo breve per uscire dalla crisi, ancora più breve del pensiero individuale. La Casa di Kaplan era vuota dopo che per anni era stato impossibile garantire a tutti l’accoglienza richiesta. Il potere si separava dalla politica e tutto veniva messo in discussione, la speranza di Kaplan di una nuova comunalità da coltivare per sconfiggere la gramigna dei luoghi, la casa del progetto di collaborazione con il tessuto sociale della Napoli del cambiamento, era in pericolo. La casa rete, network sociale, la casa città, struttura portante di una nuova comunità urbana, cosmica e contemporanea, non aveva più voce. Voice and exit erano silenti ed il silenzio di Nathalie era diventato il colore timbrico dei due luoghi del progetto, il Purgatorio-casa come progetto Kaplan n. 1, sul decumano minore, e la galleria- casa come progetto Kaplan n. 3, sul decumano maggiore. La storia dei mille tappeti visti, di quelli comprati e venduti, di quelli sacri fatti da Maestri persiani, afgani e curdi o di altri luoghi senza confini, avuti in dono visivo e spirituale, facevano da contrappunto alla ‘non struttura della città in campo’, quella che la comunicazione stava sfilacciando o bruciando facendo vedere la città in fumo come metafora della città che non ci sarà più. Vivere di Napoli doveva essere ancora il progetto giusto, la permanenza e la manutenzione del progetto a termine che aveva in mente doveva vivere come contemporaneità necessaria ad interpretare gli arrivi e le partenze vitali. In quei giorni le storie della città e le vite raccontate degli individui non riuscivano a tessere storie di sostanza, le successioni di colori e i disegni urbani si erano alterati, non si riusciva a pulire e rinnovare la vi70
sione del tappeto urbano. Il sacro era scomparso ed il sublime dei paesaggi un ricordo appartenente alla letteratura, la creatività e l’arte non parlavano più a nessuno. Dimenticare le cose fatte era quasi un imperativo, l’aria di scaricabarile rendeva tutti colpevoli; ad ogni individuo, ad ogni cittadino si chiedeva di pagare un nuovo prezzo, indipendentemente dai tanti già pagati e documentati nella storia della città, questo prezzo doveva essere pagato senza sapere nemmeno il bene nuovo da acquistare. Lei sapeva dalla storia e dalle storie vissute, che la difesa o salvezza rispetto alle cose che stavano accadendo non poteva e non doveva essere lontana da sé, doveva essere piena di nuova razionalità, di razionalità del noi piuttosto che del sé, ma anche piena di speranza, di improbabile, di rischio. La salvezza individuale non poteva bastare, il senso al suo progetto temporaneo doveva essere pieno, la persistenza piuttosto che l’elogio della fuga. Fu così che riprese il viaggio per finanziare ancora il progetto, finanziare la manutenzione più che lo sviluppo, il vuoto più che il pieno. I tappeti del mondo in guerra per sussidiare la mente degli uomini d’amore. Napoli doveva essere ancora la città madre che l’aveva ispirata ed accompagnata nel progetto di insediamento? La nascita della Casa di Kaplan era stato un parto naturale e l’eventuale scomparsa doveva diventare una partenza gioiosa, non forzata. Tra due e sei anni sarebbero scaduti i fitti, ancora pochi anni per nuove densità. Non poteva e non doveva negoziare i suoi valori, sentirsi cittadini del mondo poteva essere ancora un valore da diffondere a Napoli. La casa di Kaplan era stata vissuta come luogo senza estranei, da qualsiasi parte arrivassero gli ospiti, il mondo in casa e la casa nel mondo; i luoghi dei due decumani erano diventati crocevia della cultura internazionale che chiedeva di incontrare Napoli ed incontrarsi a Napoli. Questa nuova pressione su Napoli era anche una pressione su se stessa, quasi una volontà nascosta di espellere lei ed i suoi progetti, la voglia di immobilità era dominante. La ‘mixofobia’ invadeva Napoli, la città a polifonia e policromia culturale. La Napoli estranea ai movimenti di segregazione, la Napoli anarchica e libertaria di Bakunin, di Amendola e dei Masaniello e dei Pulcinella, dei Giordano Bruno e della rivo71
luzione del ’99; la Napoli del noi e dei Pergolesi doveva saper resistere. Non poteva dimenticare le abilità acquisite e necessarie a vivere in mezzo alle difficoltà di Napoli, come vita proxy delle difficoltà di altre città. La sua Parigi rimaneva la città dove tutti vorrebbero vivere, ma Napoli era pur sempre la città madre, la città delle mille partenze e dei mille arrivi di Calvino, una città dalla vitalità infinita, della vita e della morte. Lei che aveva esplorato tutte le ambivalenze del vivere, sia nelle città dense che in quelle sparse, lei che aveva saputo vivere nei luoghi più inospitali del mondo, lei che aveva vissuto di astrazioni e di respingimenti fisici, non poteva non orientarsi nel disorientamento generale. E poi il suo secondo nome era Dolorés, cioè capacità di uscire dal dolore. Erri De Luca, lo scrittore errante, capace di dare valore simbolico ad ogni gesto fermo della farfalla, le suggerì il comportamento. Orientarsi nel presente non è una qualità dell’uomo, ma gli uomini possono raccontare di quello che hanno fatto e rappresentarsi come progetto ancora possibile. Riaprire Casa Kaplan per raccontarla nuovamente. La casa di Kaplan dove vivere ancora come progetto di casa che si fa città. Ma chi era Kaplan e perché doveva vivere proprio a Napoli la sua casa? Era il nuovo spazio urbano non programmabile? Si ricordò di Marco Polo e dei suoi viaggi in territori anche da lei conosciuti e vissuti: l’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; è quello che è già qui... Due modi ci sono per non soffrire, per non morire di malinconia, il primo è diventarne parte fino al punto da non vederlo più... (l’adattarsi del popolo napoletano, il pulcinella che abita ancora qui); il secondo è rischioso ed esige apprendimento continuo, cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio. La casa di Kaplan apparve come una farfalla in sosta, prima dell’ultimo volo; oggetti, foto, e poesie riempirono nuovamente la casa, un’antologia di fatti, di vissuto contemporaneo, una testimonianza per leggere il futuro, la casa degli uomini e delle donne che si sforzano di scoprire cosa non è inferno e che non hanno paura dei luoghi che altri chiamano inferno. 72
USCIRE DALLA PRIGIONE PERFETTA E CONQUISTARE SPAZI DI LIBERTÀ PER GLI ALTRI MA ANCHE PER SÉ
Maratea era lontana, si era verificato l’impensabile, la parola scritta era diventata una minaccia per la camorra, la sua morte era stata annunciata e sarebbe arrivata. A lui era solo concesso di cambiare prigione, anche ogni giorno, come annuncio di pericolo imminente. Aveva detto grazie più volte ai suoi lettori, più sarebbe stato letto e più lunga sarebbe stata la sua missione, una nuova densità per non pensare alla morte. Del resto, per lui questo pensiero, presente nel ragionamento delle cose che scorrevano (la presenza della scorta, le precauzioni, le fughe), non era opprimente, quasi un non pensiero, sebbene in ogni paese ed in ogni luogo dove era stato letto il suo libro la domanda era ricorrente; ma lei non ha paura? Roberto Saviano aveva più paura della diffamazione che della morte, come era avvenuto per Caccioppoli, lo stesso giorno del suo suicidio: «si è ucciso per quella puttana», e la puttana non era Napoli. Saviano lo aveva detto più volte, voleva far capire a tutti il suo amore per la sua terra, i suoi luoghi in primis e poi Napoli e la Campania tutta. Ma aveva fatto luce anche sulle alleanze politiche, e quelle con altre organizzazioni criminali e con la classe politica ed imprenditoriale del paese. La Camorra non viveva più solo nella corona di spine che avvolge Napoli, era oramai un fenomeno globale, ma dalla sua terra doveva essere espulsa e le sue parole, i suoi comportamenti, i suoi appelli ed anche il sempre più probabile suo sacrificio doveva servire al riscatto, al colpo di coda definitivo. Aveva paura di finire come don Peppino Diano, prete ammazzato ed infamato. Quella sera aveva una grande opportunità, da Fazio in una edizione speciale di Che tempo che fa, poteva parlare delle cose che aveva capito, 73
insegnare la decodifica dei linguaggi della camorra, per far capire quanto fosse penetrata nella comunicazione del paese, dentro i meccanismi del consenso e del dissenso, generando un’info-comunicazione alternativa a quella che pur veniva messa in campo dalle forze genuine del paese che spesso peccavano di ingenuità. Il film Gomorra aveva mostrato la Napoli e la Campania devastata, definitivamente lontana dalla Campania Felix raccontata negli ultimi 2000 anni, da Plutarco fino ai viaggiatori del Grand Tour. I paesaggi svenduti all’edilizia divorante, l’ambiente come scenario di copertura per mille attentati alla terra fertile, la droga come finanziarizzazione definitiva della vita e di tutte le attività parassitarie del territorio. Anche la paura di diventare personaggio era una paura importante, un nuovo Masaniello, una persona temporaneamente alla ribalta. Ma lui quella sera doveva perseguire il suo sogno. Cercare di contribuire a salvare la sua terra, Napoli e la Campania; il suo sogno era questo, incidere con le sue parole, dimostrare che la parola letteraria accanto alla cronaca può ancora avere un peso e cambiare la realtà. Del resto era questo anche il proposito di Fazio, questa testimonianza lunga, fatta di parole di molti, di quelli che hanno saputo dire e fare. Certo tutti personaggi che scomparivano ed apparivano ogni tanto, nella speranza che provocassero su persone ed istituzioni nuovi comportamenti. La trasmissione iniziò e Fazio si sedette in disparte, Saviano era diventato l’attore recitante e si mostrò come se stesso. Fece uscire tutto il significato della sua ricerca, della sua passione per la ricerca d’archivio, per la documentazione e per lo scrivere bene, cercare di essere confrontabili con coloro che hanno raccontato situazioni ancora più terribili di quelle legate ai misfatti e delitti della Camorra e dei suoi alleati. Un ringraziamento sempre ai suoi lettori ed anche ai telespettatori, tutti divenuti speranza di poter vivere ancora domani, la felicità di sentire ancora la parola incisiva. Si era impegnato all’inverosimile, aveva parlato bene, senza enfasi particolari, il suo essere serio era divento verità assoluta, andava diritto al cuore di coloro che l’ascoltavano. Seguire gli affari criminali era diven74
tato un dovere di tutti; quella sera la camorra e tutta la criminalità connessa, quella politica innanzitutto, ebbe paura e rinnovò la sua feroce minaccia. Egli era consapevole del fatto che un giorno normale non lo avrebbe mai più vissuto; o paradiso come quel giorno o inferno solitario, lo scrivere ed ascoltare come intermezzo, il tempo scorreva come purgatorio a termine, prima della resa dei conti. Si ricordò che scrivendo il suo nuovo libro, Bellezza ed Inferno, gli venne in mente di un altro libro. Ne L’uomo in rivolta di Albert Camus si racconta di un sottotenente tedesco finito in Siberia, in un campo dove regnava il freddo e la fame. Egli riuscì a comporre una musica che era il solo ad udire. Era l’immagine della insurrezione come armonia che attesta, lungo i secoli della storia dell’uomo, la grandezza umana. Quella sera lui aveva fatto qualcosa in più di quel sottotenente. Aveva suonato, per la sua terra e per tutti noi, quella musica armoniosa che lui chiama letteratura, e che spesso sentiva nella solitudine delle sue stanze di sicurezza. Non più parole destrutturate, frammentate, incomprensibili, ma ritornelli importanti, capaci di suscitare applausi di condivisione. La sua era una testimonianza importante, forse più importante del testamento di Pisacane, c’era più consapevolezza della gravità del momento, non a caso ritornavano insieme Giovanni Falcone e Albert Camus, una sorta di applauso per più parole. Sentì vicino la voce del primo: «la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un inizio ed una fine». E lui allora «La mia terra, Napoli e la Campania sono salve». E da contro canto Camus: «Ma l’inferno ha un tempo solo, la vita un giorno ricomincia». Quella sera e anche il giorno dopo furono questi i suoi pensieri, scrivere ogni giorno perché ogni giorno la vita ricomincia e le parole possono durare più della stessa vita, come ci mostrano le vite sospese di Camus e Falcone. Morire di Napoli è anche Vivere di Napoli, ma Napoli è anche la città nuova che abbiamo dentro e che vogliamo non muoia mai. 75
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UN QUARTIERE SI FA CITTÀ PER VINCERE LA MALINCONIA CIVILE
La politica non viene vista più come veicolo che porta fuori dalle difficoltà in cui da secoli o da anni, a seconda del pensiero lungo della storia o breve della vita, le popolazioni sono immerse. Pertanto, questa sfiducia finisce per trascinare intere stratificazioni sociali dentro una vera e propria catastrofe mentale: una inconsapevole malinconia ci prende e quando questa diventa consapevolezza evolve in malinconia civile, una depressione diffusa. Se in un quartiere, un museo, una fondazione, tante associazioni culturali, tante altre sociali e quelle popolari rilanciano nuovamente la ‘polis’, cioè la voglia di rapporti interpersonali, il desiderio di vivere esperienze insieme, di essere nuovamente città, allora c’è nuovamente un fatto politico importante. La democrazia è un sistema politico mutevole e insieme vulnerabile. Per rivitalizzarlo è necessario riconnettere rapporti di appartenenza e partecipazione, economia e politica, famiglie e vicinato, individui ed istituzioni. La Fondazione Morra ed il Museo Nitsch, nell’insediarsi nel quartiere Avvocata-Montecalvario, e nel chiamare artisti e cittadini ad elaborare e vivere il progetto ‘Quartiere dell’Arte’, hanno finito per proporre una politica per la città, un antidoto contro la malinconia civile. L’analisi fatta da Eugenio Scalfari sul rapporto tra artisti-scrittori e l’impegno politico, a proposito dell’ultimo libro di Milan Kundera, presuppone la difficoltà di mescolare il tema della bellezza estetica con la passione politica. Ma allora che cosa è il Quartiere dell’Arte di cui si parla da tempo nella municipalità citata? È un progetto politico? È una nuova ricerca sull’estetica contemporanea? È la ripetizione di un percorso noto ma spesso obsoleto: 77
più arte, più turismo, più sviluppo? È l’arte che deve nuovamente ispirare i temi della ripartenza della città? In realtà questi temi potrebbero rimanere sullo sfondo, ma il percorso è più ambizioso e lo slogan ‘il quartiere si fa Città’ svela l’idea di contrapporre una contemporaneità dell’arte per lo sviluppo alla contemporaneità dell’arte contemporanea. In questo modo, si propone, anche, una operazione di ecologia dell’arte contemporanea. ‘Un Quartiere si fa Città’ prospetta una scelta irrinunciabile se si vuole stare dentro un processo complesso che è il cambiamento dello stare in città. È un invito a vivere una vera e propria esperienza, anche per uscire dalla malinconia civile. Bisogna fare insieme, moltiplicando le identità potenziali del quartiere e questo, riconoscendosi in esse, diventa città moltiplicata, città che aspira a farsi grande. Le identità esistenti e quelle nuove si mischiano ancora una volta, come già avvenuto nella storia, e come le costruzioni già raccontano la città, ma, questa volta è la cultura contemporanea che fa da collante costitutivo di una nuova visione del quartiere. L’arte per lo sviluppo si contrappone a quella per il mercato; questa avrà voglia di oscillare per lucrare, la prima dovrà, invece, mettere radici per diventare pianta che produrrà humus per lo sviluppo. Tutto quello che sarà cultura, per fortuna, non sarà politica, perché la cultura ha bisogno ancora di più spazio, di libertà potenziale infinita. È la politica che sarà costretta a capire i processi culturali fondativi della città nuova perché solo sintonizzandosi con essi diventerà nuovamente morale, nel senso di servizio per gli altri, e potrà nuovamente giustificare il potere necessario alla sua opera d’arte. «Il progetto quartiere dell’arte vuole percepire la realtà che scorre, nel quartiere della mobilità per eccellenza, e per vocazione storica, per proiettarla verso un futuro possibile. Esso dovrà attingere dal passato memoriale delle opere, dei reperti, e degli spazi e trasformare il potenziale in laboratori del cambiamento», ribadiva Morra durante i mille incontri sul progetto organizzato da Francesco Coppola. «Si chiede a tutti, anche ai non abitanti, di essere nuovamente artisti del fare e del pensare fino a percepire il processo che porta alla 78
massa critica necessaria a parlare nuovamente di città», ribadivano in coro le associazioni amiche. Tutti erano in risonanza, per sintonizzarsi su frequenze d’appartenenza. Una Fondazione si fa doppia e poi quadrupla e poi ancora quadrupla al quadrato fino a diventare nuovamente madre fertilissima perché nuovamente giovane e gravida di un quartiere che è urbanista della città. Un manifesto teorico vive da tempo nel Museo Nitsch e gruppi di studiosi e di cittadini lo rileggono dopo averlo già letto, per capire il significato della loro ripartenza. Il forum Tarsia con la sua rete di volontari continuava la sua missione di manutenzione degli spazi di comunità potenziale, e tante altre associazioni cercavano di non soccombere alla malinconia strisciante sempre presente nelle situazioni di ripartenza. Il DAM e il suo Palazzotto d’iniziative ed il Parco Ventaglieri in attesa di nuova identità. Essi stessi sono diventati, senza saperlo, artisti del quartiere ed incominciano a vedere le mille città esistenti, invisibili fino a ieri. Indossano gli occhiali del cambiamento e vivono il quartiere. Ora tutti vogliono quegli occhiali, hanno desiderio di uscire dalla malinconia, hanno desiderio di vivere nuovamente la città per sentire l’emozione dell’appartenenza.
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ENTRIAMO IN CITTÀ
Il libro della città non racconta più storie e la città non ha più memoria utile per progettare il futuro, tutti gli spazi occupati dal nulla, morire di Napoli è Morire di Gerusalemme, di Beirut e Sarajevo. Mille luoghi d’Africa o d’Oriente ci dicono della nostra città, la poesia non parla più, rimane il gesto poetico della ribellione rimbalzante, del suicidio necessario. Il cannibalismo sociale e di massa appare inevitabile. Aperta un giorno la finestra a caso l’uomo disse ‘Entriamo in città’ Il libro? Gerusalemme Gerusalemme Porti scritta nel tempo L’eresia pensata La verità solo enunciata Alle difficoltà di entrare in città di Filippo Cecere possono essere contrapposte le mille opportunità che invece propone, con il racconto della sua vita, Benedetto Croce. Ne parla con consapevolezza piena lo storico Giuseppe Galasso, anch’egli gigante del saper vivere di Napoli e della Storia. Nella postfazione del libro di Benedetto Croce, Un paradiso abitato dagli angeli, si sottolinea che la Napoli di Benedetto Croce è tutt’altro che la sola città definita topograficamente e come identità municipale. Napoletano è aggettivo che si riferisce non solo alla città, ma a 81
tutto il Mezzogiorno, ma andava anche oltre, fino a trovare nella storia culturale della città, tanto europeismo e tanto universalismo. Riprendere la diagnosi fatta in secoli passati, Napoli un paradiso abitato da diavoli, significa per Croce riprendere dalla necessità di ripartire per una nuova evoluzione civile. La speranza della cultura come speranza di un popolo lazzarone sì, ma sempre con civiltà profonda come storia complessiva. Napoli era da considerare, comunque, una patria ideale, una patria dello spirito accanto all’idea di patria biografica e del sentimento. Il vivere di Napoli descritto nelle pagine di Un angolo di Napoli fa emergere un senso fisico di appartenenza e di immedesimazione, non è retorica sulla sua città ma sentimento forte ed intenso ed, al tempo stesso, fine e delicato. «È dolce», scriverà, dopo l’acquisto della casa sul decumano minore, che poi prenderà il suo nome, «sentirsi chiusi nel grembo di queste vecchie fabbriche...». Entriamo in città per Croce è l’invito ad immergersi nella storia di Napoli e guardare al suo DNA come storia di storie, mille città contraddette ancora vitali, vissute che possono diventare labirinto di apprendimento per la risalita possibile. La ricerca sull’indesiderato esistente può trasformarsi in speranza di progetto. L’uomo di saperi e di studi diventa così poeta della speranza e trasforma l’impossibilità di entrare in città di Filippo Cecere in invito fertile. I giovani urbanisti in fieri provenienti da Palermo sarebbero entrati in città con la mente libera, e dovendo alimentarsi di informazioni dirette, avrebbero, poi, fatto la somma delle loro diagnosi veloci; protagonisti o turisti, per due giorni avrebbero avuto la libertà di rappresentare ancora la voglia di architettura dell’abitare in città?
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UN PIANOFORTE SI FA CITTÀ
L’occasione di PIU Europa, il progetto europeo per una nuova qualità urbana, offriva la possibilità di fare un inventario del potenziale di urbanità del quartiere, l’utopia di Morra poteva diventare proposta significativa da inserire nel programma europeo. La sua Fondazione ed altre associazioni sottoscrivono la manifestazione d’interesse a utilizzare il magnifico spazio del Convento delle Cappuccinelle. Convento prima, poi Carcere, poi Scuola, domani sarà forse nuova centralità del quartiere dell’arte. Nicoletta Ricciardelli ogni giorno al lavoro nel tempo liberato per il sogno, e due giovani architetti, Luana e Rossana, ed un agronomo entusiasta Giuliano, l’aiutano a riconoscere il potenziale del quartiere in termini di nuovo paesaggio urbano, con la Natura ancora capace di vivere ed esprimersi in città. Una foto, mille foto, la frammentazione del quartiere si ricompone, la Napoli contraddetta di Italo Ferraro si manifesta. Tornano le sue riflessioni. «Questa area è stata sempre un’area di attraversamento, ed a causa anche dei pendii, questa peculiarità è ancora presente e dominante anche quando il quartiere è diventato denso di popolazione (sempre molto meno della città antica, o dei Quartieri Spagnoli, progettati per le residenze). Per me la proposizione il quartiere si fa città è indebolita dalla consapevolezza sulla storia dei luoghi: la pendenza del suolo e la residenzialità di persone a grande mobilità, fanno individuare con fatica una evoluzione verso i caratteri pubblici urbani contemporanei anche dei suoi pur significativi caratteri e valori di luogo». Ma le mappe non sempre sanno dire del territorio ed il sogno di Morra era un disegno mentale cui si poteva far riferimento mobilitando risorse umane ed artistiche per una nuova mappa. Oggi, ci tro83
viamo davanti a un mondo che è minacciato non solo da vari tipi di disorganizzazione, ma anche dalla distruzione dell’ambiente e noi non siamo ancora in grado di pensare con chiarezza ai rapporti che legano un organismo al suo ambiente. Ma, dopo tutto, che razza di cosa è questa che noi chiamiamo organismo più ambiente? E poi, ancora più impegnativa è la risposta, quando questa cosa noi la chiamiamo città. «L’idea di un quartiere dell’arte è nata per proporre una differenza, una discontinuità evolutiva necessaria alla città prima ancora che al quartiere. Per le sue caratteristiche, il quartiere non città riparte al pari di altre mille città visibili, volendo citare il drammaturgo Chay Yew; le città esistenti che hanno perso funzionalità coerenti, si presentano anch’esse nuovamente come luoghi potenziali da vedere con occhi nuovi», suggeriva Francesco Coppola, per sintetizzare altre posizioni. Ed ancora ribadiva: «Vi ricordo delle emozioni di Silvio Perrella, riportate nell’atlante-enciclopedia di Italo, il dire di Silvio “vado con Italo alle Cappuccinelle” ed il suo “ti farò vedere un paesaggio urbano straordinario” dicono che quel luogo può essere una pausa urbana ed una discontinuità potenziale; specie se quel contenitore accoglierà progetti veramente contemporanei. Del resto il Museo Nitsch è anche un test positivo di questa ipotesi della discontinuità fatta dal gruppo progettuale riunito intorno a Morra». In effetti la proposta di Giuseppe Morra e dei suoi amici fidati, era un’ipotesi per lavorare sul temporaneo contemporaneo che pure può essere interpretato dalle vocazioni di scorrimento di alcune strade e di alcuni slarghi. Piazza Gesù e Maria oggi ha una identità non chiara. Il Parco Ventaglieri e la parte sottostante già cercano esperimenti di nuova identità, contemporanea e temporanea. Identità parallele ed identità concorrenti cercano la massa critica riconoscibile come città o frammento di città riposizionata. Mille discese e mille salite con Morra ed i suoi artisti, poi gli artigiani pronti ad immaginare il Convento delle Cappuccinelle già pieno di nuove attività, spazi restituiti a tutti coloro che vogliono vivere nuove esperienze di città. Un quartiere nuovamente abitato da artisti ed artigiani, tutti in rete per una nuova qualità della città. 84
Certo il quartiere è città in salita, fondata su strade di attraversamento, ma un esperimento di nuova umanità incoraggia ad andare avanti con più decisione. Giuseppe Morra aveva accettato con diffidenza, ma anche con la solita curiosità, la proposta di estendere il convegno di confronto tra le esperienze del ferrarese, Ferrara inclusa, e quelle di Napoli, sul tema dei laboratori del cambiamento. Il Museo Nitsch avrebbe ospitato, il giorno dopo quello del convegno, una performance concerto del pianista e compositore Bruno Persico, 24 h in concerto, dalle 16 del Sabato alle 16 della Domenica. La prima parte del convegno metteva a confronto esperienze di nuova identità. L’esperienza già avviata sul quartiere dell’arte si confrontava con quanto sta accadendo a Ferrara per l’area interna alle Mura. Qui nasceranno vuoti per il trasferimento definitivo del vecchio ospedale. Poi il racconto su altri luoghi cospicui, i progetti di Villa Bighi del copparese con le sue nuove sperimentazioni di arte contemporanee venivano messi a confronto con le esperienze napoletane di rara intensità, Lanificio 25, T293, il Teatro Nuovo e lo spazio-studio di Lello Esposito. Ed anche il racconto di Fabbrica Creativa della Città Moltiplicata, sempre nel copparese, riproponeva l’idea della densità urbana come ripartenza. Una rete di luoghi, questa volta sotto lo slogan ‘Un luogo si fa città’ facevano vivere l’ipotesi che le nuove densità urbane erano capaci di riposizionare la città. La ricerca continua del nuovo spazio urbano dove mischiare aspettative e progetti per la città che verrà. La provocazione del concerto di 24 ore andava nella stessa direzione, un pianoforte insieme al maestro Persico diventavano opportunità di incontro e di inventario di quelli che vogliono vivere la città. Poche persone erano presenti all’inizio del concerto, tutti però scoprirono la straordinaria acustica di quel luogo magico. E lo stesso Morra scoprì che quella casualità, la disponibilità di una centrale elettrica ENEL in disuso, rifunzionalizzata per ospitare un museo tematico, si rivelava ogni giorno luogo nuovo per la città. Non solo la straordinarietà del posto ma soprattutto la sua disponibilità ad ibridarsi con iniziative multiple avevano fatto della difficoltà di accesso un percorso desiderato. 85
Era la densità comunicativa delle iniziative che moltiplicavano le intersezioni ed aprivano sempre più la mente fino a farla sentire dentro lo slogan ‘un quartiere si fa città’. Morra decise quella notte di non abbandonare il suo gioiello napoletano; lui, sperimentatore, aveva accolto una infinità di esperienze di avanguardie con performance a durata lunga, ma questa nuova esperienza andava vissuta come nuovo modo di vivere lo spazio urbano. Non era questa la proposta de ‘Il quartiere dell’arte’? L’arte per lo sviluppo civile ed umano piuttosto che l’arte per il mercato, cioè un tentativo di trasmettere amore per le cose da fare come arte dello star bene. E lui ed i presenti avvertirono un benessere inatteso, il tramonto veloce annunciava la notte più lunga dell’anno, a Napoli città del sole, sarebbero stati la notte, il luogo e la musica ad illuminare i cuori. La prima performance annunciò una sequenza di brani dedicati alle donne, parlavano della loro capacità di vivere la città. Poi l’improvvisazione dialogò con le immagini di repertorio del Museo. Le performance di Nitsch furono rivisitate senza il proprio sonoro ma con nuove colonne sonore capaci di accompagnare nuovamente la mente dentro nuove emozioni. Avanguardia sempre, ma anche pensieri di nuova intensità capaci di riproporre i motivi dello stare insieme. Le persone che sopraggiungevano erano sorprese di quanto già stava avvenendo e facevano fatica a sintonizzarsi con l’atmosfera che si era creata. Dallo spazio ristoro del Museo arrivavano bevande e pietanze per convivialità nuove, discrezione e voglia di dire si mischiavano dentro i suoni sublimi arrotondati dallo spazio sonoro. In ogni angolo del Museo le note si rincorrevano per giungere alle persone appartate e a quelle in sosta fuori, ancora timide nel violare quello spazio che appariva come nuovo spazio sacro. Dalle due di notte il flusso in entrata terminò e quello in uscita era lento lentissimo, allievi e nuovi musicisti affiancarono il maestro, i suoni si moltiplicarono e voci di canto riempivano il Museo come sirene immobilizzatici. Il maestro suonò ininterrottamente fino all’alba. Alle 6 del mattino, i pochi presenti pensarono per un istante di aver sognato tutta la notte. 86
Musica dolce e musica dirompente, emozioni ravvicinate e pause necessarie avevano riprodotto un milieu straordinario, un luogo dove star bene si era presentato in tutta la sua varietà espressiva, museo e luogo di musica, luogo di ristoro e di contemplazione, luogo di attesa e di incontro, di apprendimento e di lettura, di sonno e di sogno, d’amore e d’accoglienza. La colazione come pausa per tutti, e poi nuovamente il flusso di nuovi curiosi ed il ritorno di coloro che avevano avuto il rimpianto di essere andati via. Quando l’inventario sembrava completo, una sorpresa interessante si sovrappose all’esperimento in corso. Arrivò Orlan, una delle artiste più note al mondo per la sua capacità di interpretare e vivere le metamorfosi del corpo; lei che aveva visto Morra esibirsi al piano in una performance d’avanguardia, suonare con il pianoforte incendiato, notò questa volta un’atmosfera diversa. Non c’erano gesti d’avanguardia spinti, era il luogo che sperimentava una metamorfosi temporanea, una capacità di diventare altro per poi tornare se stesso, ogni volta che il direttore del Museo decidesse la nuova partenza. Era in atto una ri-costruzione continua dello spazio, una ricostruzione sempre temporanea e resiliente, cioè aperta a nuove metamorfosi. Era il luogo che tentava esperimenti di nuova avanguardia, quel luogo come il suo corpo, quel quartiere come la sua anima. Dopo 23 ore il Maestro capì che doveva ancora dare il meglio di sé per sé e per il luogo, e così tirò fuori le energie migliori ed incollò ai propri posti tutti i presenti, per quasi un’ora tutti fermi ad ascoltare, ad interpretare quel lento e deciso avvicinarsi al finale, un reiterare innovando un vecchio ritornello rivisitato e pronto a farsi da parte per lasciar spazio ad avanguardie inattese. L’applauso tradizionale era diventato comportamento riflessivo e Morra fu invitato ad affiancare il Maestro. Questa volta, per Morra, la sua voglia di oltre doveva incrociarsi con la creatività possibile. Il suo progetto doveva incrociare i temi della città, dare a questa parte della città, il quartiere, la capacità di seguire la sua voglia di far parlare l’arte. Doveva essere in grado di farla condividere e vivere come arte per star bene in città. Il quartiere si fa città doveva essere 87
la moltiplicazione di quello che era avvenuto quel giorno e quella notte, ogni luogo del quartiere doveva e poteva diventare un luogo di sperimentazione sui temi della città. Capiva che la sua disponibilità ad accogliere ‘un pianoforte che si fa Città’ in un Museo tematico legittimava la proposizione di voler aggiungere ai nuovi media una nuova modalità di comunicazione per il vivere insieme. Riviste on line, radio e media, audiovisivi, web ed internet, blog e spazi virtuali, concorrono a rinnovare le forme di partecipazione, moltiplicano le soggettività politiche, creano comunanze inattese, relazioni a scala variabile, ma quell’esperimento, in una giornata invernale e piovosa, aveva dimostrato che la città incrocia reti come alle sue origini. Il concetto di reti ha avuto un’evoluzione importante ed imprevista per effetto dell’esplosione delle reti di informazione e comunicazione. La loro esplosione ha trasformato il rapporto tra locale e globale, ha frammentato gli spazi e le città, ma è bene non mischiare mondo virtuale e mondo fisico. Sul piano concettuale, si assiste ad una forte regressione della città e della metropoli, le agglomerazioni urbane guadagnano peso e spazio, i frammenti si sovrappongono, i dati sulla crescita di popolazione, delle attività culturali e scientifiche premiano sempre le aree urbane. Allora il cambiamento e la ricerca di nuovi spazi è ancora da fare dentro le aree urbanizzate; sfidare il contraddetto, ricucire e far ripartire i luoghi. Sono le densità urbane, ed a Napoli i quartieri, a dare persistenza ai luoghi. A Napoli questa stabilità è garantita dalla densità d’uso degli spazi. A Napoli è possibile percepire in ogni dove un fluxus costante d’informazioni, di saperi, di persone e di beni, d’arte e di artigianato, di fatti malvagi e di attese meravigliose. A Napoli la città è ancora un luogo ed un luogo può essere ancora città e non solo un punto rete. Un luogo a Napoli è ancora impiantato su un tessuto, spesso stratificato in secoli di esperienze, perfino la monumentalizzazione lo rende irriducibilmente luogo. Il Museo Nitsch era oramai luogo da tempo e si avvantaggiava del fatto che il vedere dal museo lo rendeva parte di un paesaggio di un tessuto visivo pieno di storia e storie. Le relazioni di vicinato erano 88
evidenti, una stabilità spaziale inalienabile, una voglia manifesta di confermarsi come nuovo spazio urbano. Ma cosa voleva mettere in comune il progetto di quartiere? E di quale nuova città si voleva parlare? Si trattava di rilanciare temi semplici, le prassi d’uso del quartiere e la laboriosità dovevano nuovamente mostrarsi e lo spazio fisico doveva servire da laboratorio d’incontro. L’artigiano che riespone la sua capacità non solo per la vendita, ma per farsi riconoscere come parte di una città, l’artista fa altrettanto e propone l’arte come linguaggio di decodifica dei pensieri nuovi. Le proposizioni del comune e del singolo non sono in contraddizione ma rendono più esplicito il concetto di sociale. Il sociale è generosità. Il fare città è fare urbanità. Questo mondo comune è il divenire delle pratiche interrelazionali, di condivisioni e di familiarizzazioni, anche attraverso incontri aleatori e brevi (andare e venire da uno stesso salumiere, il farsi credito temporaneo, l’uso dei trasporti collettivi, la difesa di interessi comuni, di un parco o di una scuola). Questo incrociarsi continuo di privato e pubblico, perfino nelle emozioni, ci fanno scoprire un ordine vernacolare ancora contemporaneo, un imprinting ancora necessario per vincere le incertezze della vita in rete. In quella esperienza delle 24 ore di musica e convivio si era formata un’atmosfera durevole, una sensazione di appartenenza ad un luogo in cui, perfino Morra, possessore del luogo, si sentiva in un nuovo spazio pubblico, da definire e ridefinire ogni giorno e quella notte ogni ora. Ciò che è incontestabile è che ogni città e ogni quartiere tende a sviluppare un mondo comune singolare fino a moltiplicare la città stessa, sebbene sezionata nel tempo. Cosa resta di Shanghai degli anni ’30, del Faubourg Saint-Germain di Proust, di Lisbona di Pessoa? Salita Pontecorvo come conferma della realtà urbana, un azzardo concettuale per dimostrare che Napoli esiste ovunque esista una strada di Napoli. Valorizzare ogni strada del quartiere, ogni atmosfera, ogni stile, ogni ritmo, ogni artigiano, ogni artista, ogni abitante per cancellare le tare ed i luoghi comuni indesiderati era la strada giusta? L’arte come mediatrice del progetto? La città esiste per quelli che l’abitano e questi devono essere capaci di viverla. Quelli del Movimento Moderno, più di tutti chiedevano una rivoluzione alle 89
professioni, ed oggi il quartiere dell’arte lancia la sfida alla questione irrisolta dell’urbanistica contemporanea. Come articolare e sviluppare i temi della crescita urbana, delle città reti di reti, per una domanda di vita confortevole (in termini di servizi complessi), di conservazione dei livelli professionali (cultura e conoscenza), di efficacia delle connessioni (trasporti e mobilità globali), di sicurezza fisica e ambientale? Salita Pontecorvo, una strada di transito trasformata per una notte in una via di ricerca di una nuova comunalità, dove scoprire nuovi rapporti di vicinato in diverse ore del giorno e della notte; quel sentimento di appartenenza nuovamente in campo, in rete, una nuova distanza rispettosa del fare altrui, quasi una scelta di amicizie discrete, con le loro regolarità di comportamento. Spesso un uso della strada è fatta di banalità quotidiane ma l’insieme di quello che avviene è niente affatto stupido, è la vita che viene e si esprime ogni giorno. È questo uso somma che il progetto vuole riposizionare moltiplicando i comportamenti individuali. Quella strada e le sue intersezioni, oltre a diventare un luogo di passaggi significativi potrà articolarsi in una infinità di nuovi riti, legati all’arte e al saper fare, fino a mostrare un nuovo senso civico, esemplare, di appartenenza al luogo ed al mondo. Un passo nuovo di serenità vissuta, un’offerta di nuova pace interiore, un modo di appartenere al quartiere come centri di umanità plurale, con stacchi armonici e stacchi imprevisti necessari alla vitalità condivisa, un esercizio di libertà mancante, tutto può nascere. Questo luogo di passaggio generico, questo andare da una parte all’altra della città, potrà trasformarsi in un luogo di reincontro; l’esperimento delle 24 ore poteva essere ripetuto in altre forme, provocatorie o naturali, per migliorare la visibilità del progetto, rafforzare gli altri luoghi cospicui, immaginare nuove intersezioni vitali tra reti inesplorate. Il quartiere e le sue strade come nuovo inventario delle diversità urbane, di mescolanza di strati sociali, di razze, di comportamenti, di professioni, un quartiere capace di mostrare la sua imprevedibilità, una nuova espressione di democrazia. Lui, Morra, che aveva abbandonato il quartiere delle gallerie d’arte, della sperimentazione per avanguardie internazionali, che si era trasferito in un quartiere fortemente strutturato, quello della 90
Sanità, e che lì non era riuscito a parlare di arti e di arte come desiderava, fino rischiare di farsi consumare, doveva cambiare velocità al progetto. La nascita del Museo Nitsch, la rete di persone nuove, il quartiere più interessato alla sperimentazione lo avevano incoraggiato, ma quel giorno sentì, ancor più, di aver imboccato la strada giusta, irreversibile. Negli intervalli di quella notte, aveva sentito per la prima volta il respiro del luogo del quartiere dell’arte. Nonostante la pioggia e il freddo intenso un flusso continuo di persone aveva raggiunto il Museo, ascoltato la musica, scoperto incroci inusitati del quartiere di transito. Lo spazio urbano riscoperto annunciava la possibile metamorfosi del quartiere in nuovo ambiente urbano. La creatività delle arti avrebbero aiutato l’utopia sulla città nuova. Morra ed il maestro si esibirono insieme, un finale di armonia e disarmonia, le creatività parallele divennero concorrenti, fondanti, ingrandirono il significato di vivere di Napoli.
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MORIRE PER VIVERE
Roberto Saviano aveva dedicato il suo nuovo libro a tutti coloro che, solo per averlo letto, erano diventati testimoni del tempo ed avevano fatto diventare il libro, Gomorra, un testo pericoloso. Questo nuovo libro La bellezza e l’inferno, racconta del significato dell’impegno e della necessità dello scrivere e documentare, della lettura costante di fatti d’archivio e di fatti raccontati da persone e scrittori lontani. Egli vuole essere dentro il contemporaneo della storia e delle storie, senza aver paura di mostrare anche tutta la sua solitudine. Ora che l’aveva scritto, e che probabilmente avrebbe raccolto un nuovo successo editoriale, sentiva che questo non poteva più bastare. Lui non era e non voleva essere uno scrittore di successo, voleva vivere altre libertà. La stessa trasmissione televisiva, voluta da Fazio, gli aveva lasciato dentro una dualità inattesa. Un pieno ed un vuoto reclamavano un’interpretazione severa. Specie nella prima parte della trasmissione, la sua lezione sulle parole e sui codici della comunicazione usati dalla Camorra lo aveva riempito d’orgoglio. Aveva trasferito tutto il suo furore sull’importanza delle parole e sulla necessità di svelare il significato associato alle azioni. Aveva ripercorso il suo lavoro, svelato il suono delle parole, che messe in sequenza giusta erano diventate libro-urlo, un coro di parole gridate al mondo; tre milioni di copie; tre miliardi di parole in giro per il mondo annunciavano la sua scelta necessaria: rischiare di morire per vivere. Poi, la discontinuità sopraggiungeva, quel vuoto ritornava e nelle giornate di solitudine, di protezione necessaria, di occultamento delle tracce, occupava tutta la sua mente. 93
Finiva così per studiare se stesso fino a sentirsi un musicista della scuola pitagorica. Pitagora fu il primo del mondo occidentale e di quello orientale, ad annunciare che l’identità dei suoni ed i rapporti tra essi, potevano essere espressi in numeri. La musica come tentativo di mettere ordine. Alla musica, e alla sequenza delle parole, potevano essere date anche un potere curativo e stabilizzante nei confronti dell’anima. Nasceva il concetto astratto della musica. Sul piano concettuale, ed è questa la grande intuizione della scuola pitagorica, per musica non si intende solo quella prodotta dagli strumenti ma anche quella delle pause, anche i silenzi suonano. I suoi silenzi erano necessari per non lasciare traccia, per gridare di più, le sue parole erano diventate musica, i suoi silenzi note altissime. Ma lui voleva analizzare nuovamente il valore delle sue pause, delle uscite, fatte di parole scritte e di racconti; non sopportava più la perdita di contatto con le persone. Lui era costretto a fare musica con molti intervalli. Certo c’era la sua arte lunga a proteggerlo, leggere, documentare e scrivere; ma non gli bastava più, sentiva che la sua capacità di comunicazione era stata assorbita dai media, rischiava di morire due volte, di sé e per gli altri. All’inizio della sua vita di scrittore, essere talpa di biblioteca e di archivi era una cuccagna, gli allargava la mente ed il cuore, lo faceva crescere, era la metodologia giusta per il bagaglio di scrittore potenziale. Era tutto cambiato, analizzando il linguaggio della comunicazione capiva la differenza tra campana e muscolo, tra campana e cellula. Dopo il successo della trasmissione con Fazio, il rischio di diventare campana era cresciuto e la strategia di denigrazione della Camorra avrebbe avuto più spazio, la sua vita era ancora più in pericolo ed il doppio sé che era in lui volle ribellarsi ancora. Non gli andava di diventare campana, non poteva dipendere dalla volontà degli altri, non poteva scrivere parlare e suonare quando la comunicazione lo richiedeva. Il muscolo, come ogni cellula vivente, è capace di trasformare gli stimoli esterni in nuovi stimoli interni, di provocare poi reazioni, spesso fertili, spesso felici. Doveva investire in nuove capacità di 94
uscire dalla prigione mentale in cui si sentiva, felicità come capacità di uscire dalle difficoltà, guadagnare gradi di libertà, libertà di rischiare di morire per vivere. Voleva comporre nuovi ritornelli, ricomporre realtà, immaginare una nuova topologia degli spazi da vivere, sapendo che questi spazi sarebbero stati nuovi luoghi di attentati alla sua vita. Lui e gli uomini che lo proteggevano avevano un comportamento simile alle talpe. Essi immaginavano e costruivano tane, nascondendo frammenti di vita, questi frammenti ricomponendosi diventavano dimora, casa, città nuova. I suoi protettori avevano un intuito, una conoscenza che andava, come per le talpe, oltre le mappe delle tane. Sapevano navigare nel territorio complessivo, essi potevano distruggere tutti i percorsi costruiti e ritrovare i frammenti della vita vissuta per ricomporli in un’altra dimora. La città senza l’equilibrio del punto fisso, della piazza di riferimento, Eulero e Caccioppoli insieme a Saviano, insieme per scoprire in tempi diversi ed in luoghi diversi come vincere la perdita di città; riorientarsi, usando il navigatore dell’anima, per non sentirsi soli nella propria città. A differenza di Caccioppoli e di altri, Saviano doveva avere la speranza dell’improbabile, inventare un modo nuovo di entrare in città, di vivere gli intervalli, una nuova partitura doveva uscire dalla sua mente, doveva nuovamente rischiare. Fu così che le stanze delle caserme diventarono stanza di composizione, non sarebbe diventato campana. Si ricordò di Altiero Spinelli e di altri rinchiusi a Ventotene, ancora un’isola che divenne nave, portatrice del progetto europeo di nuova convivenza. Nonostante le tante informazioni avverse, la guerra e la prigione come status del vivere, essi scrivevano parole nuove per l’Europa della pace, l’uscita dall’inferno attraverso le emozioni del progetto, la musica astratta, concettuale, diventava inno alla gioia ancor prima che ne fosse scelto un altro. Questa volta Saviano, per la sua espressività, si esprimerà come un uccello, uscirà dalla sua gabbia da uno spazio invisibile e canterà variando ritmo e melodia. Per far questo, trasforma il suo libro in pièce, dedica questa a 95
Neda Soltani e Taraneh Moussavi, le giovani donne uccise dalla repressione del governo di Ahmadinejad. Nel giorno dell’esordio attende il suo intervistatore, il giornalista di «La Repubblica» Carlo Brambilla, nella sale delle prove; il giornalista si emoziona due volte, assiste all’ultima messa a punto dello spettacolo-monologo, fatto di racconti e storie spiegate, rivelate come musica nuova, e prepara poi l’intervista. Saviano mette ritmo alla partitura che racconta del fucile mitragliatore Kalashnikov, dal nome del generale russo Michael Kalashnikov; farà sentire il suono del mitra che ha ucciso più uomini nella storia degli uomini, e poi, ancora con le parole farà esplodere la dinamite nel cuore del suo inventore, Alfred Nobel. Il progetto della dinamite era nato per sollevare l’uomo dalla fatica, diventa, invece, la più grande invenzione di pensieri tristi, nella definizione di Remo Bodei. Odiare, attentare, vendicarsi, distruggere diventano i verbi della contemporaneità e gli uomini si trasformano in bombe moltiplicando la paura dell’altro. Saviano scopre a poco a poco che può parlare di bellezza, suonare con le parole melodie d’amore, passioni per le cose semplici, la bellezza diventa ogni forma di resistenza che è capace di sottrarre inferno. «Domani», pensa, «se tutto andrà bene, avrò la possibilità di cambiare, potrò incontrare altre persone, persone diverse. Avrò la possibilità di leggere per cambiare le melodie, di scrivere per suonare con la mente, inventare i contrappunti sublimi, quelli della ribellione ad ogni gesto di sottrazione della libertà». L’introduzione lunga all’intervista servirà a spiegare il significato della sua dedica, la dedica per la sua pièce; e mentre la farà, il suo intervistatore piangerà. Questi metterà un tempo lungo per scrivere il pezzo, quasi a voler tenere dentro, per più tempo, la bellezza delle parole ascoltate. Neda significa voce e Taraneh significa canzone. Neda il 20 giugno 2008 manifesta per i presunti brogli elettorali. Era con il suo cellulare a riprendere la verità di quello che accadeva. Il cellulare raccontava la verità e questa prova di verità diventa prova di colpevolezza. 96
Il poliziotto spara, ed il filmato che farà vedere il cellulare è l’inferno che si racconta. Neda muore per vivere, diventa segno incancellabile della morte necessaria, testimonianza della vitalità della morte, un’ecologia dell’esistenza, la sottrazione istantanea di tutte le ridondanze del nostro vivere quotidiano. Taraneh, invece, viene costretta a perdere l’onore più volte, stuprata per sette giorni e sette notti, il suo corpo verrà bruciato per far sparire le prove; una storia parallela a quella di Gelsomina Verde bruciata a Scampia, Napoli. Taraneh era una ragazza bellissima, lei si truccava, curava la sua bellezza, in un paese dove la bellezza, che spesso è solo capacità di esprimersi, o intesa come semplice verità, andava nascosta. A Taraneh spettava la morte se voleva vivere di bellezza, di verità. Sì! Saviano era diventato cellula nuova, questa interattività conquistata lo faceva vivere come muscolo. Come un pugile che non sa il numero di riprese che lo porteranno alla vittoria, egli rischiava di morire ma non di perdere. È così che il suo libro, Inferno e Bellezza, diventa il suo significato, libro-libertà. Con lo spettacolo ha la possibilità di vivere le libertà disponibili, la nuova situazione consente a Saviano di guardare in faccia la gente, godere negli intervalli della bellezza del silenzio, la musica astratta lo può accompagnare trovando i numeri della sequenza giusta. Le parole del libro diventano pièce che si rinnova; ad ogni rappresentazione può contare e vedere quelli che lo aiuteranno a differire la condanna maligna; morire per la libertà della sua terra, Napoli allargata, non più solo corona di spine ma inferno di difficoltà, e terreno di battaglia. Finché la sua partitura saprà raccontare nuove verità e un coro di libertà accompagnerà la sua esecuzione, sarà possibile salvare la città degli uomini e delle donne di libertà. La Napoli della città degli uomini dovrà essere destrutturata e ricostruita e sarà nuovamente città della bellezza. «La Camorra non abita più qui», è il coro d’amore per la città possibile che la popolazione aveva cantato insieme a Saviano in una sera lontana; quella sera fu anche l’inizio della sua vita sotto scorta. Poi, la sentenza definitiva con sedici ergastoli ai Casalesi era diventata la voce e la canzone giu97
sta; Neda e Taraneh ancora vive, come la sua felicità, vista come capacità di uscire dalle difficoltà, inferno e bellezza ancora insieme ma con nuove sequenze d’amore. Non a caso dopo la sentenza Saviano sente la necessità di ringraziare tutti coloro che hanno avuto il coraggio della verità, tutti coloro che sono morti per vivere la bellezza di essere se stessi. Finalmente, certo non basta, bisogna saper andare oltre, ma la sentenza restituisce tutta la verità. Non è più esagerato parlare di camorra e ’ndragheta a Milano più che a Napoli, all’estero più che nel Mezzogiorno. Tutti i comportamenti ambigui sono stati smascherati, imprenditori e politici dovranno dire nuove verità. I detrattori dovranno parlare meno, la denigrazione è un’arma spuntata, e la speranza dell’improbabile riempie il cuore di quelli che vivono di Napoli. Grazie ai resistenti come Saviano, Neda è anche il nome di tutti i giudici che hanno lavorato per la verità: Federico, Franco, Francesco, Carlo, ancora Francesco, Raffaele, Raffaello, Antonello e Lello ed altri di cui è meglio nascondere anche il nome, sono tutti insieme Taraneh, canzone nuova di vitalità per tutti gli uccisi. Lo spettacolo inizia e si sente la voce di Saviano che ringrazia Don Peppe Diano, che aveva scritto, «per amore non tacerò, Salvatore Nuvoletta, carabiniere ucciso per vendetta, Federico Del prete che ha fondato un sindacato contro i clan, Antonio Cangiano per non aver voluto violare le norme sull’appalto». E poi ricorda che l’inchiesta Spartacus ha avuto un buon finale; Spartacus, dirà Saviano, non è un nome scelto a caso, è il nome del gladiatore tracio che nel 73 a.c. sfidò un impero insieme a tutti coloro che chiedevano libertà. L’idea che il diritto e la giustizia potessero riprendersi quelle terre, sottrarle al potere dei clan si è affermato ed una nuova vitalità può guadagnare spazio, sia politico che di azione civile. Voce e Canzone, sono diventati a Napoli nomi di molte persone e possono cantare della speranza della metamorfosi, l’inferno di Croce non è quello di Saviano e la bellezza può ancora sostituire il paradiso mancato. Napoli ritrova i frammenti da illuminare ed il futuro che si poggia sulla Napoli contraddetta diventa immagine vitale. 98
PARTENZE RALLENTATE
«C’è un progetto di partenza che coinvolge Casa Kaplan», questo è il messaggio implicito della lettera di ringraziamento che Robert Kaplan invia a tutti gli amici che hanno contribuito a creare lo spazio galleria che da Kaplan Project n.1 e n.3 si è trasformato in casa-città e luogo accogliente. Uno spazio diventa luogo ed un luogo si fa casa, poi la casa si trasforma in città, interna ed esterna; per molti diventa comunalità contemporanea, città dove andare. Una storia urbana naturale, une cité qui est apparue, Giuseppe Zevola, Poul Thoral, Paolos Stampa, Carlo Stara, Barbara Lambrecht, Anoine Esquilat, Ninee Louisde Montelambert, Sylvia Schldge, Fredéric Maria, Joeg e Jutta Huber, Emanuelle Heidsiek e Philippe Leduc, Antonio Martiniello, Rosaria Di Blasio, Clelia Santoro, Nathalie Borel, Sergio Cappelli, Cedric Reversade, Caterina Occhio, Renaud Séchan, Alos Cavdar, Raffaella Nappi, Patricia Grund e Nathalie Haidsiek rimasero solo in parte sorpresi. Il progetto e tutti coloro che avevano contribuito a farlo nascere e crescere come una cellula di un tessuto organico predisposto, avevano fatto parte della vita di un milieu riconoscibile nella storia del tempo giusto: Napoli città d’arte, Napoli città della comunanza, Napoli come casa d’artisti, Napoli città della poesia, Napoli cosmopolita, Napoli e l’arte contemporanea, Napoli della poesia visiva e sonora, Napoli del vivere quotidiano, Napoli città della polifonia diffusa, erano tutte città vivibili durante la loro vita temporanea. La lettera di Kaplan faceva balenare l’idea della scomparsa di un gran numero di esse. La Napoli città ostile era stata comunicata al mondo facendo perdere massa critica al progetto di costruzione delle altre città. 99
La lettera comunicava che questa nuova immagine offerta al mondo aveva reso insostenibile la manutenzione di casa Kaplan. Da sola, casa Kaplan non riusciva a vincere la comunicazione contro, anche per le oggettive nuove condizioni di contorno. Eppure Nathalie le aveva pronunciate tutte le parole chiave della Napoli possibile, da vivere: «Napoli reseau pour découvrir l’espace commun» era la risonanza comunicata. Vivere casa Kaplan era stato un desiderio di proximité vissuto, un dispositivo di relazioni regolato dal vivere insieme, anche insieme all’arte, all’artigianato d’eccellenza. Sì, Casa Kaplan era un luogo pieno d’arte, dove l’artista si riconosceva nei viandanti d’amore che incontrava, tutti in cerca della propria città. La città e la casa si arricchivano di nuovi arrivi e di nuove resistenze alla partenza. Oggi le partenze sono diminuite e gli arrivi affrettati, la casa non respira abbastanza e la distanza tra oggetti e persone si è dilatata, gli oggetti hanno perso affettività e l’eros ha perso i profumi, il pensiero è altrove e casa Kaplan si è trasferita dalla mente di molti prima ancora dello smantellamento fisico, che avverrà forse fra pochi anni. Nathalie l’aveva definita «un lieu d’une commune visibilité», un luogo capace di essere un’espressione del vivere la città senza che il vivere fosse solo l’abitare. La casa era anche un nuovo modo di rivisitare il concetto di spazio urbano, la spazio diventava quasi-pubblico perché la somma dei comportamenti individuali produceva beni condivisi, innovativi, di nuova urbanità. Nell’era dell’espansione delle reti, quel luogo aveva resistito alla frammentazione, anzi era diventato nodo di reti a densità variabile, di polifonia desiderata. La densità è scomparsa, le reti ostili dicono di saltare il nodo di Casa Kaplan, la città di Prometeo ha preso il sopravvento: Pour Nathalie la cité a disparu, l’idée de ville n’est plus, du moins celle de Kaplan, il n’a plus de hors. Nathalie è presa da una malinconia interiore che non ha niente a che fare con le analisi di Mike Davis, City of quartz: Los Angeles est encore une ville? 100
La malinconia di Nathalie è di altra specie, è una malinconia legata alla scomparsa dei suoi luoghi interni, dei luoghi che lei aveva costruito con la mente e con il ventre, pieni di valori di appartenenza, di concentrazione dell’arte, un mosaico di emozioni dentro casa. Domande vecchie e domande nuove si erano mischiate. La molteplicità dei centri d’arte, la numerosità dei creativi, le densità artigianali, l’ospitalità diffusa, la produzione di cultura avevano perso forza d’attrazione? Casa Kaplan non veniva più percepita come luogo città, la casa che anche grazie a Nathalie riusciva a coniugare tutti i comportamenti quotidiani come emozioni del vivere. Era accaduto qualcosa in poco tempo; negli ultimi dieci anni si erano incattiviti i comportamenti. Una nuova aggressività aveva pervaso la città ed i rapporti di ‘vicinalité’ cari a Nathalie si stavano diradando, in certi casi la vicinanza si era trasformata in fatto ostile, o contraddittorio; la folla in attesa numerata per una pizza d’autore aveva contaminato il luogo, da autentico a desiderato come moda e non per esigenza. Casa Kaplan non era più l’isola intra muros, il non silenzio proveniente da fuori dominava e ti accompagnava nella casa dell’arte e della poesia visiva, fino a farti vivere l’estraneità attuale della risonanza del luogo. Ma Casa Kaplan poteva sparire, dopo dodici anni di vissuto significante, una storia sui due decumani, una storia fondante del temporaneo contemporaneo? Oggi la mente ed il cuore di Nathalie vedevano la futura scomparsa come un segno di un potenziale mancante, di una opportunità non pienamente colta, come la sparizione di una densità ancora necessaria ad una città in metamorfosi. Ritornava il rapporto tra locale e globale; era stata la comunicazione avversa ed il racconto delle storie locali, che inondando i centri culturali sparsi nel mondo, avevano causato la scomparsa delle reti generative di nuove densità, oppure vi era una tendenza più generale? La frammentazione dei luoghi urbani significativi è un fenomeno che avvolge tutte le città? Basterà pensare ai luoghi cospicui delle città europee dove le ma101
fie di tutto il mondo concentrano traffici variegati alimentando il degrado morale e visivo, spingendo la politica a cavalcare l’onda della insicurezza sociale che è diventata l’emergenza delle emergenze. Ancora anni di manutenzione del progetto senza la speranza della ripartenza? I decumani di Napoli hanno visto morire e nascere progetti. Un cambio d’uso dei luoghi che dura da duemila anni, un miscuglio di vitalità e abbandoni, resistenza e persistenza delle forme hanno spesso dato stabilità all’idea di città, la speranza del subentro di nuove densità si è sempre incontrata con la storia del luogo. Erri De Luca ci dice che gli uomini e le donne sono ciò che possono raccontare, le loro storie sono la città, e Napoli, con il suo centro storico più grande d’Europa per densità di storia e di storie, ha ancora da raccontare migliaia di storie di persone che vivono di Napoli e muoiono di Napoli, accanto a storie di persone che vivono per Napoli. Napoli accoglie storie e persone che decidono di vivere e morire a Napoli, non ha nemmeno paura di guardare la realtà, ascolta coloro che dicono che la cultura e la vitalità stanno morendo con Napoli, ma Napoli ha ancora la speranza piena della metamorfosi? La storia del già fatto da Nathalie e da Casa Kaplan è una storia di emozioni e di cultura da raccontare, storie di Napoli, ed anche di malinconia per Napoli. Storie di un laboratorio per il cambiamento, un tentativo necessario e forte di riscoperta e ricostruzione dello spazio comune, contemporaneo, fuori da schemi tradizionali, di riscoperta di modelli abusati. Nathalie aveva sentito Napoli come luogo ancora autentico, rispetto all’omologazione delle città della globalizzazione accelerata; i suoi continui viaggi nel mondo e nel mondo dell’antica Persia fino ad oriente erano stati sempre viaggi di ricerca, viaggi di ricerca di luoghi nuovi perché genuini, autentici, luoghi dove il sociale può essere definito solo guardando l’insieme dei comportamenti. Aveva sentito il bisogno di una nuova ecologia dell’arte, con esperimenti di poesia sonora come chiave di lettura degli scenari. Il suo comportamento di mercante alla ricerca di storie nei tappeti del mondo, era un comportamento di ricerca, di rigenerazione o manutenzione dei luoghi, 102
un tentativo di moltiplicare il sentire comune. Ecco perché casa Kaplan era diventata un nuovo perimetro sociale, inclusivo del mondo dentro i limiti urbani. Erano i comportamenti degli abitanti che delimitavano la città, erano essi stessi che la perimetravano dando importanza ai fatti urbani. Non a caso quando i fatti del fuori casa hanno condizionato l’abitare la città comune, l’interno delle persone con voglia d’incontro è sparito e la città di Kaplan si è dissolta. Quello che fino a ieri era il rifiuto dell’esclusione contro la globalizzazione delle omogeneità, era diventata una sottrazione. Casa Kaplan è una storia di apprendimento, di un nuovo modo di «partager ce monde comun fait tout d’abord de pratiques interrelationnelles tels liens le voicinage e tout ce par quoi s’exprime un mode de vie e de rancontrés alèatoires», ripeteva Nathalie. Non lo diceva solo a se stessa, presto lo avrebbe potuto scrivere, non appena si sarebbe allontanata dalla città. «Andata e ritorno nelle strade dei decumani, acquisti e scontri nelle densità artigianali locali, il mischiarsi di densità laiche e densità sacre, l’alternarsi di silenzi interni e densità sonore esterne dovute alle mille iniziative di associazioni, di confraternite, di nuovi entranti, consentivano agli abitanti di Casa Kaplan di vivere le loro mille città interne e le mille città esterne, visibili ed invisibili»; era questo, in fondo, anche un pensiero relativo al vissuto di Nathalie. Questo mescolarsi e contraddirsi dei linguaggi e dei gusti, del vestirsi e dell’amare l’arte, dell’ordine vernacolare e del disordine popolare diventava ricerca continua sul significato di spazio pubblico e di ambiente urbano. Non molte città del mondo e pochissime in Europa, hanno la possibilità di vivere questo spazio di sperimentazione, di apprendimento. Questo spazio di vita potenziale a densità variabile, con libertà di isolamento in luoghi sacri o luoghi nascosti, crea un miscuglio di atmosfere, un’etologia urbana, che può essere raccontata in mille modi. In questo senso, casa Kaplan rimane ancora l’ennesimo esperimento di scelta della strada significativa per l’impianto di una densità moltiplicativa, fatta di progetti a impatto ampliato, fino a poter affermare che la città, Napoli, esiste perché desideriamo abitarla. E 103
Casa Kaplan era e forse sarà ancora il desiderio di abitare Napoli. Costruire il progetto, abitare il progetto e pensare al progetto sono ancora i fondamenti dell’abitare in città, sono ancora ricerca di spazi di nuova densità, che chiamiamo città. L’intuizione di Kaplan, come pensiero di molti, era ancora desiderio di investire in ricerca di nuove modalità d’incontro; Nathalie e Casa Kaplan rimangono sinonimi di voicinage, civilité, visibilité, diversité; un riconoscersi come ritornello urbano: habiter la ville è habiter le monde. Casa Kaplan ancora oggi a Napoli è casa e cosmo.
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INCHIESTA SULLA SCOMPARSA DI BASSOLINO
Ermanno Rea leggeva del maestro Muti e della promessa fatta durante la visita guidata al San Carlo ristrutturato. Leggeva anche di Bassolino che rivendicava il ruolo della Regione nel processo di ammodernamento e rilancio del Teatro. Il Maestro promise che sarebbe tornato spesso nel teatro più bello del Mondo, annunciava il giornale. Il commissario Salvatore Nastasi aveva predisposto una macchina complessa per evitare l’interruzione delle attività e la restituzione del teatro alla città prevedeva anche un ampliamento del potenziale. Erano previste nuove sale di prova di registrazione con sonorità sublimi. Con il suo gioiello Napoli potrà travolgere i visitatori, come fece con Stendhal, potrà emozionare di più producendo nuova musica. Mozart era vissuto a Napoli ma anche di Napoli. Egli sarebbe stato sempre un genio della musica, ma senza la sosta a Napoli e l’incontro con l’enorme patrimonio musicale napoletano esistente sarebbe stato un altro Mozart. Questo pensiero di Muti era suffragato dalla storia e dalle storie del vissuto di Mozart, delle ispirazioni avute a Napoli e dal confronto con i grandi musicisti napoletani del suo tempo. Ancora una volta luoghi e persone si mischiavano e Napoli segnalava le sue densità. Per la prima della stagione viene scelta ancora un’opera di Mozart a conferma della voglia di produrre nuove empatie: Ronconi in regia per La Clemenza di Tito. Dopo duecento anni ‘Napoli siccome immobile’, a detta di Aldo Masullo, accoglie la stessa opera e la rilegge. Ermanno Rea riflette sulla presentazione di Ronconi, subito si chiede se l’uomo pensoso di cui parla il regista, non sia Bassolino. Tito viene rappresentato come il politico che si pone il tema del 105
modello ideale di imperatore. Bassolino in televisione aveva già tentato un’analisi del genere, un’auto analisi che portava a chiedere clemenza per sé, ma quella era la clemenza di un imperatore per se stesso, non era la Clemenza di Tito. Il modello da indagare, forse, presuppone gradi di libertà che ‘l’imperatore napoletano’ non ha mai avuto, ma può basarsi anche ed esclusivamente sull’analisi dei gradi di libertà disponibili per vedere se essi sono stati sottovalutati. Bassolino come lui era stato comunista. Rea, da comunista, si era sentito molto più vicino a Caccioppoli e ai tanti che tra il 1956, 1957, 1958 e 59 si erano suicidati. Nei suoi romanzi e nelle sue inchieste vi era stato sempre un urlo, a volte lancinante, altre volte sommesso ma radicale. Certo sembrava letteratura ma era anche storia sociale. Aveva finito per condividere i temi della recensione del suo ultimo libro, Napoli Ferrovia, l’ipotesi dello sdoppiamento, del comunista e dello scrittore, lo aveva intrigato; il primo anche lui urla con la sua partenza definitiva, il secondo torna sempre innamorato di Napoli, un morire di Napoli e vivere di Napoli che si toccano fino a diventare la stessa cosa. Lo scrittore ha ancora voglia di raccontare la sua Napoli, della sua frammentazione politica. La malinconia per Napoli, raccontata nel passato Maggio alla chiesa di San Ferdinando, poteva diventare nuova metodologia di racconto. Non se la sentiva di aderire completamente alla tesi di Masullo e Scamardella sulla città immobile deragliata e sospesa. E poi a lui piacevano le storie degli uomini, senza infierire sulle loro debolezze. Si sarebbe messo nelle vesti di Tito per difendere le ragioni della sua città, le ragioni della vitalità dei suoi abitanti, delle speranze tradite o male accompagnate. Il giornalista di sempre, lo scrittore sublime, l’analista sociale potevano rientrare tutti insieme e scrivere una storia, un’opera nuova sui temi della clemenza e della tolleranza possibile. Avrebbe potuto rivisitare la Napoli esistente con gli occhi della politica necessaria, quella delle partenze e degli arrivi nei luoghi delle decisioni e degli impegni. 106
Sarebbe stata anche un’inchiesta sulla speranza dell’improbabile che è sparita, senza sentenze definitive, un’inchiesta sulle incapacità ed i contesti, sulle forze potenziali e sulle sconfitte inevitabili. Raccontare di tutti quelli che oggi vivono e muoiono di Napoli, come misura della città emergente, della città che verrà. Perché Napoli deve avere nuove risposte ogni giorno. La città vive anche senza risposte; ma raccontare la bellezza e l’inferno deve essere una possibilità per molti. Doveva raccontare di Napoli e per Napoli, interrogarsi sulla clemenza possibile e sulla tolleranza necessaria, trovare il trade-off capace di farci capire l’alternativa in campo. Il concetto di clemenza doveva essere elaborato come punto di arrivo, l’uomo che entrava nel San Carlo e si affacciava dal palco reale insieme al presidente Napolitano era lo stesso che era entrato con Ciampi in occasione del G7? Come mai non era un comunista urlante e suicida? Come mai invocava la clemenza e la tolleranza? «Colui che nei primi anni Novanta era parso l’uomo nuovo di Napoli, Antonio Bassolino, si era a sua volta arroccato invitando la gente alla calma: niente denunce, niente mobilitazione di popolo, niente stati generali, penso io a tutto, lasciatemi lavorare con calma... magari “l’uomo nuovo” fosse stato capace di promuovere una crociata...» ha scritto Rea nella introduzione di Rosso Napoli. Bassolino re di Napoli era scomparso, e il filosofo Aldo Masullo parla della scomparsa di un uomo debole, troppo innamorato del potere, cui il popolo-imperatore infligge la pena con tolleranza zero. Il politico debole non è diventato mai classe dirigente? Quello del compromesso necessario è destinato a scomparire o è solo una caduta temporanea? Forte è chi ha il coraggio di perseguire fino in fondo un obbiettivo di interesse generale. Essere comunista è ancora solo questo. Bassolino viene ucciso più che uccidersi con consapevolezza? L’uomo non ha visto che ad un certo punto della sua sfida aveva bisogno di altro? Non si è accorto che la sottrazione continua di gradi di libertà, di scelte, gli aveva sottratto il potere desiderato? Non si è ribellato e ne è diventato vittima? 107
Vi è stata una sovrapposizione continua tra potere ed identità? Ecco, questa volta, ancora per una volta, Rea potrebbe mettere il suo saper raccontare di Napoli e dei luoghi, la sua capacità di raccontare storie e di scriver di storia, al servizio di un progetto di clemenza, tutto ancora da definire. La clemenza di Napoli, la sua capacità di perdonare i re fino a rappresentarli come il bene, dovrebbe avere un filtro, un racconto di verità, sulla storia del comunista sdoppiato o addirittura a più facce. Sapere se quel comunista è morto di Napoli, a Napoli o per Napoli non è un’inchiesta banale; è un’inchiesta su tutti coloro che vivono incrociando la storia della città. Nessuno meglio dello scrittore comunista e saggista potrà raccontare del perché, pur essendo il principale bersaglio della tempesta mediatica contro Napoli, egli non si sia dimesso ed abbia voluto vivere la sua parabola fino in fondo, senza pentimenti, rispettando il principio che un uomo politico non abbandona il potere nemmeno un momento prima del tempo in cui sarà travolto. La nascita del Partito personale era necessaria? Lo svuotamento delle funzioni istituzionali dei partiti e del partito, l’occupazione lobbistica delle istituzioni era una strategia per combattere gli altri partiti personali o una difesa? I Berlusconi, i D’Alema, i Mastella, i De Mita, come i Gava erano da combattere o da imitare? Napoli era caduta nella solita trappola, aveva creduto di poter salutare un altro Carlo V, appena propostosi per Napoli. La voglia di diventare imperatore incrina molti rapporti, quelli familiari, quelli d’amicizia, quelli del convivio e del sorriso, quelli della progettazione e del confronto. Inseguire l’evento come metodo per far apparire la forza del potere diventa un paradigma politico. Lo scrittore, forse, non scarterà l’ipotesi della morte per Napoli, ma Napoli come città da raccontare e città del vivere o del morire non potrà morire e scomparire; Napoli ha ancora tutte le storie del mondo dentro il suo perimetro ed oggi che questo perimetro è saltato, Napoli è ancora città contemporanea smisurata. Ha moltiplicato le contraddizioni del mondo e le contiene tutte come paradosso urbano. 108
A Napoli è possibile tentare una gamma aperta di ricerche sulla città possibile, è per questo che qui è possibile coltivare tutte insieme la speranza dell’improbabile, la speranza della metamorfosi e la speranza di farsi storia nuova. Un imperatore è scomparso, e forse come gli altri non è morto né di Napoli né per Napoli. E Rea, pur lasciando suicida il Rea comunista per congiungersi ai suoi contemporanei utopisti radicali, affida all’altro che è in sé la speranza di ricongiungersi a Croce, sentire ancora Napoli come patria e raccontare ancora di Napoli. Rea parlerà ancora della sua città, dentro conserverà la sua malinconia, ma d’incanto appariranno nuovamente le storie di Napoli recenti, storie di personaggi temporanei, di partenze e di arrivi, di progetti intermedi, di pulcinella ancora abitanti della città e dei pulcinella che non abitano più lì. Il parlare di Napoli non sarà sospetto, l’etica dello scrittore non è negoziabile, la clemenza non è tolleranza, e un comunista lo sa.
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IL RITORNO DEL PRINCIPE NELLE SUE SCUDERIE DI PALAZZO SANSEVERO: UNA RIGENERAZIONE URBANA
Eduardo Souto de Mura, l’architetto portoghese alle prese con il Progetto della Stazione Metropolitana di Piazza Municipio, era arrivato stravolto, le difficoltà progettuali si erano moltiplicate, burocrazia ed esigenze elettorali spingevano il progetto verso incoerenze concettuali, e la sua semplicità progettuale non poteva diventare genialità espressiva. L’adeguatezza dei modelli e dei linguaggi non riusciva a riflettere la struttura della realtà, i vincoli non si potevano trasformare in opportunità, il modello adattivo prendeva il sopravvento, nemmeno il contraddetto di Italo Ferraro poteva mostrarsi con chiarezza. Era già accaduto con la scelta degli alberi da installare nelle parti all’aperto. Nessuna vera riflessione sul significato urbano era nata. Il leccio e non il pino, ma perché non la felce e l’orchidea, o una delle tante palme ammalate? Nessuna risposta importante era emersa. Solo il modello adattivo si mostrava come possibile razionalità decisionale. L’architetto importante sentiva il peso delle antinomie che si erano rivelate. Non vi erano percorsi complementari da proporre, si sentiva come un osservatore della propria marginalità. Egli voleva usare un linguaggio fra mille esistenti in città; ma nello stesso tempo, mille fenomeni per lui significativi, dai materiali alle pietre, dalle regole al disordine, erano preclusi soltanto per limiti contingenti di comunicazione. La conoscenza si mostrava come intreccio di storie individuali, di eventi irripetibili, di approssimazioni incredibili, di motivazioni pretestuose, di opacità sopravvenute. Forse, per tutte queste ragioni, fu severo con i giovani architetti del master d’eccellenza, essi non si esprimevano più come architetti, possessori di un linguaggio destinato a risolvere il problema dell’abitare in città. 111
Si erano fatti tentare dalle ragioni del progetto visibile, concorrente con i linguaggi di successo, senza avere tutta l’umiltà del disegno e del segno dialogante con la storia e i problemi del luogo. Le sue difficoltà si erano trasformate in avvertenze: la prossima volta avrebbe voluto vedere più architettura, più disegno semplice, più lettura dello spazio dell’abitare. L’idea che ogni oggetto disegnato, sia esso muro, casa, o spazio, in quanto oggetto dell’architettura come disciplina, deve avere una storia, deve sottoporsi ad una critica sulla genesi e sulla sua evoluzione. Sembrava che il disegno urbano proposto dai giovani fosse a-temporale, gli oggetti proposti sembravano scomponibili, separabili molto più di quanto non fosse nelle intenzioni degli architetti. Non si riusciva a percepire il cambiamento dello sfondo, l’invariante della città non aveva un disegno certo da contrapporre al contraddetto o alla discontinuità necessaria, magari solo persistenza chiara. Gli esperimenti percettivi si erano confusi dentro al labirinto dei segni. Lo sfondo della città doveva essere percepito come costruito, si doveva indurre una riconversione dell’atteggiamento, il venir meno delle regole e degli attributi di permanenza e di necessità avrebbero fatto sparire il costruito per far spazio ad una pluralità di oggetti. Una prospettiva non chiara oltre che non sostenibile sul piano amministrativo e politico. Il maestro doveva fare il maestro, ed il rimprovero doveva servire da stimolo e non da sentiero da perseguire, la contrapposizione era necessaria. L’effetto fu diverso; la discussione provocò silenzi; ma nonostante ciò molti nuovi punti di vista emersero, la realtà si mostrava a più dimensioni. Ogni parte di progetto si mostrava con i tempi evolutivi delle ipotesi base completamente fuori squadra. Era successo, però, che quelle difficoltà avevano chiarito il da farsi: i nuovi rapporti di complementarietà, di sussidiarietà, di esclusione, di gerarchia avevano fatto esplodere una nuova consapevolezza sulla revocabilità degli stessi, il loro valore euristico diventava metodologia per le nuove indagini. Al termine della lezione-correzione, gli architetti del master, a gruppi separati si avviarono verso la parte alta di Piazza San Domenico, 112
i loro professori, invece, avevano inseguito l’architetto portoghese, quasi a voler assecondare ogni sua parola. Una nuova lapide era stata apposta sul palazzo Sansevero. «In questo palazzo visse operò morì Raimondo Di Sangro VII, letterato mecenate ed inventore nella Napoli dei primi Lumi. Ingegno straordinario celebre indagatore dei più reconditi misteri della Natura». Entrarono nel palazzo e nello studio di Lello Esposito che aveva subito una metamorfosi definitiva. La tela enorme, Pulcinella non abita più qui, aveva fatto spazio ad una tela altrettanto impegnativa che raffigurava il principe rigenerato, riapparso per contribuire nuovamente alla rinascita dei luoghi dentro e fuori del suo palazzo. Come un tempo, la Napoli dei Misteri di prima era nuovamente la Napoli da riscoprire. Del resto gli studi del Di Sangro e le sue rappresentazioni sulla circolazione sanguigna del corpo umano erano stati ripresi come icona di comunicazione per le scoperte di alcuni scienziati napoletani sui temi dell’angiogenesi, le nuove scoperte erano nuovamente al centro di studi per inibire lo sviluppo dei tumori. Quasi come metafora del nuovo spazio ‘le scuderie Sansevero’ avrebbero rappresentato il simbolo della possibilità di rigenerare i luoghi, allontanare le espressioni tumorali della città fino a riempirla di nuovi significati. Lello Esposito lo aveva annunciato con la sua nuova inaugurazione, il principe al posto di pulcinella; poteva parlarsi di una nuova storia strutturante, l’annuncio di una metamorfosi compiuta del luogo e della città? Per contenere tutti gli invitati al concerto presso la cappella e la cena presso le scuderie, l’evento era stato sdoppiato, due giorni di riflessione sul significato delle celebrazione per il terzo centenario della nascita. «1710-2010» scritto da Lello sulle mura bianche descrivevano in sintesi mille storie di una città in cammino, in metamorfosi lunga, interpretando mille città intermedie di persistenza e contraddizioni. Una ricerca ancora da fare, un inventario infinito di persone che vivono di Napoli e per Napoli, uno spazio mille volte più grande di quello delle persone. Spesso le altre storie di partenze e di arrivi sono meno interessanti 113
delle storie silenziose di quelli che vivono a Napoli e che aspettano una città migliore. Lello si fece riconoscere, si era imbucato in altri spazi del palazzo, progettava partenze e ritorni, voleva portare il segno della ripartenza in ogni luogo, identità e sviluppo come nuovo paradigma di riferimento, la speranza della metamorfosi piuttosto che la malinconia del vivere. I giovani architetti furono contaminati da quella forza del vivere l’arte come linguaggio della persistenza e dell’innovazione, della rigenerazione urbana e morale. La metamorfosi del luogo era avvenuta in un tempo più veloce del loro nuovo segno, capirono la raccomandazione dell’architetto portoghese ed il comportamento di Lello, tornarono nel loro laboratorio e disegnarono; disegnarono la loro metamorfosi, il loro passaggio dalla certezza del progetto alla capacità di vivere la pianificazione debole e felice, quella consapevole dei limiti ma capace di essere fertile, innovativa nella ripartenza, per città che saranno.
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CAGGIANO, LA CITTÀ DEI NUMERI SETTE E L’ENIGMA DI NAPOLI AL QUADRATO
L’artista di Napoli città madre, Ugo Marano, aveva scritto un manifesto-libro su Caggiano, «la città dei numeri sette». Il testo del libro propone una profonda sottrazione di spazi costruiti nel centro antico del piccolo paese, posto a oltre 900 metri sul livello del mare. Un esperimento da fare per avere risposte contemporanee al tema del futuro di numerosissimi borghi e paesi abbandonati. Questa volta il centro storico è stato abbandonato lentamente e la sua memoria è stata addirittura rimossa, forse è più viva nelle due comunità caggianesi insediate a New York, in due parti della città. Nel castello ristrutturato, dopo un convegno di studio dedicato al tema della sottrazione nella pianificazione, con la lezione introduttiva di Massimo Pica Ciamarra, era stata organizzata la presentazione del libro. L’invito era stato rivolto a Elena Sassi, la professoressa di Fisica, napoletana, ma lei non poteva essere disponibile, promise però di raggiungere Caggiano in giugno, anche lei era incuriosita dalla notizia: alcuni modelli di grafi, elaborati anche da Renato Caccioppoli erano custoditi in un palazzo del centro antico. Giovanni Bilo aveva custodito tracce scritte di questa presenza a Caggiano, ma la morte improvvisa di Bilo aveva lasciato in sospeso sia l’inaugurazione di questi spazi che la visione di un altro documento importante, ritrovato a Caggiano, che documenta il passaggio e la sosta dei Templari in quei territori. La topologia o studio dei luoghi è una delle più importanti branche della matematica moderna. Si caratterizza come lo studio delle figure e delle forme che non cambiano struttura quando viene effettuata una deformazione. Uno dei primi risultati topologici si deve ad Eulero. Nel 1736 egli pubblicò un lavoro sulla soluzione del problema dei ponti di 115
Königsberg. Eulero stava lavorando con un nuovo tipo di geometria, in cui la distanza non era rilevante. Egli anticipava di tre secoli problematiche che appartengono all’era della globalizzazione, la logistica delle città. Alcune premesse ancora necessarie, i Nylon sono gli abitanti in contemporanea di due città globali, New York e Londra. Le densità delle due città sono più importanti della loro distanza. 400000 persone vivono frammenti densi delle due città fornendo spunti a nuove riflessioni su Topos e Logos delle due città, ma anche verso la definizione di una nuova città vissuta componendo i frammenti di più città. Il problema di Eulero, il problema dei sette ponti di Königsberg, è un problema ispirato da una città reale e da una situazione concreta. Questa cittadina, enclave dell’unione sovietica, diventata famosa dopo i natali a Immanuel Kant, è percorsa dal fiume Pregel e dai suoi affluenti, e presenta due estese isole che sono connesse tra loro e con le due aree principali della città da sette ponti. Ci si pone la questione se sia possibile con una passeggiata seguire un percorso che attraversa ogni ponte una e una volta sola e tornare al punto di partenza. Senza volerlo questa informazione è anche un indicatore indiretto della vitalità di un luogo. È come se oggi ci ponessimo la domanda su quanti percorsi esistono a Napoli e a Milano per farci incontrare 30 o più artigiani senza incontrare mai la stessa tipologia merceologica; oppure quanti percorsi esistono con riferimenti a chiese o monumenti cospicui, o a luoghi di ricerca e di accumulazione di saperi. Trovare soluzioni significative aiuta a definire l’identità di un luogo. Il merito di Eulero è quello di aver formulato il problema in termini di teoria dei grafi, astraendo dalla situazione specifica. Egli rimpiazzò ogni area urbana con un punto, ora chiamato nodo o vertice ed ogni ponte con un segmento di linea chiamato arco o collegamento. Il cammino semi-euleriano è quello che passa una sola volta per un nodo cospicuo e si conclude dove era partito. Quante volte è possibile, partendo da un’opportuna zona della città, attraversare i luoghi dell’anima con un cammino semi-euleriano? E Napoli, rispetto ad altre città del mondo, quanti cammini semi-euleriani ha in più? Eulero fissa una tassonomia dei nodi, facendoci capire le connessioni 116
tra teoria dei grafi e topologia. La forma di una città può essere modificata ma rimanere se stessa; la metamorfosi di un luogo può essere indagata come evoluzione della struttura complessa, come sistema aperto. Scopriremo allora che l’esistenza di un percorso è una proprietà della città (grafo) e non dipende dalla nostra capacità di trovarlo. Le reti della città possono limitare o favorire ciò che possiamo fare con loro, ma spesso non lo sappiamo. Le potenzialità sono allora invisibili e nascoste ma esistono, per scoprirle dobbiamo vivere la città. Tredici ponti di Parigi sono stati studiati e un percorso semieuleriano è stato trovato. Nella mente delle persone che amano Parigi vi sono percorsi unici, loro non sanno se sono anch’essi semieuleriani. A Caggiano esistono risposte sui percorsi semieuleriani di Napoli? Il teorema del punto fisso di Banach e Caccioppoli è una importante teoria degli spazi metrici; esso fornisce un metodo costruttivo per determinare mappe. Ambedue gli studiosi sono arrivati alla soluzione in maniera autonoma sebbene in tempi diversi. Giovanna Bimonte, una giovane matematica dell’università di Salerno era stata chiamata a sostituire la prof.ssa Sassi, e lei si prepara vivendo mille emozioni. Il giorno 7 di un freddo gennaio si avviò verso Caggiano, anche lei era attratta, come l’artista, da questo numero magico. Arrivò con molto anticipo, il Castello della conferenza ed il centro antico erano deserti. Era un invito a trovare i nodi cospicui di Caggiano? Non conosceva Elena Sassi di persona ma sapeva chi era, sentiva dentro un senso di colpa, come se le stesse rubando emozioni, sarebbe andata presto da lei per raccontare ogni suo passo; anche perché non se la sentiva di scioglier l’enigma dei modelli nascosti, l’enigma dei grafi e quello della presenza di Caccioppoli a Caggiano. I modelli parleranno di Napoli e dei percorsi nascosti? Ci diranno anch’essi delle difficoltà di entrare in città? Ci diranno della difficoltà di abitare Napoli e di vivere di Napoli? La giovane matematica aveva preparato la presentazione, si sarebbe fatta accompagnare da Eulero, voleva ricomporre la storia della topologia in maniera semplice, Topos e Logos sarebbero emersi come concetti astratti per poi poggiarsi sui luoghi cospicui di Caggiano. Lei e l’artista si sarebbero abbracciati nel Castello, si sarebbero riconosciuti, i linguaggi differenti sarebbero diventati ricchezza; avrebbero 117
liberato il paese da tutti i nodi dispari, per moltiplicare i percorsi euleriani. Avrebbero scoperto se la casa dei Bonito Oliva e quella degli Abbamonte erano ancora nodi vitali per la piccola città interrogativa. Storie nuove avrebbero liberato la città dalle vecchie, sottraendole alla memoria ed alla fisicità dei luoghi. Avrebbero fatto, insieme al noto architetto Pica Ciamarra, l’elogio del vuoto. Avrebbero parlato delle nuove opportunità dell’architettura, capace questa volta di contribuire alla resilienza del sistema di paesaggio. C’era ancora del tempo a sua disposizione e lei ebbe l’opportunità di incamminarsi nel centro storico, via Roma è solo due metri di larghezza ed é la strada principale. Si sentiva abbracciata dalle case antiche, nobili e popolari, tutte unite da un arco matematico per connettersi a Santa Veneranda, la chiesa bizantina seduta su una rupe. Lei si fermò davanti ad una di quelle case, sentiva di essere arrivata in prossimità dei grafi nascosti, sapeva che quel giorno non li avrebbe visti e fece un gioco nuovo, ne disegnò due, essi parlavano di Caggiano e di Napoli. Fu contenta dei risultati, Caggiano era anche topos e logos di New York e viceversa, i caggianesi di New York avevano abbracciato il castello con le opere di Lello Esposito, con esse e con Lello si erano messi a passeggiare durante la processione rituale che porta la Madonna di Caggiano da un luogo ad un altro della città del mondo. E per Napoli, quali ‘strappi’, quali ‘incollature’, quali ‘sovrapposizioni’ avevano cambiato la città? Quali erano le nuove convergenze, i nuovi limiti, le contiguità necessarie, le connessioni vitali? C’era una nuova compattezza da scoprire, un nuovo equilibrio da raggiungere? Le risposte non arrivavano o forse le voleva conservare, voleva confrontarsi con la scienziata che non conosceva, potevano, insieme, ritornare in estate e confrontare le loro risposte con quelle del grande matematico. Renato, Elena e Giovanna, un passaggio di testimone, oppure insieme per l’emozione di una scoperta: Napoli ancora città desiderata?
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LA LEZIONE SU NAPOLI
Nicola Giuliano Leone decise di andare incontro alla sua classe, sarebbe salito sul Bus dei suoi allievi ed avrebbe accompagnato il loro sguardo, dall’autostrada fino al centro storico. Avrebbe ricordato i tre termini di Martin Heidegger «batir, habiter, penser», avrebbe commentato le mille articolazioni della città, segnalando le contraddizioni evidenti. Il Bus si fermò a Piazza Dante, era visibile il progetto di spazio urbano immaginato dalla Gae Aulenti. Ribadì che la lezione avrebbe approfondito i temi della crisi della città, risalirono salita Pontecorvo fino al Museo Nitsch, si affacciarono sulla città. Gloria e grandezza dell’abitare erano indistricabilmente confuse nelle altre densità urbane, un groviglio di prossimità, un mondo ricomposto nelle mura della città insieme al vomito urbano evidente, sconfinante rispetto al disegno suggerito dalla natura. Tutte le civilizzazioni erano visibili, i segni della storia della città apparivano come museo all’aperto, una storia dell’architettura rappresentabile in una sola foto. Come avrebbe fatto l’architettura a rinnovare l’invito-domanda ‘Entriamo in città? Qual è la nuova porta della città?’ La passeggiata fatta risalendo la collina aveva mostrato arcipelaghi di vita mischiata ma anche la necessità di mantenere la presenza forte di luoghi dell’architettura. Occorreva allora identificare o proporre di identificare le funzioni obsolete, i corpi dell’architettura oramai assenti; ancora una indicazione semplice, occorreva rifare l’analisi degli spazi comuni e di quelli che non lo erano più. Occorreva allora pensare nuovamente all’urbanistica ed all’architettura, risemantizzare lo spazio costruito e dare un nome a quello da costruire. Come aggiungere ai segni esistenti, delle antiche città del mondo, i nuovi segni del vivere contemporaneo senza omologare la città esistente? Barcellona 119
era lontana ed era giusto che rimanesse lontana, oggi la sua crisi, in termini di ripetizione della visione dello spazio urbano, è evidente. Come trovare i percorsi semi-euleriani legati all’età della informazione e della comunicazione? Come vedere l’invisibile che connette la nuova popolazione urbana? Come mischiare lo spazio virtuale con lo spazio concreto per i corpi? Lo spazio nuovo di relazioni, personali e istituzionali, si è ridotto, in alcune città è scomparso; il concetto caro agli architetti di strada e piazza deve essere reinventato. Ma questa è una buona prospettiva per l’architettura. I pensieri del professore stavano andando verso proposizioni di ricerca; ancora non aveva presentato Napoli con le sue magnifiche tavole. Entrarono nel Museo e tutti furono abbagliati dalle opere, dal loro racconto, erano restituzione viva del teatro delle azioni. Nitsch come guerriero contemporaneo, un guerriero maledetto come Caravaggio, oggi, invece che guerriero maledetto e famoso come Caravaggio, famoso e dolce ammiratore di paesaggi urbani e non urbani, con il piacere di vivere di pensieri di nuova filosofia dentro le sue case-museo di Napoli e in Austria. Ma il museo del quartiere dell’arte era anche città accogliente, forse una porta nuova per vedere ed ascoltare chi vuole vivere della città. Loro stessi, allievi e professori, potevano essere i portatori di nuove visioni utili alla città. Entrarono nella sala conferenza, le opere di Nitsch abbracciarono la classe. Il professore-presidente della società italiana di urbanistica cominciò la sua lezione e le parole diventarono musica per la ricerca. Egli commentò in sequenza i suoi disegni, ingranditi ed illuminati essi già parlavano da soli. «Disegnare territori e fare dei paesaggi di territori ha sempre significato costruire il sistema interrelato di segni, questo è, ancora, intrecciare le parole di Heiddeger, costruire, abitare e pensare. La catena di segni che vi mostro – ribadiva il professore – è ancora capace di sollecitare la memoria di un paesaggio conosciuto, ma anche la voglia di partecipare alla costruzione del nuovo. Non importa se il paesaggio in memoria è lo stesso di quello rappresentato, è importante che quello rappresentato sia in grado di suggerire i nuovi segni che dovranno diventare progetti di conoscenza, 120
di esplorazione; i nuovi segni serviranno a costruire una nuova significazione dei luoghi senza che la loro morfologia dia luogo a omogeneità indistinta. Essi dovranno restituire nelle forme le qualità specifiche delle singole realtà, dall’altra dovranno presentare una realtà propria della conformazione orografica». I temi della didattica si mischiavano a quelli della ricerca, era già nata un’atmosfera di impazienza. Si era moltiplicata la voglia di visitare nuovamente la città con i nuovi occhi forniti dal maestro. Nicola Giuliano Leone aveva fornito la doppia scala dei segni, una quasi artistica e l’altra astratta; ambedue servono alla costruzione del percorso potenziale, danno forza al laboratorio di progettazione. Veniva, poi, ribadita l’importanza di guardare alla tradizione del fare urbanistica con rispetto, senza rinunciare al contributo delle altre discipline che sanno anch’esse rappresentare il territorio, fino a saper rappresentare i pensieri di tutti gli abitanti del luogo. Ogni cittadino è un portatore di storie singolari ed è dentro una nicchia eco-urbana specifica. A Napoli ed in altre città il quartiere ha ancora un significato non amministrativo; in definitiva esso è ancora una città fino a quando sarà un luogo abitabile; fino a quando esso darà agli appartenenti la certezza che quello è un luogo di residenza sulla terra, quel luogo ha la potenzialità di diventare nuova densità urbana, un nodo urbano significativo. «L’utopia progettuale allora non è quella di riprodurre tutte le funzioni utili, ma progettare lo sguardo del luogo, cioè la nuova capacità di riconnettersi. Bisognerà allora saper ripartire dalle cose semplici, dalle distanze giuste, anche del vicinato e dell’incontro, affinché queste si trasformino nuovamente in distanza di appartenenza. Troviamo nella città l’arcipelago dei luoghi e tentiamo di combattere la frammentazione incombente; dare scala alla progettazione è l’urbanistica possibile, entriamo nuovamente nella logica del noi, noi del ritornello della città desiderata. Inventiamone ogni giorno uno per non farci sorprendere dalla obsolescenza dei consumi imposti. Investiamo in nuovi bisogni, solo così la città resiste ed esiste nei diversi luoghi di121
ventati densità contemporanee contrapposte a quelle della globalizzazione e della comunicazione. Costruiamo nuove fertilità, dell’abitare, del lavoro, dell’interagire, dell’amicizia, del desiderio di nuove presenze; solo così l’architettura avrà qualità, avrà risposto all’esigenza di metamorfosi del tempo liquido. L’architettura intelligente è quella che sa vivere oltre la sua epoca, per non rischiare dobbiamo anche saper progettare il temporaneo». L’applauso arrivò forte, sembrò che pure senza averlo mai incontrato la classe avesse percepito l’importanza del teorema del punto fisso di Banach e Caccioppoli: la funzione della mappa non è influenzata dalla mappa. L’immagine del luogo è il luogo stesso, la sua forza non dipende dalla mappa della città. Tutti possiamo diventare città, tutti possiamo vivere per costruire la mappa senza farsi condizionare dalla mappa esistente, ma allora era vero, aveva ragione la professoressa dagli occhi color Napoli, Lello Esposito e Caccioppoli appartenevano alla stessa vitalità e la loro genialità era anche la nuova mappa di Napoli. Lo stesso valeva per Rea, Saviano, Nathalie e Morra, e per tutti coloro che avevano deciso di vivere di Napoli fino a dare densità alla loro città; la somma di queste città singolari sarà la città che verrà. Napoli accoglie ancora tutta la ricerca da fare sullo spazio pubblico e quello privato, è una delle poche città del mondo che possono diventare laboratorio contemporaneo sulla città degli uomini e delle donne, la città fatta del vivere di originalità e diversità, accanto al saper vivere di semplicità. La malvagità della finanza che insegue il caos nelle città del mondo potrà essere sconfitta. La lezione continua: entriamo in città!
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Città Monumento già Cosmica
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CittĂ Macchina e Frammentazione Urbana
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