Bartolomeo

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Vivo in cucina. In cucina tengo la mia collezione di ricette, le biografie di cuochi famosi, i romanzi nei quali il cibo ha un ruolo importante. Qui leggo, penso, scrivo e, se non sono davanti ai fornelli, immagino di trafficare con pentole e tegami. Sembrerà strano, ma ho bisogno di essere innamorato per sedermi a tavola contento. Certo, le mie mani sono ruvide, le mie dita sono sciupate dal lavoro nell’orto, e porto sempre con me quel sottile odore di patate di cui vado orgoglioso, dettagli che le donne che ho saltuariamente frequentato negli ultimi anni, hanno subito notato in me, lasciandomi prima ancora che cominciassimo a conoscerci. Una vita scontata, la mia, disseminata da incontri impossibili anche se sento che sarei capace di conquistare il cuore di una di queste donne con la mia abilità di trasformare anche un brandello di carne in un boccone prelibato e in una lezione di stile. Conosco bene la cucina: è un luogo di passioni dove si incontrano il desiderio del cibo e il piacere della seduzione. L’ambiente fumoso ne favorisce la conoscenza e custodisce il segreto dei loro appuntamenti. Gli odori li avvolgono, i vapori li ingannano, e i due fortificano la loro unione – ora sono un morbido groviglio di fili di seta – stimolati anche dalla curiosità per i sapori che stanno per gustare, e ne scaturisce un intruglio magico che darà origine a pulsioni erotiche indomabili. La passione per l’arte culinaria è uno di quegli amori che non muore mai. È una tenace e piacevole eccitazione che può curare morbi diversi, una sfida continua che tiene la mente lontana da aridi pensieri e impedisce al corpo di ammalarsi e indebolirsi - uno stato di grazia che fa sentire bene qualsiasi cosa accada - e porta a migliorare le preparazioni gastronomiche fino a raggiungere l’eccellenza. Un destino fatale. La seduzione è un gioco ambiguo che nasce in cucina ma si consuma a tavola, stregata dalla qualità del cibo, stuzzicata dall’alcol, tenuta viva dalla conversazione, ammaliata dai decori della sala da pranzo e dalla lenta liturgia della tavola. Riti familiari interiorizzati nel corso di generazioni si mescolano a ritmi naturali nei quali sono coinvolti tutti i sensi: la linfa scorre, la pressione del sangue sale e l’attesa farcita di odori diventa un gioco erotico bellissimo, perché i profumi stuzzicano l’immaginazione. Si attende la metamorfosi del cibo dal suo stato primordiale e imperfetto a piatto finito. Si attende che il sacrificio dal fascino sottile e cruento compiuto dal cuoco si trasformi, passo dopo passo, in un incantevole e sofisticato piacere. E si attende, un cerimoniale estenuante che dura l’intero arco del banchetto, di possedere chi si ama. Solo allora, quando il turbamento e il piacere dei

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sensi ci avranno portato alla soglia della beatitudine, la solennità della festa avrà raggiunto il suo apice. Non so bene come successe, ma quella domenica d’inverno quando trovai nella credenza il vecchio schiacciapatate che il fabbro del paese aveva fatto con le sue mani e aveva regalato a mio padre ai tempi in cui era orgoglioso di lavorare per lui, fu come se la vita si fosse accorta di me per la prima volta. Decisi che era arrivato il momento di dare corpo alle fantasie culinarie che mi avevano sempre perseguitato. Avevo quarant’anni suonati e fino ad allora la paura di sbagliare mi aveva impedito di dare libero sfogo alla mia passione. Non ero un contadino vero anche se possedevamo molta terra. Non ero un vero cuoco e, che io sappia, non ce ne sono mai stati in famiglia. All’improvviso, in piedi di fronte alla credenza e con quell’oggetto in mano, mi sentii padrone di me stesso. E capii che il mio destino fu segnato il giorno in cui venni al mondo.

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L’oggetto delle mie brame ha forma cilindrica, ha tanti piccoli fori, due lunghi manici uniti da una cerniera e può contenere una patata bollita. Dai buchi, la patata esce sottoforma di spaghetti ondulati, caldi e morbidi. Per ottenere questa purea, che è la base degli gnocchi, i due manici devono essere avvicinati uno all’altro con una certa energia fino ad unirsi. E se la patata è grande o il cuoco è debole i manici vanno impugnati con tutte e due le mani. Io uso sempre e solo la mano destra e tengo il palmo della sinistra sotto lo schiacciapatate per sentire la tiepida meraviglia della natura cadere sulla mia pelle: dopo anni di esperienza in cucina, riesco persino a immaginare il sapore degli gnocchi solo al contatto con questo soffice passato. Ma lasciate che mi presenti. Mi chiamo Bartolomeo Scappi. Sono un cuoco e un contadino. Da contadino, devo ammettere che le patate mi danno grande soddisfazione; come cuoco, apprezzo la loro versatilità. Da uomo semplice, adoro gli gnocchi di patate. Ora, a cinquant’anni, mi lascio cullare dalla magia delle mie ossessioni: coltivare patate e cucinare gnocchi.

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L’evento acadde in cucina, in un freddo pomeriggio di marzo di tanti anni fa. Quando mia madre sentì che il grande momento era vicino e non era solo frutto della sua immaginazione, mandò qualcuno a chiamare l’ostetrica, la quale arrivò con una delle vecchie donne del paese. Insieme decisero che il parto sarebbe avvenuto sul tavolo da pranzo per accontentare il dottore che soffriva di terribili mal di schiena e che non avrebbe potuto chinarsi se mia madre fosse stata coricata a letto. Pesanti coperte marrone scuro a strisce bianco latte che il nonno aveva portato a casa dopo la Grande Guerra furono tirate fuori dal fondo di un armadio. Lenzuola e asciugamani perfettamente stirati vennero ammonticchiati su una seggiola di legno come fossero una fascina. Le donne chiesero di avere due o tre catini d’acqua calda e altra acqua calda doveva essere tenuta in ebollizione per sterilizzare i ferri chirurgici quando il dottore sarebbe arrivato. Poi le due donne aiutarono mia madre a stendersi sul tavolo che, nel frattempo, era stato spinto al centro della cucina. L’ostetrica si mise in piedi alla sua sinistra e più tardi il famoso dottore si sedette di fronte a lei, i guanti sterili ben calzati sulle mani. Quando uscii dalla pancia di mia madre, non piansi molto e detti a tutti l’impressione di sentirmi a mio agio. L’ambiente in cui mi trovai all’improvviso mi ispirò subito fiducia. Era caldo e accogliente, e gli orrori della seconda guerra mondiale avevano lasciato spazio a un po’ di serenità. Le piante messe al riparo dai rigori invernali erano sparse ovunque e mi sembrò di essere stato catapultato in una selva. Un ficus era stato appoggiato sul colapiatti, accanto al lavello usato dalla vecchia del paese che era venuta a aiutare l’ostetrica, e una collezione di libri faceva bella mostra di sè. La prima edizione de La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi e de La Cucina triestina del 1927, L’Art de la cuisine aux XIX siecle di Antonin Careme, La Cuisine anglo-americain scritta da Gay nel 1913. Di fronte erano appese delle riproduzioni di quadri famosi. Una copia della Nature morte, gibier, friuts et viole de gambe di Francoise Desportes, con al centro una lepre timida, il corpo abbandonato, la testa senza vita e il muso solcato da un rivolo rosso. Unico accenno alla crudeltà in una cucina che doveva aver visto ben altri orrori, così come ora era testimone di un altro evento naturale, il parto di mia madre. Sangue e passioni.

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Quando non sono in cucina, passo il mio tempo nell’orto. Vango, semino, innaffio. Libero gli ortaggi dalle erbacce e zappetto ora qua ora là. In campagna, anche se come me possiedi solo un fazzoletto di terra, non sei mai certo di quello che raccoglierai. Devi sudare, avere fiducia e forse un giorno, se il tempo sarà stato clemente, potrai vedere i risultati del tuo lavoro. Ma quando ho le ginocchia sulla terra nuda e le mani tra le zolle tiepide, mi sento ricco. Quella ricchezza fatta di carattere e conoscenza che ho ereditato dalla mia famiglia e che è stampata nei geni. Non c’è tirannia che possa portarmi via i miei tesori. Sono cresciuto in campagna in mezzo a pale e forconi più grandi di me. Allora la parola noia non faceva parte del nostro vocabolario e la cultura del passatempo non era stata ancora inventata. La signora Pina della cartoleria giù al paese continuava a vendere gli stessi soldatini. Si ritirò dal commercio prima di accorgersi che i tempi stavano rapidamente cambiando e morì subito dopo. Non ci furono altre cartolerie e lo spazio rimase chiuso fino agli anni Settanta, quando fu occupato da un fioraio. Il giorno in cui compii sei anni mio padre mi regalò un piccolo fazzoletto di terra e mi fece scegliere cosa coltivare: un dono meraviglioso. Con l’aiuto di Giacomino, il nostro mezzadro, divisi i pochi metri di terra in aree diverse, dove con metodo e precisione seminai una fila di patate alternata a una fila di salvia, rosmarino, basilico e mentuccia. Piantai anche dei fiori. Erano tuberi di dalia. Mentre aspettavo di vederli crescere, e dovetti aspettare molto, studiai il percorso del sole, la velocità con cui le nubi solcavano il cielo nelle diverse ore della giornata e le erbe del giardino sperimentarono sulle loro tenere foglie che sarebbe stato meglio che non le avessi annaffiate quando minacciava la pioggia. Imparai a essere paziente, una vera arte, questa, e quasi incomprensibile a un bambino di quell’età. Zio Mino – era così che chiamavo il mezzadro – mi aveva prestato un vecchio annaffiatoio che lui non usava più. Una fatica. Era pesante anche da vuoto, e capii subito che era meglio riempirlo poco per volta e fare molti viaggi alla fontana piuttosto che portarlo in giro colmo fino all’orlo. Non ho parole per raccontare la mia eccitazione il giorno che vidi spuntare qualcosa dalla terra. Era il mio primo orto e fu un vero colpo di fulmine, di quelli che lasciano il segno. Fu inutile fingere che era un’infatuazione momentanea, perché l’eccitazione si rifece viva ancora come un drago che sputa fuoco dalle fauci a intervalli regolari. Le patate non si vedevano ma avevano

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cominciato a gettare piccoli cespugli verdi mentre le dalie si stavano trasformando in macchie giallo oro e rosso cupo e alcune avevano anche una doppia corolla o erano screziate. Una festa di colori. Solo chi, come me, ha coltivato da bambino tuberi e bulbi, può apprezzare la forza del loro carattere. Sono dei furbastri, quelli. Se non li ami davvero e intuiscono che sei un contadino della domenica, ti ingannano presentandonsi come le cenerentole dell’orto. A pensarci ora, provo per me stesso orgoglio e tenerezza.

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Era la fine del sedicesimo secolo e gli spagnoli avevano ormai distrutto l’impero degli Incas e saccheggiato tutto l’oro, quando trovarono sacchi e sacchi di tuberi. Li caricarono a bordo e li depositarono nelle stive. Quelle patate erano meglio dell’oro, erano cibo per la traversata. La scoperta fu attribuita a Sir Francis Drake, un navigatore avventuroso, ma non è esattamente ciò che accadde. Durante il banchetto del 4 aprile 1581, infatti, Drake servì a Elisabetta I, regina d’Inghilterra, quelle che a quei tempi venivano chiamate batate, ma era la qualità dolce di tuberi che lui aveva riportato dal suo viaggio intorno al mondo. La patata come noi la conosciamo, fu invece introdotta in Inghilterra dal geografo Thomas Heriot, quando tornò dalla Virginia, il primo insediamento britannico in Nord America. Nell’”Herbal or General History of Plants”, infatti, è chiamata potatoe of Virginia. Qualche anno dopo, all’inzio del diciassettesimo secolo, era ancora considerata un tubero esotico e coltivata nei giardini delle famiglie ricche come pianta ornamentale e medicinale. Con il suo tenue sapore, infatti, non poteva certo competere con il gusto forte delle spezie che, a quei tempi, arrivavano in Europa da tutto il mondo. In Italia, la patata ha una storia diversa. Fu importata più o meno nello stesso periodo dai carmelitani scalzi e coltivata, all’inizio, come cibo per animali. Le testimonianze giunte fino a noi dimostrano che gli agronomi del tempo incontrarono molta difficoltà a persuadere la popolazione a introdurre la patata nella dieta giornaliera. Anche se è un ortaggio piuttosto esigente, ora la patata cresce ovunque nel mondo, in ogni latitudine, in pianura come in montagna. La patata da semina deve essere piantata in senso orizzontale e coperta con un leggero strato di terra umida e ben drenata. Per ogni patata seminata, si possono avere venticinque nuovi tuberi. Ci sono centinaia di tipi di patate… Bartolomeo ora dorme sulla sedia in cucina, le gambe a penzoloni sul bracciolo. Il Trattato della patata pubblicato a Napoli nel 1901 giace sul pavimento, leggermente rovinato nel percorso breve, ma fatale, tra le sue mani intorpidite, il rimbalzo sulle ginocchia e la caduta vera e propria. Un grave danno, penserà Bartolomeo con stizza al suo risveglio.

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Il giorno in cui, da bambino, cominciai a lavorare la terra non sapevo che quei due bulbi venivano dal Sud America e avevano così tanto in comune. Fu un istinto primordiale a spingermi a coltivarli e, anche se tanto tempo è passato, è ancora un grande piacere occuparmi di loro. La patata e la dalia hanno carattere diversi. Se devo proprio scegliere preferisco i fiori piccoli, bianchi, timidi e cespugliosi dei tuberi a quelli dai colori forti, grandi, rotondi, perfettamente eretti e vanitosi della dalia, ma apprezzo la fierezza del comportamento e la nobiltà d’animo dell’una e dell’altra. Non riesco a dare una spiegazione logica alle mie passioni. Semplicemente mi accade di amarli entrambi. Anche se non posso ricavare gnocchi dalle dalie, devo ammettere che sono magici piccoli gioielli. Cos’altro potrei volere di più da un bulbo che fiorisce a ripetizione dall’estate all’autunnno nonostante il tempo da queste parti non sia sempre clemente nei mesi caldi? Naturalmente, come tutti i cuochi-giardinieri, ho anch’io delle preferenze. Delle varietà di dalia che coltivo, per esempio, sono innamorato della Paul Smith, con le sue corolle rosso scuro. A Ferragosto, quando la fioritura è al massimo splendore, le taglio con i gambi piuttosto corti e le metto in un vaso antico, basso e panciuto, quello che più piaceva a mia madre, che tengo sul tavolo quadrato davanti alla finestra, stile vecchio caffè viennese, di cui nessuno in famiglia ricorda più la provenienza, e dove di solito faccio colazione la mattina. Non so bene come sia accaduto ma piano piano, negli ultimi anni, sono riuscito a costruirmi una vita incantevole dentro e fuori casa. Certo fa piacere sentirsi dire dai nipoti che vivo in un luogo fatato e credo che la loro descrizione del mio rifugio sia molto vicina alla realtà. Ho un patio che funge da stanza all’aperto dove vivo, cucino e leggo nei mesi estivi e che è accogliente come se fosse un vero ambiente della casa. All’interno, poi, al secondo piano ho potuto ricostruire in vetro la parete di mattoni di una delle stanze - una rarità in un paese dove non è permesso abbattere nulla che non sia già completamente crollato - così posso catturare tutta la luce possibile anche nei mesi più bui dell’anno, dalla metà di novembre a tutto febbraio, e guardare la pioggia bagnare le foglie. D’estate mi stendo sull’amaca nella parte più rigogliosa del giardino che profuma di glicine e gelsomino e che mi piace tenere poco curata – adoro quel groviglio di rami e quella continua guerra per la sopravvivenza - e sul tavolo ho sempre un buon bicchiere di vino rosso accanto a un vaso di vetro con un tubero fiorito di patata dolce americana. Nessuno rimane mai senza vino in questa

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parte del mondo. Qui con me ci sono anche le piante che tengo in casa d’inverno e che porto fuori in primavera a fare il pieno di aria, luce e clorofilla. Non solo gli alberi e i fiori, ma anche noi uomini siamo contenti in questa stagione. Geremia, il contadino la cui proprietà confina con i miei campi, diventa meno burbero d’estate e si è persino offerto di aiutarmi a raccogliere la legna. Credo che accetterò la sua proposta. Sarà meno noioso lavorare con lui nel bosco e parlare di vecchie sementi, nuovi ibridi, rose antiche dal profumo che stordisce, mentre insieme leghiamo i rami secchi e facciamo fastelli.

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Una sera d’agosto mangiavo, come sempre, nel patio, ma la luna non venne a trovarmi. Allora mi alzai, andai in cucina e cercai una candela. La prima che mi capitò tra le mani era tozza e consumata. Tornai fuori, la accesi, la appoggiai sul tavolo e la coprii con il mio schiacciapatate. Come per incanto, la luce uscì da quella miriade di fori e si diffuse intorno a me. Una magia anche per Charline, il mio Golden Retriever dal pelo lungo e quasi bianco. Charline stava appoggiata al mio piede, aveva il sopracciglio alzato per la paura e chiedeva di non essere lasciata sola al buio. Rimasi stregato dal luccichio e mentre mi trovavo in stato di semincoscienza, mi venne in mente mio padre e quanto contento sarebbe stato se avesse saputo che il suo schiacciapatate, quella notte, viveva una nuova vita. Ricordo ancora l’unica volta che gli preparai gli gnocchi. Fu un atto pieno di valore per tutti e due. Mentre impastavo le patate davanti a lui, una prova non di poco conto, ebbi la folgorazione che aspettasse di abdicare per morire in pace, ma che nessuno dei suoi figli fosse pronto a ricevere lo scettro. Nello stesso preciso istante, sentii che ero all’altezza della situazione. Sarei stato io a ricevere la forza delle sue virtù. Questa è la storia di ciò che accadde quella mattina.

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Era un caldo settembre del 1996, quando andai a trovare mio padre che, nonostante l’età e la malattia che l’aveva colpito, viveva ancora con dignità nella casa di famiglia, circondato dai ricordi di mia madre che l’aveva lasciato solo dieci anni prima. Che ne diresti di un bel piatto di gnocchi? gli chiesi appena arrivai. Certo che si, ma credo di non poterli fare. Non ho più tanta forza per lavorare le patate. Non facciamoci venire di queste voglie, Bartolomeo. C’è altra roba in casa se vogliamo mangiare. No, papà, non hai capito. Sono io che voglio cucinare gli gnocchi per te. Tu li hai preparati tutte le domeniche per tanti anni. Sei il maestro degli gnocchi. Fammi provare. Vado in cucina a lavare le patate e a metterle in pentola. Torno subito. Anzi, vieni con me e siediti qui accanto al tavolo dove una volta facevi l’impasto. Avremo un po’ di tempo per chiacchierare. Lo sai, Bartolomeo, non ho mai cucinato un solo chilo di patate come stai facendo tu ora. Ce ne voleva sempre almeno il triplo. Eravamo in sette a casa: tua madre, io, i nonni e voi tre ragazzi. E noi avevamo sempre fame. Pensai che era la prima volta che io e mio padre parlavamo insieme da persone mature, rispettandoci reciprocamente. Il vuoto tra noi due si andava via via colmando mentre eravamo insieme nella cucina della casa di campagna che appartiene alla nostra famiglia da generazioni. Proprio in quella cucina dove tutto avveniva sotto gli occhi di tutti, senza la minima concessione al desiderio di intimità di qualcuno, e dove il rigore della quotidianità era interrotto solo la sera, dopo cena, dalla lettura dei classici o di vecchi libri di cucina e di giardinaggio. Quando le patate furono cotte misi l’asse per gli gnocchi sul tavolo da pranzo. Erano belle, tutte della stessa misura e della stessa forma, la scorza sottile, la polpa farinosa color giallo paglierino. E fumanti. Le pelai. Mi lavai le mani e andai verso l’ingresso, dove avevo lasciato lo zaino e tornai indietro nascondendo qualcosa dietro la schiena. Mi girai verso mio padre, dandogli le spalle. È il tuo schiacciapatate, papà, quello che mi regalasti tanti anni fa, quando la mamma ne comperò uno nuovo, di acciaio. L’ho trovato mettendo ordine nella credenza. Solo tu, Bartolomeo, potevi fare questo, disse mio padre cercando di non far trapelare l’emozione. Schiacciai le patate una alla volta nel vecchio arnese di alluminio usando solo la mano destra e lasciando che i corti spaghetti venissero giù attraverso le dita della mano sinistra, mio padre seduto 11


in silenzio accanto a me, l’orgoglio nei suoi occhi. In quel momento ero tutta la sua vita. E la sua speranza. Sparsi la purea di patate e la lasciai intiepidire. C’era tempo per chiacchierare. - Cosa ne pensi se preparo anche un paio di chifeletti1?, domandai sicuro di farlo contento. - Dici davvero? - Si, papà, per davvero. Ne faccio una decina. Questo è un pranzo speciale, il nostro pranzo. Beviamoci un bicchiere prima che cominci a lavorare sul serio. Le patate sono quasi fredde. Mentre aspettavo che mio padre tornasse indietro con il vino, raccolsi la purea verso il centro dell’asse, ci ammontichiai sopra un po’ di farina e feci una fossetta nel mezzo per fare spazio all’uovo. Poi ci misi il sale, il pepe, l’olio e grattugiai delle croste di parmigiano. Era arrivato il momento di sporcarmi le mani. Bevvi un sorso di bianco per darmi energia, appoggiai il bicchiere sull’angolo destro della tavola, quello più lontano dal punto in cui lavoravo, per non romperlo, e cominciai a formare una grande palla aggiungendo poco per volta farina all’impasto per non farla appiccicare alle mani. Le patate sono di qualità, faranno buoni gnocchi. Vengono dalla nostra fattoria, dissi con orgoglio. Versai ancora un po’ di farina all’angolo sinistro del tavolo, quello opposto a dove avevo messo il vino, ci appoggiai sopra la palla di patate, che era diventata ancora più gialla dopo l’aggiunta dell’olio, e la lasciai riposare. Con un vecchio coltello grattai via la farina e i rimasugli di patate, rovesciai sull’asse dell’altra farina e tagliai un pezzo dalla massa. Lo adagiai sulla parte infarinata e lo lavorai finchè formai un rotolo non troppo grosso. L’impasto è riuscito bene, papà, e mentre lo dicevo mi sentii come il prode Ettore al suo ritorno a casa dopo le annose guerre combattute contro i TROIANI. Tagliai il salsicciotto in piccoli pezzi e ripetei l’operazione diverse volte. Feci rotolare gli gnocchi uno ad uno sulla schiena della grattugia premendo leggermente con l’indice della mano destra per creare un piccolo buco al centro, che è poi il segreto per farli cucinare bene all’interno e mantenerli morbidi. Lasciai da parte un quarto dell’impasto. Ora faremo i chifeletti, papà. Tu li friggi mentre io cucino gli gnocchi, dissi. È bello andarsene con la consapevolezza che le mie conoscenze sono passate di mano e con la certezza che l’allievo è migliore del maestro. Ti ho osservato attentamente questa mattina, 1

Chifeletti: impasto di patate tagliato in rotolini grossi non più di un dito mignolo e lunghi circa dieci centimetri, generalmente a forma di cavallo, molto popolari nell’italia nord-orientale.

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Bartolomeo. Mi sembra che ora tu sia il maestro, il maestro degli gnocchi. I suoi occhi ebbero un improvviso guizzo di gioia. Sei sempre tu il maestro, papà. Se ho imparato qualcosa è perché sono stato a osservarti quando vivevamo tutti insieme in questa casa. Era il mio passatempo preferito la domenica mattina, molto meglio che andare in chiesa. Li hai sempre cucinati gli gnocchi nei giorni di festa, anche se avresti potuto chiedere alla nonna di prepararli. Ma non ti sei mai fidato di nessuno. È vero. Ma lo trovavo molto rilassante. Lo sai, papà, che mi ero sempre vergognato di dirti che è ormai da tanti anni che cucino gnocchi. Ma questa mattina ho pensato che era inutile continuare a tacere. Ho sentito che ero pronto per la grande prova. Ci mettemmo in piedi di fronte ai fornelli. Io seguivo la cottura degli gnocchi mentre mio padre friggeva i chifeletti nell’olio bollente. Condimmo gli gnocchi con burro e salvia, spruzzammo dello zucchero sopra i chifeletti e andammo a sederci a tavola. Continuammo a bere la stessa Malvasia che avevamo assaggiato prima di pranzo. La domenica, usavamo accompagnare i chifeletti con un buon sugo di carne che tua madre preparava solo quando la Nerina aveva la giornata libera, te lo ricordi? E tu, papà, ricordi quando si ripassavano gli gnocchi avanzati nel sugo di lepre e si mangiavano la sera assieme all’arrosto, nei grandi piatti ovali? Dopo che questo profondo legame si stabilì tra di noi, sentii che avevo riscattato me stesso. Avevo avuto il coraggio di misurarmi con lui e, finalmente, potevo guardarlo negli occhi. Una cosa troppo importante per me. Mio padre se ne andò quaranta giorni dopo che, io, Bartolomeo Scappi, suo figlio, ero risorto a nuova vita.

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Per quanto affascinante sia nell’uomo la virtù della modestia … è quasi fuori posto nella dalia scriveva Gertrude Jekill, inglese, scrittrice e appassionata di botanica, nel suo libro Bosco e giardino. Sono un uomo di passioni. Amo i fiori, ogni tipo di fiori, anche se le dalie sono riuscite a farmi perdere la testa. Ricordo i giardini e gli orti dei vicini bordati di dalie e le donne che andavano in città a vendere fiori agli angoli delle strade. Lasciavano il paese a bordo di vecchie corriere con cesti pieni di mazzi di dalie di tutti i colori, tenuti insieme da stracci umidi e tornavano a casa la sera a mani vuote ma con un po’ di soldi in tasca, buoni per saldare al droghiere piccoli debiti di vecchia data. Per molti anni ci si dimenticò delle dalie, finchè la loro bellezza fu riscoperta da qualche giardiniere di grido che, negli ultimi tempi, le ha fatte tornare di moda. I primi a coltivare le dalie furono gli Atzechi. I bulbi arrivarono in Europa sui galeoni degli esploratori spagnoli che erano sbarcati in Messico nel sedicesimo secolo, ma non ebbero molto fortuna. Quando molto più tardi, verso la metà dell’Ottocento, un’epidemia di carbonchio si diffuse tra le coltivazioni di Francia, i contadini provarono a mangiare i bulbi di dalia al posto dei tuberi di patata, ma senza successo. Non ci fu cuoco capace di rendere appetibile il bulbo anche al cliente meno esigente. Le storie che leggo qua e là nella mia collezione di libri antichi durante le serate che trascorro in solitudine, mi fanno meditare su certi comportamenti. Negli ultimi anni, da quando è cominciata la popolarità del giardinaggio, la gente è rimasta un po’ confusa. Vive in città e pretende di conoscere come far crescere fiori e vegetali. Poi affitta una casa in campagna e non sa nemmeno cos’è un giardino di erbe aromatiche. Semina salvia, rosmarino, basilico e timo così vicini uno all’altro che non hanno più la loro caratteristica profumazione. Poi insaporisce il pollo arrosto con il rosmarino che sa di salvia e il basilico nell’insalata ricorda l’aroma del timo. E succede anche di peggio, chiede al contadino che gli cura l’orto di piantare certi semi senza sapere che non vanno bene per quel tipo di terreno o che non possono vivere in quella particolare zona. Purtroppo in giro c’è ancora chi ha una visione romantica della vita. Il fatto è che questa nuova tendenza ha fatto diventare erbe e fiori improvvisamente popolari per accontentare una legge di mercato. Una piccola falsa rivoluzione.

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Sono cresciuto in una terra di emigranti. Nell’ultimo secolo, gli uomini che non sono partiti per la guerra se ne sono andati in cerca di lavoro. Le donne, invece, sono rimaste a casa, hanno educato i figli, allevato gli animali, lavorato i campi. E hanno aspettato i loro mariti che tornavano al paese una volta l’anno per trascorrere insieme le ferie d’agosto. Non tutti quelli che ci hanno lasciato erano operai qualificati, così hanno fatto il meglio che hanno potuto. Sono andati in Svizzera a lavorare come muratori, in Germania a fare gelato, in Francia a cucire in fabbrica, in Belgio a sporcarsi nelle miniere. Alcuni hanno osato attraversare l’oceano e si sono trasferiti in luoghi lontani e sconosciuti come il Sud Africa, gli Stati Uniti, l’Australia e persino la Nuova Zelanda. Cuochi e camerieri sono stati i più fortunati se così si può dire e sono tornati guidando bei macchinoni e raccontando di lavorare come chef o maitre, parole francesi dal suono vagamente romantico e del tutto oscure ai vecchi del villaggio. Nell’estate del 1964 vidi molti dei miei compagni lasciare il paese per frequentare la scuola alberghiera, mentre io mi preparavo a studiare al liceo in una città vicina. Questa fu la prima volta che una certa sensazione di invidia serpeggiò tra noi. Chi se ne andava avrebbe preferito rimanere ma nessuno, a quei tempi, poteva immaginare che io che avevo tutto sarei stato geloso di loro. Fui molto triste in quel periodo. Come avrei potuto tornare a casa un pomeriggio annunciando: Papà, da grande voglio fare il cuoco. Sarei stato la vergogna della mia famiglia se solo fossi partito con Olmo, il mio migliore amico che era anche il figlio della Nerina, la nostra donna di fiducia. Nonostante la mia famiglia avesse sempre coltivato la cultura del cibo: Questo non è il tipo di lavoro che ti potrà far felice, avrebbe tuonato mio padre. Sei ancora troppo giovane per decidere. Vai a scuola e poi si vedrà. C’è tempo per parlarne. Così non ne parlai con nessuno e pensai: Chi sono io per lasciarmi influenzare dalla mia famiglia? Perché devono essere loro a scegliere la vita che voglio vivere? Ho ancora negli orecchi il tono di voce di mio padre l’unica volta che tornai a casa con brutti voti, che mi ammoniva: Se non sei un bravo studente, ti mando a lavorare come apprendista al bar Sport, che si trova ancora oggi allo stesso angolo dell’unica piazza che c’è in paese. Questa affermazione non suonò come una minaccia per me, ma piuttosto come un’occasione per andarmene e per avere un modesto salario che, nella mia fantasia di studentello imberbe, avrei rimpolpato con un po’ di mance. Ero sicuro che i vecchi clienti che mi conoscevano fin da bambino si sarebbero mossi a compassione. Pensai che questo era l’unico modo per cominciare una vita nuova 15


e indipendente. La mia vita da cuoco. Ma non finì così. Il lavoro al bar avrebbe cambiato sì la mia vita, ma non trovai nè il coraggio di prendere quella drastica decisione nè fui forte abbastanza per scappare. Molto poco, allora, rimaneva da fare. Accettai l’idea che non sarei mai diventato cuoco. Naturalmente, qualsiasi cosa sia accaduta nella mia vita, il mio interesse per il cibo non è mai tramontato. Passò molto tempo prima che trovassi il coraggio di cucinare. Cominciai a far qualcosa quando andai a vivere per conto mio perché, prima, c’era sempre qualcuno in famiglia che provvedeva ai miei bisogni: mia madre, mia nonna, Nerina e, più tardi, mio padre che la domenica si cimentava in superbe gnoccolate. Se tralascio le partenze degli emigranti, poche altre emozioni hanno turbato la nostra comunità negli ultimi decenni. Gli anni Sessanta con i Beatles e la guerra del Vietnam che tanto scalpore fecero nel resto del mondo furono più un fulmine a ciel sereno che una vera e propria rivoluzione: coinvolsero noi giovani senza provocare alcun cambiamento radicale nelle vecchie abitudini. Più tardi, il terremoto portò morte e rovina nelle nostre terre ma, con la ricostruzione che ne seguì portò con sè una ventata di rinnovamento: il governo assegnò maggiori fondi ai comuni danneggiati e questo insolito stato di privilegio ci dette la possibilità di creare altri posti di lavoro. Poi venne l’elettronica e con essa la vera trasformazione. A poco a poco, i computer hanno occupato i tavoli dei nostri salotti e si sono installati negli uffici semplificandoci la vita. Ma ora non esageriamo con i fermenti. Io sto bene così e sono contento che il mio lavoro si possa ancora svolgere all’antica. In cucina come nell’orto.

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Olmo è uno di quei fortunati che ha lasciato il paese e ha avuto successo. È diventato un cuoco. Un vero cuoco. Eravamo cresciuti insieme e avevamo frequentato la stessa scuola finchè lui non era partito per la Svizzera. Nerina non aveva i soldi per mantenerlo. Suo marito morì giovane lasciandola senza pensione e il salario che lei riceveva per il lavoro a casa nostra non era abbastanza per far studiare Olmo e Margherita, i suoi figli, nonostante tutti i sabato mattina mia madre le arrotondasse la paga settimanale. Questo rimase un segreto tra le due donne e mio padre non ne seppe mai nulla. Da bambino Olmo fu sempre molto responsabile e desiderava aiutare la sua famiglia. Quando se ne andò mi disse: sarò presto in grado di provvedere a me stesso e farò tutto il possibile per sostenere le mie donne. Vorrei che mamma non lavorasse più e che Margherita studiasse e facesse un mestiere dignitoso. E in quelle poche parole che scambiammo la prima volta che tornò dalla Svizzera, capii che non doveva essere facile per lui vivere da solo, così giovane, lontano dalla famiglia, dal paese dove era cresciuto, dagli amici con i quali aveva giocato nelle strade sterrate e nei campi non ancora arati. Olmo e io siamo sempre rimasti in contatto e teniamo molto l’uno all’altro, mentre non ho più visto sua sorella da anni. Vive a San Francisco, California, e l’ultima volta che tornò fu quando morì sua madre. Ogni volta che è rientrato al paese, Olmo mi ha sempre cercato. No, non ci scriviamo nè ci telefoniamo. Non siamo inclini a questo tipo di cortesie. E poi, scriverci cosa? Meglio passare un po’ di tempo insieme quando è possibile. Siamo amici da più di quarant’anni e abbiamo molto rispetto uno dell’altro. Il nostro rapporto è come un matrimionio di lunga data: ci capiamo al primo sguardo. A parte l’affetto che ci unisce e le tante esperienze vissute insieme, tutti e due sentiamo che c’è qualcosa di ancestrale che ci unisce. Dev’essere questa nostra passione mai tramontata per il cibo. Olmo ha lavorato nei migliori ristoranti del mondo, dal Gritty di Venezia al Ritz di Londra al Four Seasons di Los Angeles. Parla diverse lingue, ma la grande cucina è il suo modo istintivo e primordiale di esprimersi. Le sue ricette, sempre nuove ma lontane dalle mode degli anni Ottanta, parlano per lui. Anche se è un capocuoco di professione, Olmo è stato il primo amico a cui ho raccontato che mi piaceva pasticciare ai fornelli, il primo a cui ho fatto assaggiare i miei gnocchi senza mai sentirmi imbarazzato. Insieme cuciniamo, creiamo piatti insoliti e beviamo vino buono. Quando siamo brilli, ci sentiamo sontuosamente regali. E siamo contenti. È come se, durante le 17


vacanze estive, cercassimo di recuperare tutto il tempo che non possiamo trascorrere insieme durante l’anno. Cucinare è il mio lavoro e lo adoro, mi disse Olmo una volta. Nonostante lo faccia con impegno da tanti anni, sente ancora l’imponderabile piacere di rendere gli altri felici. Chi va in un grande ristorante, mi raccontò tempo fa, è pronto per un viaggio importante che lo coinvolge e eleva il suo spirito. Se si tratta di una giovane coppia, la sensualità si insinua nei loro pensieri prima che se ne accorgano. Ma il piacere gastronomico rinnova anche una vecchia unione logorata dal tempo perché, se i due si siedono a tavola insieme, vuo dire che sono decisi a salvare il legame che li unisce. E discutere insieme sarà per loro più facile quando almeno l’olfatto e il palato saranno in fibrillazione. Un bicchiere di champagne finirà di sciogliere l’atmosfera. Altre volte i clienti sono una vecchia coppia con nessun altro piacere se non il gusto e il conforto di un buon piatto. Sono contento di soddisfare i desideri di tutti. Serviamo anche gente di passaggio, che non fa la storia del ristorante, proseguì, ma il mio staff lavora per servire tutti e il mio obiettivo, il nostro obiettivo, è di farli felici, anche se io ho le mie opinioni, come puoi immaginare. Francamente, preferirei non cucinare per certi uomini d’affari. Per carità, non è che non apprezzano la buona cucina, il fatto è che parlano di soldi mentre mangiano. È diventato di moda negli ultimi anni. Vengono spesso all’ora di pranzo e fanno accordi da milioni di dollari di fronte a un piatto stupendo, che sicuramente sarà diventato freddo prima che sia finito e ordinano acqua minerale naturale in un bicchiere pieno di ghiaccio al posto del vino. Sono fortunati se riescono a digerire. E poi, scusa se mi ripeto, ma non riesco a capire questo continuo parlare di soldi a tavola. Ricorderai anche tu quando, ai nostri tempi, era considerato un comportamento scorretto. Risposi che aveva ragione e che la tavola è un’avventura straordinaria da rispettare in ogni situazione. Anche se la mia esperienza è diversa dalla tua, penso che cucinare sia un po’ come andare dallo psicanalista. Preparare da mangiare e poi sedere a tavola con gli amici, raccontare le proprie storie, confessare i propri problemi è, almeno nel mio caso, non solo un piacere, ma una vera cura per l’anima. E aggiunsi: Olmo, la prima bottiglia di vino è vuota. È arrivato il momento di pensare alla cena. Cucineremo insieme, scandimmo in coro.

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Lo sai, Olmo, anche se non ho una fidanzata e non mi sono costruito una famiglia come invece hanno fatto i miei fratelli sento che posso essere orgoglioso di me. Il buon cibo e i fiori sono i miei compagni preferiti. Hai ragione Bartolomeo. Anche la mia vita è piena di soddisfazioni. Ma credo che tutti e due, arrivati a questa età , avremmo bisogno di una donna con cui dividere desideri e affanni. Diversi anni sono passati da allora e niente è cambiato. Il mio amico e io ci incontriamo ancora qui al paese anno dopo anno, ad agosto, e brindiamo alla nostra condizione di uomini soli. Ogni volta con maggiore tristezza.

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La rivoluzione digitale sta cambiando il modo in cui viviamo e internet gioca un ruolo importante nella nostra società. Si può comunicare via e-mail, ricevere le notizie dell’ultimo minuto, fare acquisti, prenotare le ferie, tenere conto delle finanze e giocare a poker o fare un solitario. Un servizio internet offre spazio libero per creare le proprie pagine web. Questa è un’idea per te, disse Olmo mentre leggeva il giornale. Potresti mettere la tua collezione di ricette per gli gnocchi in rete, aiutare a risparmiare sulla spesa, suggerire come usare gli avanzi, mettere insieme un menu e evitare la fretta degli acquisti all’ultimo minuto. Saresti un perfetto assistente virtuale. Pensaci bene. Il lavoro è interessante e potrebbe rivelarsi una buona risorsa di danaro. Perché non lo fai tu, Olmo. Dopotutto, di noi due sei tu il cuoco di professione. Sono così occupato al ristorante, Bartolomeo, che non ho tempo per nient’altro. Ma se vuoi possiamo lavorare a questo progetto insieme. Io ti posso dare tutte le mie ricette da usare on line, e tu ci aggiungi le tue per fare gli gnocchi. Questo è già un buon inizio. Gli dissi che non c’erano ostacoli alla realizzazione della sua idea. Ma ciò che non potevamo insegnare era il piacere di cucinare con le proprie mani. Capisco cosa vuoi dire, ma stiamo parlando della possibilità di fare soldi spiegando ad altri come preparare alcuni piatti speciali e offrendo loro la possibilità di consultare un intero catalogo sullo schermo del computer mentre stanno seduti in poltrona. Pensa solo a quanti libri di cucina si pubblicano ogni anno. Cosa credi che la gente sperimenta tutte quelle ricette? Comprano volumi illustrati di grande pregio per il piacere di leggere e guardano le fotografie per vedere qual è il risultato finale. Sono quasi sicuro che non ne provano neanche una. Olmo, ricordi tua madre che ripeteva: Cuochi si nasce, rosticceri si diventa rifacendo il verso a Brillat Savarin? E come potrei averla dimenticata? Bene, allora non ho altro da aggiungere. Ci mettemmo a cucinare e il piacere di toccare e tenere il cibo crudo tra le mani era stampato nei nostri occhi. Preparai gli gnocchi. Alle patate schiacciate unii la farina e le uova: un gesto antico che rinnovo sempre con lo stesso piacere. Affondai le mani nell’impasto come se stessi sprofondando la testa in una morbida mammella. Poi formai una salsiccia lunga e la tagliai in piccoli pezzi mentre 20


Olmo lavorava al sugo di funghi, i porcini selvatici che avevamo raccolto la mattina presto. Olmo girava su e giù per la cucina, senza pace, in cerca del coltello più grande tra i più grandi che ho nel cassetto, della pentola un po’ più larga di quella che aveva trovato nell’armadio, come se fosse al ristorante. E andava avanti e indietro dall’orto a raccogliere i migliori aromi. Sembrava perfettamente consapevole delle sue conoscenze. E di cosa stava facendo. Peccato solo che non sapesse preparare un pranzo solo per due. Cucinammo in silenzio e sentimmo di partecipare allo stesso rito. Era una faccenda tra uomini e non volevamo nessun altro intorno a noi. Non è che eravamo gelosi della nostra amicizia, dei piatti che stavamo preparando o ci preoccupavamo della curiosità della gente del paese nei nostri confronti, ma tutti e due sentivamo di appartenere a una cultura speciale. I cuochi sono una razza diversa. Il cibo non è solo un fatto di gusto, ma anche un piacere del tatto, quella sensazione meravigliosa di tenerlo tra le mani. Prendiamo per esempio il pane. A chi non piace sentirlo caldo, da poco sfornato, quando l’umidità bagna leggermente il palmo? Una volta Olmo mi disse di aver conosciuto un vecchio sudamericano che gli aveva raccontato della gioia che provava a tenere tra le mani le tortilla appena cotte. Giorno dopo giorno, il calore aveva quasi completamente rovinato la sua pelle, ma non avrebbe mai smesso di ripetere lo stesso gesto perché considerava quelle sfoglie di granoturco un dono celestiale. Il piacere era prima sulle dita e solo dopo tra le labbra. Olmo e io ci trovammo d’accordo sull’impossibilità di comunicare il piacere per la buona tavola via internet. E allora dissi che per raggiungere l’anima di tutti come noi intendevamo avremmo dovuto inventare una storia d’amore o una favola erotica e includervi una ricetta. Proposta accettata, disse Olmo. Quando fummo pronti per la cena, anche la seconda bottiglia di vino era finita. Insieme lasciammo la cucina e andammo a mangiare nel patio. Portammo fuori una grande pagnotta, altro vino rosso, pepe bianco da macinare direttamente sugli gnocchi per il piacere dell’olfatto e del parmigiano reggiano da grattugiare per il piacere del gusto. Poi tornammo indietro a prendere piatti, forchette, tovaglioli e i vassoi con gli gnocchi. L’aria era calda e profumava di fiori selvatici, di corteccia, degli aromi dell’orto. Tutto sembrava essere quieto e le zanzare non erano ancora arrivate. Era la serata giusta per goderci i manicaretti. Gli gnocchi e i porcini sembravano incredibilmente morbidi. Dopo tanta attesa e tanto lavoro, il grande momento era arrivato. Chi di noi ha detto che abbiamo bisogno di una donna? Chiesi spalancando gli occhi e rigirandoli verso l’alto mentre Olmo alzava il bicchiere per un altro brindisi. 21


A noi. A noi, risposi. Dal bordo del vassoio presi uno degli gnocchi e un po’ di un fungo tra il pollice e l’indice e li portai insieme alle labbra. Riuscii a distinguere il sapore sottile della patata e la sua struttura. Mi si scioglieva in bocca mentre apprezzavo il caratteristico gusto erotico dei porcini. Tutti e due erano caldi, morbidi e rotondi. Tutti e due avevano l’aspetto sensuale, liscio e levigato. L’arte gastronomica e la nostra creatività avevano saputo trasformare il malumore e la noia di una giornata qualunque in qualcosa di speciale. Il vino aveva fatto il resto. Questa è la notte giusta per raccontare storie magiche, dissi a Olmo.

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Una volta, tanto tempo fa, Marte, dio della guerra e protettore delle messi, mandò sulla terra una delle sue figlie con l’incarico di raccogliere piante aromatiche per profumare il cibo degli immortali. La giovane si chiamava Celeste e era anche lei una dea. Celeste volò tra prati e boschi, colline e montagne. Visitò tutti i giardini che trovò e si fermò quando sentì un profumo fresco e pungente che non conosceva. Scorse una pianta alta una ventina di centimetri, con foglie di colore verde brillante e fiori a grappolo molto profumati che battezzò con il nome di basilico. Anche il basilico, come ogni pianta scoperta dagli dei, era diventato ora una pianta sacra da raccogliere secondo il rituale divino. Celeste ruppe un rametto di quercia e con questo si purificò le mani bagnandole con l’acqua di tre fonti diverse. Poi si sedette accanto a una delle sorgenti, si spogliò e indossò nuove vesti. Così purificata, raccolse tutto il basilico che trovò nelle vicinanze e, invece di tornare subito da Marte, suo padre, ne fece un fascio e lo usò come giaciglio. Era molto stanca e decise di dormire sulla terra. La mattina dopo, quando si svegliò, le foglie delicate di basilico erano ormai appassite, anche se ancora molto odorose. Celeste si stiracchiò, si sistemò le ali, volò qua e là e ne raccolse un altro mazzo. Questa volta provò ad assaggiarlo per sentirne il sapore e le piacque moltissimo. Pensò che non sapeva cosa farne e che, invece di portarlo a Marte per profumare il cibo degli dei, avrebbe preferito far felice un comune mortale. Volò e volò fino a quando trovò un uomo che passava di lì con un asino e un calesse pieno di patate. Era giovane e bello ma, da com’era vestito, sembrava molto povero. È da quando ho lasciato il campo che sento nell’aria un odore meraviglioso che mi accompagna ovunque vado, ripeteva tra sè e sè il contadino. Non capisco se sono io a inseguirlo o è il profumo che mi rincorre come se fosse una nuvola che vaga sopra la mia testa. All’improvviso l’odore divenne più forte, un’essenza particolare lo aveva investito. L’uomo decise di fermarsi per capire meglio cos’era quest’aura magica. Si guardò intorno e vide una bella fanciulla poco lontano da lui e un’onda di profumo venirgli incontro. È tutta la mattina che mi sento avvolto da una fragranza che non conosco. La senti anche tu? Certo, è basilico, disse Celeste avvicinandosi. È una pianta sacra agli dei. Tieni e prova tu stesso. Non la conosco, disse il giovane osservando quei rametti con una certa esitazione. 23


Non fece in tempo a staccare gli occhi dal mazzetto fiorito che gli era rimasto in mano, che Celeste non c’era più. Come poteva essere sparita sotto i suoi occhi? Il contadino si stava disperando per aver perduto la ragazza dal profumo incantato, quando Celeste ritornò con una pianta che era andata a raccogliere in un giardino lontano dal luogo dove si erano incontrati. Mentre lui stava ancora a bocca aperta cercando di riprendersi dallo stupore, lei tagliò da un albero delle foglie spesse lucide e lanceolate e le unì tra loro a formare una coppa. Poi dallo stesso albero strappo’ un rametto e con questo ne fece un pestello. Tenne da parte le radici del basilico, tolse le foglie e le mise nel mortaio che aveva appena creato. Dalle foglie pestate saliva ora un profumo irresistibile. La fanciulla assaggiò la poltiglia e poi la offrì al giovane. Nell’avvicinarsi lui scoprì che la ragazza era ancora più bella di come l’aveva vista e si innamorò perdutamente di lei. Allora si fece coraggio e le disse che con quei tuberi che aveva nel calesse avrebbe cucinato qualcosa di speciale e che a quell’intruglio che lei aveva appena inventato avrebbe unito degli altri ingredienti che lui conosceva e lo avrebbe usato come condimento. Celeste non se lo fece ripetere due volte. Io mi incammino. Tu vieni più tardi, disse il contadino. Ho ancora molta strada da fare e il mio asino è vecchio e lento. Poi devo lavare le patate, cuocerle e sbucciarle. E fare altre cose che non ti posso raccontare perché voglio che sia una sorpresa. Prometto di venire, rispose la fanciulla. Il contadino se ne andò ma, nella fretta, dimenticò di chiederle come si chiamava. Mentre aspettava che arrivasse l’ora dell’appuntamento, Celeste raccolse dell’altro basilico e ne fece una coroncina da mettere tra i capelli. All’imbrunire, come d’accordo, si presentò alla porta del giovane portandogli in regalo una pianticella di basilico con le radici. Puoi metterla a dimora nel tuo orto, disse. Il contadino fece accomodare Celeste nella grande cucina dove la fanciulla scoprì che i tuberi di patata avevano subito delle trasformazioni e erano diventati dei fusi morbidi piccoli e tozzi. Ne prese uno con le mani, lo rigirò e scoprì che aveva un piccolo buco al centro. Subito pensò che era là che si sarebbe annidato il sugo di basilico e che la combinazione delle patate, cucinate e lavorate in quel modo così speciale, altro non era che ambrosia, cibo per gli dei. E allora perché tornare tra loro quando le delizie si trovavano sulla terra? Mentre era turbata da questi pensieri, sentì suo padre, dio della guerra e signore delle messi, andare su tutte le furie e tuonare dall’alto dei cieli: Hai osato troppo, Celeste. Rimarrai tra i mortali.

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Non ho nessuna intenzione di ritornare, padre. È qui che si trova l’ambrosia e i mortali ne conoscono i segreti, rispose. Celeste non tornò più da Marte, il padre tiranno, perché aveva scoperto che la terra era un giardino profumato e l’uomo che aveva incontrato l’aveva eletta dea. La sua dea. Finito il pranzo, il contadino raccontò a Celeste di essere anche lui un dio caduto in disgrazia, destinato a espiare la sua arroganza con lavori umili e costretto a sostentarsi solo con patate fino a quando non avrebbe trovato il modo per elevarsi nuovamente al rango che gli spettava. Fu così che si era inventato nuovi modi di cucinarle. E quando Celeste gli fece scoprire il basilico, il suo profumo lo aveva riportato alla stregua di uno degli dei dell’olimpo. La forza del loro amore era più potente delle ire di Marte. Insieme volarono sopra la terra alla ricerca di nuovi profumi. Trovarono tante erbe diverse e le chiamarono salvia, rosmarino, menta, timo, origano. Tornati a casa, crearono il primo giardino conosciuto di aromi. Per ridare salute, vitalità e fecondità al mondo dei mortali. E per continuare a fare, in cucina, incantesimi d’amore come gli gnocchi con la salsa al basilico che, da allora, chiamarono pesto. Neanche dirlo, Celeste e il suo sposo vissero felici e contenti e ebbero tanti bambini.

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Non ci sono solo piante aromatiche per condire gli gnocchi, ci sono anche le spezie, disse Olmo scolando l’ultimo goccio di Refosco dalla bottiglia mentre Charline, stanca di sentirci parlare, fece un salto giù dalla sedia e corse verso il bosco. Come la cannella, per esempio. Se riesco ad alzarmi da qui senza che mi giri troppo la testa, ti mostro una cosa. Vado in cucina e torno, Bartolomeo disse spingendo il bicchiere vuoto verso il centro del tavolo. Ricomparve dopo cinque minuti con una scatola di legno in mano che emanava un concerto di profumi. Guarda, è il mio erbario. Era un quadrato di legno di faggio chiaro con una cornice di legno più scuro dove scorreva il vetro. In pratica un reticolato con una serie di divisori ognuno dei quali conteneva una spezia. Guarda quante ce ne sono. C’è il pepe bianco, il pepe verde, quello rosa e quello nero, la cannella attorcigliata in strisce sottili, chiodi di garofano, diverse qualità di peperoncino, pimento in polvere, noce moscata, baccelli di vaniglia, bastoncini di liquirizia. E inoltre radici di ginger, cumino, fieno greco, senape e finocchio in semi, curcuma e cardamomo, tutto per il curry. Sembra il negozio dello speziale, con tutte quelle etichette in perfetto ordine, disse Olmo estasiato da tanto zelo e tanta perfezione. E continuò: Il giorno che ti senti più stressato del solito, potresti fare un falò e inebriarti con il loro profumo. Sono una buona alternativa all’alcool. Le spezie, poi, sono creature femminili per eccellenza. Magari senza che tu lo sappia ne esce un incantesimo. Tipo quelli che facevamo con le spezie che comperavamo da Guerrino, il droghiere che vendeva anche tè russo, pastiglie per la gola alla menta forte con il ripieno, caramelle dure di gusti diversi e colorati zuccherini alle essenze che ai tempi si chiamavano diavolini. Dalla scatola magica Olmo prese una striscia ruggine di cannella, se la portò alle narici e inspirò profondamente. Mastica un bastoncino di cannella per sedurre Metti gocce di essenza nella vasca da bagno per incantare Massaggia il corpo con la sua polvere per suscitare una passione violenta Così canticchiava Jolanda, una ragazza cubana che ho avuto per qualche tempo come aiuto cuoco nel ristorante di XYZ, quando sbriciolava la cannella. Poi si voltava verso di me e ammiccava mentre faceva scorrere le mani lungo il corpo a simulare la fretta di spogliarsi. Scoppiava a ridere si ricomponeva e tornava a lavorare con più lena. La cucina di un ristorante non ha niente di romantico, Bartolomeo. È una catena di montaggio a ritmi accelerati. Troppa gente intorno che 26


lavora come dannata. Tutti vanno di fretta ma nessuno ha fretta di spogliarsi, disse Olmo e continuò: Mia mamma faceva gli gnocchi ripieni di marmellata, ricordi, e li condiva con burro, parmigiano e cannella. Gnocchi! Cannella! Ripetemmo insieme. Chissà perché si aromatizza con la cannella un piatto di origine austriaca, dissi. Forse perché ha proprietà antiemorroidiche, replicò Olmo ridendo. A dir la verità, io non uso molta cannella, se non nello strudel di mele e di ciliegie dove mi sembra indispensabile e, qualche volta, nella creme brule. Quando ci vuole ci vuole. Ma non dappertutto come fanno molti cuochi. Ora è diventata una spezia di moda. Mi si apre il cuore, Olmo. La prossima volta che vieni ti preparo gli gnocchi e te li servo con la cannella. Tu hai sempre avuto la passione per le spezie. Come quando ti infilavi chiodi di garofano tra un dente e l’altro in cerca dell’ebbrezza da stupefacenti, disse Olmo e capii che provava tenerezza per le nostre bravate di qualche decennio prima. Sarà ormai per la prossima estate, Bartolomeo, aggiunse Olmo. Quest’anno non facciamo più in tempo a rivederci. È quasi l’alba e noi due abbiamo finito di bere. Ci alziamo e ci stiracchiamo. Charline dorme nella sua cuccia ai margini del bosco e sembra non prendere nota dei nostri movimenti. Il porcospino ha aspettato quatto nel buio che ce ne andassimo per bere, come ogni notte, dalla ciotola di Charline, questa volta con un ritardo incolmabile. Sgombrammo il tavolo e rientrammo in casa con piatti, bicchieri e vassoi vuoti. Dovresti darti da fare e cercarti una donna. Non puoi continuare a vivere in solitudine, disse Olmo, la sua riservatezza svanita in tutto quel vino che aveva in corpo. Hai ragione, ma ho sempre pensato che non è corretto provocare una donna. Siamo nel Duemila. Se ne ha voglia accetta l’invito e rimane con te, altrimenti ti dice un bel no, niente da fare, caro ragazzo. È più semplice di quanto credi. Prima di andarmene – eravamo in piedi in cucina e io stavo preparando un caffè – ti racconto una storia. È una storia vera, disse Olmo. Nel mio peregrinare da un albergo a un ristorante e poi ancora al ristorante di un albergo in chissà quale città o isola del mondo, ho cucinato per migliaia di clienti senza conoscerli, senza sapere i loro gusti, senza che mi venissero presentati: le ordinazioni del maitre non hanno sesso. E quando lavora, un cuoco non immagina, nè ha il tempo per farlo, come siano le persone per le quali cucina. 27


Non hanno vestiti nè gioielli. Forse non sono neanche essere umani, ma una composizione di organi. Bocche che salivano, denti che mordono, palati che apprezzano, ugole che tintillano, muscoli che deglutiscono. A volte, quando riesco a fermarmi un momento, mi sembra quasi impossibile di aver fatto nascere grandi amori intorno a un tavolo. Sento di avere gravi responsabilità. Le mie torte hanno suggellato promesse di matrimonio meglio di un diamante prezioso. La mia cucina ha convinto ragazze reticenti e appassionato donne freddine che, dopo una cena al mio ristorante, avrebbero avuto il coraggio di cantare alla Scala. Credo che nessuna donna sia andata a dormire sola dopo aver mangiato da me. Ma sta a sentire. Una volta ero capocuoco all’Hayatt di Kauai e mi capitò di essere chiamato al tavolo da una coppia che voleva conoscermi. Quella notte la donna lasciò il suo amante e venne a letto con me. Accaddero faville e anche se è già passato qualche anno, me la ricordo ancora. Sembrava una dea ma cercava di carpire i segreti della mia cucina come fosse una spia. Voleva che le spiegassi perché si sentiva così eccitata, cosa avevo messo nei miei piatti. Ero diventato il suo mito. E lei era la donna più sensuale che avessi mai conosciuto. Nelle poche ore che rimanemmo insieme capii tante cose. Per esempio che ci sono dei valori soprannaturali intrinsechi al cibo. E diventai consapevole di cosa ero capace in cucina. Mi eccitava l’idea che l’avevo eccitata. Mi eccitava sapere che mi aveva voluto a tutti i costi, che apprezzava la mia sensibilità agli odori e ai sapori. Mi eccitava sapere che l’avevo conquistata senza conoscerla. Non ebbi vergogna delle mie mani sciupate. Non provai imbarazzo per l’odore di aglio e cipolla di cui erano impregnate. Mi sembrò di vivere in una fiaba. E devo confessare che da allora entro in cucina con uno spirito diverso. Ho capito di essere un uomo con un potere che pochi hanno – la capacità di fare contenti gli altri – e di essere considerato spesso un eroe, un re, un semidio elevato al giardino dei potenti. Come un direttore d’orchestra che dirige per una sola donna, quella che ama, e che sta seduta alle sue spalle nella prima fila della platea, così io da allora ho cucinato solo per lei, come se lei fosse venuta, non vista, tutte le sere. Dopo quella notte lei mi cercò spesso ma non mi sono più fatto trovare. Poi ho avuto un contratto per dirigere Baboon, il ristorante del Bel Air Hotel a Los Angeles e me ne andai da lì. Forse senza saperlo ho cucinato altre volte per lei in qualche parte del mondo. O forse l’ho aiutata a conquistare o a essere conquistata. E se questo fosse accaduto davvero ne sarei fiero. Una cosa è

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certa: se si è seduta ancora al tavolo di uno dei ristoranti dove io ero al comando ha riconosciuto il mio tocco. Ora so quanto valgo. Cosa hai cucinato per lei quella sera? Chiesi timidamente per paura di interrompere il filo dei suoi pensieri. Cibo per gli dei. Ma non ho più voluto rifare quel menu. Ti posso solo dire che non era la presentazione scenografica che l’ha sedotta. La mia cucina ha un’anima. Olmo mise i gomiti sulla tavola e si passò le mani tra i capelli. Vorrei conoscere l’elisir dell’oblio, l’antidoto al nettare che mi ha fatto innamorare, ma l’intensità di quella notte trascorsa insieme e il vigore di quella donna sarebbero capaci di sconvolgere anche i suoi poteri. È stata per lei, come anche per me, il compiersi di un rito, il rito del passaggio dallo stato di incoscienza a quello della consapevolezza delle proprie capacità. Com’era questa donna? Domandai con un filo di voce e quasi sussurrai. Lentamente, nel corso degli anni, la mia mente ha modificato la sua immagine. Non è più lei. Le ho arrotondato i contorni, allargato i fianchi, gonfiato le mammelle, indurito i capezzoli, ammorbidito la pelle e riempito le linee del volto. Ora la superficie del suo corpo è liscia, soffice e pastosa. Una delle donne senza tempo di un quadro di Botero. Nessun effetto Arcimboldo comparirà mai sul suo viso. I dettagli non ci sono più, sono scomparsi per sempre. L’ho anche vestita con quel modo eccessivo di coprirsi che hanno le donne sinuose, la cui esagerazione deriva dall’abbondanza di un corpo che regala il piacere dell’ossessione. Si, ora sento lei sotto le mie mani come se, adagio, stessi impastando il lievito con la farina. La pesantezza del suo corpo è ripagata dalla lievità dell’anima, un bignè farcito di crema impalpabile. Ecco, ora è diventata impalpabile anche lei. È il mio dolce tormento, quello che mi spinge a ricercare la perfezione. Ogni giorno che passa la mia cucina diventa sempre più morbida, accattivante, sensuale, leggera. E perfetta come lei. Lo sai, Bartolomeo, nella mia vita privata non ho mai cucinato per una donna: mi fa paura farlo. Anche se sono un cuoco, avrei timore dei suoi giudizi. Preferirei tornare a casa e trovare la cena pronta, un pasto semplice, come si usa dalle nostre parti. In fondo noi friulani siamo stati educati secondo la tradizione che vuole la donna regina della casa. Sei forse venuto a cercare moglie, questa volta? Chiesi. Hai colto nel segno, ma credo che non ci sia niente di serio. Saresti il primo a saperlo. Diciamo che sono vicino a prendere una decisione: sono stanco di vivere da solo. Lavoro troppo. È un mestiere faticoso questo e comincia a venirmi voglia di rallentare i ritmi, rispose Olmo con voce

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così bassa e masticando le parole che sembrava stesse confessando i suoi peccati mortali a don Luca, il prete del paese ai tempi in cui avevamo fatto la prima comunione. Di un po’, hai insegnato a cucinare a Margherita? Questa è un’altra storia, Bartolomeo. Lei ha fatto tutto da sola. Era determinata fin da bambina. C’era poco da scegliere e noi non avevamo molti soldi. Ricordo quando veniva a trovarci a casa dopo l’asilo e si divertiva a impanare le bistecche, lo interruppe Bartolomeo. Nerina, tua mamma, si arrabbiava molto. Ma lei non ci faceva caso e si divertiva un mondo a impiastricciarsi le mani con l’uovo e il pangrattato. Poi, con quello che rimaneva, faceva delle schiacciatine e le friggeva nell’olio avanzato. A ripensarci ora, più che uno spuntino le polpettine erano un pasto con tasso di colesterolo e peso specifico praticamente incontrollabili. Ma dopo tutte quelle corse in campagna noi digerivamo anche i sassi. Ora Margherita è ben sistemata a San Francisco. A dir il vero abita a …, a nord est della città, via dalla pazza folla. Un luogo dove la qualità della vita è alta, i vicini sono simpatici e abbiamo notato che le onde del terremoto sono più dolci e fanno meno paura. A chi assomiglia Margherita? chiese Bartolomeo mal celando la sua curiosità. Assomiglia molto alla madre. Ha un carattere dolce anche se molto forte. E sa cucinare bene. Forse è una donna come lei che vado cercando. Purtroppo Margherita e mia madre sono state il mio modello di vita: grandi lavoratrici e pochi grilli per la testa. Vere donne friulane. Hai toccato un punto dolente, Olmo. Meglio lasciar perdere. Sai Bartolomeo, Margherita è un po’ come te, però è riuscita a fare del suo hobby un lavoro. Con i risparmi e con qualche piccolo aiuto da parte mia – avevo promesso a mamma che non l’avrei mai abbandonata – si è comperata un fazzoletto di terra. Erano anni buoni, quelli. Ci ha messo dei filari d’uva, una frasca e she was in business, come dicono gli americani. Poi ha fatto domanda per aprire un minuscolo ristorante, otto tavoli da quattro sotto la pergola e una tavolata con due panche sotto il tetto sporgente, come quelle che si usano qui davanti al camino. Non puoi immaginare: la gente è impazzita anche perché a quei tempi mangiare in un vigneto era una novità in America. Se avesse voluto, Margherita avrebbe potuto fare grandi cose. Ma la vita a volte si accanisce con qualcuno, non importa quanto ci dà dentro a fare e disfare. E allora ha preferito mantenere la dimensione artigianale. Forse non è stato un errore perché il lavoro è più interessante così e devo dire che si diverte molto. Naturalmente ha qualcuno che l’aiuta. Accanto al ristorante - lo dovresti proprio vedere, Olmo - da qualche tempo Margherita si occupa anche della vendita per

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corrispondenza. Ha un suo catalogo di semi e una lista piccola ma preziosa di formaggi e trote affumicate che vende molto bene. All’inizio si appoggiava a un importatore americano di cibi italiani ma la roba che arrivava non era della qualità che lei voleva. Così ha cominciato a guardarsi in giro e gli amici le hanno dato una mano: c’è chi dal Friuli le ha spedito semi di pomodoro di buona qualità – piantare vegetali di seconda scelta è tempo sprecato – ben diversi da quelli americani che sono belli ma quando ci affondi i denti sembrano di plastica. Poi è riuscita a farsi mandare le trote affumicate da …, ma alla fine il trasporto incideva molto sui costi generali perché Margherita ne acquistava piccole quantità e le spese erano troppo alte. Finalmente ha trovato il modo per organizzarsi in casa, fare tutto da sola e tempo fa ha anche aperto un sito internet. Ha comperato un affumicatore e in giardino affumica le trote che un pescatore le porta da... Quando ha ospiti le cuoce al barbecue in un modo nuovo che si è inventata lei. Non sono alla friulana, per intenderci, ma nemmeno american style. Una sorta di fusion cuisine ante litteram. Alcune di queste le prepara sotto vuoto e le spedisce alla lista dei suoi clienti o agli amici degli amici. A volte sono mosso a compassione e vorrei collaborare ma non ho tempo nemmeno per me stesso, Bartolomeo. Certo, ho molta invidia per lei. Ha costruito un piccolo impero con le sue mani e ha sempre risolto i suoi problemi senza piagnucolare. E credimi non ne ha avuti pochi. Una donna di razza, devo dire. Non so se in California ce ne sono tante come lei. È ancora bella, sai, ma più che altro she is real, è vera, ripetè Olmo mescolando un po’ l’italiano e l’inglese, come succede a chi vive a lungo all’estero. Era terribilmente stanco. Negli ultimi anni, Olmo continuò, il lavoro è andato molto bene. Gli americani di un certo livello, soprattutto in California, hanno imparato a mangiare bene e a bere anche meglio. Da queste parti, poi, si fa molto uso di verdure organiche e il cibo è genuino. Sai che ti dico, Bartolomeo? Saresti complementari voi due. Margherita non cucina gnocchi e non ha nessuna delle tue specialità nel menu. Mugugna che hanno bisogno di molto sugo e che la combinazione non è adatta al clima della California. Anche se io personalmente credo che con quel pinot nero che hanno là e con la complicità dell’aria buona, tutto andrebbe giù facilmente. Pensaci Bartolomeo, anche perché varrebbe la pena fare un investimento e comperare un pezzo di terra per costruirci un Bed and Breakfast. Quattro, cinque camere, niente di più. Chissà, forse un giorno farò una scappata finchè tu sei al Ritz, rispose Bartolomeo con malinconia. A dir la verità avrei una gran voglia di rivedere Margherita. È da un po’ di anni che non viene da queste parti. 31


Si, da quando è morta la mamma, rispose Olmo e gli si inumidirono gli occhi. Sarebbe una bella rimpatriata. Dovremmo pensarci. Addio Bartolomeo, disse Olmo trattenendo un mezzo sbadiglio. Questa volta vado sul serio. Alla prossima estate, ribattè Bartolomeo alzando la mano destra in segno di saluto mentre chiudeva il cancello del giardino. Olmo partì che era già mattino. È l’alba, le prime luci accarezzano le viti sulle colline e sfiorano la campagna. Uscii fuori con lui e andammo insieme nell’orto. Mi era passato il sonno. I raggi del sole quasi mi ferirono gli occhi, ma il caffè che avevo appena bevuto mi fece passare la stanchezza e all’improvviso tutto quel vino sembrò evaporare come per incanto. Non resistetti a dare un’occhiatina alle patate. Tutto sembrava normale: quest’anno sono stato fortunato perché molti degli insetti che la scorsa primavera avevano infestato i campi non sono tornati. A dir il vero ho preso molte precauzioni, ho piantato basilico accanto ai vegetali, ho liberato una miriade di coccinelle e infatti la situazione non è preoccupante. Voglio godermi quest’alba e farmi una giratina tra i campi: a quest’ora la natura si sta svegliando e regala qua e là piccoli doni. Le sono grato per avermi insegnato a superare i problemi. In compagnia dei miei bulbi non mi sono mai sentito perso, nemmeno nei momenti peggiori, quando mia madre fu a lungo malata e mio padre morì. Il chiassoso andirivieni di uccelli, l’attività frenetica delle formiche, la ritrosia dei ragni, l’esuberanza degli insetti – quel continuo nascere, crescere e morire – mi ha preparato a affrontare tutte le difficoltà. Una dura lezione di pazienza e rispetto per la vita e la morte che si alternano.

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Ehi! Ehi! Cosa fate? Grida il generoso Da Vico. Questa roba mangiando, farete presto a crepare. Almeno i tocchetti con la grattugia ben bene forate, si cuociono meglio e sono più salutari. Disse e allora tutti i pezzetti di pasta, con la grattugia forando, vedono gli gnocchi prendere forma. Stupiti ammirano quel capolavoro e gnocco lo chiamano e Viva gli gnocchi a gran voce gridano. Per ogni dove vasti paioli pieni di gnocchi fanno bollire e con un gran fuoco li cuociono. C’è chi gratta il formaggio e chi frigge il butirro, chi gli gnocchi ormai cotti nelle conche travasa, chi addosso riversa montagne di cacio grattato e chi fiumi di buon butirro. Saltano le turbe gioconde e viva gridando i deliziosi gnocchi divorano. Otto, dieci, al rebbio ne inforcano, non uno di meno, e nella bocca li ficcano. Così scriveva il prete Giuseppe Peruffi nell’Origo Gnoccorum delle Gnoccheides pubblicato a Verona nel 1839. Secondo la leggenda gli gnocchi furono inventati a Verona in un giorno di Carnevale di quattrocento anni fa proprio in piazza San Zeno quando la città fu messa a ferro e fuoco dalla popolazione stremata dalla carestia, dai saccheggi e dall’inondazione dell’Adige. La sommossa fu placata grazie all’intervento di Tommaso Da Vico, a quei tempi medico e folosofo di grande fama che diede ordine ai propri servi di distribuire le sue scorte di viveri a quei miserabili affamati. Prima di morire il Da Vico lasciò in eredità alla popolazione un bel gruzzolo di danaro perché tutti gli anni si festeggiasse il venerdì di Carnevale con una gnoccolata. Una volta voglio andare a Verona a assaggiare gli gnocchi sanzenati, conditi con smalso pepato, un sugo a base di carne equina lasciata conciata a lungo nel pomodoro fresco, che cuochi in costume d’epoca preparano e distribuiscono ancora oggi nella piazza di San Zeno. Mi piacerebbe fare un viaggio anche nei paesi nordici dove si mangiano gli gnocchi con un ripieno di carne. Quelli dell’isola di Oland nel Mar Baltico sono considerati i migliori della Svezia. Ma anche la Finlandia ha i suoi gnocchi, i perunakakut, e in Norvegia hanno nomi altrettanto impronunciabili. Li chiamano kompe, kumla, klubb, raspeball, a seconda della regione di provenienza. Ma quello di Verona non fu il solo episodio in cui la patata salvò la vita a un popolo. Nell’Ottocento, per esempio, gli irlandesi ebbero la fortuna di assistere al naufragio, nelle ore acque, dell’Invincibile Armada, un galeone spagnolo che aveva la stiva piena di tuberi. Che furono recuperati, assaggiati e subito introdotti con successo nella dieta. E sempre alle patate va il merito di aver salvato gli irlandesi dall’invasione inglese del … Molto più tardi, durante la Prima Guerra Mondiale, furono i tedeschi a dover essere riconoscenti alle patate che permisero loro di sopravvivere a tempi durissimi anche se le avevano 33


sempre apprezzate sin dai tempi della loro scoperta. Infatti già nel 1853 il comune di Offenburg nel Baden, aveva dedicato una statua a sir Francis Drake con questa epigrafe: Milioni di uomini Che coltivano la terra Benedicono La sua immortale memoria Qualche decennio dopo il monumento in ricordo del navigatore inglese fu considerato un’offesa alla patria dai nazisti i quali ne ordinarono l’abbattimento.

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Green Mountain, Ladyfinger, Ruby Crescent e tu, Carola. All’appello. Voglio vedere quanto siete cresciute. Vi siete comportate bene finora. Spero che tenete in serbo per me un fantastico sapore e una polpa di carattere. Vi ho seminato seguendo passo passo tutti i principi del buon agricoltore, vi ho trapiantato con cura e voi mi ripagherete per l’attenzione che avete ricevuto. Il fertilizzante naturale che vi ho regalato a primavera ha funzionato bene. Sono passate due settimane da quando le vostre foglie sono ingiallite e questo è il momento giusto per la raccolta. Lasciatemi andare a prendere il forcone e vi riporterò alla luce. Per non farvi ubriacare dal sole forte che c’è oggi, vi condurrò immediatamente nella fresca umidità della cantina, dove rimarrete una quindicina di giorni. Poi vi aprirò le porte del magazzino, buio e secco. Lì starete al riparo in attesa dell’inverno. Non avrete scampo: il destino che avete avuto in sorte è di diventare purea per i miei gnocchi. Ora è il vostro turno, patate dolci. Se vi ho seminato in un angolo dell’orto, non vuol dire che vi non vi amo. Mi piace vedervi arrampicare laggiù dove la campagna è spoglia e quel sottile sapore di castagne che emanate quando vi rigiro sulla brace mi infervora le papille. Voi siete meno esigenti e quest’anno non avete avuto bisogno di fertilizzanti. Brave. In palio c’è un posticino al buio accanto alla caldaia del riscaldamento. Vi terrò là dieci giorni fino a quando la scorza si sarà indurita. Poi raggiungerete le vostre cugine in cantina. Con alcune di voi, mescolate insieme a patate farinose, farò degli gnocchi speciali. Arrostirò tutte le altre sotto le ceneri, una tradizione che non è solo friulana: lo facevano anche gli indiani d’America dall’altra parte dell’emisfero. Una cosa è certa che non finirete in una torta speziata, una di quelle che piacevano a Enrico Ottavo quando le vostre antenate erano di moda alla sua corte. Droghe e aromi troppo forti coprono i sapori originali. Nel Duemila non abbiamo bisogno di correttori di gusto per alimenti che sono stati conservati mali. La genetica ci è venuta in aiuto. Dopo tutto quel sudicio lavoro ho proprio voglia di una buona tazza di tè e di un bel bagno caldo. Appena Bartolomeo fu in cucina, ecco comparire la donna dei suoi sogni. Decise di farla entrare. Quando sento che stai per arrivare, l’attesa mi rende felice. So che finiremo un’altra volta per mangiare e bere insieme. E se a me non piacesse?

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Cucinare riflette il mio temperamento e il grande gioco, per me, consiste nell’appagare le tue voglie. Vuoi dire che tutti i tuoi sforzi sono diretti ad ammaliare il mio palato in modo che io sia arrendevole dopo cena. Mi sentii quasi offeso da questo dialogo che stava prendendo una brutta piega. Come osi fare affermazioni simili, dissi e mentre parlavo cominciai a sentire le mie parole risuonare nel’aria umida della cucina, segno che stavo andando fuori dai gangheri. Non voglio litigare questa sera. Dall’eccitazione sentii il sangue salire alla testa, il cuore battere forte mentre agitavo con forza e levavo minacciosamente in aria la palla di patate. Sono in piedi di fronte al tavolo di noce sul quale sono nato e dove mangio tutte le sere. Per fare gli gnocchi l’ho coperto con l’asse di legno il cui bordo aderisce perfettamente al lato lungo, quello al quale sono appoggiato. Questo orlo particolare alto tre centimetri è molto importante perché tiene fermi l’asse e il tavolo mentre con una certa energia mescolo le patate con la farina e le uova per farne una pasta morbida e appiccicaticcia. Ecco cosa sono gli gnocchi: piccoli pezzi di pasta tagliata da questa palla grossolana. Parlavo ancora al fantasma della mia donna che non dimostrava alcun interesse per questo magico processo. Ma la capisco. Abbiamo passato insieme altre serate: non può che fidarsi ciecamente della mia cucina. Ora è arrivato il momento di pensare al sugo. Questa sera sono stanco e il mio umore non è dei migliori, avrei voglia di qualcosa di speciale, dal gusto forte e deciso. E facile da preparare. Con un ampio gesto teatrale, Bartolomeo aprì il frigorifero dove trovò esattamente quello che cercava. Da una carta oleata tagliò un pezzo di gorgonzola con strati di mascarpone. Era così morbido che quasi si sciolse al calore delle mani che avevano a lungo lavorato l’impasto degli gnocchi, prova inconfutabile di qualità. Il profumo di gorgonzola mi fece venire l’acquolina. Sentii le ghiandole salivari eccitarsi vorticosamente sotto la lingua come fossero dei mulinelli. Dopotutto, pensò Bartolomeo per giustificare il suo comportamento impulsivo, sono cresciuto in una famiglia dove il cibo era indissolubilmente legato al sesso. Una volta sentii mio padre chiacchierare con gli amici e recitare con aria solenne questo adagio pieno di saggezza: Prima in cucina poi in camera da letto. Ci misi molto tempo a capire cosa volesse dire. Ti sembrerà strano, dissi alla compagna dei miei sogni, ma il ricordo di mio padre non mi rende triste. Ogni volta che penso a lui mi sento più forte, la sua figura instilla in me le virtù della sua sapienza. 36


Era giovedÏ sera e dopo aver divorato un piatto di gnocchi al gorgonzola, Bartolomeo si avvicinò a lei.

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Green Mountain, Ladyfinger, Ruby Crescent e tu, Carola. All’appello. Voglio vedere quanto siete cresciute. Vi siete comportate bene finora. Spero che tenete in serbo per me un fantastico sapore e una polpa di carattere. Vi ho seminato seguendo passo passo tutti i principi del buon agricoltore, vi ho trapiantato con cura e voi mi ripagherete per l’attenzione che avete ricevuto. Il fertilizzante naturale che vi ho regalato a primavera ha funzionato bene. Sono passate due settimane da quando le vostre foglie sono ingiallite e questo è il momento giusto per la raccolta. Lasciatemi andare a prendere il forcone e vi riporterò alla luce. Per non farvi ubriacare dal sole forte che c’è oggi, vi condurrò immediatamente nella fresca umidità della cantina, dove rimarrete una quindicina di giorni. Poi vi aprirò le porte del magazzino, buio e secco. Lì starete al riparo in attesa dell’inverno. Non avrete scampo: il destino che avete avuto in sorte è di diventare purea per i miei gnocchi. Ora è il vostro turno, patate dolci. Se vi ho seminato in un angolo dell’orto, non vuol dire che vi non vi amo. Mi piace vedervi arrampicare laggiù dove la campagna è spoglia e quel sottile sapore di castagne che emanate quando vi rigiro sulla brace mi infervora le papille. Voi siete meno esigenti e quest’anno non avete avuto bisogno di fertilizzanti. Brave. In palio c’è un posticino al buio accanto alla caldaia del riscaldamento. Vi terrò là dieci giorni fino a quando la scorza si sarà indurita. Poi raggiungerete le vostre cugine in cantina. Con alcune di voi, mescolate insieme a patate farinose, farò degli gnocchi speciali. Arrostirò tutte le altre sotto le ceneri, una tradizione che non è solo friulana: lo facevano anche gli indiani d’America dall’altra parte dell’emisfero. Una cosa è certa che non finirete in una torta speziata, una di quelle che piacevano a Enrico Ottavo quando le vostre antenate erano di moda alla sua corte. Droghe e aromi troppo forti coprono i sapori originali. Nel Duemila non abbiamo bisogno di correttori di gusto per alimenti che sono stati conservati mali. La genetica ci è venuta in aiuto. Dopo tutto quel sudicio lavoro ho proprio voglia di una buona tazza di tè e di un bel bagno caldo. Appena Bartolomeo fu in cucina, ecco comparire la donna dei suoi sogni. Decise di farla entrare. Quando sento che stai per arrivare, l’attesa mi rende felice. So che finiremo un’altra volta per mangiare e bere insieme. E se a me non piacesse?

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Cucinare riflette il mio temperamento e il grande gioco, per me, consiste nell’appagare le tue voglie. Vuoi dire che tutti i tuoi sforzi sono diretti ad ammaliare il mio palato in modo che io sia arrendevole dopo cena. Mi sentii quasi offeso da questo dialogo che stava prendendo una brutta piega. Come osi fare affermazioni simili, dissi e mentre parlavo cominciai a sentire le mie parole risuonare nel’aria umida della cucina, segno che stavo andando fuori dai gangheri. Non voglio litigare questa sera. Dall’eccitazione sentii il sangue salire alla testa, il cuore battere forte mentre agitavo con forza e levavo minacciosamente in aria la palla di patate. Sono in piedi di fronte al tavolo di noce sul quale sono nato e dove mangio tutte le sere. Per fare gli gnocchi l’ho coperto con l’asse di legno il cui bordo aderisce perfettamente al lato lungo, quello al quale sono appoggiato. Questo orlo particolare alto tre centimetri è molto importante perché tiene fermi l’asse e il tavolo mentre con una certa energia mescolo le patate con la farina e le uova per farne una pasta morbida e appiccicaticcia. Ecco cosa sono gli gnocchi: piccoli pezzi di pasta tagliata da questa palla grossolana. Parlavo ancora al fantasma della mia donna che non dimostrava alcun interesse per questo magico processo. Ma la capisco. Abbiamo passato insieme altre serate: non può che fidarsi ciecamente della mia cucina. Ora è arrivato il momento di pensare al sugo. Questa sera sono stanco e il mio umore non è dei migliori, avrei voglia di qualcosa di speciale, dal gusto forte e deciso. E facile da preparare. Con un ampio gesto teatrale, Bartolomeo aprì il frigorifero dove trovò esattamente quello che cercava. Da una carta oleata tagliò un pezzo di gorgonzola con strati di mascarpone. Era così morbido che quasi si sciolse al calore delle mani che avevano a lungo lavorato l’impasto degli gnocchi, prova inconfutabile di qualità. Il profumo di gorgonzola mi fece venire l’acquolina. Sentii le ghiandole salivari eccitarsi vorticosamente sotto la lingua come fossero dei mulinelli. Dopotutto, pensò Bartolomeo per giustificare il suo comportamento impulsivo, sono cresciuto in una famiglia dove il cibo era indissolubilmente legato al sesso. Una volta sentii mio padre chiacchierare con gli amici e recitare con aria solenne questo adagio pieno di saggezza: Prima in cucina poi in camera da letto. Ci misi molto tempo a capire cosa volesse dire. Ti sembrerà strano, dissi alla compagna dei miei sogni, ma il ricordo di mio padre non mi rende triste. Ogni volta che penso a lui mi sento più forte, la sua figura instilla in me le virtù della sua sapienza. 39


Era giovedÏ sera e dopo aver divorato un piatto di gnocchi al gorgonzola, Bartolomeo si avvicinò a lei.

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Una crisi esistenziale affligge Bartolomeo portando con sè una pesante coltre di nebbia che lo avvolge e gli impedisce di vedere più lontano del suo orto. A cinquant’anni, in questo autunno di inizio millenio, sta ripiegato su se stesso, vive in cucina e i rari sprazzi di lucidità lo colpiscono come raggi di sole taglienti senza riuscire a sollevarlo dallo stato di incertezza in cui si trova. Sono un uomo solo. Vivo in un piccolo paese della Carnia. Coltivo il mio orto e cucino per me stesso mentre il resto del mondo viaggia alla velocità della luce, la Nasa ha mandato in orbita il suo ultimo gioiello tecnologico e i miei nipoti vivono l’era di internet. Tre anni sono trascorsi dalla morte di mio padre e ricordo ancora l’importanza della conversazione che abbiamo avuto insieme poco prima che lui se ne andasse. Questa notte mi prenderò la rivincita. Voglio rimanere solo con i miei pensieri e cucinare gnocchi con il sugo di lepre per onorare la sua memoria. Quanto a te, cara signora che vieni a trovarmi tutte le sere all’ora di cena, ti chiamerò quando questo dannato lavoro sarà finito. Odieresti me e avresti orrore della mia passione per la cucina se solo mi vedessi sezionare questa bestia che tengo per gli orecchi. E mentre apro il cassetto dei coltelli mi cade l’occhio sulla natura morta con selvaggina e viola di gamba che era appartenuta ai miei genitori. La lepre del quadro sembra la copia esatta di quella che ho in pugno: sono morte tutte e due. E mentre la squarto, mi ritrovo a fischiettare quasi senza accorgermene una vecchia filastrocca che mia nonna canterellava quando ero bambino. Mano mano piazza Ci passò una lepre pazza. Il primo la vide, Il secondo la prese, Il terzo la scorticò … Da tempo immemorabile la lepre è stata presente nella pittura e nei racconti popolari. Una volta lessi che Aristofane, il poeta ateniese vissuto tra il quarto e il quinto secolo avanti Cristo, suggeriva di farla prima bollire e poi arrostire. Molto tempo dopo, anche Archestrato di Siracusa avrebbe consigliato così: Ci sono diversi modi di cucinare e preparare una lepre; questa è la procedura: farla arrostire e tirarla fuori al sangue quando è ancora poco cotta, cospargerla di sale e servirla agli ospiti. Non siate schifati di fronte al sangue che cola dalla carne, mangiate in fretta. 41


E più tardi, nel diciottesimo secolo, Voltaire, il filosofo francese, scrisse una volta in una lettera al conte d’Autray: Devo ammettere che il mio stomaco ha qualche difficoltà a adeguarsi alla nuova cucina e cita ad esempio alcune ricette vecchio stile come il pasticcio di tacchino, di lepre o di coniglio insaporiti con un’eccessiva quantità di pepe e noce moscata. È una questione di gusto e di abitudini, pensai scuotendo la testa. Troppe erbe e spezie rovinano l’arrosto. Ora è tutto pronto per lo spezzatino: la lepre a pezzi e le viscere sono da un lato del tagliere mentre dall’altra parte cipolla, salvia, rosmarino, burro, vino e capperi aspettano pazienti il loro turno e gli gnocchi sull’asse fremono in attesa del grande incontro con il sugo. Ora preparo pentole e tegami e invito la mia donna a venirmi a trovare. Entra in silenzio con l’aria annoiata di chi ha aspettato troppo e ha perso interesse per quello che sta accadendo. Va verso la credenza, prende la tovaglia e l’appoggia sul tavolo. Poi tira fuori due piatti grandi e ovali e li sistema uno di fronte all’altro. Beviamo da un solo bicchiere. L’odore delle erbe riscaldate nel burro permea la casa su fino al primo piano e la sala da pranzo è satura della presenza ingombrante di questo fantasma femminile. Fa un caldo fottuto questa sera, dico bisbigliando mentre mi asciugo il sudore sulla fronte. Lei non risponde. Non posso nemmeno immaginare di cucinare per qualcuno che non amo, perché penso che questo sia un atto d’amore, la quintessenza dell’arte di donare, e la cena sia un piacere estremamente sensuale. Gli gnocchi e la lepre sono ancora nei piatti e il bicchiere è pieno a metà quando lei è tra le mie braccia. Con tutta la delicatezza di cui sono capace la sdraio sul tavolo dove abbiamo mangiato. Per la prima volta sento che apparteniamo uno all’altro, che siamo una cosa sola, la mia anima migrata fuori dal corpo, il mio cervello dentro a quello di lei mentre respiriamo insieme e insieme sprofondiamo nell’enigma dell’esistenza. Il momento magico sta per accadere. Chiudo gli occhi e la stringo forte tra le braccia. Lei giace abbandonata sotto di me – un regalo, il suo primo regalo dopo tante sere di dubbi e di noia. A stento controllo l’intensità che il mio corpo sprigiona e cerco di non farle male. Il mio sogno si è avverato e il rito della tavola si è compiuto in tutta la sua sacralità. La sveglia sul comodino suona a lungo. Sono le sette perdio. Il mio corpo addormentato sembra senza vita. Provo a alzare le braccia, passo le mani tra i capelli e mi accorgo che sono impregnati dell’odore di lei. Alzo la testa per vedere dov’è Charline: sta dormendo sul tappeto ai

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piedi del letto. Al mio fianco le lenzuola sono fredde e vuote e le coperte non sono state sciupate. Non è cambiato niente dalla notte scorsa e da quelle precedenti. Mi metto a sedere, la mia anima imbevuta del desiderio di lei. Ăˆ ora di fare un caffè. Un nuovo giorno sta per cominciare. Lentamente.

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Ho le gambe indolenzite, le mani e i piedi gonfi, un cerchio intorno alla testa. Sono lento nei movimenti. Così svogliato che vedo la mia vita scorrere davanti a me al rallentatore, fotogramma dopo fotogramma. Niente di preoccupante. È un lunedì come tanti altri. Piccoli cedimenti compaiono qua e là nel mio corpo, i peli della barba non hanno più un colore uniforme, gli occhi sono rimpiccioliti da anni di fatiche e un accenno di doppiomento deturpa l’ovale del mio viso anche se un po’ più in basso lui mi sembra ancora giovane e vispo e pronto, ogni mattina, a darmi filo da torcere. Quello là non è mai stanco, pensò Olmo senza poi tanta voglia di prendersela con lui. Non è colpa tua, lo so, ma nelle ultime domeniche è stato difficile trovarti una compagna. Abbi fiducia, per una volta. Olmo si alzò con tale indolenza da ritenerla disonorevole. Mentre si radeva, l’acqua correva nella vasca. Poi sempre con la stessa infinita, assurda pigrizia si immerse nel bagno. Si lasciò scivolare lungo la schiena sul fondo della vasca fino a farsi coprire dall’acqua. Solo allora l’aria uscì di nuovo dalla sua bocca con un gorgoglio. Si mise a sedere con la testa all’indietro appoggiata sul bordo e rimase a lungo sprofondato nel silenzio proprio di un uomo solo. Che sollievo, pensò. Un bagno caldo è sempre il miglior rimedio per combattere la stanchezza di un cuoco. E affondò nuovamente. Gli ultimi tre giorni al Ritz sono stati veramente faticosi e io comincio a stancarmi con più facilità. Per fortuna mi attendono ventiquattro ore di riposo. A mezzogiorno, come ogni lunedì, andrò da Margherita a prendere una tazza di caffè. Forte e dolce come solo lei lo sa fare. Speriamo che ieri i suoi clienti abbiano lasciato qualche briciola di torta di mele, anche se il massimo della soddisfazione è quando avanza della polenta. Da brava friulana, Margherita la taglia a fette e la in un tegamino con una noce di burro finchè prende una crostina dorata. Poi la cosparge di zucchero, un pizzico di cacao amaro e di cannella in polvere. Quella autentica, non la cannella sintetica a buon mercato che si trova negli ultimi anni in California. L’appuntamento del lunedì con Margherita mi rimette al mondo. No, non mi farei mai un caffe nella mia cucina. Olmo allungò la mano verso l’accappatoio, un mucchio di spugna bianca e morbida che giaceva a terra accanto alla vasca e si asciugò. Il tatto è un organo estremamente importante per me. Tutto nella mia vita dev’essere morbido e arrotondato. Non ci sono angoli in natura, niente cresce quadrato. La frutta e la verdura 44


hanno forme ovali e tondeggianti. Animali e pesci hanno sagome sinuose che fa piacere accarezzare. L’uovo, poi, è tra le creazioni della natura, la forma per eccelleza. Tutti i giorni, sin da quando ero un bambino di campagna, contemplo l’universo e le sue meraviglie e da quarant’anni modello le creature che la natura ci ha donato per renderle ancora più piacevoli all’animo umano. Ho persino dato un nuovo aspetto alla donna che ha segnato la mia vita per sempre, rendendola piena e tornita come non era. Ho scelto il mio piccolo attico in un grattacielo circolare di San Francisco. La macchina che sto guidando per andare da Margherita ha l’interno di soffice pelle e le forme arrotondate. Potrei cucinare a occhi chiusi. È con le mani che dò vita ai miei piatti. È con le mani che parlo ai cibi da quando arrivano, in casse di legno, nei magazzini del ristorante. È con le mani che sento e decido come cucinare un peperone o un cavolfiore che mi sta riverso nel palmo, cosa fare di un filetto di manzo, di un pollo, dei tentacoli di una seppia, del corpo di un totano, di una fragola, di un kiwi o di una papaia. Mi commuovono le forme a spirale dei frutti di mare levigati come madreperla per proteggere un umido mollusco senza ossatura e dall’aspetto complesso, e il colore di certi scampi che, quando sono freschi, appaiono translucidi. Quanta bellezza. Con questi pensieri Olmo lasciò la strada … che da San Francisco porta a … e prese la statale per .. fino a… Guidò verso … Attraversò il paese e girò a sinistra sulla strada bianca sterrata al cui ingresso un piccolo cartello appeso a un albero indica Proprietà privata. Non oltrepassare. E le tre caselle della posta segnalano al visitatore una presenza umana che, diversamente, non sarebbe possibile notare perché la strada si perde tra i vigneti. Le colline di … vivono di sole come quelle della Sicilia. E come in Sicilia, questi vigneti danno vino ad alta gradazione. A ogni nuovo terremoto la terra sprigiona energia, ogni stagione che passa il vino è migliore. In California l’uva si vendemmia ai primi di ottobre, dopo cinque mesi di sole cocente e temperature costanti. Questo rende il raccolto abbondante, il carattere dell’uva eccezionale, la concentrazione degli zuccheri molto elevata e il vino corposo. Mi sembra di sentire il mostro che borbotta, farfuglia e ribolle nelle cantine, disse Olmo tra sè e sè. La casa di Margherita è un po’ come una vecchia zia. È una costruzione tipicamente californiana ricoperta all’esterno da listelle di legno dipinte di azzurro, i soffitti bassi e le stanze piccole. Sono strutture immaginate per gente che, grazie al clima mite di queste terre che si affacciano sull’oceano Pacifico, vive poco all’interno e molto in giardino. La casa, fin dal suo ingresso con quel disimpegno dove lasciare gli zoccoli per la campagna regala a chi entra un’immediata sensazione di intimità, tipica del cottage americano. La cucina è quadrata e rivestita di mobili di legno ha in un angolo un vecchio tavolo da macellaio, un tocco di grazia ma anche una superficie di 45


lavoro indispensabile in un’abitazione diventata, suo malgrado, un ristorante a gestione familiare. Ha un ampio retrobottega che dà sul cortile interno, che Margherita ama molto e dove praticamente vive gran parte della giornata. È qui che prepara le verdure in agrodolce, mette la frutta sotto spirito e ricava filetti dalle trote. Le poltrone del salotto guardano il caminetto. Ci sono abat-jour sparsi qua e là sui tavolini ricoperti, neanche dirlo, dalle riviste per boungustai che Margherita colleziona. Il pianterreno della casa ha un minuscolo bagno per gli ospiti e un altro piccolo bagno con doccia che di solito usano il contadino e la donna di servizio che vanno ad aiutarla. Al primo piano ci sono le camere da letto di Margherita e di Guido, ognuna con i propri servizi, e l’ufficio di Margherita. Dei due computer quello più potente appartiene, neanche dirlo, a Guido. È la fine di ottobre e la luce è ancora abbagliante. Più che circondata da un giardino, Margherita abita in un bosco: un albero di jacaranda convive con un banano, un glicine e una bougainvillea. Un avocado cresce accanto a un pino marittimo e a un abete che sembra un albero di Natale addobbato fuori stagione. Ovunque si posi lo sguardo, vede qualcosa di diverso. È questa la California. Asciutta, romantica e esotica. Chi non c’èe mai stato non potrà mai capire la sua bellezza e la potenza che sprigiona quando viene svegliata da un terremoto impetuoso. È la sua forza, questa. È la nostra forza. Qui tutto ha origine. Il rito del caffè da Margherita il lunedì pomeriggio è un momento importante nella mia vita da quando mi sono trasferito in California. È lei il mio legame con il mondo esterno. Una pietra miliare da quando anche la mamma se ne è andata raggiungendo, in un viaggio ideale, i nostri pochi parenti che si erano sparpagliati per il mondo spinti dalla miseria e dalla fame, frammenti di famiglia non più rintracciabili. Ma sono qui soprattutto per Guido, questo ragazzino venuto al mondo per caso, frutto dello stupido amore di Margherita per un cinese e tenuto sempre nascosto agli amici friulani. Per lei è importante che nulla si sappia al paese. Sprofonderebbe dalla vergogna se qualcuno laggiù venisse a conoscenza di quella sua passione giovanile. E anche ora che Guido ha quattrodici anni, Margherita ancora non se la sente di ritornare in Carnia con lui, che ha preso tutto dalla madre ma ha gli occhi a mandorla del padre. Guido è la nostra vita. Per lui Margherita lavora e risparmia. Per stare accanto a lui io ho firmato un contratto di tre anni come chef al Ritz Carlton di San Francisco. Un ragazzo della sua età non può vivere solo con la madre. C’è bisogno di un uomo, in famiglia.

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L’abbraccio tra Olmo e Margherita è caldo e sincero come sempre. Guido è a scuola, ma la sua presenza è ovunque. È il 30 ottobre, l’ultimo lunedì di Halloween. Zucche incise a simulare fantasmi sono sparse dappertutto in casa e in giardino. Finti teschi e scheletri di plastica giacciono ammonticchiati in un angolo del porticato avviluppati da improbabili ragnatele. Il caffè è pronto e Margherita e Olmo siedono in un angolo del giardino protetto da alberi di aranci di fronte a una piccola piscina a forma di diamante con il bordo di piastrelle di origine incerta, a metà tra il rigore toscano e gli ornamenti di gusto provenzale e dai colori tipici del Sud America che Margherita non ha cambiato da quando ha acquistato la proprietà. Uno di quegli orrori decorativi che stanno divinamente in California ma che non potrebbero essere replicati in nessun’altra parte del mondo, tanto meno nella rigorosa Carnia dai gusti semplici e dalle case volutamente spoglie e spartane. Ho bisogno di parlarti, Olmo. Margherita parlò con un lieve affanno nella voce, mentre portava una mano verso il collo quasi a proteggere se stessa da quello che stava per dire. Qualcosa non va con Guido? Risposi con titubanza. Guido sta benissimo e al momento vuol divertirsi. In questi giorni ha solo Halloween per la testa. Avresti dovuto vederlo com’era eccitato quando è tornato a casa da scuola. Ma è di qualcos’altro che vorrei parlarti, Olmo. Della notte di Capodanno. Se mi chiedi di aiutarti, sai già che non potrò esserti di aiuto. Sono già mesi che io e il maitre lavoriamo per offrire agli ospiti una serata eccezionale. A dir il vero, Olmo, volevo chiudere il ristorante per qualche giorno e stare un po’ con Guido, ma i miei clienti, via via che vengono a cena, chiedono di prenotare per la notte del 31 dicembre. Immagino che ci sarà il solito gruppo di amici. Quelli non vogliono andare da nessuna parte: devo proprio averli viziati. Si trovano bene da me e non posso deluderli proprio in quest’occasione. Pensavo però di cucinare qualcosa di speciale. Non volgio riproporre nessuno dei menu che ho già cucinato, ma sempre in tema con la cucina friulana. Tu hai qualche idea, Olmo? Il problema principale è un altro. È che tu, fin da ora, dovresti cercare un aiutante serio per il cenone. Se aspetti ancora un pochino, non si troverà più nessuno. I professionisti sono già tutti prenotati per le feste in casa, i ristoranti e gli alberghi di lusso. Posso chiedere al maitre. Lui ha sempre sottomano un elenco di cuochi e camerieri da cui attingere in caso di bisogno. Prima o poi troveremo qualcuno che non è stato ancora prenotato o che preferisce venire qui invece di lavorare per un party privato. Ti sembrerà impossibile ma così su due piedi mi è difficile suggerirti un cuoco. E poi non mi sembra che ci siano friulani in giro in grado di accontentarti. Non sono così esigente. 47


Se lo dici tu. E poi ci vuole qualcuno che abbia un po’ di tempo a disposizione, che venga a conoscere te, i tuoi gusti e il tuo modo di lavorare che è più amatoriale che professionale. Non è certo come cucinare in un ristorante in grande stile dove i compiti sono separati. Olmo, possiamo almeno studiare insieme un menù originale? Questo non è un problema. Basta pensare a quello che preparava la mamma a casa segli Scappi. Ci vorrebbe una rivisitazione di un antico menu che incontri il gusto dei californiani. Spiegati meglio. Olmo tergiversa un po’ e poi dice: Senti, mi è venuta un’idea. E non dire che non ti piace. Hai bisogno di un friulano ruspante che venga a aiutarti. Cosa ne pensi se lo chiediamo a Bartolomeo? Margherita trasalì e stava per andare su tutte le furie ma cercò di controllarsi. Domandò: E Guido dove lo mettiamo? Stai sempre a pensare a Guido. Cosa vuoi che gliene importi a Bartolomeo. Il problema è un altro. Vuoi che te lo risolva io o vuoi fare di testa tua? Allora scoltami, disse Olmo e quasi stava per perdere la pazienza. Quando sono tornato a casa ad agosto, Bartolomeo ha cucinato per me. Da dio. Gnocchi di patate che si soglievano in bocca. Sugo di porcini freschi. Dammi retta per una volta: Bartolomeo è la vera pensata. L’uomo giusto, quello che ti potrebbe semplificare la vita. Cucina come un cuoco anche se non lo è. Non è un professionista ma è come se lo fosse. Insieme potreste creare un menù strordinario. Fammelo chiamare subito: in Italia sono già le dieci di sera. Margherita non trovò il coraggio di opporsi all’entusiasmo e ai modi decisi di Olmo. Si convinse che la sua ultima speranza era riposta in Bartolomeo anche se segretamente sperava che lui mandasse all’aria il progetto. Perché sarebbe dovuto venire in California? Non si era mai spostato dal Friuli, figurarsi se l’avesse fatto ora, praticamente senza preavviso, per aiutare proprio lei la notte di Capodanno. E che ne sarebbe stato del suo lavoro? Gli avrebbero concesso dei giorni di vacanza? E poi questo non era un buon motivo per sprecare le ferie andando a soccorrere la sorella del suo migliore amico che vive al di là dell’oceano e non ce la fa a cucinare da sola per i suoi ospiti? La miriade di pensieri che all’improvviso l’assalì lasciò Margherita in uno stato di confusione, con l’unica certezza che era Guido, lui e soltanto lui, la sua vera ossessione. Capì che era arrivato il momento di assumersi tutte le sue responsabilità. Di fronte a suo figlio. Di fronte a Olmo. Di fronte a tutti, Bartolomeo compreso. Si riteneva una donna con la maiuscola? Doveva dimostrarlo. Per se stessa e per Guido. 48


Anche se non l’aveva ancora fatto, le sarebbe piaciuto portare il ragazzo in Carnia, … al paese dove lei era nata, da dove proveniva la nobile arte della sua cucina e soprattutto dove nasceva l’idea di affumicare le trote che Guido stesso aiutava a vendere attraverso il sito internet che aveva creato. Al diavolo il pudore. Si telefonerà a Bartolomeo. Penso che la tua sia una grande idea, Olmo. Speriamo che Bartolomeo sia libero e abbia voglia di venire a farsi un viaggio da queste parti. Ti dirò di più: gli potremmo offrire il biglietto. Mi sembra un modo gentile di invitarlo. E poi digli che, se vuole, lo possiamo ospitare qui. Giù da basso c’è il bagno che di solito usa Jolanda - le dirò di farsi la doccia a csa sua – e io potrei portare le carte dell’ufficio nella mia camera da letto e lasciare la stanza vuota a Bartolomeo. Insomma, credo proprio che la sua permanenza qui non costituirà un problema. Ci sarà così tanto da lavorare.

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Da quando era morto il padre Bartolomeo aveva instaurato la consuetudine di invitare tutta la famiglia a mangiare a casa sua dopo la visita al camposanto. Era anche un modo per contraccambiare l’ospitalità di Tommaso e Bernardo, i suoi fratelli maggiori, che lo volevano con loro le feste di Natale. Bartolomeo invece preferiva stare solo a Capodanno, per tradizione una notte da amanti. Non era mai riuscito a procurarsi una donna per quella data. O forse non gli era mai importato nulla di averla. Le due sono un’ora insolita per un pranzo in Friuli. A voler essere ligi, la domenica e i giorni di festa si mangia alle dodici in punto. Ma la preparazione di un vero banchetto richiede tempo e Bartolomeo è un uomo solo che non ama essere aiutato. Mai e poi mai chiederebbe alle cognate di ficcare il naso nella sua cucina. Hanno modi e abitudini diverse loro che vengono dalla bassa friulana. Finchè sono vivo io il pranzo del giorno dei defunti deve essere un rito, un punto fermo nella vita della nostra famiglia. Come la semina delle dalie e la raccolta delle patate, la gnoccolata di novembre è davvero qualcosa di particolare. Voglio che i nipoti la ricordino con nostalgia quando io non ci sarò più. Altrimenti chi parlerà di me quando sarò morto? Glielo ho detto una volta ai ragazzi: che a nessuno venga in mente di onorare la mia memoria con un mazzo di fiori di plastica. Io non vado al cimitero e per questo voglio che il pranzo di novembre sia una festa degna dei nostri genitori. A dir il vero al camposanto ci vado una volta l’anno, d’agosto, quando le dalie sono in fiore, e per una questione puramente estetica. La tomba di famiglia è un piccolo monumento di foggia austriacante molto semplice, di pietra grigia circondata da bosso, curato alla perfezione dal giardiniere del comune e sotto il sole cocente dell’estate le dalie rosso scuro le danno un tocco di ulteriore raffinatezza. Sulla pietra sono incisi in ordine cronologico i nomi di chi se ne è andato, scritti tutti con lo stesso carattere con accanto la data di nascita e quella di morte. Non ci sono fotografie. Al centro del minuscolo giardino e proprio davanti alla stele di pietra c’è una luce perenne, unica recente acquisizione della nostra tomba che da centocinquant’anni è stata tramandata volutamente spoglia di generazione in generazione. Io ero contrario alla lampada ma non ho potuto oppormi al desiderio delle mie cognate di ricordare i suoceri a modo loro. Per quanto mi riguarda, il camposanto non è un luogo dove mi sento a mio agio. Lascio giù il mio mazzo di fiori e me ne vado con l’amaro in bocca. Colloqui? Nessuno. Non con le salme 50


certamente e tantomeno con le vecchie del paese che vanno là a passare la mattina, mettono acqua fresca nel vaso dei fiori, nutrono i gatti randagi e chiacchierano con loro. Non ho bisogno di questa messa in scena. Mio padre vive con me ogni momento della giornata. A mia madre parlo ad alta voce ogni volta che lavoro nell’orto. Non c’è bisogno di andare al cimitero. Là sotto quella stele giacciono solo le loro ossa. Meglio lasciare il posto alla svelta. Ci tornerò un altr’anno, quando il mio giardino si sarà ripopolato di dalie cresciute troppo in fretta e la tomba avrà bisogno di fiori freschi quando le mie cognate sono in vacanza. Così nessuno potrà accusarmi di non occuparmi dei morti. La sera precedente, Bartolomeo aveva preparato il sugo con la carne macinata, aveva messo da parte il condimento dell’anatra arrosta e pestato le noci per la salsa. Un buon trio. Tolse dalla credenza il vasetto con la cannella per profumare gli gnocchi ripieni di marmellata e lo misi nella vetrinetta per non dimenticarsene. Prese dal cassetto la tovaglia bianca di lino da dodici persone che la nonna Gigliola aveva tessuto e sulla cui tela aveva ricamato a mano tanti piccoli draghi. Roba d’altri tempi. Quella volta con la sola iluminazione delle lampade a petrolio la Carnia doveva essere un luogo da far paura e la presenza dei draghi blu sulla biancheria da tavola era più che giustificata. Oserei dire esorcizzante. Bartolomeo prese dalla cristalliera i bicchieri sfaccettati avuti in eredità dalla nonna Vittoria, la mamma della mamma. Sono calici per il vino con una piccola sfera al posto del gambo, coppe per lo spumante, bicchieri grandi e rettangolari per l’acqua. I piatti antichi, invece, hanno il bordo dorato. Ce n’è per far sedere trentasei persone: a quei tempi le famiglie erano molto numerose. Solo dopo aver sistemato la tavola e riposto in frigorifero le pentole con i sughi Bartolomeo andò in cantina a scegliere le patate. La selezione fu da vero intenditore. Le girò, le toccò, le esaminò, le valutò attentamente ad una ad una. Separò le migliori, ne prese quante gli servivano per il pranzo e le portò dentro casa in una cesta. Bartolomeo non usa mai la bilancia perché chi cucina ha il peso nelle mani e loro non mentono mai. Quando fu in cucina riguardò le patate e sembrò incredibile pure a lui di essere riuscito a coltivare tuberi tutti uguali e della stessa misura. Alle undici di mattina del primo novembre Bartolomeo aveva steso sulla tavola di legno duecento gnocchi da condire con i diversi sughi, trenta gnocchi grandi e tondi ripieni di marmellata e quaranta chifeletti. Era orgoglioso del risultato. Avrebbe fatto sedere in un angolo Giorgia, Costanza, Federico e Guglielmo: da quelle parti i vassoi circolano poco, sostano a lungo e tornano indietro vuoti.

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Giorgia e Costanza, le figlie di Tommaso, il fratello più vecchio, adoravano questi pranzi a metà tra il tradizionale e il rituale e consideravano lo zio un bambinone non ancora cresciuto. Federico e Guglielmo, i figli di Bernardo, amavano di Bartolomeo soprattutto il contadino che era nascosto in lui e quel suo modo di fare semplice, caratteristico di chi conosce le proprie capacità e si diletta con passatempi da comuni mortali. Federico e Guglielmo sono di qualche anno maggiori delle cugine perché Bernardo, pur essendo più giovane di Tommaso, si era sposato per primo. Anche loro due credevano di avere uno zio molto singolare e a tutti non dispiaceva che lui fosse scapolo anzi quasi lo ammiravano per aver scelto di vivere solo. Non riuscivano proprio a immaginarselo Bartolomeo insieme a una donna. Sarebbero morti dal ridere se qualcuno avesse loro raccontato di averlo visto in giro con un’amica. All’ora della festa gli gnocchi erano adagiati in bell’ordine sui piatti riscaldati. I tegami con le salse ricoprivano i fornelli. Il camino era acceso e diffondeva un odore di legna pregiata. La veranda era chiusa e conteneva l’arredo da giardino e i limoni che Bartolomeo aveva ritirato prima che la temperatura divenisse troppo rigida. Il rito degli gnocchi stava per compiersi un’altra volta. E quest’oggi l’entusiasmo di Bartolomeo era alle stelle. La famiglia al completo arrivò mentre lui spillava il vino nuovo che aveva comperato da Ferdinando in piccole taniche da cinque litri. Rosso da tavola e bianco frizzante per il dolce, mentre le due bottiglie di Picolit erano ancora al fresco in cantina. Quelle sono per dopo, per chi stasera avrà riservato un po’ di spazio nello stomaco per le castagne di bosco che arrostirò sul camino. Picolit e castagne: una coppia perfetta. Anche se tale è la perfezione del Picolit, che non ha bisogno di nessun accompagnamento. Non c’è brindisi migliore per finire questa giornata, pensò Bartolomeo pienamente soddisfatto di come era cominciata. Si era alzato molto presto e aveva lavorato sodo ma c’era qualcosa in lui che lo faceva sentire etereo come se, di buon mattino, il suo corpo avesse lasciato quel lembo di terra senza fantasia e fosse voltato lontano dove il sole riscalda i campi e i vigneti e i raccolti si fanno due volte l’anno.

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Il Picolit Montsclapade dei colli orientali del Friuli è uno dei più pregiati vini italiani. Un vino di raro valore che Bartolomeo compera in un’azienda agricola di Buttrio, vicino a Udine. Il suo sottile profumo, il sapore rotondo, delicato, ben proporzionato e la sua elevata gradazione, quindici gradi, ne fanno un vero vino da meditazione, da bere in occasioni particolari. E il primo novembre fu per tutti una giornata memorabile. La casa di Bartolomeo era piacevolmente vivace, le voci squillanti dei nipoti l’avevano di colpo ringiovanita e l’atmosfera era rilassata. Il Refosco di Ferdinando, il suo vicino di casa, che avevano bevuto a pranzo e il Picolit che si erano gustati verso sera avevano contribuito non poco a creare l’atmosfera giusta. Lo scoppiettio della legna nel camino risuonava come un fragore di petardi negli orecchi di Tommaso, Bernardo e Bartolomeo. Prevedibili e non troppo fastidiosi effetti dell’alcol. Ho una novità da raccontarvi, Bartolomeo esordì con la sua solita flemma rivolto verso i ragazzi nel tentativo di trovare in loro un po’ di solidarietà. Non dire che ti sposi, zio, replicò ad alta voce Costanza, la più giovane dei quattro. Non temete, non sta accadendo nulla di così tragico, si affrettò ad aggiungere Bartolomeo. Di cosa si tratta allora? intervenirono Giorgia e Federico in coro mentre Tommaso e Bernardo guardavano in silenzio le rispettive consorti come se stessero cercando di sapere se una di loro era al corrente di qualcosa. Credo che quest’anno non sarò con voi a Natale. È una decisione che ho preso la notte scorsa. Ho pensato di farmi un regalo, disse Bartolomeo con aria trionfante. Si tratta semplicemente di questo. Ieri sera mi ha chiamato Olmo da San Francisco e mi ha invitato a passare le feste in California. Margherita mi ospiterebbe nella sua casa in campagna e io in cambio dovrei aiutarla al ristorante la notte di Capodanno. Mi sembra un’occasione da cogliere al volo. Non hai mai lasciato il Friuli, Bartolomeo. Tutto quello che hai avuto finora in mente a parte il lavoro, erano le tue patate e le tue dalie. E ora decidi all’improvviso di prendere un aereo e andare in America. Non è da te, zio, quasi non ti riconosco, disse Guglielmo con ironia mentre le due cognate si erano stampate sul viso un sorriso di circostanza. Fai bene ad andare. Almeno vedi che c’è qualcos’altro al mondo oltre al tuo orto, si affrettò a commentare Gioietta, la moglie di Tommaso. 53


Se ti hanno invitato è giusto accettare. Olmo è il tuo più caro amico, forse l’unico che hai. Lo conosci da sempre e sua madre ti ha allevato. La Margherita poi, mi racconta sempre Bernardo, giocava a casa vostra mentre la madre lavorava, come se fosse stata davvero una di famiglia. Mi fa piacere che cambi aria. Vorrei essere al tuo posto, si sentì in dovere di replicare Diana, l’altra cognata. Partirò prima di Natale, Bartolomeo trovò la forza di proseguire facendosi largo tra le parole di circostanza delle due donne. L’ultima volta che ci siamo visti Olmo mi ha parlato tanto della California, della casa di Margherita, delle sue viti, che già da un po’ mi era venuta voglia di andarli a trovare e di vedere con i miei occhi quella terra promessa. E l’occasione è arrivata al momento giusto. E Charline? Disse Giorgia prendendo il cane per le zampe anteriori come fosse un agnello e mettendolo ritto in piedi perché tutti lo vedessero. Che ne sarà di lei? Potremmo tenerla noi, ribattè Costanza ignorando l’occhiata arcigna della madre. Se tuo padre è d’accordo, disse Gioietta e guardò Tommaso fisso negli occhi in cerca di collaborazione. Non litigate, Bartolomeo si intromise tra di loro con un certo cipiglio. A lei non ho ancora pensato ma credo che debba rimanere da queste parti, nella campagna che le è familiare e nel bosco dove le piace ritirarsi di tanto in tanto quando ha voglia di solitudine. Domanderò a Ferdinando di darmi una mano. Il suo Cianut al quale era molto affezionato se ne è andato da poco. Sono sicuro che mi farà questa cortesia. Al momento, ragazzi, ogni discussione è prematura. Tutto è successo ieri sera alle dieci. Datemi tempo di organizzarmi e di chiedere le ferie. Sarà questo il punto dolente, Bernardo intervenne nella discussione. Che ne dirà il tuo direttore? Telefonami dopo che ci hai parlato. Mi interessa sapere come la prende questa storia. Tommaso alzò il bicchiere. Credo che dobbiamo fare un brindisi. Bevete anche voi, ragazzi, disse invitandoli ad alzare il bicchiere. Al primo viaggio di Bartolomeo! Ci fu un coro di evviva. Tra le voci, Bartolomeo fu in grado di distinguere chi era sinceramente contento, chi gli avrebbe fatto volentieri ingoiare un rospo dall’invidia e chi, invece, si prendeva gioco di lui. Ma questa volta sarebbe andato dritto per la sua strada deciso com’era a rivoluzionare la sua vita.

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Il pomeriggio del trenta novembre Bartolomeo prese il sacchetto degli gnocchi, mise il collare a Charline e insieme si incamminarono verso la proprietà di Ferdinando. I rami degli alberi erano spogli. Nei campi erano rimaste le barbe delle pannocchie e il verde scuro, quasi blu, dei fiori di broccolo spuntava qua e là mentre zucche e granotruco erano già stati raccolti. In lontananza tra le colline e in cima a un terreno scosceso si intravedeva il vigneto di Ferdinando. I filari avevano ancora un aspetto ordinato. Alcuni acini rinsecchiti erano rimasti attaccati ai viticci, dimenticati da un contadino poco zelante. Charline riconobbe il posto e corse avanti e indietro in cerca di Cianut. Tornò da Bartolomeo e gli spiegò a colpi di naso e di coda che non aveva trovato nessuno. Bartolomeo raccolse un sasso da terra e glielo lanciò in direzione della casa di Ferdinando. È il solito segnale, anche se questa volta Charline non troverà Cianut ad aspettarla. Si intrufolò in cantina e là vide Ferdinando, nascosto da botti piene di vino nuovo. Era stata una buona annata e Ferdinando ispezionava i suoi tini con l’orgoglio e l’esperienza di una vita dedicata al lavoro. Era così contento che avrebbe potuto abbracciarli. Charline uscì di corsa infastidita dall’odore acre del vino e starnutì che sembrava il nitrito di un cavallo. Se le botti erano piene, le ceste di frutta dall’altra parte della cantina traboccavano letteralmente di mele renette, di pere da cucinare, di noci per la gubana e di castagne da arrostire. I fichi stesi a asciugare erano pronti e aspettavano che arrivasse Natale. I gerani erano stati portati in cantina in attesa dell’arrivo della primavera. Quando il suo naso rosa smise di gocciolare, Charline si accovacciò tra Bartolomeo e Ferdinando e sembrava che stesse ad ascoltarli. Sono contento che sei venuto, è da prima delle feste che non ti ho visto. Pensavo di scendere a trovarti ma con l’arrivo del freddo e le piogge insistenti le ginocchia hanno cominciato a darmi qualche problema e ora cammino con difficoltà. Dicono che sono sano e che devo accontentarmi di come sto. Ma bando alle chiacchiere, non voglio lamentarmi troppo. Solo una cosa voglio dirti: lo sai che oggi ricorre la festa di Sant’Andrea e tanti anni fa era il giorno in cui si ammazzava il porco? Il norcino arrivava la mattina presto e quando l’urlo del maiale sgozzato risuonava nell’aia voi bambini gli correvate intorno cantando Sant’Andrèè, il purcit su la brèè e poi si mangiava il suo sangue fresco appena fritto. Anche questa tradizione è finita nel dimenticatoio. Non è rimasto nulla se non i ricordi. Nessuno alleva più maiali da queste parti! Ma vieni, entriamo in casa che ti offro un bicchiere di vino. A proposito, hai già finito i barilotti che ti sei portato via l’altro mese?

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Ne ho ancora un po’. Lo sai il primo novembre ho fatto la solita festa. Sono venuti Tommaso e Bernardo con mogli e figli. Li conosci bene i miei fratelli, non sono tipi che si tirano indietro, disse Bartolomeo rivolgendosi a Ferdinando con dolcezza quasi fosse suo padre. Sentiva di volergli bene. E proseguì: Avevo anche del Picolit Montscalpade e quello è andato giù la sera con le castagne. A dir la verità non sono qui per il vino. Volevo chiederti un piacere. Se posso aiutarti lo farò volentieri. Mi pare che non sei il tipo che ha bisogno di soldi. No Ferdinando, non sono venuto qui a domandarti un prestito. È che ho deciso di regalarmi un viaggio. Te lo ricordi Olmo, il figlio della Nerina che lavorava da noi, quello che è andato a studiare in Svizzera e fa il cuoco? Si dice chef, Bartolomeo, rispose Ferdinando pronunciando la effe di chef così bene che riuscì a coprire il labbro inferiore con gli incisivi superiori e a emettere un leggero sibilo. Mentre lo faceva alzò il mento con aria canzonatoria. Si, esatto. Ora Olmo lavora in America, in un grande albergo di San Francisco. E anche sua sorella Margherita vive da quelle parti. Qualche giorno fa lui mi ha telefonato e mi ha proposto di passare le feste con loro in cambio di un po’ di aiuto a Margherita la notte del trentun dicembre. Sai, lei gestisce un piccolo ristorante nella dependance della sua casa di campagna. Così ho pensato di accettare l’invito. Quando ci siamo riuniti il giorno dei morti, ho raccontato della mia decisione in famiglia e nessuno ha avuto niente da eccepire. Cosa volevi che ti dicessero? Sei un uomo cresciuto. Se hai deciso così vuol dire che sai quello che fai. E poi gli hai mica chiesto dei soldi ai tuoi fratelli. Ricordati finchè sei indipendente nessuno avrà mai da fare commenti. Comunque sono proporio contento che parti anche se il mio vicino di casa mi mancherà un po’. Chissà che buoni gnocchi cucinerai laggiù. A proposito, glielo hai chiesto a Olmo se ci sono le patate farinose in America? Ora ti spiego perché sono venuto a trovarti, Federico, lo interruppe Bartolomeo. Charline ha già otto anni e non può affrontare un viaggio così lungo. Le ragazze di mio fratello Tommaso si sono offerte di tenerla e sono sicuro che la tratterebbero bene. Ma loro vivono a Udine, in città, e Charline non è abituata a stare chiusa in appartamento. Tommaso poi è fuori tutto il giorno e i ragazzi come sai si stancano presto. Le incombenze finirebbero addosso a Gioietta. Non posso affidarle anche questo grattacapo. Voglio mantenere con lei buoni rapporti. Così ho pensato di chiedere a te di occuparti di Charline. Ti conosce bene e tu, da parte tua, non avresti l’impegno di portarla a passeggio. E poi rimane nel territorio che conosce, se vuole può fare una capatina nel giardino di casa sua, e conserva le sue abitudini. 56


Va bene Bartolomeo, la terrò con me, ma non darmi l’impegno di cucinare per lei. Non ho più voglia di occuparmi di cani. Quando è morto Cianut ho giurato che non ne avrei presi più. A proposito, lei cosa mangia? Charline è una divoratrice di granellini, riso soffiato e verdure che avanzano dal mio piatto. Domani vengo in macchina e ti porto il suo cibo. Non dovrai pensare a niente. Va bene, va bene, la terrò qui con me. A questo punto Charline sembrò essersi stancata della conversazione. Allungò le zampe e si distese appoggiando il muso sulle scarpe di Bartolomeo e la coda sugli stivali di Ferdinando. Non ho capito però quanto tempo stai via, aggiunse incerto Ferdinando. Un mese, più o meno. Ho già avvisato il direttore del laboratorio e non ha avuto niente da obiettare. Sono anni che non faccio vacanza. È il mio turno ora. È una persona per bene. Non tutti sarebbero così gentili da darti ferie nel mese di dicembre. Hai ragione, disse Bartolomeo con aria comprensiva. E aggiunse: Ai miei fratelli, invece, non l’ho ancora raccontato. A loro ho solo detto che me ne andavo a Natale e tornavo l’Epifania. Lo farò stasera. Sarà più semplice comunicarglielo al telefono. Hai scelto una buona stagione per partire. Qui il tempo è brutto, la campagna è come se fosse morta e in effetti non c’è molto da fare. Vai, vai in California! Io non ci sono mai stato ma là l’inverno sarà senz’altro migliore che in Carnia. In ogni caso se pensi di aver bisogno di qualcosa nell’orto conta su di me. A proposito, quando sarebbe il grande giorno? Dopodomani. Sotto le feste i voli sono già tutti prenotati. E poi se Margherita vuole collaborazione nel periodo natalizio sarà meglio che arrivi là con un certo anticipo per ripassare l’inglese che non parlo dai tempi del liceo e per dare un’occhiata alla sua cucina. Come potrei esserle di aiuto diversamente? Buona fortuna, Bartolomeo. E tu Charline non puoi stare a dormire qui da me oggi. Torna a casa con il tuo padrone. Verrai presto a trovarmi. Vedrai che ci divertiremo ad andare per i campi io e te da soli. E tu Bartolomeo, ricordati di portarmi il cibo quando torni. Charline si stiracchiò. Diede un colpo di naso a Bartolomeo e insieme presero la strada di casa. A scendere Charline era più lenta che a salire e i garretti le facevano male. Anche lei non era più tanto giovane e l’umidità aveva cominciato ad aggredire le sue zampe posteriori. Guarda che non credo nemmeno un pochino a queste tue magagne, disse Bartolomeo a Charline cercando di convincere se stesso che il problema era di poco conto.

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Con il palmo della mano la spinse per il sedere gi첫 verso la pianura. Charline si mise a correre.

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