A Marta e Eva le prime amiche di Scopetta tenere cucciole magici folletti indomite donne
1 LA GATTARA
– Non avrai mica paura, Habiba? Le parole della mamma le rimbombavano in testa, mentre si rialzava a fatica. – Una bambina grande come te, così fifona! Vergogna! Vergognati tu, pensava Habiba furiosa. Tu che mi stai sempre a rimproverare, e a insegnare cose inutili. Vuoi vedere se sono fifona? Insegnami a camminare a testa in giù, invece che a fare i compiti di matematica. Fammi inforcare una scopa, invece che una bicicletta: fammi volare di notte come le streghe, e vedi tu se ho paura. – Ahia! Altro tentativo, altra caduta. Ancora più brutta, questa volta. Il jeans strappato e il ginocchio sbucciato, tutto sporco di polvere. Habiba lo sapeva benissimo, che avrebbe dovuto correre alla fontanella a lavarsi, o meglio ancora tornare su a casa e farsi disinfettare il ginocchio. Rabbrividì, al pensiero dell’alcool bruciante sulla ferita e di quello che avrebbe detto la mamma. – E sta un po’ ferma! Tutte queste lagne, solo per un po’ d’alcool! La mamma non lo sopportava proprio, di avere una figlia così piagnona: figurarsi sentirla piangere per la bicicletta.
3
4
A sentire lei era il regalo più prezioso del mondo, quello stupido ferrovecchio rimesso a nuovo da quello scemo di Nagib, che non si capiva perché doveva stare sempre fra i piedi in quel modo, a imbrogliare la gente, a farla sperare nei sogni impossibili… – Vieni subito, Habiba! Nagib ha una sorpresa per te! Aveva sentito un tuffo al cuore, a sentire quelle parole. Aveva pensato che la mamma avesse cambiato idea, finalmente: che avesse detto di sì al suo desiderio più grande, all’unica sorpresa che Habiba potesse mai desiderare da Nagib, che Nagib tante volte le aveva promesso, che sei mesi prima quasi aveva ottenuto… Se solo la mamma non l’avesse bloccato, come al solito. – Habiba è ancora troppo piccola, non me la sento. È troppo pericoloso. C’è troppa brutta gente, allo stadio. Ma tu che ne sai? pensava Habiba indignata. Tu di calcio non sai niente di niente: tu non sei tifosa di nessuno, manco dell’Italia! Tu sei soltanto una mamma scema, che sente le cose al telegiornale e chissà che si crede: la vera fifona sei tu, mica io. – È troppo pericoloso, Habiba è ancora troppo piccola… Cose da pazzi: e Silvia, allora? Silvia aveva solo sei anni, la prima volta che suo padre l’ha portata allo stadio. E io, a nove anni compiuti, sarei troppo piccola? Non è giusto, pensava Habiba, non è giusto. Silvia di calcio non capisce niente, è laziale! Come è possibile, che una tifosa biancazzurra che non sa distinguere un terzino da un centravanti, alla partita c’è già stata chissà quante
volte, e tu non ci lasci andare tua figlia, che ha la stanza piena di poster della Magica, e allo stadio ce la può pure accompagnare il tuo caro Nagib, che l’unica cosa buona che ha, è che è romanista sfegatato… Il mondo è proprio fatto alla rovescia, pensava Habiba. Silvia era la sua amica del cuore, era la bambina più intelligente del mondo, aveva pure i capelli rossi e le lentiggini non proprio gialle, ma insomma... A Silvia sarebbe stata benissimo, una sciarpa giallorossa al collo. E invece no: Silvia era nata in una famiglia laziale, e la sciarpa della Magica la portava Nagib, il vicino impiccione. Quello che passava la vita a fare i complimenti alla mamma e il resto del tempo faceva trasporti e sgombrava cantine, e in mezzo ai mobili vecchi e alle sedie sfondate aveva trovato una bicicletta, e aveva pensato bene di regalarla ad Habiba, per fare il grandioso... Uffa! – Vai giù in strada, provala subito! – aveva strillato la mamma, tutta eccitata. L’aveva quasi spintonata, fuori dalla porta e giù per le scale. – Forza con quei pedali, fifona! – la incitava dal terrazzino. E Nagib accanto a lei, che lanciava segnali con le mani, coi piedi, col faccione ridente. Da laggiù non si capiva mica, se erano incoraggiamenti o rimproveri. Habiba metteva un piede su un piede giù, senza più il coraggio di sollevarli entrambi da terra. Non parliamo poi di spingere sui pedali, come ripeteva la voce dal terrazzino.
5
6
– Più forte! Più forte! Stavolta vedrai che ci riesci, a farti un po’ di muscoli! Habiba le fece una linguaccia, ma di nascosto. Ci mancava che cominciasse pure la mamma, con la storia dei muscoli: come la maestra Borruso, quando voleva farle mangiare gli spinaci per forza. – Pensa a Braccio di Ferro, Habiba! Non ci tieni, a diventare forte come lui? O bella come Naomi Campbell, non ti piacerebbe? Guarda che anche le fotomodelle qualcosa la mangiano… Ma chi ti ha detto che voglio fare la fotomodella? si arrabbiava Habiba. Ma perché tutti mi devono sempre sbattere in faccia Naomi Campbell, soltanto perché... Se c’era una cosa che Habiba non sopportava, erano le prediche della Signora Borruso: l’unica maestra di tutta la scuola che bisognava chiamare con il cognome e alzarsi in piedi ogni volta che entrava in classe, e che trattava tutti come deficienti. Uffa! Fece una pedalata violenta, piena di rabbia: perse subito l’equilibrio. Dove aveva sbagliato? Eppure l’aveva visto fare tante volte, a tanti pischelletti di cinque-sei anni: sfrecciavano come razzi, e non sembravano spaventati per niente. Come poteva essere, si chiedeva Habiba, che solo lei era così incapace? E fifona, continuava a ripetere la mamma. Fifona. Fifona. Fifona. La parola le rimbombava in testa, e non riusciva a cacciarla via. – È il suo destino – diceva solenne zia Aminata. – È la paura che si è presa in mare, quando era ancora dentro alla
pancia. Se la porterà dietro per sempre, povera piccola. Zia Aminata era stata la prima, ad attraversare il mare dall’Africa per venire in Italia; ma quella brutta tempesta se l’era risparmiata, beata lei. – Cosa c’entra ora quella tempesta? – ribatteva la mamma. – È una storia vecchia: Habiba è nata qui, è questo che conta. Che importanza ha come ci è arrivata prima di nascere? Che bisogno c’è di angosciarla con certi ricordi? La mamma non ne parlava mai, di quella notte nel mare infuriato. E meno che mai di quell’onda più furiosa di tutte, che si era portata via papà. Un papà che non sembrava nemmeno un papà, pensava Habiba di nascosto, guardando la foto sul comodino: un papà monello, giovane giovane, con la testa crespa e i denti bianchissimi in un sorriso impertinente. Come se fosse tutto uno scherzo, quel suo restarsene nascosto nel buio, pronto a saltar fuori d’improvviso, da dietro a un angolo: Bu-bu-settete! Quando era piccola Habiba fantasticava per ore, davanti a quella foto. Immaginava il suo papà che per tornare da lei usciva all’improvviso dall’acqua, con un gran salto, tipo le balene dei documentari in tv. Era solo così, che sopportava di vedere il mare, Habiba: in televisione, o nei sogni a occhi aperti. L’unica volta che la mamma aveva provato a portarla sulla spiaggia davvero, a Ostia, si era aggrappata al suo collo terrorizzata, e aveva rifiutato perfino di bagnarsi i piedi. Così ora non sapeva nemmeno nuotare, oltre a non
7
8
saper andare in bicicletta. Niente di niente, sapeva fare, di quello che fanno gli altri bambini. Girò la faccia verso terra, per non farsi vedere da lassù con la faccia di pianto. Piano piano, cominciò a spostarsi un poco più in là, dove l’occhio dal terrazzino non poteva vederla. Un passo, e poi due, e poi tre, verso il vicolo dietro l’angolo del palazzo, dove stavano i cassonetti. – Habiba! Ma dove vai? Dove posso stare un po’ in pace, pensava lei, facendo finta di non sentire i richiami. Dove non mi può vedere nessuno. Dove c’è solo la monnezza. Si arrestò di colpo, con un tuffo al cuore: non c’era solo la monnezza, nel vicolo buio. C’era un’ombra scura, accovacciata su un divano zoppo abbandonato in un angolo. Fece un passo indietro e si aggrappò alla bicicletta, tremante. – Dove vai, bambina? Perché scappi? Era una voce roca, ma niente affatto minacciosa. Habiba sorrise, rincuorata. L’ombra si era mossa, aveva alzato la testa. Era una gattara. Una di quelle donne un po’ misteriose, che sbucano fuori ogni giorno alla stessa ora, con un cartoccio di cibo per i mici randagi. Teste di pesce, pensò Habiba guardando il pacchetto bisunto in mano alla vecchia. O polmone, o trippa, o maccheroni avanzati dal giorno prima. Presto la gattara avrebbe posato il cartoccio in terra, e avrebbe lanciato il suo richiamo. Avanzò piano piano,
trascinandosi dietro la bicicletta. Si fece forza, e riuscì a farsi uscire di bocca un filino di voce. – Quando vengono i gatti? – I gatti? I gatti?!? – La vecchia aveva uno sguardo stralunato, come se non capisse. – Ah, sì, i gatti… Era come se parlasse fra sé e sé. Cominciò a fare una specie di conta, su quelle sue dita gialle tutte contorte. – …Sgorbio, Belzebù, Barabba, Balthazar… Più di quindici sicuramente: o erano quinquanta, invece? O diciassette? Diciassette è il numero perfetto, non trovi? Diciassette gatti neri, tutti stupendi. E poi i gufi. E le civette. E i pipistrelli. Vogliamo parlare del volo dei pipistrelli, quando sorge la luna? Habiba non era mica tanto sicura, di voler parlare del volo dei pipistrelli. Ma la vecchia non la guardava nemmeno, tutta persa com’era nei suoi strani pensieri. – Quelli sì che erano tempi, cara mia! Ma cosa vuoi capirne tu, di com’erano quei tempi? Habiba cominciava a sentirsi a disagio. Che razza di domanda era quella, come si faceva a rispondere? – Solo io lo so, che cosa vuol dire essere vecchia – continuava a borbottare la gattara. – Altro che voli di pipistrelli, altro che luna! Il vento mi ferisce, quando mi entra nelle ossa. La pioggia mi fa venire i reumatismi, e la notte… La notte ormai vado a dormire, ti rendi conto? Habiba ascoltava inquieta, senza capire. Che c’era di strano, ad andare a dormire la notte? E che accidenti
9
10
voleva dire, questa storia dei diciassette gatti neri? Che cos’era, uno scherzo? Di gatti, in quel vicolo, non se ne vedeva ancora nemmeno una coda: che razza di gattara era quella? – Ma tu ci credi, alle streghe? La domanda fu così improvvisa che Habiba sobbalzò, abbassò gli occhi, e non rispose. – Ci credi o no? – la vecchia l’afferrò per il mento, costringendola ad alzare lo sguardo. – Dimmi la verità, non imbrogliare. Cosa poteva rispondere, la povera Habiba? Lei lo sapeva benissimo, cosa pensano i grandi di certe cose. Ma una gattara? Dimmi la verità, aveva detto: ci credi alle streghe? Rispose a bassa voce, pianissimo. – Io, veramente… Io ci credo, sì. Si vergognava. Pensava a tutti i discorsi della sua mamma, che credere alla stregoneria era una cosa da bambine piccole, o da povere ignoranti come quella sempliciotta di Isoke, che abitava alla porta accanto e aveva la casa tutta piena di amuleti e di oggetti magici. Ad Habiba non piaceva affatto, che la mamma trattasse da ignorante la sua amica Isoke, solo perché pregava in casa invece che in chiesa, e i suoi santi non avevano nomi qualsiasi come Sant’Antonio o Santa Rita, ma si chiamavano Shango, Oxumaré, Babalu Aye… E Mami Wata, misteriosa e bellissima, con i serpenti attorcigliati attorno alle braccia: la dea delle acque, dei fiumi e del mare.
Era stata lei, si chiedeva in fondo al cuore Habiba, a rubare il suo papà per portarselo con sé in fondo agli abissi? Lo avrebbe lasciato andare, quando si sarebbe stufata di giocare con lui? Domande che non si potevano fare a nessuno, nemmeno a Isoke. Domande terribili ma eccitanti, come le storie di spiriti che ti tengono sveglia nel buio, e ti fanno sobbalzare a ogni scricchiolio. La mamma non lo capiva proprio, quanto possono far paura i rumori di notte. – Non fare la stupida. È solo la signora del piano di sopra – ripeteva ogni volta. Ma che, sposta i mobili in piena notte, la Signora di Sopra? – È solo che abbiamo le pareti sottili – diceva la mamma. – È per questo, che si sente tutto. – Altro che pareti: sono gli spiriti che bussano – spiegava Isoke – e se non gli dai retta busseranno sempre più forte, e prima o poi verranno a prenderti… – Sciocchezze! Tutto un mucchio di sciocchezze! – sbottò improvvisamente la gattara. – Io non parlavo di quegli stupidi spiriti, quando ti ho chiesto se credevi alle streghe. Ma quella come faceva, a sapere cosa stavo pensando? si chiese Habiba. No, non poteva essere. Non poteva essere assolutamente. Non era la vecchia, ad averle ascoltato i pensieri. Era lei, che senza accorgersene doveva aver parlato ad alta voce. Anzi no. Non aveva parlato nessuno, né lei
11
12
né la vecchia. Era solo uno scherzo dell’immaginazione, un sogno. Non lo diceva sempre anche la mamma, che lei sognava troppo spesso a occhi aperti? Habiba scosse la testa, alzò lo sguardo sulla vecchia. È solo una gattara, pensò. Tutte le gattare sono un po’ strambe. Che c’è di strano? Indicò il cartoccio, ancora chiuso. – È la cena dei gatti? – Certo che no, che ti viene in mente? La vecchia sembrava scandalizzata, oltre che sorpresa. Perché si arrabbia? Che ho detto di male? pensò Habiba scocciata, ma anche un pò incuriosita. – E cosa c’è, allora, là dentro? Perché lo tieni così stretto? La vecchia sembrò pensarci su, e soppesare il pacchetto su una bilancia invisibile. Lo rigirava fra le mani, se lo rimirava di sotto e di sopra: ora con un sorriso, ora con un sospiro, ora mordendosi forte le labbra, quasi avesse voglia di piangere. Poi sembrò prendere una decisione, di botto. Le afferrò il braccio e le mise il cartoccio in mano. – È un regalo per te. Non ti piacciono, i regali? – S-sì– balbettò Habiba. – Cre-credo di sì. – Non balbettare – disse la vecchia, severa. – Non c’è niente da balbettare. Basta avere il regalo giusto: è quello, che conta. – Q-quale regalo? – continuò a balbettare Habiba. – Il regalo che ti ho fatto. Quello è il regalo giusto per te. Habiba guardò il cartoccio, perplessa. Era legato con lo spago, e allungò un dito per aprirlo.
– Non ora – la bloccò la vecchia, severa. – Ti pare il momento? Mettilo in tasca subito e fila via. Filare via? E perché? Prima mi fa un regalo, poi mi caccia? Habiba indicò il cartoccio, ostinata. Era pure un po’ offesa, di quel rimprovero immeritato. – In tasca non posso metterlo. È troppo grande. – Ti pare? Rapidissima, la vecchia si riprese il suo dono, e sembrò accarezzarlo. Habiba sbarrò gli occhi, sbalordita. Era un gioco di luci, o il pacchetto stava rimpicciolendo? – Va bene, ora? – disse la vecchia, restituendole il cartoccio. Habiba lo infilò in tasca, in silenzio. Non ne usciva fuori nemmeno un angolino. – Visto? – disse la vecchia. E strizzò l’occhio. – Habiba! Dove accidenti ti sei cacciata, Habiba? La voce della mamma, minacciosamente vicina. Era proprio lì, dietro l’angolo. Un attimo ancora, e… – Possibile mai che non hai ancora imparato, a tornare a casa quando è ora? La mamma la scuoteva forte, scocciatissima. Non lo sopportava, di dover scendere le scale per chiamarla. – E si può sapere che ci fai, tutta sola in un vicolo buio? – Ma non ero sola, mamma. C’era quella vecchia, e io… – Quale vecchia? Che dici? Habiba si voltò, di scatto. La vecchia non c’era più.
13
2 TOC TOC TOC
14
I compiti, apparecchiare, sparecchiare, aiutare la mamma a lavare i piatti, mettere in ordine… Chi aveva tempo, di pensare al regalo della vecchia? Per molte ore, il pacchetto rimase in tasca, dimenticato. Solo al momento di spogliarsi per andare a letto, Habiba lo vide cadere a terra, rimbalzare due o tre volte, girare su se stesso. Il regalo giusto per te, aveva detto la vecchia. Cominciò a scartare. E scartare. E scartare. E scartare ancora: ma quanti giornali aveva usato, la gattara? Aveva già riempito due cestini interi di carta, e niente. Il pacchetto sembrava sempre uguale, inspiegabilmente. Poi d’improvviso cadde a terra, e si aprì. Fra la carta comparve qualcosa. Era una scopetta. Una piccolissima scopetta bruna, di quelle come si usavano una volta: di vera saggina, con il manico di legno. Carina... ma che ci faccio? Si guardò un attimo intorno, poi la buttò dentro alla casa delle bambole: quella di cartone che aveva costruito con Silvia, usando le scatole di fiammiferi per fare i mobili, il contenitore delle uova per ritagliarci il water e il corrugato rosso per le tegole. Il posto giusto, per quello che la gattara aveva chiamato
il regalo giusto. Ma quella chissà cosa aveva in testa, pensò Habiba. Le gattare non sono mica persone normali. Si ficcò sotto le coperte, e si addormentò quasi subito. Dormì fino a mezzanotte, senza sogni. Mezzanotte in punto. E poi… Toc, toc, toc. Cos’era, quel rumore improvviso che l’aveva svegliata? Non un rumore di sopra, non un rumore di fuori. Un rumore dentro la stanza, proprio accanto a lei. Toc. Toc. Toc. Habiba accese la luce. Il rumore si fermò. Ma riprese subito, appena fu buio. Toc. Toc. Toc. – Sono gli spiriti che bussano, e se non gli dai retta… L’eco terribile, delle parole di Isoke. Habiba si sentì stringere la gola, e impazzire il cuore. Toc, e poi toc, e poi ancora toc toc. Un rumore non troppo forte, ma sempre uguale. Habiba aprì la bocca e… – Non chiamare la mamma – la bloccò una voce, dall’altro angolo della stanza. – Guastano tutti i giochi, le mamme. Chi aveva parlato? Da dove? A chi? Habiba era immobile, inchiodata al letto. Ormai la paura era così forte che le impediva di muoversi, perfino di gridare per chiedere aiuto. – E dai, non fare la scema – continuò la voce – Sbrigati ad aprirmi, prima che ti sfondi il tetto della casetta.
15
16
– Qua-quale casetta? – balbettò Habiba. In un angolino della mente, l’unico libero dalla paura, cominciò a farsi strada un’idea bislacca. Di casetta nella sua stanza ce n'era una sola, e dentro quella casetta... Possibile mai? Scese dal letto piano piano, ancora tremante. Si avvicinò alla casa delle bambole, in punta di piedi. Il toc toc toc era sempre più forte: ma come mai la mamma non lo sentiva? Come mai non era ancora arrivata a vedere che accidenti succedeva in quella stanza? Toc, toc, toc. Habiba si inginocchiò, e aprì la porticina. Ci fu... un salto, un guizzo, un lampo, un… un qualcosa, che cominciava a succedere. Nel mezzo del tappeto, in un raggio di luce venuto da chissà dove, la scopetta… CRESCEVA! Cresceva, cresceva, cresceva e quando arrivò ad essere una vera e propria scopa, si fermò davanti ad Habiba, e le fece un inchino: – Buonasera, Habiba: piacere di conoscerti. Lei continuava a guardarla, senza riuscire a spiccicare parola. – Oh, scusa, scusa! – disse la scopa, con un altro inchino – Non vuoi parlare con chi non ti è stato presentato, è naturale. Rimedio subito. Sempre che tu sia d’accordo… Fece di sì con la testa, ancora muta. La scopa fece una bella piroetta, e si presentò. – Mi chiamo Ermenegilda Saggia Saggina De Scopiis, Scopetta per gli amici: figlia di un albero cavo e di un
cespuglio fatato, nata nel 1093 o giù di lì, vissuta fino a ieri con la nobile strega Filomena Gufetti, che oggi ha saggiamente deciso di aver raggiunto l’età della pensione e di dover cambiare vita. Con queste premesse, finita la giornata, finite le presentazioni, ed essendo da poco scoccata la mezzanotte, mi dichiaro decisa a servirti in ogni tuo desiderio, fino a tutta la notte dei tempi… O finché tu ne avrai bisogno. Habiba si stropicciò gli occhi, poi li sbarrò. – Sogno o son desto? – dicono gli eroi delle fiabe. Beh, se era un sogno era un bel sogno davvero. – Allora? – chiese Ermenegilda eccetera eccetera, Scopetta per gli amici. – Non hai niente da dirmi? – Io… Ecco… Sai com’è: non sono mica tanto abituata, alle magie – sussurrò Habiba, quando trovò un po’ di fiato. – Cara mia, ti dovrai pure abituare. E poi, scusa, di che ti stupisci? Non sei stata tu stessa, a dire che vorresti imparare a volare di notte come le streghe? Habiba trasalì. – Io questo l’ho solo pensato, non l’ho mica detto. Il manico si piegò, e le rifilò un colpetto sulla mano, come una bacchettata di rimprovero. – Detto, pensato, che differenza fa? Per Filomena è la stessa cosa. E anche per me. – Ma allora F-Filomena – balbettò Habiba – insomma cioè quella vecchia… la gattara… era davvero una strega? – Una delle più nobili fra le streghe, cara mia. Non crederai mica che io abbia trascorso quasi mille anni al
17
servizio di una fattucchiera da strapazzo? Habiba scosse la testa, imbarazzatissima. Sussurrò. – Ma io ora cosa… come… insomma: devo diventare una strega anch’io? – Ma no! Tu puoi fare tutto quello che vuoi, e anzi, se devo dirti la verità (e qui Scopetta abbassò la voce, come se stesse per dire qualcosa di sconveniente) io sono anche un po’ stufa di streghe, sai? Sempre le stesse storie: pipistrelli, veleni, pentoloni, filtri puzzolenti… E basta! Cambiamo aria, dico io. Ho voglia di provare altre esperienze, di divertirmi. E d’altronde la sai la canzone?
18
Quando cala il sole chi cavalca Scopetta può esser ciò che vuole: strega, nuvola, uccellino risata di bambino, soffio di vento, stella del firmamento, stella cometa, raggio di luna, pianeta, aria acqua fuoco e… tutto per gioco! Là dove tu vuoi a far ciò che vuoi e come tu vuoi. Ma una cosa è sicura: VINCERAI LA PAURA.
Ed è così, Habiba. È tutto vero. Le vecchie canzoni non mentono mai. Allora, sei pronta? Scopetta fece un altro salto, e si avvicinò: veloce, leggera, invitante. Non c’era che da alzare la gamba, e salirle in groppa. Una mossa da niente. Peccato però che le gambe di Habiba erano diventate pesanti pesanti, che il piede si rifiutava di muoversi, che qualcosa di bruciante le saliva su per la gola… Non ce la faccio, pensò Habiba. Non ce la farò mai. Ma ora come faccio, a dirglielo? Non glielo disse. Si sentì sollevare in alto, così d’improvviso da togliere il fiato. Barcollò, aggrappata disperatamente al manico di legno che la sballottava su su oltre il letto, sopra l’armadio, sul soffitto… Stava volando! Aiutooo! Balbettò: – S-scusami tanto, S-scopetta… N-non è che… N-non potremmo andare un p-po’ più p-piano, per piacere? – Va bene, va bene, andrò più piano, signora padrona. Era un’impressione, o quel signora padrona suonava proprio come una presa in giro? La scopa planava su e giù, dolcemente. Dondolava lieve, scivolando silenziosa da un angolo all’altro. Niente affatto spiacevole, a dire il vero. Habiba cominciò a prenderci gusto, persino a godersela. Non faceva poi tanta paura, in fondo. E non era affatto difficile: bastava tenere gli occhi chiusi e lasciarsi portare, come una foglia nel vento. Là per là non si spaventò, quando il vento le investì in
19
20
pieno la faccia: ma da dove veniva? Habiba aprì gli occhi, e non vide niente. Dov’erano finiti il letto e l’armadio, i vestiti sulla sedia, la casetta delle bambole? Niente di niente. Solo buio fitto, e aria fredda. Un’immagine rapidissima, del davanzale che quasi sfiorava i suoi piedi, mentre lei… Si aggrappò alle tendine della finestra, disperatamente. Durò un attimo: poi le sfuggirono di mano. Era fuori, sospesa nel vuoto. Urlò. Urlò e urlò e urlò, fino a che l’urlo non si sciolse in pianto. Una mano calda sulla guancia, una voce soffice a sfiorarle l’orecchio. – Habiba, che succede, che hai? – La scopa… Scopetta… Ho paura! Non voglio cadere! – Basta, basta. Ora basta, Habiba: non stai cadendo e non c'è niente da piangere. Hai fatto solo un brutto sogno, adesso è finita. La mamma era lì, sulla sponda del letto, con il solito bicchier d’acqua che cura tutti i mali. Aveva acceso la luce, tutto sembrava normale. Il buio era finito. – Mamma, mammina, non andartene, resta con me! – Ma Habiba… – Nel tuo letto, allora. Posso venire nel tuo letto? – Di nuovo? – sospirò la mamma – Ma sei grande… Lo diceva, e già si avviava nel corridoio con lei, mano nella mano, rassegnata. O forse perfino contenta, chissà. Su queste cose non si sa mai, con le mamme. Soprattutto a mezzanotte, quando le cogli nel mezzo del sonno, e
barcollano. Scivolò: per un pelo non franarono a terra. L’incanto svanì, portandosi via la voce dolce e le coccole. – Quante volte te l’ho detto, di mettere a posto i tuoi giochi prima di andare a dormire? Di non lasciare niente per terra? Quante volte?!? – Ma io ho messo a posto, mamma! Ho messo a posto tutto! – protestò Habiba, indignata. Non lo sopportava proprio, di essere accusata ingiustamente. – E questo allora, cos’è? – disse la mamma, chinandosi a raccogliere l’oggetto minuscolo che l’aveva fatta inciampare. Habiba guardò. Dalla finestra, filtrava un raggio di luna. Sfiorò la mano bruna della mamma, per un attimo. La scopetta, quieta sul palmo aperto, sembrò tutta d’argento.
21
Indice 1 - LA GATTARA ................................................................................
3
2 - TOC TOC TOC ............................................................................. 14 3 - ZIA AMINATA .............................................................................. 22 4 - LA SIGNORA DI SOPRA ............................................................ 29 5 - IL SIGNORE DI SOTTO .............................................................. 37 6 - IL PROCESSO ................................................................................ 46 7 - IL BANCHETTO ........................................................................... 52 8 - L’ANGELO ...................................................................................... 63 9 - STREGA DI MEZZANOTTE ...................................................... 72 10 - IL SABBA ...................................................................................... 78 11 - SCOMPARSA ............................................................................... 88 12 - E ORA… ....................................................................................... 95 13 - IL VENTO .................................................................................... 101 14 - MA CHI È QUEL TOPOLINO… ............................................. 107 15 - LA CONGIURA .......................................................................... 113 16 - SPLISH! SPLUSH! SPLASH! ...................................................... 121 17 - NAGIB ........................................................................................... 127 18 - AQUILONI ................................................................................... 134 19 - CAPRIOLE SULLE NUVOLE ................................................... 141
HABIBA LA MAGICA
Scritto da Chiara Ingrao L'illustrazione di copertina è di Ivan Canu ©2015 Coccole books Srl Prima edizione novembre 2014 Prima ristampa marzo 2015 Stampato presso GLF Stampa - Castrovillari (CS) - tel.0981.483001 Questo libro è stampato su carta certificata proveniente da fonti rinnovabili
ISBN: 978-88-98346-15-8 www.coccoleebooks.com