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PEDAGOGIA
LA CALMA
Daniela Magrì Psicologa – Psicoterapeuta
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Uno dei migliori auguri che si possano fare a qualcuno è che possa sentirsi tranquillo. Lo stato di calma implica equilibrio interiore, serenità. Dallo stato di tranquillità emergono le emozioni, che sono tanto più chiare quanto più è calmo lo stato di partenza. La chiarezza con cui si riesce a distinguere una propria emozione è la prima caratteristica dell’intelligenza emotiva, quel costrutto utilizzato per descrivere l’insieme delle capacità di valutazione ed espressione, regolazione delle emozioni ed utilizzo delle emozioni.
Una persona che si trovi in uno stato di calma e tranquillità è più lucida nell’analisi di ciò che le sta accadendo dentro e fuori e sta assaporando uno stato piacevole. Iniziamo da qui questo viaggio tra le emozioni perché diventa un viaggio più interessante se riusciamo a farlo anche dentro il nostro corpo piuttosto che solo nella nostra corteccia, che potrebbe restare l’unica parte con cui elaboriamo le informazioni di questa rubrica.
Lo stato di tranquillità non è particolarmente favorito dal contesto culturale in cui vive la maggior parte di noi: tendiamo a dare maggiore valore al dinamismo, all’operosità. I bambini sono spinti a svolgere diverse attività e assistono alle indaffaratissime vite degli adulti che fanno loro da modello. Lo stato di calma rischia di prendere un significato negativo, di noia quando non proprio di senso di colpa, come ci siamo, talvolta dolorosamente, accorti durante il lockdown. Ma la noia e il senso di colpa sono già stati psicologici che differiscono da quelli di calma e tranquillità.
Quando siamo in uno stato di calma abbiamo il viso disteso, le spalle basse, la schiena eretta senza rigidità percepibili, braccia morbide e gambe forti e ben piantate per terra. Il battito cardiaco e la respirazione sono regolari. Solo questo stato ha queste caratteristiche fisiche. Dentro ci sentiamo in pace, tranquilli, è uno stato forse piacevole senza emozioni particolarmente forti. In questo stato è più facile svolgere attività ed anche
l’incontro con l’altro è favorito. Abbiamo più “slot” liberi per concentrarci su ciò che stiamo facendo, siamo più attenti, per cui notiamo più facilmente come sta andando l’interazione e abbiamo la lucidità necessaria per utilizzare gli strumenti in nostro possesso per correggere il tiro qualora fosse necessario. Le persone in questo stato tendono a percepirsi più forti e capaci.
La piacevolezza di questo stato è una conoscenza che i bambini molto piccoli hanno sin dalla nascita: pensiamo al neonato che ha mangiato, dormito a sufficienza ed è stato cambiato. Con il passare del tempo anche per bambini molto piccoli è però possibile perdere questa sensazione: fare in modo che venga mantenuta o ricostruirla, ove fosse andata persa, è il primo passo per poter dare delle nozioni sulle emozioni che possano risultare utilizzabili dai bambini nella vita di tutti i giorni. Per farlo occorre riuscire a riconoscere lo stato di calma in noi adulti, sapere come provocarlo e mantenerlo in noi, nei limiti del possibile, e come recuperarlo quando viene perso. L’alfabetizzazione emotiva è possibile solo se il docente possiede le lettere di questo alfabeto. E docente in questo ambito lo è qualsiasi adulto, compreso il catechista che si è posto l’obiettivo di fornire una formazione integrale al bambino.
Esistono programmi, studiati appositamente per bambini
Esistono programmi studiati appositamente per bambini tra i 6 e i 12 anni che insegnano a riconoscere e a gestire le proprie emozioni.
tra i 6 ed i 12 anni, che insegnano a rispondere in maniera appropriata allo stress recuperando e mantenendo uno stato di calma sulla base della consapevolezza che tutto cambia, che in generale accadono più cose belle che brutte nella vita e che abbiamo dentro di noi le risorse per far fronte a quelle brutte. Una delle acquisizioni che i piccoli partecipanti si portano a casa è proprio la capacità di fare attenzione a come cambiano le sensazioni corporee al mutare delle emozioni provate. Si chiede ai bambini di stare attenti a quello che accade fuori e dentro di loro. Per esempio, gli si chiede di giocare a fare i supereroi con i pugni sui fianchi e stare 5 minuti ad occhi chiusi attentissimi a sentire tutti i suoni intorno, o a riconoscere che clima atmosferico hanno dentro (se c’è il sole vuol dire che va tutto bene, se piove significa che sono triste, se c’è burrasca che sono arrabbiato), o ad osservare ciò che hanno intorno e dirlo usando locuzioni come “Noto che… Mi rendo conto che… Vedo… Provo… Sento….”, distinguendole dai casi in cui è più opportuno dire “Immagino che… Penso che..”. Si insegna a notare come cambia il respiro al variare dello stato mentale e come il respiro stesso, o la concentrazione su particolari parti del corpo come i piedi, possano aiutare a mantenere uno stato mentale più tranquillo.
Fare questi semplici esercizi potrebbe essere l’inizio di un interessante viaggio dentro anche per molti adulti.
RICORDATI DI RICORDARE
P. Stefano Panizzolo, LC Sacerdote | @steanopanizzolo_lc
Stiamo lentamente uscendo da un periodo di pandemia mondiale e mi sono chiesto più volte cosa resterà di tutto questo. Inizia “la prova del tempo” che verificherà se nel nostro cuore si è sedimentato qualcosa di profondo e rilevante, se il lockdown dal mondo ci abbia riavvicinato a noi stessi restituendoci una nuova dimensione del vivere. Quali sono le domande che ci hanno interpellato e quali le risoluzioni prese? O, più semplicemente, abbiamo imparato qualcosa da questa situazione? Perché il rischio è quello di essere rimasti concentrati nella quotidianità degli eventi, rispondendo alle nostre paure, alle nostre contraddizioni e problemi del momento; galleggiando in
superficie, commentando i canti dal balcone, le bandiere sventolate, il compleanno della vecchietta, la mancanza di lievito nel supermercato, senza poi esserci tuffati in una lettura più esistenziale di questo capitolo della nostra storia. «Niente sarà più come prima» hanno scritto i giornali; «In poco tempo tutto tornerà uguale» hanno commentato altri. Cambierà tutto o non cambierà niente? Troppe volte l’umanità è caduta negli stessi sbagli e la storia sembra essere una maestra incapace di insegnare ad alunni troppo distratti. Forse non siamo poi così diversi dal popolo di Israele quando Dio affermava di esso: «Ecco, è un popolo dalla dura cervice» (Es 32,9). Io credo che qualcosa debba necessariamente cambiare… o almeno lo spero. Il Covid-19 ha aperto una riflessione più ampia, oltre l’emergenza sanitaria: sul valore che diamo ai soldi, ora che ne abbiamo meno da spendere e spandere; sui veri bisogni e desideri che rimanevano lì, anestetizzati o imbavagliati; sulla qualità delle nostre relazioni interpersonali; sul valore del tempo, tante volte sprecato o saturato di attività. Quanto di tutto questo è entrato nel cuore delle persone? Quanto di queste riflessioni ha prodotto un cambio reale nella loro vita? Mi rendo conto che qualsiasi cambio sociale si muove secondo tre possibili tipologie di individui. Un primo gruppo di persone è quello che definirei “radicate”; queste già stavano affondando le loro radici nella «terra buona»
della vita e non hanno avuto bisogno del Coronavirus per cambiare e arrivare a un livello più profondo di coscienza; sono tutte quelle persone che si trovavano in un cammino di ricerca e crescita; sono coloro che già da prima cercavano di consumare meno, di condurre una vita più austera, puntando all’essenziale; che si ritagliavano spazi di silenzio e solitudine per riconnettersi con sé stessi e con Dio, privilegiando l’effettivo sull’apparenza. Per tutti loro il Covid-19 è stata una conferma che ciò che stavano coltivando (non certo senza fatica) era “cosa buona”. C’è una seconda tipologia di individui che chiamerei “impermeabili” e che sono ben rappresentati dall’immagine della strada della parabola del Seminatore (Mt 13,1-23). Il seme cade, ma non può attecchire e subito viene divorato dagli uccelli: in questo gruppo troviamo tutti coloro che né con il Coronavirus, né con una guerra mondiale, né con un lutto importante da affrontare si lasceranno mai interpellare e cambiare. Per loro, chiusa la parentesi del confinamento, tutto continua a scorrere come se niente fosse successo. Non si tratta di incapacità nel capire ma semplicemente di paura di cambiare, di mettersi in gioco, di lasciare le rachitiche sicurezze di prima e aprirsi a un orizzonte più ampio; perché effettivamente spaventa pensare che non si sta costruendo un progetto di vita con la persona giusta; che si è schiavi di maschere sociali che non permettono di essere sé stessi; che si hanno problemi con l’essere, l’avere e il fare; e che proprio il riflettere sul “chi sono io” provoca turbamento, per cui meglio azzittire il problema. E c’è un’ultima categoria di persone, quella che ho più a cuore e per la quale voglio spendere la mia vita di sacerdote. Sono i “coltivabili”, quei dai terreni sassosi o con spine della parabola, e rappresentano tutti coloro che in questo momento si trovano nel mezzo: quelli che possono decidere di lasciarsi dissodare per radicarsi nella vita in modo consapevole; o, all’opposto, optare per l’impermeabilità asfaltando qualsiasi spinta al cambiamento. Mi rivolgo a te a te, a te che puoi cambiare: «Hai la sensazione che rapidamente stai tornando allo status quo di prima oppure c’è qualcosa che in te si è smosso?»; ritrovi nel cuore interrogativi come: «Sono felice oppure no?»; «Amo veramente questa persona o la sto usando?»; «Quello che sto facendo mi realizza e soddisfa?». Se sì, significa che è iniziato un processo. Ma è anche vero che siamo tutti un po’ smemorati e per continuare l’opera buona dobbiamo sempre “ricordarci di ricordare”; altrimenti ritorneremo a cadere negli stessi errori, a farci male nello stesso modo, a criticare nello stesso modo, a essere aggressivi e impazienti nello stesso modo. In cosa ho deciso di cambiare? È la domanda impellente, che dobbiamo farci ora prima che tutto scivoli via, prima che sia troppo tardi. Pigrizia e paura possono bloccare, ma se questa non è stata l’opportunità, cos’altro dovrà ancora capitare? Prenditi un po’ di tempo, regalati un momento di silenzio e parlane con Dio.
UNA VOCE FEMMINILE NELLA CATECHESI
RIAPPROPRIARSI DELLA BELLEZZA
sr Stefania Baneschi Francescane Missionarie di Gesù Bambino
“D onna e catechesi”: fu questo il tema del mio intervento al Meeting Nazionale Formazione Catechisti del 19 ottobre dello scorso anno, 2019, a Padova. Solamente una voce, quella della mia esperienza di donna e di annuncio della Parola. Sono una suora francescana, abito ad Assisi in una casa di accoglienza e formazione per giovani e nella mia missione c’è l’evangelizzazione. Vivo insieme a una fraternità di sorelle che testimonia la bellezza dell’amore di Dio. Siamo donne che annunciano il Vangelo, ognuna con il suo “colore”, la sua unicità ed è una scoperta continua della nostra femminilità messa a servizio di Dio nella cura degli altri. Ognuna di noi potrebbe raccontare la sua storia, ciò che è maturato e le difficoltà, i doni e le fatiche. Per questo parlare di ‘femminilità’ non può partire da una generalizzazione ma ha un riferimento personale imprescindibile. Il mio contributo in questa rubrica sarà quello di attingere dalla mia esperienza per condividere quello che di me e della mia femminilità sto scoprendo giorno per giorno. Non ho la pretesa di fornire una teoria o un manuale d’uso ma il desiderio di pormi accanto a chi legge per fare un
tratto di strada insieme. Il percorso si articolerà in 8 tappe. In ognuna di esse guarderemo con più attenzione un tratto specifico della femminilità. Nella Evangeli Gaudium (103) Papa Francesco parla di un “indispensabile apporto della donna nella società”, di sensibilità, di intuizione, di certe “capacità peculiari” delle donne. Non riusciremo a farne una lista, un elenco completo, ma prenderemo il Vangelo e guarderemo come alcune donne nell’incontro con Cristo si lasciano illuminare dalla sua salvezza che fa risplendere la loro identità in pienezza. Come la salvezza incontra queste donne? Quale tratto della loro femminilità viene riacceso? Non li elencheremo in ordine di importanza ma compiremo un “viaggio”, come se fosse la strada che la buona notizia del Vangelo fa nella vita di queste donne per diventare buona notizia per i fratelli. È il cammino della Parola che attraverso lo Spirito rivela chi siamo: discepole del maestro. Esiste una peculiarità nell’annuncio del Vangelo da parte di una donna? Ognuno di noi, uomo o donna che sia, può portare solo il racconto di come quella Salvezza ci ha raggiunto e liberato, di come il suo vero sé è stato riportato alla vita. Papa Francesco nella Christus vivit (130) sintetizza tre verità dell’annuncio ai giovani: Dio ti ama, è il tuo salvatore, Egli vive. Se esiste un “compito” nella catechesi allora è questo: narrare la salvezza. Essere salvati significa anche conoscere la preziosità del mio essere e del mio esserci nel mondo. Negli incontri tra Gesù e le donne su cui ci soffermeremo noteremo quei tratti di umanità che non sono esclusivi del femminile ma che sono ad esso “peculiari”, ovvero, caratteristici nella donna, e che dipingono il suo volto autentico. Questa rivelazione innesca delle dinamiche di trasmissione del Vangelo agli altri che la rendono evangelizzatrice in un modo irripetibile. Verrebbe naturale chiederci se sia corretto parlare di un servizio dell’evangelizzazione al maschile e al femminile in modo distinto. Bisogna sfuggire all’inganno di considerare maschio e femmina come ‘modi’ separati e bastanti a se stessi. Il primo annuncio che la sessualità ci fa è che non siamo ‘tutto’ ma siamo incompleti e addiruttura necessari l’uno all’altro. Maschile e femminile costituiscono la differenziazione sessuale che non si chiude in sè stessa ma che si apre a una profonda reciprocità e complementarietà. Mettere questa base antropologica può sembrare scontato ma è importante per il cammino che faremo. Vorremmo infatti affermare che l’apporto della donna nell’evangelizzazione ha un valore di risorsa, il contributo della donna costituisce una promessa di fecondità per i nostri percorsi catechetici. La loro presenza è un dono fatto alla Chiesa che trova nell’alleanza e non nella contrapposizione con il maschile la sua vocazione e missione. Perchè il nostro annuncio sia profondamente umano e profumi di Vangelo è necessario non appiattire nè confondere la ricchezza inscritta nel maschile e nel femminile valorizzando la reciprocità dello stare “corrispondenti” (Gn 2,18) l’uno per l’altra. Ogni donna che compie un servizio di evangelizzazione è chiamata a riappropriarsi di tutti quei doni di femminilità di cui il Creatore l’ha riempita, perchè sono indispensabili alla Chiesa, all’umanità, al crescere del Regno di Dio.