Riccardo Mancini
Pedagogia olistica e unitĂ della conoscenza
Indice Prefazione Introduzione Cap. 1 La pedagogia integrale 1.1 Pedagogia olistica e teoria dei quanti 1.2 Implicazioni psico-pedagogiche 1.3 Ipotesi di una pedagogia quantistica/olistica 1.4 Coscienza e conoscenza nella teoria dei quanti Cap. 2 La pedagogia olistica 2.1 Principi, finalità e prospettive 2.2 Tratti distintivi 2.3 Società edonistica ed olismo etico 2.4 Quale olismo? Cap. 3 Congetture olistiche e tendenze 3.1 La conferma dei principi “originari” 3.2 Le categorie pedagogiche dell’olismo 3.3 La scuola come centro e fucina di sforzi umani 3.5 Alla scoperta dell’anima dell’educazione olistica 3.6 L’uomo nel mondo 3.7 L’uomo totale e la pedagogia dell’essere Cap. 4 Il mondo della realtà nella visione olistica 4.1 Res extensa e salute 4.2 Intromissioni, inframmettenze ed elementi connotativi 4.3 L’arte del vivere 5
Cap. 5 Feconde intersezioni 5.1 Apprendimento integrale 5.2 Individui e uomini motivati 5.3 Intelligenze e sviluppo armonico 5.4 Corresponsabilità educativa 5.5 E-voluzione e ri-voluzione nella società della conoscenza Cap. 6 Tra passato, presente e futuro 6.1 L’apprendimento esperienziale 6.2 La rivoluzione progressista 6.3 L’esperienza tra problem finding e problem shaping 6.4 L’Olismo nell’educazione del futuro Bibliografia
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Prefazione Presentazione di LANFRANCO ROSATI
Questa è una ricerca che susciterà sicuramente parecchie riflessioni. L’Autore lo sa e, in un certo modo, lo premette: La matrice personalista cristiana non ne patisce, piuttosto rinvigorisce dalla mediazione fra presupposti d’ordine neuro scientifico – basta il richiamo alla relazione mente e cervello – e testimonianze assunte dalla migliore letteratura pedagogica neoclassica – come sono frequenti i riferimenti al filosofo francese J. Maritain – tutto imperniato su un bachgrund derivato dalla fisica classica – così come il richiamo alla teoria dei quanti – al fine di legittimare una educazione integrale che fa della ipotesi olistica la sua cartina di tornasole, perché si concilia con la totalità del conoscere dove avviene l’identificazione del soggetto con l’oggetto, dell’attività dell’io con il mondo della realtà che pure si disvela qualora cadano i pregiudizi ed i presupposti positivo-materialistici. Nuovo vigore acquista allora, in sede pedagogica, l’idea del potenziale educativo e creativo che facilita il passaggio dalla potenza all’atto, introducendo al nucleo di una filosofia di stampo idealistico in cui si azzerano i contrasti e le disuguaglianze. Riccardo Mancini compie, in buona sostanza, un lavoro ciclopico, perché quella “teoria cosa per pochi”, appunto quella dei quanti, non vanifica l’approccio fenomenologico contrapposto a quello spirituale, piuttosto lo sollecita per attribuire all’olismo il fondamento dell’integralità se Maritain dichiara esplicitamente che “l’umanesimo integrale è capace di salvare 7
e di promuovere, in una sintesi fondamentalmente diversa, tutte le verità affermate”. E le connessioni tra gli eventi, proprio della teoria quantistica, offre un modello ipotetico di sintesi e di efficacia. Le discettazioni sull’olismo come “tipo di conoscenza o forma di comprensione che si differenzia dalla conoscenza analitica, in quanto considera l’oggetto come un tutto integrato e organizzato, e considera la comprensione delle parti subordinata a quella del tutto. Così come la conoscenza razionale è solitamente detta analitica, la conoscenza sintetica, spesso di carattere intuitivo, può essere detta olistica”; qui sono continue al punto da distinguere le forme di olismo derivate da una descrizione universalmente condivisa che Mancini ha saputo cogliere da Rafael Yus Ramos e da altri esperti autori dell’educazione integrale, soprattutto dalla sua feconda mediazione con la psicologia che ha i suoi fondamenti nella cultura della fisica classica moderna. Ma è sui temi di maggiore rilevanza pedagogica che la ricerca di Mancini si offre come intelligente operazione di sintesi, perché riesce a mediare il portato delle scienze neurologiche con quello della più attenta ricerca pedagogica. E qui sta la fecondità dell’ipotesi, destinata ad incidere anche sulla formazione degli psicologi.
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Introduzione Che la pedagogia sia una scienza che studia il fatto/evento educativo attraverso metodi, strumenti e principi educativi è legge universale, così come la certezza che ogni modello ad essa riferibile calibra e plasma la sua azione a seconda della teoria e del contesto in cui si trova inserito. Una circolarità scientifica che sottintende, comunque, la necessità di visioni particolari e peculiari, ma mai che abbiano la pretesa e la possibilità di tradursi in paradigmi generalmente intesi. Così, appare doverosa una riflessione che cerchi di indagare nello scuro labirinto degli “olismi”, rintracciandone unità di significato e riconoscimenti scientifici a partire dalla presa in carico delle più recenti scoperte in campo fisico-matematico. Nella legittimazione della pedagogia olistica siamo davanti ad una teoria, quella quantistica, che seppur presente, anche se in maniera non dichiarata, all’interno delle riflessioni pedagogiche da oltre un secolo, non è mai stata posta come garante di scientificità e validità educativa, si voglia per la sua artificiosità comprensiva, oppure per l’ipotetica lontanza disciplinare che trova le sue interconnessioni solo in nicchie psicometristiche. Una prospettiva olistica che adempie alle continue sollecitazioni sociali ed individuali e che esige la creazione di un “uomo totale”, non può non trovare sostegno in quell’antropologia pedagogica che oggi più che mai si vede costretta a dialogare con tutte le scienze, e in particolare con la fisica e la matematica. 9
Di qui pare possa prendere i natali una visione del mondo che si rifà ad intagli e principi appartenenti alla fisica quantistica, così come la conferma di quella idea espressa da Spencer, il quale asserisce che nel momento in cui si tratta di persone ci sarà sempre un aspetto inconoscibile, che, nel nostro caso, è rappresentato dal potenziale umano che diventa atto, in un processo evoluzionistico individuale. Il punto di partenza, quindi, di una prospettiva olistica è paradossalmente la convinzione dell’esistenza di una infinita frammentazione dell’uomo e del suo essere. Difatti, è facile gioco dimostrare che a partire dalla rivoluzione industriale il modo attraverso cui l’uomo giunge a conoscenza è stato segmentato e parcellizzato in nome di una sempre maggiore specializzazione, e ciò ha portato come risultato odierno la frammentazione e la lacerazione della vita. Ed allora perché non tentare questa singolare sinergia tra i modelli quantistici e quelli educativi, in considerazione del fatto che già a partire dal personalismo è possibile rintracciare, sotto traccia, notevoli spunti e orientamenti quantistici? Tralasciando la sua natura e traduzione matematica, che senza dubbio richiederebbe studi analitici di indiscutibile complessità e che qui non saremmo in grado di sostenere, ciò che preme è l’estrema funzionalità pragmatica e filosofica di tale teoria; uno degli aspetti più propri di questo modello, infatti, è che pone dei problemi, di assoluto spessore filosofico-educativo, cercandone le soluzioni all’interno della stessa natura umana.
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Cap. 1 La pedagogia integrale Che la relazione tra le varie scienze appartenenti alla metafora del cerchio piagetiano sia una fonte inesauribile di idee, metodi e modelli su cui erigere ogni percorso educativo lo si è sperimentato e constatato più volte. Attraverso il fitto colloquio che la pedagogia ha instaurato con le neuroscienze, ad esempio, la concezione e gli strumenti che quotidianamente sono messi in opera in ogni processo educativo si sta lentamente dirigendo verso un “oggettivazione”. Il modello organismico, infatti,“si rifà alla conoscenza incorporata, dall’inglese embodied. L’idea qui non è di riduzionismo, ma di correlazione; come scrive Churchland, bisogna partire dal cervello per scoprire la mente: la base di studio è il cervello, le cui potenzialità aiutano a scoprire la mente e non viceversa. Questo modello considera in particolar modo l’integrazione degli ambiti affettivo-emozionale e corporeo-organismico e si viene così a configurare una pluriforme idea olistica di cognitivo che include tutti questi aspetti in aggiunta a quelli usualmente definibili come elaborazione cognitiva” (Santoianni F., I modelli sperimentali della formazione, Atti del Convegno di Scholè, Brescia - 6 settembre 2012). Siamo stati in grado, e saremo sempre più coscienti, delle innumerevoli funzioni che il nostro cervello attiva nel processo di apprendimento e nel rapporto che ogni soggetto ha con l’ambiente che lo circonda. È superfluo tessere le lodi di tale scienza, quella neurobiologica, e del suo sviluppo, copiosa è la letteratura che attesta quanto espresso, certo è che essa, come qualunque altra scienza che indaga sulla persona e sulla natura umana, non può limitarsi ad una visione unilaterale e parcellizzata che irrimediabilmente autorizzerebbe a comportamenti 11
scientifici-narcisistici e riduzionistici. Una visione disciplinare, deve essere presa come tale, e non come panacea e unico modello di riferimento. Al più, appare d’obbligo rintracciare quelle matrici che fino ad oggi hanno corroborato la nascita di discipline e saperi sempre più puntuali e funzionali alla comprensione dell’agire individuale e collettivo, proponendo un modello capace di analizzare e sintetizzare i vari settori disciplinari. Certamente una prospettiva educativa come fatto di rivendicazione, non dipendente da una determinata visione, presuppone impostazioni di fondo che scaturiscono dal personalismo e si proiettano nel valore immortale della persona. Il mondo contemporaneo, nel suo determinismo eclissante e nel suo meccanicismo smisurato, rifiuta quell’eco rappresentato dal buon senso, che seppur coscienti di non poter ascoltare la sua voce diretta dovremmo prendere coscienza di quella stessa natura umana defraudata dei suoi più intimi significati. Lo stesso Maritain definisce questi idola “cronolatria epsitemologica”, sapienti custodi di una “adorazione dell’effimero, ricerca di ciò che passa, per essere sempre moderni, ricerca di ciò che può soddisfare il prurito alle orecchie”. Così ogni verità si fa provvisoria, mutante, superficiale e certamente lontana dall’animo umano, a discapito di una verità che avvalora il primato dell’essere sull’agire o apparire. Un personalismo moderno, quindi, che nel suo naturale sviluppo riassegna alla persona il diritto di divenire scrigno entro cui i simboli si realizzano in significati. Di qui la visione di una trascendenza umana legata all’effettivo, in una cosmogenesi contraddistinta da un uomo tanto fenomenologico quanto spirituale. Ciò è possibile solo nel momento in cui le posizioni filosofiche iniziali sottendono ad un adempimento dell’essere umano sia nel suo momento fisico-biologico, sia nel suo farsi anima. 12
In tale teatro scientifico, purtroppo, si è costretti a costatare che fino ad oggi la teoria dei quanti sia “cosa per pochi”, alle sole menti dei fisici teorici più illuminati o alla letteratura scientifica di nicchia. Nello stesso modo, comunque, si può osservare che le traduzioni che derivano dalle riflessioni quantistiche sono di assoluto valore, in molti settori del sapere umano. Siamo oggi davanti ad una nuova concezione del mondo, che il fisico statunitense e premio Nobel per la fisica Feyman condensava nella proposta di un “computer quantistico”. Certamente appare singolare il fatto che una teoria così importante, se non in alcuni rari casi, non sia approdata alla pluralità scientifica quale faro orientativo e di sviluppo teorico ed empirico, e che sia rimasta solo coinvolta tra i colloqui e speculazioni degli addetti ai lavori. La teoria quantistica, senza mezzi termini, può essere paragonata, in quanto ad impatto e funzionalità deduttiva, a quelle che hanno prodotto delle vere e proprie rivoluzioni scientifiche come la teoria sull’evoluzionismo e quella della relatività, o, nel nostro caso, a quelle prodotte dalle menti pedagogiche più creative, lungimiranti ed acute. 1.1 Pedagogia integrale e teoria dei quanti L’opera più famosa di Jacques Maritain “Umanesimo Integrale” compone l’educazione come un’opera consapevole, la quale contiene nei propri gangli il concetto di olismo. Crediamo, assieme al filosofo francese, che “ciò che chiamiamo umanesimo integrale è capace di salvare e di promuovere, in una sintesi fondamentalmente diversa, tutte le verità affermate” (Maritain J., Umanesimo integrale. Problemi temporali e spirituali di una nuova Cristinità, Borla, Roma 2002, p. 131). Ma cosa può suggerire la teoria dei quanti alle scienze 13
dell’educazione tale da renderla un possibile sistema dottrinale di riferimento? Per rispondere a tale domanda dobbiamo da principio analizzare, per quanto concesso a chi non si può definire di certo un fisico quantistico, di cosa si tratti e di quali siano le implicazioni filosofico-educative di tale ideologia. In fisica la teoria dei quanti parte da un principio: l’energia è composta da particelle infinitamente piccole, appunto i quanti, le quali non dipendono e non sono soggette alle leggi che scaturiscono dalla fisica classica. In tale prospettiva l’energia non si trasmette in maniera continua, ma attraverso dosi minuscole: i quantum. Questo comportamento per così dire “strano” delle particelle ha contribuito ad una profonda revisione degli assunti filosofici e scientifici sulla percezione che dovremmo avere del mondo e del processo di causa-effetto. Nata dal volere della fisica dei quanti e corredata di notevoli sviluppi matematici, tale teoria descrive il comportamento e le interazioni degli e tra eventi. Essa sviluppo una prospettiva olistica, che si pone come obiettivo quello di relazionare le circostanze non solo attraverso le categorie causa-effetto, ma in modo globale, in quanto ritiene che ogni evento sia collegato ad altri anche se non in maniera contigua, instaurando, così, legami teorici con la “teoria del tutto” e quella della “relatività generale”. A differenza della teoria quantistica molti studiosi affermano che la teoria del tutto è destinata a cadere sotto i colpi della complessità e nella confermabilità di Carnap, mentre sono note le critiche che possono essere mosse a quella della relatività generale nata dal pensiero di Albert Einstein. La teoria dei quanti, invece, offre un modello ipotetico in cui la perfezione umana riesce a stabilire tutte le connessioni tra gli eventi. Questa sua particolare caratteristica appare tan14
to insidiosa, quanto stimolante, in particolare nel momento in cui si parla di persona e delle sue infinite variabili e caratteristiche. Da essa è possibile estrapolare un primo concetto: ogni fenomeno naturale è interconnesso ad altri e crea dei nuovi legami con altri avvenimenti. 1.2 Implicazioni psico-pedagogiche Speculando con la teoria dei quanti, essa rappresenta un ponte tra i principi del mondo fenomenico, oggettivamente osservabili, e le teorie metafisiche, basate sul soggettivo, sull’interpretazione obiettiva e sul concetto di persona. Il principio di non-località di tale modello manifesta che gli eventi possono anche non essere contigui, ma pur sempre relazionati per mezzo di determinate leggi che non sempre l’uomo riesce a cogliere. Una delle peculiarità che a noi paiono più significative, però, risiede nella modificazione concettuale di causa-effetto. Nella naturale e più conosciuta idea degli eventi, si può sintetizzare che data una determinata causa A otteniamo un effetto B. Come sostenuto dallo fisiologo Ivan Pavlov nella teoria del riflesso condizionato, infatti, ad una azione, appunto condizionata, corrisponde un riflesso determinabile a priori. A differenza della fisica classica, la quale teorizza misurazioni precise ed accurate, e della modellistica pavloviana, nella fisica dei quanti vige il principio dell’ “oggettivamente indefinito”, limite entro cui è possibile collocare il potenziale dell’oggetto o, nel nostro caso, del soggetto. Questa indeterminabilità rimane inalterata fino al momento in cui non viene ad essere misurata, ma la stessa può essere circoscritta entro stabiliti limiti di errore. Le grandezze fisiche, infatti, possono essere misurate, ma pur sempre all’interno di uno spazio di “possibilità”. Tali principi, sintetizzati nel paradosso del gatto di Erwin 15
Schrödinger, mettono il luce il fatto che le potenzialità di ognuno restano in un limbo finché un’azione educativa non le costringe a svelarsi e ad essere osservate, in modo che l’espressione umana può essere paradossalmente manifesta o non manifesta. La misurazione del potenziale di un soggetto sottostà alle stesse leggi della teoria dei quanti, dato che risiede all’interno di un “ventaglio” di possibili misurazioni. In questo caso sarà impossibile l’intervento predittivo della pedagogia, in quanto il soggetto potrà assumere una tra le tante espressioni che potenzialmente gli sono consentite. L’atto è solo una delle molteplici rivelazioni che può avere la potenza. Dalla potenza, quindi, è difficilmente intuibile l’atto e le sue eventuali espressioni. Di qui, concordando con la riflessione di Maritain, “appare che l’evizione del primato metafisico dell’atto sulla potenza, della forma sulla materia, e conseguentemente l’evizione dell’autonomia propria delle energie spirituali, questa doppia evizione, che caratterizza metafisicamente il materialismo, è inevitabilmente legata al radicale immanentismo realistico” (Maritain J., Umanesimo integrale. Problemi temporali e spirituali di una nuova Cristinità, Borla, Roma 2002, p. 98). Notevoli sono gli sviluppi di tale trattazione, tra cui la più rilevante sembra essere la limitata veridicità della valutazione predittiva. All’interno del paradigma di Copenaghen, infatti, il ruolo “dello sperimentatore, dell’osservatore (in fisica quantistica chi esegue un qualsiasi tipo di esperimento viene definito osservatore), oltre risultare ineliminabile non può mai essere disgiunto dall’ente osservato. Osservatore ed oggetto studiato, nel momento di una misurazione, formano un tutt’uno, cosicché le scelte del primo determinano e si fondono con le caratteristiche del secondo. Tutto questo deriva sostanzialmente dal fatto che la materia, prima di una qualsiasi misurazione (la mate16
ria allo “stato naturale”) vive in uno stato sovrapposto. E’ solo l’intervento dello sperimentatore che, per mezzo di un atto di osservazione, produce quello che nel formalismo quantistico viene chiamata riduzione della funzione d’onda, consentendo allo stato sovrapposto di risolversi in un determinato modo, forzando la materia a presentarsi al mondo come “ente” che ha una determinata realtà” (Cantalupi T., Santarcangelo D., Psiche e realtà. Psicologia e fisica quantistica. La natura profonda delle realtà umana e materiale, Tirrenia, Torino 2004). Anche Bertoli nel riflettere su tale questione rileva che “non si dà conoscenza senza un soggetto che conosce, non si dà oggetto di conoscenza senza l’atto di conoscere, non si dà atto del conoscere senza un soggetto. […] In altre parole non si dà realtà in senso stretto e non si dà alcun oggetto in senso classico, c’è solo e sempre una relazione tra chi osserva e cosa osservata” (Bertoli A., Psico-Bio-Geneaologia. Le origini della malattia, Macro Edizioni, Cesena 2010, p. 33). È in questo schema interpretativo che è possibile determinare fenomeni esistenti oggettivamente, che tradotto in lingua pedagogica definisce l’impossibilità di parlare di potenziale umano se non nella misura in cui esso viene preso come atto. Un netto distacco da concezioni appartenenti al positivismo logico, allo strumentalismo o ancora più acutamente al relativismo filosofico. Non a caso, come nella teoria quantistica, spesso è lo stesso osservatore o valutatore che determina l’analisi predittiva, in quanto sia nel momento a priori, sia in quello delle verifica “oggettiva” determina uno dei possibili stati in cui il soggetto può trovarsi. Ulteriori due principi si affacciano nel panorama educativo. Il primo che si rifà all’influenza dell’educatore sull’ambiente di apprendimento, mentre il secondo è legato all’assenza di oggettività nella pratica valutativa e di giudizio. 17
Si è già sostenuto (Mancini R., Soluzione metodologiche nell’azione educativa, Margiacchi-Galeno, Perugia 2009) che “è sintatticamente e semanticamente corretto dire che le asserzioni soggettive sono fondate da soggetti. Allora, in modo corrispondente, potremmo dire che le asserzioni oggettive sono fatte da oggetti. Disgraziatamente queste dannate cose non fanno asserzioni” (Heinz von Foerster - Bernhard Pörksen, La verità è un’invenzione di un bugiardo. Colloqui per gli scettici, tr. it. Maltemi, Roma 2001). Difatti, per oggettività si può intendere “il carattere dell’oggetto e, per estensione, della realtà. Se riferito a un sistema di sapere, lo si qualifica in termini di validità assoluta e universale, in quanto ciò che è oggettivo non è vincolato a elementi soggettivi e individuali di giudizio” (Morselli E., Dizionario di filosofia e scienze umane, Signorelli Editore, Milano 1993, p. 161). L’oggettività può essere considerata una chimera alla quale tendere in quasi tutte le scienze, una illusione ben costruita dall’uomo per l’uomo, un ideale su cui riflettere, insomma un utopia da ricercare nel cammino dell’evoluzione. Soggetto ed oggetto trovano ragioni di causa solo nella relazione “non-oggettiva”. Pur riconoscendo un uomo sottostante a leggi quantistiche, il principio di probabilità dà adito alla costatazione e alla convalida di un ulteriore concetto filosofico umano: il libero arbitrio. Esso è percepibile quale valore non compreso già all’interno dello sviluppo dell’evento. Il principio di indeterminabilità, infatti, presuppone che l’atto non sia vettore biunivoco della potenza, piuttosto sia uno delle sue possibili espressioni che può assumere nel corso del tempo. In altre parole, spiega il fisico Fabrizio Coppola, “l’indeterminazione quantistica permette un piccolo margine per un “libero arbitrio” della natura, che poi viene “amplificato” e “valorizzato” negli organismi biologici e quindi nell’uomo” (Cop18
pola F., Il segreto dell’universo. Mente e materia nella scienza del Terzo Millennio, L’età dell’Acquario, Torino 2009). Difatti, per mezzo della teoria dei quanti si evince che “non ha senso, nella teoria classica, parlare di energia in un determinato luogo; bisogna piuttosto indicare prima il sistema fisico di cui si vuol considerare l’energia, così come per parlare di velocità in senso determinato bisogna indicare il sistema di riferimento. E poiché il sistema fisico può essere scelto a piacere, piú piccolo o piú grande, nel valore dell’energia è sempre insito un certo arbitrio” (Plank M., La conoscenza del mondo fisico, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1993). Questo punto assume una notevole importanza poiché solo “in questa ipotesi l’uomo viene ad assumere una vera libertà nelle sue azioni. Altrimenti egli è solo un burattino in balia delle leggi meccaniche della fisica” (Coppola F., Il segreto dell’universo. Mente e materia nella scienza del Terzo Millennio, L’età dell’Acquario, Torino 2009). Non a caso la filosofa dell’educazione Agnese Rosati riflette sul fatto che “un’educazione integrale della persona, pronta a riscoprire la forza di un nuovo umanesimo, si connoterà come un’educazione alla libertà, reggendosi sul senso di fiducia in sé e della propria intelligenza” (Rosati A., Libertà come valore e apprendimento come prospettiva. I fondamenti teorici della didattica della cultura, Anicia, Roma, 2006, p. 51). Di quale libertà abbisogna l’uomo? Di certo non di una libertà discendente dal liberalismo ove viene ad essere contemplato il semplice possesso della facoltà di scelta, e nemmeno di una dittatoriale quale contemplazione e venerazione dell’autorità che sceglie al posto dell’uomo, piuttosto una libertà di autonomia di ogni uomo che si confonde tra immanenza e trascendenza.
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1.3 Ipotesi di una pedagogia quantistica/olistica Le leggi dei quanti introducono il concetto di probabilità alla luce della quale l’uomo costruisce osservando il proprio mondo fisico. In questi termini gli eventi non sono sorretti da principi oggettivi e deterministici, piuttosto da quelli soggettivi e probabilistici. Punto nodale della meccanica quantistica è, quindi, il principio della non-località: gli eventi (o particelle) lontani sono soggetti a relazione e contaminazione in modo biunivoco. Tale assunto indica che eventi, anche posti in zone non prossime, si influenzano vicendevolmente, tale da rendere un percorso formativo specifico condizionato da elementi e variabili sconosciute all’interno del campo di azione. Il passaggio sancito dalla teoria dei quanti, da una ipotesi di materia oggettiva ed imparzialmente percepibile ad una di stampo idealistico capace di affermare che ciò che esiste, esiste solo perché potenzialmente percepibile sta alla base di quanto andremo a discutere. In effetti sembra che la meccanica quantistica dia un messaggio nuovo sulla struttura della realtà, e che sancisca la fine del “realismo” a favore di una concezione “idealistica” in cui gli oggetti esistono in uno stato “astratto”, il quale rimane approssimativo finché la “percezione conoscente” non lo rende sensibile. Il classico modello materialistico risulta, così, inadeguato a descrivere la realtà, incoraggiando a rivolgersi a modelli che concepiscono l’universo in termini di “informazione” piuttosto che di “materia” (Coppola F., Il segreto dell’universo. Mente e materia nella scienza del Terzo Millennio, L’età dell’Acquario, Torino 2009). La pedagogia olistica, infatti, pone l’accento su tematiche e trattazioni speculative che la scienza non raggiunge per mezzo di studi appartenenti alla fisica classica, e nemmeno attraverso 20
i modelli einsteiniani. La nostra capacità di comprensione, - scrive Bruno Severi - “così come la nostra immaginazione, ci rappresenta le particelle subatomiche come sferette materiali infinitamente piccole che interagiscono l’una con l’altra attraverso le forze che si ritiene siano vuote. Ma come era d’aspettarsi, le cose non sono così semplici. Queste particelle hanno dimostrato di possedere alcune caratteristiche davvero inquietanti, prima fra tutte il fatto di manifestare una qualche sorta di connessione reciproca anche se separate da distanze infinitamente grandi (i fisici definiscono questa proprietà “non località”). Ad esempio, due particelle provenienti da una stessa sorgente e che si allontanano, rimangono unite da un misterioso legame che le accomuna al di là di ogni barriera spazio-temporale che si interponga tra esse. Se agiamo in qualche modo su una delle due, anche l’altra ne risentirà istantaneamente nonostante le notevoli distanze che la separano. Recenti esperimenti estremamente sofisticati hanno confermato la veridicità di questo fenomeno. Questa sorta di azione a distanza ha sconvolto le menti dei fisici ed in primo luogo quella di Albert Einstein. Che cosa sia questa misteriosa connessione che tiene legate le due particelle non ci è ancora dato di sapere. Einstein definiva questo fenomeno, per lui impossibile, “azione fantasma a distanza”. Alcuni fisici di spicco ritengono che alla base di questo bizzarro comportamento ci sia il fatto che due particelle, che si siano incontrate ad un certo momento della loro esistenza o che abbiano avuto origine dallo stesso processo fisico, non possano avere due destini assolutamente distinti. Formerebbero, in definitiva, un unico sistema che le tiene unite e le comprende anche se le due particelle si vanno a collocare su due galassie diverse. Il misterioso legame che le unisce rappresenterebbe una sorta di connessione telepatica che, per l’istantaneità con la quale si verifica, abbatterebbe la famosa barriera della velocità della 21
luce sostenuta dalla teoria della relatività di Einstein”(Bruno Severi, I miracoli della fisica quantistica, in “Scienza e Cultura nel mondo”, n. 1, p. 67 ). Anche nella psicologia numerosi esperimenti hanno messo in luce tale relazione, in modo particolare all’interno del concetto di amore, inteso come dialogo, tra due persone. Copiosa è la letteratura all’interno del panorama pedagogico-educativo che tratta dell’amore in questi termini, anche se rifacendosi ad aspetti e principi che partono da presupposti diversi, quelli appartenenti alle scienze cosiddette deboli. Octavio Paz descrive l’amore proprio come una sospensione del tempo e dello spazio, essenza che sfugge e si dissolve ad ogni tentativo di catalogazione e categorizzazione. Il premio Nobel spagnolo, infatti, afferma che l’amore “non è l’eternità, non è neppure il tempo dei calendari e degli orologi, il tempo successivo. Il tempo dell’amore non è né lungo né breve: è la percezione istantanea di tutti i tempi in un tempo solo, di tutte le vite in un istante” (Paz O., La duplice fiamma – Amore ed erotismo, Garzanti, Milano 1994, p. 171) Di qui vengono ad essere confermati quei concetti di non-località e di probabilità tipici della teoria dei quanti. 1.4 Coscienza e conoscenza nella teoria dei quanti Riflettere sui principi conoscitivi e di coscienza porta a delle prese di posizione sostanziali. Siamo dell’idea che la coscienza è primaria ed è la base di tutto l’essere. In numero biologia la “mente” è il prodotto del lavoro cerebrale, mentre la “conoscienza” è la consapevolezza di sè e dell’amiente. Infatti, ogni evento naturale è prodotto di coscienza e, non può essere localizzata e contestualizzata. La nozione di mente individuale, in fondo, non è altro che una finzione utile che Dossey chiama «l’illusione di un sè separato e la sensazione di un ego che possiede una mente separata». 22
In tale modo la coscienza viene ad essere in qualche modo distinta dal cervello. Questo è un assunto chiave, specialmente per comprendere alcuni eventi naturali inspiegabili secondo impostazioni diverse. Sul finire degli anni Ottanta Dossey afferma: «se la mente è non locale, in un certo senso deve essere indipendentemente dal cervello e dal corpo strettamente locali [...] e se la mente non è locale, non confinata nei sensi e nei corpi e tuttavia non del tutto indipendente dall’organismo fisico, è aperta la possibilità di sopravvivenza alla morte del corpo” (fonte: L’universo magico delle NDE, Atti del IV Congresso internazionale di studi delle esperienze di confine (San Marino 2000) – Relazione di Evelyn Valarino: NDE e soggetti non vedenti: la vista nel buio della pre-morte, pp. 112-113). Di qui l’errore cartesiano tra mente e cervello, in quanto entrambi concorrono nello stipulare una conoscenza ed una coscienza completamente olistica. “Nella fisica moderna, l’universo appare quindi come un tutto dinamico, inseparabile, che comprende sempre l’osservatore in modo essenziale. Nell’esperienza che se ne può avere i concetti tradizionali di spazio e tempo, di oggetti isolati e di causa ed effetto, perdono il loro significato. Tale esperienza è molto simile a quella dei mistici orientali. La somiglianza diventa evidente nella teoria della relatività e nella teoria quantistica, e si fa ancora più forte nei modelli “quantico-relativistici” della fisica subatomica, ottenuti combinando entrambe queste teorie, nei quali si producono le corrispondenze più sorprendenti con il misticismo orientale” (fonte: La fisica quantistica, a cura di Silvia Salese, Università degli Studi di Torino Facoltà di Psicologia 2003). Questa caratterizzazione oltre che a scaturire dalla difficoltà insita nei postulati della meccanica quantistica risiede nelle parole che il nostro vocabolario, conforme ad una fisica tradizionale, mette a disposizione per spiegare tali enunciati. Anche 23
nella sintassi si è costretti a passare da un determinismo di significato, ad una probabilità di comprensione. La teoria dei quanti solleva un’ulteriore problematica, in particolare la capacità di incrinare il principio di logica appartenente all’uomo aristotelico. Ogni nostra azione è basata sugli assunti del si o no, del vero o del falso in base ad indicatori di veridicità appartenenti alla logica tradizionale. Una logica, quindi, che si basa sulla bivalenza delle soluzioni possibili e sul principio di non contraddizione: una cosa vera non può essere contemporaneamente anche falsa e viceversa. Tale principio si frantuma davanti alla meccanica quantistica. Nel principio di non località, infatti, la materia può essere in due posti contemporaneamente, proponendo così una logica a tre valori e probabilistica. Nel suo principio cardine di non-località della materia la teoria quantistica mette in luce anche in un altro aspetto più conosciuto alla letteratura pedagogica. Si consideri il sostegno offerto da Kandel nella trattazione del dualismo cartesiano: “questa natura duale riflette due tipi di sostanze. La rex extensa – la sostanza fisica di cui è fatto il corpo, cervello compreso – corre attraverso i nervi e permea i muscoli di spiriti animali. La res cogitans – la sostanza non fisica del pensiero – è esclusivamente umana, dà origine al pensiero razionale e alla coscienza, e nel suo carattere non fisico riflette la natura spirituale dell’anima. Le azioni riflesse e molti altri comportamenti fisici sono guidati dal cervello, mentre i processi mentali sono determinati dall’anima” (Kendel E., Alla ricerca della mente, Codice Edizioni, Torino 2007, p. 108). Qui, afferma Rosati, “si spiega la stretta sinergia tra le due componenti della natura umana: quella esposta alla valutazione diagnostica elettrica, chimica e fisica e quella che spazia in ambiti di natura superiore. In breve dell’uomo è necessario 24
adesso rappresentarsi corpo e anima come una unità indissolubile, come sinergico dispiegarsi delle attività umane” (Rosati L., L’uomo e la cultura. L’universo dei significati, Morlacchi editore, Perugia 2011, p. 82) . Questo errore, definito compiutamente da Antonio R. Damasio sul finire del XX secolo, nasce dall’assunto che la materia sia legata allo spazio, e cioè che sia situata. Per Cartesio, infatti, rex extensa e rex cogitans sono due espressioni della materia incompatibili e perciò non influenzabili reciprocamente, tale da trasformarsi in un principio generico di non reciprocità tra corpo e spirito. Purtroppo però, come espresso nella teoria quantistica, una delle caratteristiche dalla materia stessa risiede nel principio di non-localizzazione. Nel 1978, sul viale del tramonto della vita di Gregory Batenson assieme alla figlia Mary Catherine stilano “Mind and Nature: A Necessary Unity”. Il testo, che risulta essere il più leggile dei suoi libri, conferma quanto espresso da Damasio nel criticare il dualismo Cartesiano. In questa circostanza il filantropo sostiene che la mente non si può separare dalla materia, ma entrambe le due sostanze vanno poste sullo stesso piano in un rapporto di interazione in cui una non esclude l’ altra. Werner Heisenberg, uno dei maggiori esponenti della fisica quantistica, risolve il problema in questi termini: “a questo punto la situazione si modificò notevolmente in seguito alla teoria dei quanta e possiamo perciò venire ora ad un confronto fra il sistema filosofico cartesiano e la situazione della fisica moderna. Nella interpretazione di Copenaghen della teoria dei quanta noi possiamo in realtà procedere senza menzionare noi stessi come individui, ma non possiamo trascurare il fatto che la scienza naturale è formata da uomini. La scienza naturale non descrive e spiega semplicemente la natura; essa è una parte dell’azione reciproca fra noi e la natura, descrive la natura in rapporto ai sistemi usati da noi per interrogarla. E’ 25
qualcosa, questo che Descartes poteva non aver pensato, ma che rende impossibile un netta separazione fra il mondo e l’Io. Se si pensa alle gravi difficoltà che anche eminenti scienziati, come Einstein, incontrarono per intendere ed accettare l’interpretazione di Copenaghen della teoria dei quanti, esse si possono far risalire alla divisione cartesiana di materia e spirito. Tale divisione è penetrata profondamente nella mente umana durante i tre secoli che seguirono Descartes e ci vorrà molto tempo perché possa esser sostituita da un atteggiamento veramente diverso nei riguardi del problema della realtà” (Heisenberg W., Fisica e Filosofia, Il Saggiatore, Milano 1961). In conclusione si può affermare che la teoria dei quanti solleva e possiede notevoli spunti di riflessione pedagogico-educativa. Tale teoria si dirige al cuore della pedagogia e quindi della natura umana, cercando spiegazioni e chiarimenti circa le tematiche più acute che dalla notte dei tempi hanno accompagnato le idee dei più importanti Maestri dell’educazione. In modo particolare si è cercato di mettere luce su aspetti che fino ad oggi sono sopravvissuti alle critiche positiviste, e che si sono avvalsi “solo” di intuizioni e filosofie. Il loro sopravvivere da solo potrebbe dare modo alla veridicità di concetti come la trascendenza umana, del potenziale che è presente in ognuno di noi, di coscienza etc., ma che oggi può trovare un valido supporto nelle filosofie delle scienze fisiche e matematiche. Un pensiero, quindi, che se da principio si fa oggettivo attraverso il resoconto matematico, si dirige verso investigazioni di pensiero, le quali danno modo a verificare le più comuni espressioni pedagogiche e personaliste.
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Cap. 2 La pedagogia olistica La memoria olistica affonda le sue radici nelle filosofie del Settecento, tra cui è d’obbligo ricordare il precursore dei romantici Rousseau ed il maestro del personalismo Pestalozzi, anche se è solo a partire dal primo Novecento, attraverso i liberali, umanisti e transcendentalisti come Maria Montessori, Rudolf Steiner, Ferrer, Dewey, Decroly, etc., che, anche se in maniera non diretta, permisero il diffondersi delle idee che oggi facciamo rientrare sotto il termine di olismo. Attraverso questo completamento dell’apparato epistemolgico la pedagogia olistica ha acquisito un corpo autonomo, fino al punto di essere vista come un nuovo “paradigma educativo”, necessario alla richiesta di educazione nel “villaggio globale” e nella società complessa. Se è pur vero che la maggior parte delle scuole che offrono programmi olistici sono private, l’esistenza di numerose iniziative pubbliche comunicano la ripresa di un nuovo archetipo educativo capace di far fronte alle mutevoli condizioni a cui stiamo giornalmente assistendo e a cui la pedagogia classica stenta a dare risposte pertinenti ed efficaci. Più ci si sforza di capire il mondo che ci circonda con i vecchi schemi di traduzione, afferma Lamendola, “più ci si accorge che tutti gli aspetti della realtà - economici, sociali, politici, tecnici, culturali, spirituali - sono strettamente correlati; e che il problema fondamentale dell’uomo d’oggi è la mancanza di una visione unificatrice della vita, nonché di una chiara e veritiera idea di se stesso, del suo posto nel mondo, del suo ultimo destino”. Più ci si affatica ad intendere, continua l’Autore, “sgombrando la mente da pregiudizi, semplificazioni di comodo, forme compulsive di attaccamento alle cose e al pro27
prio ego, più ci si rende conto che premessa indispensabile per vedere con chiarezza è il recupero di una radicale onestà interiore, di una capacità di scegliersi, riconoscersi, perdonarsi senza troppa indulgenza e riscuotersi senza ipocriti moralismi. Sia il desiderio di agire su cose e situazioni, modificando la realtà, sia quello di scoprire, apprendere e tesaurizzare nuove conoscenze, possono trasformarsi in valori solo a patto di individuare un progetto di espansione e purificazione della coscienza, senza il quale si cade nella sopravvalutazione tanto dell’agire, quanto del contemplare. […] L’azione e la cultura, per quanto bene intenzionate, non hanno alcun potere di modificare positivamente la realtà, se non vengono messe al servizio di una rivoluzione interiore che, attraverso un atto di fondamentale umiltà e lealtà verso se stessi, sia anche un segno di suprema gratitudine alla vita e di amorosa apertura alla dimensione dell’Essere, dal quale proveniamo e al quale aspiriamo, con tutta l’anima, a fare ritorno” (Lamendola F., Fogli sparsi, Arianna editrice, Bologna 2010). A tal proposito, afferma Antonio Bertoli, “uno dei problemi più consistenti che sono alla base dei limiti di ogni disciplina è lo specialismo stretto, la specializzazione che ha contraddistinto finora tutta la scienza” (Bertoli A., Psico-Bio-Geneaologia. Le origini della malattia, Macro Edizioni, Cesena 2010, p. 8); un riduzionismo che ha avuto solo il merito di far avanzare una micro-scienza, ma che al tempo stesso ha depotenziato la prospettiva generale dei problemi e quelle che Gaston Bachelard avrebbe definito come “rotture epistemologiche”. Si è perso quel senso di ricerca che portava dal particolare al generale, limitando sensibilmente il metodo deduttivo, ormai reso orfano della sua universalizzazione. In nome di quale offerta all’uomo è possibile segmentare il sapere se poi si perde di vista l’uomo stesso? “Parlare di educazioni non significa semplicemente as28
sumere un concetto e parcellizzarne l’anima a seconda degli obiettivi che essa tende raggiungere, piuttosto significa dare alla stessa una linea di principio che ne favorisca la piena comprensione del suo modus operandi e del suo calarsi e calibrarsi a seconda delle molteplici variabili che intervengono in ogni processo. Con la semantica poliformia dell’educazione non si intende il semplice diversificare o conformare l’unità iconografica dell’educazione, ma assume valore nel momento in cui l’educazione viene ad essere associata ad una propria prerogativa (Mancini R., Una cultura emergente L’educazione permanente. Genesi e sviluppo di una idea, Aracne, Roma 2011).. Questa frammentazione colpisce ogni aspetto dell’agire umano. In particolare l’evoluzione umana offre il lato debole alle rivendicazioni di una economia che ha portato ad una devastazione ecologica, ad una società impostata sull’accumulo, sulla violenza e sull’uso e abuso, su una qualità di vita che ha disgiunto la persona dai valori pensando che che il progresso sia cosa naturale solo perché prodotto dell’uomo e ad una assenza di significato ed unità culturale. Questa frammentazione riverbera nel quotidiano e reclama sempre più tempo ed energie per essere sostenuta. Non abbiamo più tempo libero, momenti da dedicare alla cura del nostro Io e alla salvaguardia delle relazioni umane, siamo ormai impossibilitati a muovere il nostro essere e chiamati sempre più frequentemente a fare i conti con i doveri che scaturiscono da questo modo di vivere. L’unico rimedio a tale frammentazione è l’educazione olistica, quale incomparabile prospettiva capace di ristabilire i collegamenti in tutte le sfere della vita umana. Ecco quel concetto di “scienza ed arte” richiamato da Mialaret nell’introduzione al lavoro di De Landsheere. Una scienza, quella educativa, “basata sull’oggettività biologica della 29
composizione e del funzionamento del nostro cervello, ma anche arte quale riconoscimento di un potenziale che va oltre all’aspetto puramente conoscitivo e funzionale rendendosi capace di riconoscere quel mistero della persona generato dalle riflessioni di Mounier” (Mancini R., Segmenti sulla pedagogia della cultura, Margiacchi-Galeno, Perugia 2012). Lo stesso Piaget intuiva che la filosofia deve essere compresa come “una presa di posizione ragionata sulla totalità del reale”. Così è possibile evidenziare che l’educazione olistica è presente in tutte le modalità di relazione che la persona stabilisce con la prossimità. Il rapporto tra pensiero lineare e l’intuizione deve basarsi sull’equilibrio di sintesti tra queste due facoltà umane che giungono a definire anche lo stesso rapporto tra mente e corpo. In tale modo esaminare singolarmente questi rapporti significa ricercare il “senso” di se stessi e delle cose. 2.1 Principi, finalità e prospettive Per quanto intuitivamente sia possibile comprendere i termini educazione e la sua aggettivazione olistica, non esiste una definizione universalmente accettata. Questo è particolarmente dovuto al fatto che l’educazione olistica possiede una diversità di approcci e sfaccettature che la portano distante da una generale ed univoca descrizione. Pur consci di quanto appena espresso è possibile, però, rintracciarne il significato etimologico. Tutto ciò che riguarda l’olismo deriva dal greco “olos”, il quale si riferisce ad un universo fatto di due insiemi integrati, ma che comunque non possono essere ridotti alla somma delle parti. Per Morselli il termine Olismo indica “un tipo di conoscenza o una forma di comprensione che si differenzia dalla conoscenza analitica, in quanto considera l’oggetto come un tutto integrato e organizzato, e considera la comprensione delle parti subordinata a quella del tutto. Così come la conoscenza 30
razionale è solitamente detta analitica, la conoscenza sintetica, spesso di carattere intuitivo, può essere detta olistica” (Morselli E., Dizionario di filosofia e scienze umane, Carlo Signorelli Editore, Milano 1993, p. 161). Detto in altri termini, è proprio la sintesi dell’analisi che sviluppa una visione olistica, una prospettiva generata secondo il modello capponiano “l’analisi costruisce, la sintesi crea”. Il termine educazione olistica risale alla concezione appartenente allo statunitense R.Miller sul finire del XX secolo. Secondo il noto filantropo tale semantica designa una prospettiva che ha la convinzione che la personalità di ogni soggetto deve essere considerata in ogni sua più singola espressione. Sotto tali aspetti vengono presi in considerazione l’esperienza, il corpo, le emozioni, l’estetico, la creatività, l’intuizione e la spiritualità quali elementi interconnessi e non scissi. Tuttavia il canadese J.P. Miller donava a tale semantica una accezione tendente a proporre un modello basato sul principio della interconnessione e sullo sviluppo di metodi di insegnamento e di apprendimento capaci di favorire le relazioni tra soggetti e le varie forme di comunità. L’educazione olistica, così, si accredita di una vasta gamma di tipologie e varietà di approcci, cercando di soddisfare le più peculiari esigenze di apprendimento che si basano sulla totalità e complessità della persona. L’apprendimento olistico cerca, infatti, di sviluppare approcci di insegnamento e di apprendimento che incoraggino i collegamenti tra gli argomenti, un dinamico equilibrio ed un pensiero creativo. Il modello deweiniano su cui si basa l’apprendimento e lo sviluppo dei talenti americani si intreccia con quello olistico, dando origine a strategie didattiche che comprendono l’immaginazione, l’apprendimento cooperativo, la risoluzione creativa dei problemi, etc.. Tuttavia, l’educazione olistica evita l’accento su una particolare tecnica, mentre incoraggia una lettura tra31
sversale e a più livelli per mezzo delle interdipendenze e delle connessioni dei varie saperi. L’educazione olistica non è affermazione di tecnica o di un curriculum, ma un continuo sviluppo della persona nel suo complesso, partendo dall’acquisizione di “competenze di base”. Essa, infatti, non è incentrata sulla determinazione di quali fatti o eventi si debbano insegnare, bensì nella creazione di una comunità di apprendimento che incoraggi la crescita individuale e collettiva. L’educazione olistica porta in serbo un modello che deriva dalla coesione di più posizioni educative, le quali pur distinguendosi nella letteratura pedagogica le una dalle altre si uniscono in un dogma integrale che possiede determinati fini e prospettive che sono più della somma delle parti da cui derivano. Flake (Flake C. L., Education Holistica: Pricipios, Perspectivas y Pràticas, Holistic Education Press, Brandon 1998) evidenzia il fatto che l’educazione può essere descritta come olistica quando dimostra determinate caratteristiche, quali: 1 – lo sviluppo di tutta la persona ed è interessata agli aspetti propri dell’essere umano; 2- la relazione docente-discente (rapporto simmetrico, aperto, dinamico e libero); 3- l’esperienza di vita e non di “competenze di base” in senso stretto. L’educazione si nutre dell’istruzione. Come asserisce Sergio Angori in un recente contributo circa l’educazione permanente, “possedere informazioni, conoscenze, abilità e disporre della capacità di acquisirne di nuove e utilizzarne altre per affrontare problemi concreti non necessariamente costituisce un’opportunità di crescita personale in libertà e responsabilità. Il sapere ha senso se soddisfa urgenze umane, se favorisce l’auto educazione, se consente all’adulto di costruire e trasformare la propria identità 32
personale. Risponde invece ad altre logiche se è strumentale rispetto ad esigenze produttivistiche” (Angori S., Un orizzonte di senso per l’educazione degli adulti, in AA. VV., Ricerche pedagogiche, rivista trimestrale luglio-dicembre, 2012 n° 184/185, p. 30). L’educazione è crescita e scoperta, una prospettiva allargata del mondo e continua domanda per capire e dare un senso al mondo e a noi stessi. La questione va oltre i limitati orizzonti dei curriculum convenzionali, dei libri di testo e dei test standardizzati; 4- consente ai discenti di essere parte attiva del processo di crescita. In una prospettiva olistica, riflette la Santerini, “si tratta di valorizzare la tendenza innata verso la ricerca del bene, la grammatica morale di cui si è parlato, ed allo stesso tempo utilizzare – senza considerarlo esauriente – un approccio costruttivista dei concetti morali da cui dipende la comprensione e l’applicazione delle regole stesse. Non si dimentica la lezione di Piaget (cioè che autonomia intellettuale e libertà morale sono strettamente legate) ma si valorizzano le relazioni affettive dirette di attaccamento tra bambini e persone di riferimento per l’elaborazione di una maturità morale” (Santerini M., Affetti e ragione nello sviluppo morale, Convegno di Scholè, Brescia - 6 settembre 2012) . In tale modo è possibile evidenziare che le finalità olistiche risiedono nel dare ai giovani una propria visione dell’universo a cui tutti sono interconnessi per mezzo di un ragionamento critico, attivo e globale. Formare le nuove generazioni a sviluppare un senso di armonia e di spiritualità per costruire una società fondata nella pace, significa promuovere ogni più intima potenzialità individuale. In tale modo verranno avvalorate tutte quelle azioni sociali ed educative volte ad accrescere i “talenti” della persona per mezzo di un profondo riconoscimento del potenziale innato 33
di ognuno. Per Hutchison (Hutchison D., Educaçao Ecològica, ArtMed, Porto Allegre 2000), la visione olistica della formazione esplicita in un contesto di filosofia perenne, la quale possiede l’inclinazione ecologica: tutti i fenomeni in natura sono visti come interconnessi. Questa peculiarità ha portato a migliorare l’approccio al “sapere”, includendo i processi mentali intuitivi ed un contatto diretto con la conoscenza. In tal senso, riflette R. Miller, la filosofia olistica “inizia con un profondo rispetto per l’essere umano in crescita e tenta di fornire un ambiente di apprendimento coerente e sensibile” (Miller R., What Are Schools For?, Holistic education press, Brandon 1997) allo sviluppo umano. 2.2 Tratti distintivi Se dovessimo rintracciare nel corso della storia un simposio in cui l’educazione olistica si è posta quale modello scientifico, di certo dovremmo riportare la Dichiarazione di Chicago del giugno del 1990. In quella conferenza ha preso i natali la fondazione di GATE (Global Alliance for trasforming education), la quale si è posta come obiettivo di elaborare un importante documento volto a riunire le varie correnti e paradigmi dell’educazione olistica di tutto il mondo. Dai numerosi interventi susseguitesi in tale assise, l’educazione olistica si è distinta per alcuni elementi caratterizzanti tra cui devono essere ricordati la completezza e totalità della persona nella prospettiva di interrelazione con il sè, gli altri ed il mondo fenomenico, la forte connotazione spirituale da cui deriva la costruzione di un significato ed un senso della vita, il carattere sincretico volto a legittimare l’essere umano quale unica realtà anche se dalle molteplici sfaccettature, lo spirito di inclusione quale “democrazia delle differenze” evidenziata dal Frankl ove la bildung di ogni soggetto si realizza per mezzo 34
di un movimento senza ritorno, cioè “esperienza dell’altro che non torna più al proprio stesso, ma che si apre invece all’altro senza remore coinvolgendosi anche a rischio mettere in pericolo il proprio Io” (Lévinas E., Die spur des Anderen, Alber studienausgabe, Freiburg 1998, p. 110), e l’esperienza quale principio pedagogico di costruzione della vita individuale e riassunto nel epiteto deweiniano “è meglio un’oncia di esperienza che una tonnellata di teoria, semplicemente perchè è soltanto nell’esperienza che una teoria può avere un significato vitale e verificabile” (Dewey J., Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 185). Questi fattori educativi incoraggiano a sviluppare un pensiero critico circa ciò che circonda la persona nel suo quotidiano vivere. Le culture sono create dall’uomo e possono essere modificate da quest’ultimo, sia a livello individuale, sia in quanto espressione di volontà comune. La soluzione dei problemi sociali e culturali del nostro tempo e di quella che più comunemente viene ad essere descritta come l’illusione moderna sarà quello di tornare alle collaudate “verità”, e non ad una verità assoluta e monogama. Sotto tali termini occorre che l’uomo sia diretto verso verità trascendentali e valori eterni e non viceversa. Questa rivoluzione di sensibilità non è che la psiche che reclama il proprio naturale esistere. Un paradigma, infatti, condiziona non solo la nostra “visione del mondo”, ma anche la prospettiva con cui si affrontano i problemi e la modalità attraverso cui ci relazioniamo con l’esterno. T. Kuhn nel definire un paradigma come “una impostazione metafisica e cosmologica, leggi e teorie scientifiche fondamentali, indicazioni relative ai metodi e agli strumenti da usare nella ricerca”, dichiara che quando un paradigma non può risolvere i problemi che si prospettano, è allora che si avverte la necessità di un cambiamento. Così, continua il celebre 35
epistemologo e storico della scienza, gli schemi pregressi che guidano l’umano agire devono essere sostituiti da altri in grado di rispondere alle esigenze maturate in un dato periodo storico-culturale. Ogni paradigma non può sottrarsi a questo ciclo naturale dato che non può essere universale ed a-temporale. È difficile dire se siamo davanti ad un processo di cambiamento di paradigma, o se magari sia solo un ritorno alle origini necessarie all’uomo e al suo benessere, certo è che non manca la letteratura pedagogica che mostra le carenze del paradigma corrente. Alla luce di queste deficienze sociali, numerose sono state date varie proposte, tanto da portarci ad affermare che siamo in un momento di profonda necessità cambiamento di paradigma. Una “crisi della percezione” che lentamente, ma in modo inesorabile, incrina il paradigma post-moderno e che contrassegna il mondo occidentale in quest’ultimo mezzo secolo. Il paradigma meccanicistico (noto anche come cartesiano o analitico) non solo ha cessato di essere utile per gli obiettivi sociali attuali, ma sta causando notevoli ritardi nei campi di investigazione in cui viene ad essere chiamato in causa. Tenuto conto di questa lacuna paradigmatica post-moderna, gradualmente emerge un nuovo paradigma, chiamato sistemico, integrale e olistico, il quale ha il grande pregio di dare risposte più precise ad alcuni problemi che affrontiamo oggi in tutte le sfere dell’attività umana. In termini generali, il paradigma meccanicistico ha fornito all’uomo il progresso scientifico e tecnologico, ma ha tralasciato tutti quegli aspetti che rientrano sotto il lessico di humanum ed humanitas. I problemi che restano aperti si palesano secondo una molteplicità naturale. L. Rosati, agli inizi degli anni Novanta soffermava la sua attenzione su tale problematica asserendo che 36
“il tecnicismo, alimentato anche dal perfezionamento degli strumenti di lavoro, potrebbe prendere il sopravvento su ciò che conferisce all’humanitas il carattere di libertà ed autonomia e aiuta a riscoprire l’elemento di valore che rende feconda la pratica educativa, soprattutto oggi che da più parti è avvertita l’esigenza di umanizzare la tecnica e di recuperare la dimensione estetica dell’educazione” (Rosati L., Intersezioni. Pedagogia della scuola e didattica, Petruzzi Editore, Città di Castello 1993). Dello stesso parere è Gian Paolo Salvini il quale riflette sul fatto che “oggi i giovani si confrontano con una cultura tecnologica o tecnocratica, anonima e potente, che produce mezzi affascinanti ma non dà scopi, offre una serie infinita di possibilità ma non dà criteri sensati di scelta. Si ha perciò l’impressione che l’educazione serva soprattutto ad insegnare come adattarsi al nostro mondo attuale per usare meglio le opportunità, anziché dare forma a un soggetto che sia autenticamente umano” (Salvini 2010). Il paradigma o la metacategoria del tecnicismo, infatti, sminuisce e frammenta quell’agire che ha come finalità l’acquisizione di un proprio senso a connotazione assiologica. Al fine di contrastare tale pericolosa tendenza non bastano tecniche e strumenti, pur sempre più sofisticati ed efficienti, ma occorre “sensibilità di senso” capace di destare ogni persona dallo stato di torpore in cui si trova. Il paradigma cartesiano ha separato l’uomo dal resto, dimenticando quella dimensione umana che è essenziale per una formazione completa. Il paradigma sistemico mira a ricostruire le fratture generate, proiettando l’uomo nella sua interazione con la natura. Alcuni pedagogisti sono convinti che l’olismo si trovi all’interno delle correnti contro-culturali della stessa post-modernità, anche se continuano affermando che la visione della cultura postmoderna dimentica che affonda le sue radici nella 37
saggezza spirituale ed ecologica. Se oggigiorno ogni soggetto tende in modo spasmodico al raggiungimento del “sogno obbligato”di essere consumatori compulsivi adeguati alla società moderna, allora il “sogno umano” non sarà più quello di dedicare tempo alla riflessione e alla cura dell’Io interiore, unica via per padroneggiare “l’arte della vita” (Bauman 2008). Tutto ciò si riflette in una serie di ripercussioni che con il passare del tempo si acutizzano e si trasmettono di generazione in generazione, amplificandosi e rendendosi via via sempre più croniche e pericolose. Occorre quindi sovvertire questa pericolosa tendenza che altera la vera natura dell’uomo e della sua immanente trascendenza. In un recente saggio, lo stesso Bauman afferma che “l’homo sapiens si distingue dal resto della creazione animale per il fatto di essere sotto-definito e sotto-determinato; è perciò condannato alla trascendenza, a sfidare lo status quo, a raggiungere ciò che sta oltre e al di sopra” (Bauman Z., Conversazioni sull’educazione, Erickson, Trento 2012, p. 34). Secondo il noto sociologo americano esistono due ragioni fondamentali perché, oggi più che mai, si necessita di una rivoluzione culturale: - “strip-tease amotivo”; - svalutazione della scuola. Occorrono strumenti che ci proteggano da quello che Hylland definisce come “una messa eccessiva di informazioni” (Hylland E., Tyranny of the moment, Erikson, Trento 2001), attraverso l’abilità cruciale di “proteggersi”. Appare un imperativo quello di contrastare l’ “assurda brevità di qualunque impresa umana e della superficialità delle sue tracce” (Bauman 2012), ritrovando l’importanza delle imprese umane e la longevità delle loro opere. 38
Molti studiosi vedono questa critica come una rivoluzione intellettuale e concettuale nel pensiero occidentale: il postmoderno comprende visioni decostruttive, mentre l’olismo richiede una visione costruttiva. Marshak (Marshak D., The common vision, Peter Lang Publishing, New York 1998) rivela che la fine del XX secolo è caratterizzata da un paradosso: mai prima d’ora la capacità umana era stata così potente, produttiva e diversificata, ma mai prima d’ora era stata così pericolosa, materializzata ed in deficit di significati. 2.3 Società edonistica ed olismo etico In ogni società moderna, in modo particolare nei paesi industrializzati, le persone godono di un alto livello di abbondanza materiale, che, di contrappasso, spesso genera una estrema povertà spirituale. Molte ricerche evidenziano, infatti, che maggiore sembra essere l’agiatezza edonista individuale e comunitaria, tanto minore appare essere il valore dato all’etica e alla morale. Non è ben chiaro quale sia il meccanismo psicologico che rilevi un simile allontanamento, certo è che l’intensità del paradosso in cui viviamo si evince allorquando la ricchezza e complessità sfocia nella povertà di relazioni umane e della tendenza dell’uomo al nichilismo. Nel “villaggio globale” più ci sforziamo di dare un senso a queste contraddizioni, tanto maggiore sarà la difficoltà nel cogliere efficacemente la nostra condizione umana. Una soluzione che possiamo avanzare assieme a molti pensatori è quella di investire maggiormente nell’educazione, nella formazione e nell’istruzione, quali uniche fonti certe di uno sviluppo armonico ed euritmico. Appare quanto mai paradossale il fatto che se da un lato la nostra conoscenza di tecniche e di strumenti è sempre più so39
fisticata, dall’altro lato questa stessa evoluzione ha reso il mondo maggiormente pericoloso per la vita e la sua sopravvivenza ed ha indebolito la nostra comprensione globale. Non bisogna dimenticare che l’esistenza umana è cullata nel grembo della natura e dipende dalle connessioni intricate, spesso inconsapevoli e irrazionali, con il mondo naturale. “Il rispetto per l’ambiente, la salvaguardia dell’ecosistema, la tutela della flora e della fauna mondiale si relazionano in maniera indissolubile con una socialità intelligente e pro-naturalistica. Anche tale intelligenza, comunque, si nutre di motivazioni generate da un sentimento di rispetto e cura dell’ambiente in cui viviamo” (Mancini R., Segmenti sulla pedagogia della cultura, Margiacchi-Galeno, Perugia 2012). A differenza del resto del regno animale, infatti, gli esseri umani possiedono il potere di riflettere ed osservare se stessi per poter modificare o adattare i propri apprendimenti all’ambiente circostante. Questo incontro/scontro con il mondo si chiama esperienza, una logica d’insieme che lo stesso Goleman identifica con il termine “intelligenza ecologica” (Goleman D., Intelligenza ecologica, Milano, Rizzoli, 2009). Una intelligenza che completa e definisce la trilogia iniziata dieci anni prima e che richiama la necessità di essere educata al fine di fronteggiare quel “deficit evolutivo” che attanaglia tutte le società moderne. 2.4 Quale olismo? Anche se solo di recente nella cultura occidentale l’educazione olistica si è posta a fondamento dei principi educativi e pedagogici, essa, oltre a rappresentarsi come semplice alternativa all’atomismo filosofico, si è diversificata a seconda degli orientamenti storico-culturali di appartenenza. Così presa nel suo senso più generale, l’educazione olistica si è caratterizzata di cromature del tutto specifiche e contestuali 40
che hanno portato Rafael Yus Ramos (Ramos Y. R., Educaciòn integral. Una educaciòn holistica para el siglo XXI, Desclée De Brouwer, Bilbao 2001, p. 43) a distinguerne quindici tipologie: 1. Olismo orientale: l’olismo è così radicato all’interno della cultura orientale che possiamo affermare rappresenti il primo paradigma sociale, basti pensare al principio d’eccellenza e perfezione giapponese. Secondo il costume giapponese, infatti, l’educazione, la formazione e l’istruzione sono “poca cosa nei confronti di ciò che può solo valere come un fine. La relazione che interessa veramente un giapponese non è quella del professore che resta nei ricordi. Non quella dell’artigiano che fa bei capolavori. E neanche quella dell’istitutore simbolo del giusto. Ma quella del maestro di vita” (Gatty J., finalità dell’educazione. Educazione e libertà, Anicia, Roma 2010). In tale modo la ricerca della completezza del sé trae la sua origine dall’armonia delle cose e dalla loro indiscutibile relazione. M. Shibata condensa questa idea asserendo che: “siate filiali con i con i vostri genitori e affezionati alle vostre sorelle e ai vostri fratelli; siate armoniosi nelle relazioni tra marito e moglie, come tra veri amici. Esercitate la modestia e la moderazione; estendente a tutti la vostra benevolenza. Inseguite il sapere e coltivate le arti e, attraverso ciò, sviluppate al meglio le vostre facoltà mentali e forgiate una morale incrollabile. Promuovete, inoltre, il bene comune e gli interessi collettivi” (Schibata M., Japan and Germany under the U.S. occupation. A comparative analusis of post war wducation reform, Lexington Book, New York 1961). All’interno della cultura orientale, infatti, molti pedagogisti hanno proposto una visione integrale dell’umanità e della natura. Tra questi si segnalala figura di Krishnamurti, Maestro spirituale, le cui lezioni ed insegnamenti di vita vengono tutt’ora tradotti in molte lingue. Una trasforma41
zione di prospettiva che Maritain rileva non solo nella “instaurazione di nuove strutture sociali e di un nuovo regime di vita sociale che succeda al capitalismo, ma anche un risalire di forze di fede (nell’uomo), dell’intelligenza e d’amore scaturite dalle fonti interiori dell’animo, un progresso nella scoperta del mondo delle realtà spirituali. Solo a queste condizioni, l’uomo potrà veramente entrare più avanti nelle profondità della sua natura, senza mutilarla né sfigurarla” (Maritain J., Umanesimo integrale. Problemi temporali e spirituali di una nuova Cristinità, Borla, Roma 2002, p. 132). A tal proposito Aurobindo, uno dei più influenti mistici moderni indiano, convalida l’esigenza di una formazione completa ed integrale. Per il noto Maestro l’uomo è espressione di un insieme, un tutto, immensamente complesso. Lo scopo dell’educazione è quello di aiutare la persona a sviluppare se stessa e il suo spirito attraverso l’armonizzazione del singolo, della comunità e dell’essere fisico. Così, l’essere fisico è un potente”maestro interiore”, concezione che fa il paio con la tradizione olistica occidentale risalente alla Montessori ed a Steiner. Infatti, essi considerano ogni bambino come un enorme potenziale da esercitare e formare per mezzo della corporeità. Questo“maestro interiore” spinge all’esplorazione, alla curiosità, alla creatività ed alla cultura. La soppressione di questo slancio umano rappresenta una delle principali cause dei vari fallimenti sociali moderni. Un apporto molto significativo a tale visione è dato dall’induismo. È impossibile negare che la religione induista ha avuto una notevole influenza sulla meditazione del pensiero integrale, così come il Buddismo, rappresentato dal Dalai Lama, ha svolto un ruolo centrale nella teoresi e nella percezione di una persona in grado di evolversi e maturare 42
in modo armonioso ed equilibrato. Entrambe le confessioni sottolineano il fatto che affinché si realizzi la maturazione umana occorrono diversi elementi, tra cui l’etica, l’apertura verso gli altri ed una società fondata sulla pace ed il benessere interiore. Lo scopo della vita, secondo il Dalai Lama, è la felicità, ed il modo più facile per raggiungere questo stato umano è quello di aprire la mente nel comprendere l’importanza delle nostre potenzialità interiori. 2. Olismo nella cultura ellenica: le reminiscenze della dottrina socratica e l’approccio al “conosci te stesso” possono essere percepiti quale uno dei primi orientamenti per la formazione olistica nella cultura occidentale. In tali idee il sé è non rimane imbrigliato nella logica utopistica della conoscenza assoluta dell’Io interiore, piuttosto si basa su cognizione che è possibile cogliere attraverso la scoperta, la contemplazione ed il dialogo interiore (dialogo Socrarico). Simile è l’idea platonica nella Repubblica, il quale suggerisce che l’educazione dovrebbe sviluppare le potenzialità dell’individuo, al di là del mondo materiale, e percepire il “reale” che è dentro le idee. In questa relazione persona-mondo ognuno deve correre il rischio di impegnarsi in un “dialogo” con il sé ed il mondo. Per S. Agostino, invece, l’educazione dovrebbe portare la persona all’interno della stessa “verità”, dentro il proprio essere immanente, in modo che sia possibile raggiungere uno sviluppo spirituale olistico. 3. L’olismo nel romanticismo: l’influenza dei pensatori romantici risiede nella trasformazione dei principi su cui educare. all’interno della corrente romantica certamente spicca il nome Rousseau, il quale ha sottolineato l’esigenza di una educazione fondata sul soggetto in apprendimento. Il pedagogista svizzero ha sviluppato una visione “romantica” 43
dell’educazione, secondo la quale la “buona anima” doveva essere protetta con naturalezza dalla civiltà e dalle convenzioni sociali che imperavano in quel periodo. Inoltre, lo stesso pedagogista francese raccomanda la necessità di evitare una formazione quantitativamente diretta ed impartita, a favore di una esperienza, a volte indiretta, della natura. Infatti Rousseau celebra una “educazione secondo natura”, in contrasto con quella oppressiva derivante da una società lentamente in declino e corrotta nei suoi ideali, donando agli ideali di libertà, di sviluppo delle facoltà del bambino attraverso un contatto diretto con la natura una connotazione primaria: tutto ciò che è naturale è buono All’interno dell’olismo romantico possiamo far rientrare anche le riflessioni espresse da Decroly , il quale riconosce l’importanza di un “globalismo conoscitivo”, quale conoscenza non analitica e proveniente dall’osservazione, dall’associazione e dall’espressione. Un “insegnamento di cose e non sulle cose” (definizione data già da Rousseau), dichiara lo psicologo e pedagogista belga, attraverso un metodo individualizzato che proceda dal complesso al semplice, in quanto una cosa semplice ed astratta risulta più difficile da capire che una cosa complessa, ma concreta. Lo svizzero Pestalozzi ideò un metodo di lavoro basato sullo sviluppo e non sulla esposizione dogmatica dei saperi. Il suo metodo si basava sul rispettare l’individualità e sull’armonia delle relazioni che si instaurano nel processo educativo. Un’idea di persona vista nella sua unicità e irripetibilità, nella sua libertà espressiva e continuità evolutiva, nonché possessore di profonde potenzialità da far esprimere in autonomia e indipendenza. Concorde ai principi romantici Froebel, influenzato da Rousseau e Pestalozzi, diede particolare rilevanza al gioco come fattore decisivo nello sviluppo. Attraverso l’aspetto 44
ludico, infatti, il bambino potenzia ed accresce la sua “bontà” intrinseca. Più tardi, lo scrittore russo Lev Tolstoj (1828-1910) indica che la via maestra per lo sviluppo umano risieda nella libertà di azione e nella volontà di agire. L’educazione, egli afferma, è una azione costrittiva che una “persona esercita su un’altra allo scopo di formare il tipo di uomo che ritiene buono, mentre la cultura è il libero rapporto fra gli uomini”. In tale circostanza Tolstoj allude ad un rapporto educativo comprovato dalla volontà di donare e ricevere conoscenza. Sotto tali termini il gioco rappresenta una delle proposte più coerenti per aiutare il soggetto, in particolare nelle prima fasi di vita, nel suo sviluppo e maturazione. 4. L’olismo dei trascendentalisti: al centro del movimento trascendentalista risiede l’individualità e lo sviluppo spirituale della persona. Un movimento che esalta il compimento dello spirito e dell’energia interiore. Vari sono stati i contributi che possiamo annoverare all’interno della corrente dell’olismo trascendentalista, tra cui si disgiungono Channing ed il suo concetto di poteri soggettivi e spirituali e Ralph Waldo Emerson che assorbendo le influenze di Channing assegna a quei poteri l’impossibilità di una conoscenza diretta. 5. L’olismo della psicologia transpersonale: di grande importanza per il curriculum olistico è il contributo offerto dalla psicologia umanistica nella comprensione della complessità della mente umana. In particolare, grazie agli studi e convinzioni di Jung è stato possibile una visione transpersonale del sé identificabile come “anima”. Poco più tardi Maslow propose la sua teoria di “auto-realizzazione”, secondo la quale gli esseri umani tendono ad auto-realizzarsi dopo aver soddisfatto i bisogni primari. Per lo psicologo statunitense, infatti, la capacità di motivare ogni soggetto 45
risiede nella definizione stessa di motivazione, quale “carenza di un ‘oggetto’ desiderato, talchè la persona orienta il suo comportamento per raggiungerlo o per soddisfare il relativo bisogno”. Così articola i bisogni in cinque tipologie universali (sicurezza, appartenenze, stima-status, autorealizzazione, fisiologici) disposte in gerarchia, o a piramide. Soppressi i meccanismi di difesa, l’uomo non tende all’auto-distruzione, bensì ad una nuova espressione creativa che si riflette nelle esperienze della vita, come d’altronde già ipotizzato da Rousseau. All’interno del panorama transpersonale è doveroso ricordare, inoltre, i contributi dell’italiano Assagioli e Wilber nel promuovere una teoria generale della coscienza. Già nel secolo scorso, infatti, la meccanica quantistica ha reso obsoleta l’idea che il mondo sia indipendente dalla nostra mente. Eppure solo negli ultimi anni la scienza sta comprendendo realmente in che modo siamo connessi a “tutto”. Il fisico quantistico John Hagelin, un pioniere della cosiddetta “Teoria del Campo Unificato” o “coscienza collettiva”, spiega: “I progressi nella fisica teorica negli ultimi 25 anni ci hanno progressivamente portato ad una comprensione più unificata delle leggi di natura, che è culminata nella recente scoperta delle teorie del campo unificato, basate sulla teoria della superstringa. Queste teorie localizzano un campo singolo e unificato alla base di tutte le forme e i fenomeni nell’universo. [...] Ciò che abbiamo scoperto è che alla base dell’universo c’è un campo universale, dove tutte le forze e particelle della natura sono unite. Esse sono onde di un singolo oceano di esistenza” (Cognitive Processing, 2010). 6. L’olismo della scienza olistica: il contributo dato dall’olismo nel campo della scienza, in particolare dalla fisica moder46
na, costituisce un considerevole campo di investigazione. Si è ampiamente riflettuto su tali argomentazioni, anche se possono essere avanzate ulteriori precisazioni. Nello sviluppo dell’olismo della scienza ha influito notevolmente la messa in discussione della teoria atomistica e lo stabilire nuove ipotesi sulla connettività di tutti gli esseri dell’universo. Molte sono le teorie che si accodano a tali principi tra cui troviamo quella dell’ordine implicito espressa da Bohm, delle strutture dissipative elaborata da Prigogine o di risonanza morfica enunciata da Sheldrake. Menzione a parte spetta alle idee prodotte da Gregory Bateson, il quale propone un approccio globale-olistico alle scienze della vita attraverso un modello di strutture di ordine superiore che collegano tutte le strutture dell’universo. Per Bateson mente, intelligenza e coscienza si intrecciano nel tessuto dell’universo. 7. L’olismo di educazione libertaria: l’educazione libertaria o di “cambiamento sociale” sostiene che le scuole possiedono un ruolo fondamentale nel cambiamento sociale. All’interno di tale modello ogni educatore dovrebbe far sviluppare le facoltà critiche e di analisi dei loro discenti attraverso le attività di: indagine, ricerca, esperienza e letteratura fantastica. L’educazione in tal senso assume una finalità di far raggiungere una pace giusta, solidale e fraterna. Per facilitare tali premesse occorre che la scuola favorisca l’autonomia e la libera attività di indagine degli studenti, al fine di rendere ogni donna ed ogni uomo responsabilmente consapevole ed in grado di determinare la propria volontà ed il proprio giudizio. 8. L’olismo nel movimento popolare della scuola: Anche se con le dovute distinzioni, all’interno di questo olismo è possibile convalidare le idee elaborate del francese Freinet. Secondo il noto pedagogista d’oltralpe ogni azione educativa 47
converge in una pedagogia attiva racchiuso nel Movimento di cooperazione educativa. Freinet è considerato la massima figura rappresentativa della “Scuola attiva” francese, a tal punto da portare Mencarelli a riferire su Celestin Freinet in questi termini: “la didattica del maestro francese si ispira ad un criterio che dovrebbe caratterizzare l’esprit experimental degli insegnanti i quali non tengono conto che non esistono certezze assolute e soluzioni prefabbricate e scontate che pure vengono proposte agli scolari. L’alunno così, avrà la facoltà di scoprire da sé in una scuola attiva e aperta alla collaborazione (movimento di cooperazione educativa) quali elementi di produzione”. “Il bambino svilupperà al massimo la propria personalità solo in seno ad una comunità razionale che egli serve e che serve a lui. Realizzerà il suo destino, innalzandosi alla dignità e alla potenzialità dell’uomo, che si prepara così a lavorare efficientemente, quando sarà adulto, lontano dalle menzogne interessate, per realizzare una società armoniosa e giusta” (Freinet C, La nascita di una pedagogia popolare, La Nuova Italia, Firenze 1955). Il suo orientamento pedagogico è certamente “puerocentrico” che si convalida nel sostenere la libera espressione delle potenzialità individuali. È proprio su tali assunti che il Freinet si avvicina ai principi olistici. Il bambino, così come l’adulto, osserva ancora Freinet, è espressione di un“insieme sociale” dove ogni soggetto deve essere inserito in modo attivo e cooperativo. 9. L’olismo del Waldorf education: un punto di riferimento costante del movimento olistico è rappresentato dall’intera tradizione pedagogica derivante dal pensiero di Rudolf Steiner. Il pedagogista austriaco, nonché prolifico e versatile filosofo esoterico, fondò una scuola basata sui principi olistici provenienti da ciò che egli chiama“l’antroposofia”. La valenza di tale movimento è ancora attuale, basti pen48
sare che oggi sono attive circa 750 scuole ispirate al suo credo pedagogico. Praticante di metodi poco ortodossi per la scienza empirica, Steiner era considerato un vero e proprio visionario, un mistico che era convinto della realtà spirituale e trascendente che troviamo, se non sviluppata,”nascosta” all’interno di ognuno di noi. La profondità antroposofica insegna che la vita interiore dell’uomo contiene le verità più profonde dell’esistenza stessa (che Steiner chiama “anima”). Ogni persona deve sviluppare la propria sensibilità spirituale in modo tale da acquisire la conoscenza del mondo in armonia con il proprio sviluppo. Come altri pensatori olistici, Steiner era persuaso dall’idea che lo sviluppo umano consiste in una visualizzazione interiore del mondo grazie ad un”forza vitale”. Steiner vede la natura umana come un insieme di corpi (la materia e le forze vitali), anime (vita interiore) e spiriti (essere ultimo), ed insistite sul fatto che ciascuno di questi livelli sia indiscutibilmente interconnesso agli altri. La Waldorf education si basa su questa concezione dello sviluppo umano: un processo di crescita personale, di bisogni formativi profondi nel loro maturare sociale. 10. Il movimento olistico nel pensiero montessoriano: all’interno delle riflessioni olistiche splendono le idee espresse dall’italiana Maria Montessori, la cui autorevolezza scientifica ha resistito fino ad oggi con ben 6.400 scuole sparse in tutto il mondo (dati forniti dall’American Montessori Society). Per la sua formazione scientifica, la Montessori si è confrontata con la retorica e speculazione pedagogica, in particolare, anticipando Piaget, nell’esistenza di una serie di fasi di sviluppo della persona. La Montessori incentra il suo metodo, descritto come “metodo montessori”, nella individualizzazione del processo educativo. Tale metodo stimola l’attività sensoriale-intellettuale e promuove il 49
coordinamento e l’autocontrollo nel libero ed armonico sviluppo. Il metodo espresso dal primo medico donna in Italia si concentra sulla promozione dei sensi, ritenuti la porta dell’anima. Così l’educazione sensoriale diventa fondamentale non solo per una corretta educazione, ma anche per un proficuo apprendimento. Lo spirito del bambino diventa cardine del processo educativo e l’infanzia fucina delle predisposizioni e potenzialità da far esprimere. Quando parlo di educazione, riflette la Montessori, “mi riferisco a qualsiasi forma di trattamento; cioè non intendo di distinguere l’amorevolezza o la crudezza di trattare il bambino, perché simili distinzioni sono tutte racchiuse nel termine educazione. Il mio concetto è assai più semplice che lo sforzo enorme di paragonare tra loro i metodi, i loro principi filosofici, e le loro arti pratiche. Intendo invece prescindere da tutto ciò semplificando in tal modo assai la questione e di collocare nel centro, così puro e semplice come si trova in se stesso, il bambino”. La sua teorizzazione, dunque, parte dall’assunto che i bambini cercano spontaneamente di crescere, conoscere ed imparare, perché questa è la natura dell’uomo stesso. La pedagogista, infatti, asserisce che “il primo istinto del bambino è di agire da solo, senza l’aiuto altrui, ed il suo primo atto d’indipendenza è di difendersi da coloro che cercano di aiutarlo”. L’insegnante deve solamente seguire e facilitare questo processo, in quanto la direzione della vita è contenuta nell’anima di ognuno. Il compito dell’educatore, quindi, non è quello di istruire, ma di fornire un ambiente di apprendimento adeguato alle esigenze del bambino. 11. L’Olismo dell’educazione progressiva: se le radici del movimento olistico hanno sottolineato l’importanza del soggetto in apprendimento, il pensiero dell’americano John Dewey ha certamente avuto il merito di richiamare l’at50
tenzione circa la dimensione sociale della persona. Il sociologo americano, infatti, ritene che l’essere umano sia un “animale” che ha solo bisogno di imparare attraverso l’esperienza diretta con il mondo che lo circonda. Sotto tale ottica l’esperienza diviene ciò che rende gli esseri umani in grado di creare un significato individuale e collettivo dei simboli della cultura. Non a caso l’intelligenza umana è sempre sociale, tanto che il suo continuo sviluppo si realizza nelle interazioni con l’alterità e con l’ambiente. Un elemento chiave nel pensiero di Dewey è, appunto, il sostegno ad una prospettiva democratica dell’educazione. L’uomo “è un essere attivo che interviene nel corso dei fenomeni”, dichiara il filantropo americano, ed in quanto tali il soggetto cerca di modificarli a suo vantaggio. Per Dewey, la democrazia è un modo di vita e non un regime politico. Solo un corretto senso educativo ed una architettura scolastica pertinente possono costruire la democrazia. Così la finalità dell’educazione diventa sociale e di sostegno ad una democrazia basata sull’imparare facendo. L’uomo “è un essere attivo che interviene nel corso dei fenomeni” e cerca di modificarli a suo pro, andava asserendo Dewey. La propensione all’aspetto pragmatico e di attività nella maturazione individuale si riscontra anche nel pensiero stesso, il quale assolve un di ruolo di adattatore dell’azione ed espressione della spiritualità umana. Ecco, allora, che l’educazione perviene per mezzo di una molteplicità di occasioni e progetti, una sfida continua verso la realizzazione dell’esistenza singolare e collettiva che si compie attraverso le interconnessi con l’ambiente e con gli altri. 12. L’olismo nell’Istituto gratuito della Pubblica Istruzione: fondatore dell’Itituciòn Libre de Eseňanza, il filosofo e pedagogista Giner de los Rìos risulta essere una delle figure di riferimento del rinnovamento spagnolo avvenuto sul finire 51
del XIX secolo. Riprendendo a più mani le riflessioni degli educatori romantici, in particolare quelle di Rousseau e Froebel, Ginerde los Rìos può essere considerato a tutti gli effetti un pedagogista olistico. Il suo pensiero, infatti, è permeato da una grande preoccupazione per l’educazione della persona e di tutte le sue sfaccettature, il cui fine dovrà tendere alla costruzione di un “uomo armonico”. L’Umanità, afferma Giner de los Rios, è chiamata a realizzare questa divina armonia, non solo in se stessa, ma in tutte le sfere dell’universo (Giner de los Rìos F., Obras completas, Espasa Calpe, Madrid 1916/1936). La prospettiva pedagogica proposta è certamente di conforme a quella”puerocentrica”, dove la coeducazione, la educazione morale e quella religiosa (laica) sono le uniche strade da poter percorrere per una corretta maturazione del sé e della comunità. Secondo tale modello, conforme a molti pedagogisti del suo tempo, la formazione globale della persona è, inoltre, coadiuvata dall’educazione fisica, quale momento di profonda relazione tra corpo e mente. 13. L’olismo nell’integrazione: L’integrazione ha una lunga tradizione letteraria in cui si muovono e si snodano idee e proposte volte ad affermare il carattere olistico e interrelato di tutti gli aspetti dell’educazione. L’olismo integrale pone enfasi sulla realtà come fonte di apprendimento e di interesse. Si deve riconoscere, però, che è al Dewey che si deve il maggiore passo in avanti nell’organizzazione e nel riconoscimento di questi principi. I processi di apprendimento che ruotano attorno alle aree di attività umana chiamate “occupazione” realizzano e favoriscono un collegamento tra la persona e il mondo. Per Rafael Yus Ramos all’interno del movimento possiamo collocare il progressista Kilpatrick, con il suo famoso “metodo del progetto”. Egli propone una azione educativa espressa come una serie di apprendi52
menti sociali ed etici. Tale metodologia prevede di collegare tutte le conoscenze su un dato problema per favorire la risoluzione. Fondamentale diviene così il contributo di Decroly al pensiero olistico. Il noto psicologo e pedagogista belga, ispirato dalla teoria della Gestalt, è stato decisivo nel mostrare la percezione globale e sincretica della realtà umana, suggerendo metodi “globalizzati” ed organizzati intorno a “centri di interesse”. Dato che la scuola deve preparare il fanciullo alla vita, il neuropsichiatra belga propone una educazione su cosa sia la vita stessa; “la scuola per la vita attraverso la vita”, amava riferire. Poiché la vita implica due elementi essenziali e cioè l’uomo e l’ambiente, lo studio può e deve orientarsi verso tali cause e conseguenze - attività dell’individuo e attività della specie-, cercandone le relazioni e le attinenze. Per tali ragioni il metodo proposto da Decroly si basa sulla soddisfazione e piacere nell’impegnarsi a fare e nella gioia della scoperta quotidiana. Il massimo scopo è rappresentato dallo stupirsi nel formasi, dal meravigliarsi nell’evolvere, dal sorprendersi nel maturare. La psicologia cognitiva, infatti, ha sottolineato l’importanza dell’integrazione delle discipline accademiche, anche se oggi questo orientamento è rispettato solo nelle prime fasi di scolarizzazione. In effetti, gli approcci educativi curriculari tendono ad essere, per loro natura, olistici ed interdisciplinari. 14. L’olismo nel movimento di educazione globale: A noi pare, afferma Rosati, che “si possa giustificare preliminarmente l’assunzione di un termine aggettivale derivato dal sostantivo che, nello specifico, può apparire improprio: è l’aggettivo che accompagna l’educazione. Difatti se riferito all’educazione, la stessa non può che intendersi globalizzata, ossia generalizzata, se d’altra parte non è sostenibile un’educazione che sia, comunque, circoscrivibile ad un realtà 53
data” (Rosati L., Le sfide del cambiamento, Morlacchi editore, Perugia 2005, p. 111). Il movimento globale emerge in queste poche righe, accanto ai processi di globalizzazione che si stanno sempre più acutizzando in questo periodo e che trovano riscontro nella metafora del “villaggio globale” manifestata da McLuhan (McLuhan M., The Global Villag, University Press, Oxford 1989). La coesistenza di culture diverse in un dato territorio hanno incrementato il contatto tra diverse culture, tanto da portare ad affermare molti pedagogisti che tale processo dovrebbe essere introdotto come materia di studio all’interno dei contesti scolastici esprimibili per mezzo di una educazione alla pace, una educazione interculturale, una educazione allo sviluppo, una educazione ai diritti umani, una educazione ambientale, una educazione morale ed una educazione all’individualità. La fusione dell’aspetto mondiale con quello olistico della persona, sollecita autori come Pike e Selby, riflette Rafael You Ramos, i quali si auspicano un movimento di educazione globale. Tuttavia deve essere ricordato che questo programma è stato aspramente criticato in quanto si presenta come “ricco nei processi e povero di contenuti”. L’indiscutibile importanza che assume tale riflessione nella generazione di una società che si possa definire moderna “ruota attorno alla presa di coscienza di un’identità sociale plurale, di una fusione o interdipendenza del soggetto alla cultura, ma soprattutto la necessità di stabilire un contatto tra globalismo e glocalismo. [...] La continua scoperta dell’altro e la costante tensione propositiva nella ricerca di obiettivi comuni offre tanto alla società, quanto al singolo soggetto, la possibilità di generare una democrazia che possieda in sé il potere generativo della persona” (Mancini R., Segmenti sulla pedagogia delle cultura, Margiacchi, Perugia 2012, pp. 20-21). L’educazione globale, che nel nostro paese 54
appare come un’alternativa ad una visione parcellizzata dei curricula, fornisce una dimensione sociale agli approcci educativi, poiché le loro radici sono principalmente incentrati sull’individuo, la persona e la comunità. L’educazione globale è dunque principio olistico ed è volta a sostenere la necessità sia di un viaggio interiore, per raggiungere il sé transpersonale, ma anche di un percorso comunitario che deriva dalla convinzione che la persona è un elemento nella complessità del cosmo. 15. Il Movimento di educazione olistica: come si è potuta notare l’educazione olistica è un insieme di proposte molto diverse tra loro, potremmo dire “necessariamente diverse”, tale da poter far sembrare alcuni punti in contraddizione con altri. Tuttavia, ogni prospettiva possiede caratteristiche comuni, come l’enfasi prestata alla totalità dell’esperienza umana, al significato e valore della democrazia e l’interesse che reclama incessantemente la natura umana. Il movimento di educazione olistica oggi ha bisogno di una caratterizzazione teorica su cui sia impossibile costruire un modello empirico capace di rispondere in modo pertinente alle sollecitazioni sociali. A questo proposito, Rafae Yus Ramos, riferisce il documento “Education 2000: una prospettiva olistica” elaborato dalla Global Alliance for Transforming Education (GATE) durante il VIII Congresso Internazionale degli educatori olistici tenutosi a Chicago nel 1990. Tale carta rappresenta il tentativo di unire la radice romantica del pensiero olistico con le problematiche della società moderna. Riportiamo di seguito un passo significativo di tale documento: “Crediamo che i gravi problemi che affliggono sistemi educativi moderni riflettono una crisi più profonda nella nostra cultura: l’incapacità della predominante visione industriali / tecnologica nell’affrontare, in maniera umana e di affermazione della vita, le sfide 55
sociali e planetarie che abbiamo di fronte oggi. Siamo convinti che i nostri valori culturali dominanti, con particolare accento sulla cooperazione in materia di concorrenza, il consumo insostenibile delle risorse e la burocrazia siano stati distruttivi per la salute dell’ecosistema e per lo sviluppo umano. Se esaminiamo questa cultura-in-crisi, vediamo anche che i nostri sistemi di istruzione sono anacronistici e disfunzionali. In netto contrasto con l’uso convenzionale della parola educazione. Per questo crediamo che la nostra cultura debba ripristinare il significato originario del termine, che maieuticamente di “tirar fuori”.In questo contesto, l’istruzione significa tirar fuori la grandezza che è dentro ogni persona. Lo scopo di questa dichiarazione è di proclamare una visione alternativa di educazione. Si tratta di una prospettiva verso la quale gli educatori possono sforzarsi in modi diversi. La visione supera le nostre differenze e punti noi in una direzione che offra una risoluzione umana della crisi dell’educazione moderna. Noi affermiamo che il primario - anzi fondamentale - scopo dell’educazione sia quello di nutrire le possibilità intrinseche dello sviluppo umano. L’apprendimento deve coinvolgere l’arricchimento e l’approfondimento delle relazioni con il sé, con i membri della famiglia e della comunità. [...] Chiediamo un nuovo riconoscimento dei valori umani che sono stati erosi nella cultura moderna - armonia, pace, cooperazione, comunità, l’onestà, la giustizia, l’uguaglianza, la compassione, la comprensione e l’amore. [...] Dobbiamo nutrire sani esseri umani al fine di avere una società sana e una sana economia. Solo le persone che vivono in pienezza una vita sana e significative possono essere veramente produttive. Chiediamo un maggiore equilibrio tra le esigenze della vita economica e questi ideali umani che trascendono l’economia e che sono necessarie per l’azione responsabi56
le. [...] Chiediamo una totalità nel processo educativo e la trasformazione delle istituzioni educative e delle politiche necessarie per raggiungere questo obiettivo. Non solo gli aspetti intellettuali e professionali di sviluppo umano, ma anche i fisici, sociali, morali, estetiche, creative, e spirituali. Necessitano di orientamento e di nutrimento quell’educazione olistica prende in considerazione il mistero della vita e dell’universo, oltre alla realtà esperienziale. [...] L’olismo corregge lo squilibrio di approcci riduttivi attraverso la sua enfasi su una concezione allargata della scienza e della possibilità umana ed ha implicazioni significative nei contesti dell’ecologia planetaria. [...]Chiediamo che le opportunità per una vera scelta educative siano presenti in ogni fase del processo di apprendimento. La formazione può avvenire solo in un clima di libertà: di ricerca, di espressione e di crescita personale.[...]Chiediamo un modello realmente democratico di formazione per potenziare tutti i cittadini a partecipare in modo significativo nella vita della comunità. La costruzione di una società veramente democratica significa molto di più che permettere alle persone di votare per i loro capi. Significa responsabilizzazione dei singoli per prendere parte attiva negli affari della comunità. Una società veramente democratica è più che la “regola della maggioranza”, si tratta di una comunità in cui si sentono le voci più disparate e originali. Si tratta di una società aperta al cambiamento costruttivo in cui il cambiamento sociale o culturale è necessaria. [...] Noi crediamo che l’educazione deve scaturire organicamente da un profondo rispetto per la vita in tutte le sue forme. Dobbiamo riaccendere un rapporto tra l’uomo e il mondo naturale che nutre e non di sfruttamento. [...] Noi crediamo che tutte le persone sono esseri spirituali che esprimono la loro individualità attraverso i loro talenti, le capacità, l’intuizione e l’intelligenza. 57
Proprio come l’individuo sviluppa fisicamente, emotivamente e intellettualmente, ogni persona si sviluppa anche spiritualmente” (Education 2000: a holistic perspective). Dello stesso parere sono le riflessione espresse da Zygmunt Bauman, che a tale proposito, scrive: “l’ attuale crisi pedagogica è prima di tutto una crisi delle istituzioni e delle filosofie ereditate. Nate in funzione di una differente specie di realtà, esse trovano sempre più difficile assorbire, inglobare e contenere i cambiamenti senza una completa revisione delle cornici concettuali che impiegano, e tale revisione, come ci insegna Thomas Kuhn, è la più sconvolgente e mortale delle sfide che il pensiero può trovarsi ad affrontare” (Bauman Z., La società individualizzata, Il Mulino, Bologna 2002).
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Cap. 3 Congetture olistiche e tendenze L’esame dei fondamenti filosofici, psicologici e sociologici dell’educazione olistica possono essere considerati coerenti e paralleli con quelli articolati nella letteratura pedagogica. Al di fuori delle specifiche esamine dei vari Maestri è possibile scorgere alcuni punti nodali nel panorama epistemologico della pedagogia, i quali sembrano essere chiavi di lettura per ogni processo educativo e formativo. Delle categorie, quindi, che rappresentano la base per ogni trattazione olistica e non. In un mondo ricco di dicotomie sviluppate da una visione segmentata del mondo, l’equilibrio rappresenta uno dei principali obiettivi dell’educazione olistica. Aiutare e sciogliere tali segmentazioni può essere considerata la via maestra per riuscire a trovare armonia tra individuo e gruppo, contenuto e processo, ragione ed emozioni, corpo e mente. Di qui una valutazione olistica, la quale cerca di tenere conto di una visione complessiva del processo di apprendimento comprendendo, per quanto possibile, tutti gli elementi e le variabili. In maniera sintetica, può essere definito il nostro modello delle 4C: Conoscenza, quale patrimonio soggettivo di informazioni, Comprensione, identificata nel momento soggettivo della conoscenza, Comunicazione, istanza dialogica e Coscienza descritta da John Searle come stato di «sensibilità e consapevolezza» (Cfr. Mancini R. 2012). La tendenza a raggiungere questo equilibrio porta il dibattito a spostarsi ed orientarsi secondo il principio dell’inclusione. Non è possibile sostenere una educazione che abbia la tendenza a radicalizzare e cronicizzare le posizioni, piuttosto è opportuno che tutte le proposte e prospettive siano relazionate in maniera eclettica, come la naturale possibilità umana di 59
cambiare idea (Cfr. Goleman D., 2005). L’eterna querelle nella storia dell’educazione, infatti, è rappresentata tra le tendenze conservatrici, restie al cambiamento e consolidate nell’idea che esista un solo metodo di insegnamento efficace, sulla prospetettiva del discente, nel quale rientrano tutte quelle riflessioni che pongono il soggetto in apprendimento come nucleo fondante l’agire formativo, e quelle progressiste, volte alla trasformazione ed all’innovazione. Un dibattito che apre una prospettiva olistica capace non solo di riconciliare e colmare il divario tra posizioni apparentemente opposte, ma anche e soprattutto, per mostrare la necessità di modificare la diatriba degli “ismi” al fine di valorizzare uno sforzo congiunto da parte di tutti. Il curriculum olistico si scontra così con la frammentazione della società moderna creata dalla filosofia scientifica, la quale comporta un deficit nella crescita interiore e spirituale delle persone. Sul finire degli anni Settanta Schwam (Schwam J. J., Science, Curriculum and liberal education, University of Chicago press, Chicago 1978) offre un importante contributo a tale prospettiva. Il noto scienziato riferisce di un “arte eclettica” nell’avvicinarsi ad un problema, tale da proiettare la persona al “grande salto”, cioè il passaggio da una visione classificatoria/meccanicistica a quella di “interconnessione totale” degli elementi posti in essere. Per realizzare tale modello si rende necessario un continuum educativo capace di parlare con l’intera esperienza umana e dar credito all’infinità di modi in cui l’esperienza e l’apprendimento si palesano. Di qui l’indiscutibile valore di una prospettiva pedagogica richiamata nella sua aggettivazione antropologica. L’attenzione che gli ultimi studi in ambito educativo riservano nei confronti della persona e nelle sua infinite sfaccettature – Trabucchi P definisce la persona come un “diamante dalle mille sfaccettature” - dimostra che occorre un’antropologia pedagogica capa60
ce di connotare ed evidenziare la persona nella sua totalità. “È solo nella sintesi che avviene la piena comprensione e creazione, è solo attraverso lo sforzo e l’intuizione che si conquistano nuove frontiere ed orizzonti. Un dis-corso pedagogico, insomma, capace di far correre assieme una pluralità di elementi al fine di accreditare tutte le informazioni e potenzialità di quel diamante dalle mille sfaccettature rappresentante l’uomo” (Mancini R., Segmenti sulla pedagogia della cultura, Margiacchi-Galeno, Perugia 2012). Difatti, “un discorso educativo sulla persona umana tende a fare d’essa una realtà poliedrica e polifunzionale, in cui il gioco degli elementi culturali, psicologici, sociali e filosofici (e, aggiungiamo, neurologici) vengono armonizzati dalle energie latenti nel profondo di ciascuno, così da esprimersi in autonomia e libertà, in creatività e originalità, in pienezza fisica e mentale” (Rosati L., Le sfide del cambiamento, Morlacchi, Perugia 2005, p. 5). In questo modo, l’educazione olistica rappresenta una nuova proposta con cui è possibile collegare diversi discorsi attuali e futuri, fornendo sistemi e paradigmi capaci di riconoscere l’esperienza umana, porre l’umanità in un rapporto equilibrato con l’ambiente e le manifestazioni del cosmo ed incentivare quella “banca di valori” richiamata a gran voce da Agnese Rosati (Rosati A., 2006). 3.1 La conferma dei principi “originari” Il punto di partenza per caratterizzare ogni curriculum o teoria educativa è la concezione che si ha della funzione della scuola, soprattutto perché gran parte della educazione formale è svolta dalle istituzioni scolastiche. Se alla scuola è richiesta una “trasmissione” da una generazione all’altra delle conoscenze della cultura, allora questa trasmissione è da concepirsi secondo i canoni e i dettati della paideia, quale “atto 61
di accompagnare il bambino, dal cui etimo essa trae origine, alla costituzione di una adultità etico -conoscitiva autonoma. E quel tragitto ha termine quando il soggetto ha conosciuto e appreso il bello e il buono” (Mattei F., Sfibrata paideia. Bulimia della formazione Anoressia dell’educazione, Anicia, Roma 2009, p. 26). La paideia ha origine e si nutre da quella concezione classica che ha reso maestri nell’educere pensatori che hanno cercato di individuarne e tratteggiarne le peculiarità più ombreggianti. In tali termini per paideia è giusto intendere “la modalità complessiva della cultura formativa di una società in una determinata fase storica e il complesso delle strategie etiche, civili, tecniche, rituali, religiose, istruttive, addestrative rivolte alla continuità formativa tra le generazioni” (Acone G., Fondamenti di pedagogia generale, EdiSud, Salerno 2001, p. 105). Tuttavia, in un’epoca in cui la quantità di informazioni valide ed utilizzabili dal soggetto raddoppia ogni cinque anni, questa missione non è più concretamente sostenibile. Il cambiamento sociale è così veloce che è sempre più sfuggente, tale da costringere ogni soggetto a viaggiare a vista e creare il futuro nei meandri dell’incertezza. Questo disorientamento è sempre più acuto e va a scontrarsi con il fatto che oggi siamo sottoposti ad un continuo stress, nonché da veri e propri bombardamenti di informazioni. Di qui una funzione dell’educazione che risieda nel fornire gli strumenti adeguati che consentano di produrre riflessioni, conoscenze e competenze necessarie per creare consapevolezza. Ciò richiede che ognuno sia in grado di “imparare ciò di cui ha bisogno, quando ne ha bisogno”, cioè “imparare ad imparare”. Il primo passaggio verso la conoscenza, così, è offerto dal far proprie sia abilità (aspetti generali), sia saperi disciplinari (aspetti specifici) provocando una netta separazione del “sa62
per fare” da un “sapere puramente fattuale”. Forte è il richiamo ai principi su cui l’educazione descritti nel Rapporto all’UNESCO del 1997 elaborato da J. Delors. Per riuscire nei suoi compiti l’educazione deve essere organizzata attorno ai quattro pilastri dell’educazione: imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a vivere insieme, imparare ad essere; tradotti poi in un imparare ad imparare. “Tali prospettive implicano uno sviluppo orientativo che prepari la società e il cittadino del domani, favorendo il fatto che le potenzialità e le risorse soggettive non si esauriscano o vengano bruscamente interrotte alla conclusione del ciclo obbligatorio di studi. Ecco, allora, un’idea, quella di educazione permanente, che oltre ad agevolare la formazione di una cultura di base (l’istruzione), si incarica di produrre e promuovere conoscenza e cultura. Sono queste le regioni che spingono Bruno Rossi ad affermare che occorre orientare la persona verso una maggiore comprensione reciproca mediante l’accettazione delle differenze culturali, la creatività, un innalzamento culturale e ad un mirato sviluppo sostenibile, quali elementi che rappresentano il corollario del moderno concetto di educazione permanente” (Mancini R., Una cultura emergente L’educazione permanente. Genesi e sviluppo di un’idea, Aracne, Roma 2011). Ecco, allora, il bisogno di “apprendere ad apprendere” o “imparare ad imparare” che assieme all’imparare a conoscere, imparare a fare, imparare a vivere insieme, imparare ad essere formano i caratteri principali dell’educazione in una prospettiva di educazione permanente. La prospettiva olistica è radicata indiscutibilmente nell’epistemologia del “tutto”. Nel complesso il tutto è sempre maggiore, più composito, più integrato e più significativo rispetto alla somma delle parti. Questa è la forza e il pensiero sotteso che sta dietro l’evoluzione della vita, della civiltà e della coscienza 63
umana. I pensatori olistici non negano la scienza moderna e la tecnologia quali notevoli risultati raggiunti dall’umanità, e non sconfessano nemmeno che i molti aspetti della natura umana possano essere compresi in termini atomistici e meccanicistici. Piuttosto essi ritengono che la conoscenza olistica guadagni nella considerazione di una prospettiva globale capace di giungere a risultati più profondi e pertinenti alla natura umana. Il tecnicismo, “alimentato anche dal perfezionamento degli strumenti di lavoro, potrebbe prendere il sopravvento su ciò che conferisce all’humanitas il carattere di libertà ed autonomia e aiuta a riscoprire l’elemento di valore che rende feconda la pratica educativa, soprattutto oggi che da più parti è avvertita l’esigenza di umanizzare la tecnica e di recuperare la dimensione estetica dell’educazione” (Rosati L., Intersezioni. Pedagogia della scuola e didattica, Petruzzi Editore, Città di Castello 1993). Il paradigma o metacategoria del tecnicismo sminuisce e frammenta quel senso dell’agire che ha come finalità l’acquisizione di un proprio senso e della propria connotazione assiologica. Il vivere secondo tali prospettive, quelle appartenenti al tecnicismo, appare essere un vivere privo di senso, una sofferenza che si arresta solo nel momento in cui al soggetto sia data la possibilità di interagire con se stesso e la propria natura. Per far questo non bastano tecniche e strumenti, per quanto importanti, ma occorre “sensibilità di senso” capace di destare ogni persona da uno stato di torpore ormai entrato come sintomatologia predominante. L’avanzare tecnologico permette ed autorizza il soggetto a possedere strumenti sempre più specifici, efficienti e funzionali. Questi però non possiedono la valenza di valorizzare l’impianto antropologico appartenente alla persona. Il privare 64
l’educazione di questa profondità assiologica significa principalmente ridurre il soggetto a divenire un ottimo sperimentalista e l’educazione ad una mera trasmissione di saperi più o meno funzionali. Ecco, allora, il grande rischio delle finalità dell’azione educativa: commettere l’errore di confondere i fini con i mezzi, le finalità con le strumentazioni. La perdita di una identità “metafisica” spinge ad una rinuncia dell’ultramondano ed una erosione costante dell’umanesimo, rilegando l’uomo ad “effetto residuale delle procedure tecniche” (Minichiello 1988). L’uomo postmoderno, infatti, sembra essere caduto in un letargo, un sonno dal quale la pedagogia deve destare, risvegliando quello che lo stesso Levinas definisce come “suscettibilità pre-originaria”, ovvero la quella sensibilità ed immanenza insite dell’essere umano. Sullo spirito, dichiara Armando, “si influisce con lo spirito, i mezzi estrinseci hanno il loro valore, ma sarebbe un danno scambiare il conseguente con l’antecedente, il marginale con l’essenziale”, dichiara A. Armando (Armando A., Per l’incremento delle biblioteche scolastiche e individuali, Convegno Nazionale per la letteratura infantile e giovanile, Bologna 1938, p. 103) “Se possiamo essere d’accordo con Spencer nell’affermare che l’educazione deve essere considerata come “fatto”, perciò analizzabile secondo canoni scientifici e sottostante le leggi della natura e dell’evoluzione, non possiamo esimerci dal riferire che proprio il “fatto educativo” è anche espressione di volontà e di reali trasformazioni sulla cultura e sulla persona. D’altronde, anche lo stesso filosofo, nei suoi ultimi scritti, asserisce circa la relativa conoscenza che è possibile effettuare della persona e della sua impossibilità a conformarsi con schemi costruiti a-priori ed in modo olistico” (Mancini R., Segmenti sulla pedagogia della cultura, Margiacchi-Galeno, Pe65
rugia 2012). Lo stesso Morin approfondisce tale questione sostenendo che “così come non possiamo considerare lo spirito come ospite del neurone nel suo nido cerebrale, allo stesso modo non possiamo considerare la piccola massa molle del cervello come un deus machina che produce lo spirito. Non c’è corpo vivente senza animazione computante o animus e quindi senza psichismo e spirito. Allo stesso modo non c’è animus al di fuori del corpo” (Morin E., Il metodo. La conoscenza della conoscenza, Vol. 3, Raffaello Cortina, Milano 2007). Tutti gli educatori olistici sottolineano il fatto della necessità di educare l’ “intera persona”, e questo significa principalmente vedere ogni soggetto come scrigno di sentimenti, aspirazioni e senso. L’educazione olistica, quindi, condivide la preoccupazione dei teorici della pedagogia critica e sociale che insistono sul fatto che l’istruzione serva al processo democratico ed autorizza i giovani a mettere in discussione i valori su cui si erige la società genitoriale e produrre cambiamenti positivi. Una educazione, come ricorda Elena Madrussan in un suo recente saggio, dove il primato di una educazione alla critica è colto nella congiunzione tra vita e cultura, nella relazione che l’uomo instaura con il mondo e con sé stesso. 3.3 Le categorie pedagogiche dell’olismo Al fine di caratterizzare l’educazione olistica, Rafael Yus Ramos richiama la necessità di riflettere sui principi pedagogici che emergono dal documento “Educazione 2000: prospettiva olistica” elaborato dalla Global Alliance for Transforming Education (GATE) nel Ottavo Congresso Internazionale degli Educatori olistici elaborato a Chicago nel 1990. In tale assise, che per molti rappresenta il quadro concettuale di ciò che è stato definito “il paradigma olistico dell’e66
ducazione”, si è tentato di chiarire l’approccio olistico dell’educazione, nella convinzione e nell’impegno di progettare una nuova generazione di programmazioni e politiche formative sulla base e sui presupposti impliciti ed espliciti all’olismo. R. Ramos delinea i seguenti principi pedagogici per l’educazione olistica (Ramos Y. R., Educaciòn integral. Una educaciòn holistica para el siglo XXI, Desclée De Brouwer, Bilbao 2001, pp. 109-120) A – Il discente come nucleo del discorso educativo. L’educazione olistica vede le persone come intrinsecamente buone. In questa sua innata peculiarità l’uomo estrapola tre volontà assolute: 1. un bisogno di amare ed essere amati; 2. una curiosità innata che promuove la ricerca della verità; 3. la necessità di essere riconosciuto come una persona di valore, unica ed irripetibile. Per gli educatori olistici, il percorso formativo è, quindi, un processo di sviluppo che parte dall’interno di ognuno di noi e si dirige all’esterno entro la sfera sociale. Un processo di auto-scoperta e di autonomia nella ricerca permanente della propria “eccellenza”. Così, l’educazione olistica richiede un apprendimento efficace basato sull’esperienza di vita, sulle riflessioni, sulle intuizioni e sulla risoluzione di problemi reali. Attraverso questo metodo, infatti, sarà possibile riconoscere la natura multidimensionale ed eterogenea dell’esperienza umana nella responsabilità personale e collettiva. B - Intelligenza e pensiero. L’educazione olistica riconosce l’innato potenziale creativo e sistemico di ognuno. L’olismo, infatti, presuppone che i soli limiti al pensiero e alla sua espressione siano quelli che accettiamo ed affermiamo. Di qui la legittimazione di una intelligenza multidimensionale, la quale può essere apprezzata in una varietà di forme e rivelazioni. 67
C – Insegnamento/apprendimento. Dato che l’educazione olistica si rappresenta come “sviluppo sistemico”, occorre che questi processi integrali siano progettati flessibilmente per promuovere auto-conoscenza ed auto-scoperta. Da un punto di vista didattico tali principi vincolano ad un netto distacco da programmi predeterminati, mentre agevolano il docente nel fornire strategie risolutive e metodi di apprendimento elastici. La relazione educativa che ne scaturisce genera operosità di senso, in cui ogni parte, insegnante e discente, giocano un ruolo fondamentale nella realizzazione di un percorso di maturazione e sviluppo reciproco. D - Conoscenza. L’indispensabile necessità di una elevata qualità nelle conoscenze appare uno dei pre-requisiti di questo modello, pur riconoscendo l’importanza dell’aspetto quantitativo. Imparando a selezionare qualitativamente e quantitativamente le informazioni che provengono dal mondo esterno è possibile “sapere di più, con meno”. Questo rappresenta un aspetto essenziale della conoscenza e dello sviluppo del pensiero umano, in modo particolare in una società capace di creare molti simboli, ma pochi significati. Un’insieme di conoscenze, allora, che oltre a provenire dall’ambiente, attraverso lo studio, i sensi e l’esperienza, risiede nella potenzialità umana di meditazione e riflessione sulle cose, e quindi dall’interno. E - Curriculum. Il curriculum deve essere interpretato come un “mezzo”, e non un fine. La ricerca dimostra che quando i fatti sono presentati all’interno di un panorama “a misura”, l’interiorizzazione risulta di gran lunga più efficace rispetto ad approcci tradizionali ed incentrati sulla memoria. Dal momento che l’educazione olistica riconosce il punto di vista neuroscientifico – tutto parte dal cervello -, essa si sforza di accreditare un contesto educativo “perso68
nalizzato”, diremmo encefalizzato, capace, cioè, di nutrire gli interessi, i talenti, le intelligenze e le creatività di ogni singolo soggetto. Così, questa forma educativa, compatibile con la scienza neurologica, tende ad organizzare i concetti piuttosto che fatti, i problemi a discapito dei risultati, i processi più che i contenuti. Il curriculum deve promuovere il trasferimento e la comunicazione delle informazioni in tutte le aree disciplinari, le quali costituiscono autentici ponti per la comprensione globale ed integrale del “tutto”. Allo stesso modo, il curriculum olistico favorisce l’intuizione, l’immaginazione e la creatività, invece di concentrarsi sulle risposte “giuste”. In questo modo si incoraggia l’apprendimento cooperativo e collaborativo, ove alla rarità delle risposte definitive si generano idee ed esperienze da condividere: More shapes than one, andavamo professando in un recente saggio (Mancini R., Salvato R., Il Lavoro di gruppo. Competenze per l’azione didattica, Morlacchi Editore, Perugia 2007). F - La scuola come organizzazione. L’educazione olistica riconosce alla scuola di essere un vero e proprio “sistema vivente”. Poiché il più importante principio organizzativo dei sistemi viventi è dato dall’interdipendenza, anche le agenzie educative non possono essere comprese o descritte solo nei termini delle parti che lo compongono, ma solo secondo una prospettiva relazionale. La scuola è riconosciuta come vero e proprio pilastro educativo in continuo movimento, nella quale rintracciare il compito dell’intermediazione istruttiva dei saperi (alfabetizzazione). Oltre a tale gravoso compito, in concordanza con l’educazione familiare, alla scuola spetta la formazione della personalità del soggetto, soprattutto sotto un profilo sociale, di cittadinanza e di solidità civile. L’organizzazione deve essere flessibile, pronta a definire i ruoli funzionali, pur nella consapevolezza che 69
paradossalmente il ruolo degli insegnanti e degli studenti è, in un certo senso, invertito. Tutti a scuola sono insegnanti e discenti. Come un sistema vivente la scuola olistica è parte integrante e responsabile di una comunità più ampia, dove, quest’ultima, è percepita come un’estensione dell’insegnamento ed ambiente di apprendimento. G - Direzione. Il compito primario di un leader è quello di creare una leadership educativamente efficace ed efficiente. Il leader deve incoraggiare ogni soggetto a cimentarsi in modo proficuo in ogni contesto entro cui opera, così come deve garantire che tutti abbiano uno scopo per partecipare in modo coinvolgente alla costruzione di loro stessi e della comunità in cui sono inseriti. Il leader diviene una “funzione osmotica”, un incarico, cioè, che “contribuisce come gli altri alla produzione del capitale di sicurezza e alla costruzione dei valori e delle norme comuni, ma più e/o meglio di loro: si tratta dei porta-bandiera, degli alfieri, degli animatori e organizzatori della vita del gruppo, dei propositori e anche controllori interni delle attività. Non ha alcuna importanza –mentre se ne parla qui, in termini di funzione – se la leadership risulta poi stabile o labile, fissa o circolare, gestita secondo uno stile autoritario o partecipativo” (Trentini G., Oltre il potere. Discorso sulla leadership, FrancoAngeli, Milano 1997, p. 105). Per gruppo, infatti, è lecito intendere “una entità collettiva che ha un’opera comune da compiere e tende verso una relativa coesione delle manifestazioni sociali” (Maccio C., L’animazione dei gruppi, La Scuola, Brescia 1973). Ogni gruppo, così, sarà in grado di promuovere delle dinamiche interne proiettate verso l’esterno, alla lewiniana maniera. Il gruppo, così, sarà concepito come “un insieme dinamico nel quale si affrontano forze opposte in cerca di un loro equilibrio”. 70
H - Contenuto. Spesso il tipo di contenuto dell’azione olistica è implicito nella funzione della scuola ed è espresso in termini di idee, conoscenze e competenze necessarie per “imparare ad imparare”. I risultati dell’apprendimento, infatti, includono la richiesta di una nuova missione educativa che si basa sulla comprensione delle connessioni che esistono tra gli essere viventi. Condivisa da tutte le grandi tradizioni religiose del mondo, tale visione sembra essere innata nell’esperienza umana. Per esempio: se tutto è collegato a tutto, allora l’unico comportamento razionale è quello di fare agli altri ciò che vuoi che gli altri facessero a te. Una volta che la nostra interdipendenza viene riconosciuta, diventa evidente che la vita dovrà necessariamente essere impostata secondo i dettati dell’altruismo, della compassione e dell’amore, quali elementi essenziali per la costruzioni di paradigmi sociali come il rispetto dell’altro e dell’ambiente, la tolleranza, l’unicità personale, etc. Maslow afferma che è necessario comprendere l’amore, insegnarlo, crearlo e predirlo se non volgiamo una società basata sull’inimicizia ed il sospetto, sull’intolleranza e la chiusura. Per questo occorre investire sull’arte dell’amore, promuovendo una cultura del donare e dell’apertura. Così l’amore soprattutto nel suo incipit si delinea come “lo spontaneo attivarsi di uno strato di sensibilità a valori positivi che era rimasto dormiente o inattivato” (De Monticelli R., L’ordine del cuore. Per una teoria fenomenologica dell’affettività, Garzanti, Milano 1998, p. 101). L’energia umanizzante dell’affettività e dell’empatia contribuiscono alla formazione del proprio Io, quale organo regolatore, tale da rendere l’accoglienza dell’altro un sentimento della vita di assoluto valore. Oggi più che mai l’educazione deve sostenere una “cultura del cuore” ed una “civiltà dell’amore”, dichiara Bruno Rossi, in quanto la stessa scienza non si fonda più sulla morale e 71
sull’etica, ma sul tecnicismo e sulla logica. Un ritorno alle origini, ci viene da dire, un rimpatrio che all’educazione assegni all’educazione il compito di formare coscienze e prospettare ideali etici ed orizzonti di senso. Siamo pienamente d’accordo con N. Ginzburg nel sostenere che “la vocazione di un essere umano è da identificare nella più alta espressione del suo amore per la vita”. I - Valutazione. L’educazione olistica riconosce che l’unico scopo della valutazione è quello di fornire il feedback necessario per promuovere l’auto-conoscenza. Dal momento che uno degli obiettivi della formazione è imparare a valutare correttamente se stessi, occorre sensibilizzare, docente e discente, circa le funzionalità olistica della valutazione. Tale affermazione decifra la necessità, quanto mai odierna, che l’intervento valutativo neghi le sue radici computazionali e si diriga verso quello che Bruner già negli anni Settanta descrive come vero e proprio processo di “forma di intelligenza pedagogica”. E’ giusto credere, allora, che “la vera valutazione non sia soltanto quella didattica, ma soprattutto quella maturativa della funzione della personalità che lascia spazio alla cultura familiare, personale, di provenienza dell’alunno con l’apporto arricchente della cultura dell’insegnante” (AA. VV., I diritti della scuola. Periodico per una comunità educante, supplemento al n. 3, anno XXVI, p. 6). Una valutazione basata solo su risultati numerici non è arte bensì riconoscimento di forme geometriche, di analisi di linee e curve, di aspetti cromatici riferibili al miscuglio percentualistico o di schematizzazioni precise nella composizione. La valutazione è un’arte che deve oltrepassare quel muro fatto di numeri e codici, pur sempre importanti, per dirigersi verso il profondo dell’anima di ogni soggetto, guardarsi e guardare, vedere oltre l’orizzonte, migliorarsi e migliora72
re rappresentando la natura dell’uomo. Occorre, quindi, “recuperare di certo il significato autentico che la valutazione custodisce ed esprimere, in modo che possa essere accreditata come un modo stesso di fare educazione, cioè di aiutare il processo di formazione del soggetto fornendo allo stesso elementi di rinforzo indispensabili, la conoscenza dei propri percorsi e la gratificazione necessaria alla fine dell’attività in cui si è impegnati” (Rosati L., in Scaglioso C. M., La valutazione: verifica di apprendimenti e opportunità di relazioni, edizioni Cantagalli, Siena 2004, p. 5). i discenti vengono, così, valutati secondo una “grandezza” di crescita personale e secondo degli indici specifici, quali: amare, essere gentili, comunicare, crescere nei talenti posseduti, etc.. Inoltre, poiché l’educazione olistica cerca di coprire tutte le dimensioni della persona, lo scopo della valutazione sarà il comprendere tutta la persona e non solo le loro conoscenze e le competenze. Ciò richiede l’uso di strumenti non standardizzati, tra cui lo sviluppo di comportamenti, atteggiamenti e valori prosociali, così come aspetti spirituali come la compassione, la creatività, l’intuizione, la fantasia etc. 3.4 La scuola come centro e fucina di sforzi umani Sebbene i principi della scuola contemporanea sembrano poggiare su un atto di insegnamento meccanico, ridotto ai minimi termini in quanto a libertà educativa e su impostazioni curriculari predefinite, tali da rendere l’insegnamento un’azione burocratica e coercitiva, non vi sono prove convincenti che tale modellistica sia da ritenere funzionale ad un insegnamento di cose “che valga la pena sapere”. Per Dotti (Dotti E. S., Teaching as enhancing human effectiveness. Six evaluative critera, Holistic education review n° 10, p 4 1997) nel momento in cui si parla di insegnamento/ap73
prendimento si presuppone una certa comprensione della dimensione fenomenologica di queste azioni e delle loro qualità intrinseche ed umanizzanti. In realtà, è il modo in cui interagiamo con gli altri e con il loro incessante divenire che autorizza l’insegnamento a divenire un processo di condivisione simmetrica, luogo, cioè di proposte formative volte alla maturazione soggettiva e collettiva. Non più educatore dell’educando; non più educando dell’educatore; ma educatore-educando con educando-educatore, dichiara P. Freire (Freire P., La pedagogia degli oppressi, tr. it. Mondadori, Milano 1976). Il “senso della vocazione pedagogica”, richiamata dalla Maria Boscehtti-Alberti appare essere l’elemento imprescindibile per una azione educativa di senso. L’educazione olistica si dirige al di là della semplice osservazione nel creare una scuola capace di prendere coscienza di un fine soggettivo. Infatti, tutti vogliono sentire che c’è un significato interiore profondo della loro esistenza, un bisogno esistenziale che è una caratteristica comune di tutti gli esseri umani. Tuttavia, per affermare il proprio sé, occorre una relazione proficua con l’alterità, o meglio, riferendola con parole di Buber (Buber M., I and Thou, Simon and Schuster, New York 1996), una “relazione io-tu”. Queste relazioni sono per Jean Paul Sartre “una sfida perpetua per affermare la fluidità della propria esistenza contro i tentativi persistenti di essere oggettivato dagli altri”. Se l’insegnamento è un problema umano, allora gli insegnanti dovrebbero facilitare lo sviluppo delle persone come soggetti umani. Non a caso attraverso le attività spontanee, le persone tentano di raggiungere il proprio potenziale (il vero sé), che altrimenti, nella maggior parte dei casi, verrebbe nascosto al mondo esterno. Tuttavia l’inconsistenza e/o la parcellizzazione del rapporto tra il sé reale e il sé pubblico rafforza la creazione di una insicurezza di base della persona, da cui 74
ne deriva l’abbandono del sé privato, a favore del sé condiviso. Non c’è educazione senza dialogo. Ecco perché è nel dialogo che si palesa lo scopo dell’educazione, come suggerito dallo stesso Krishnamurti, “comprendere la vasta espansione della vita con tutte le sue sfumature, con la sua straordinaria bellezza, i suoi dolori e piaceri” (Krishnamurti J., Bohm D., I limiti del pensiero, Armando, Roma 2009). Di qui un insegnamento che dovrebbe facilitare il compito educativo, sia dal punto di vista di acculturamento (esterno), sia di scoperta individuale circa il significato delle informazioni che si ricevono quotidianamente. Un concetto di cultura soggettiva che in Rosati trova la sua più alta espressione quale “universo simbolico significante”, spazio, quindi, entro cui la persona è circondata da simboli caoticamente disposti che non aspettano altro che essere tradotti e dotati di significati. Una versione della cultura che possiede una valenza esteriore, in quanto simbolica, ma anche interna al soggetto nel suo rendersi significante. Se, infatti, la persona trova la giusta chiave/i di lettura di un determinato simbolo questo provoca non solo uno stato di benessere e di espressione sociale creativa, ma produce la possibilità di un uso costante e decontestualizzato rispetto all’ambiente in cui si è appreso. L’insegnamento e l’apprendimento così stabiliti faciliterebbero una esplorazione e una creazione di significato personale ed originale e anche universale e trasversale alle diverse culture. Nel modello espresso da Rosati il soggetto diviene autonomo e libero solo nel momento in cui è capace di padroneggiare i simboli della cultura umana. Se è pur vero che ogni soggetto è l’unico a poter sviluppare se stesso in modo duraturo e funzionale, allora l’autonomia può essere vista come la premessa per la libertà e l’educazione. Tale sillogismo porta ad osservare che il concetto di libertà, tanto caro tra i tanti al Cousinet (Cousinet R., Un metodo di lavoro libero per gruppi, tr. it. La Nuova 75
Italia, Firenze 1961) che lo annovera come principio fondamentale nell’educazione, può rappresentare quel paradigma di riferimento capace di donare al soggetto quel senso diritto ad essere se stesso, nella piena autonomia ed espressione della propria naturale vocazione. Una libertà che trova la sua più intima essenza e piena espressione nel “diventar soggettivo” di ducciana memoria (Ducci E., La maieutica kiekegaardiana, Adriatica, Bari 1967). Secondo la pedagogista, infatti, la soggettività nel processo educativo rappresenta un problema necessario ed indispensabile, mai ridondante e fragile, piuttosto connotabile secondo la arbitraria sostanza dell’essere uomo” (Mancini R., Segmenti sulla pedagogia della cultura, Margiacchi-Galeno, Perugia 2012). Una autonomia ed una libertà che comunque reclamano un elevato senso di responsabilità. Esiste una correlazione diretta tra libertà, autonomia e responsabilità, confermando che “non c’è uomo libero che non sa controllare se stesso”. La responsabilità implica che gli esseri umani rendano conto delle loro azioni e, attraverso queste ultime, determinino i loro destini. Crescere in responsabilità, quindi, significa migliorare la capacità di rispondere agli eventi, di prendere decisioni ed indirizzare, per quanto possibile, il proprio destino. Occorre, altresì, una compartecipazione alle identità altre, quale cura della singolarità della persona. L’identità e la singolarità sono un equilibrio di differenziazione. Così l’insegnante olistico è visto come un “artista dell’amore”, cioè maestro nel riconoscere che la ricerca delle “verità” e l’amore sono elementi collegati ed inseparabili; senza amore non si raggiunge la verità, così come senza la verità non si comprende il valore delle emozioni. Non esiste, quindi una “verità di fatto da apprendere, ma modi del conoscere da imparare” (Madrussan E., Briciole di pedagogia. Cinque note critiche per un’educazione come inquietudine, Anicia, Roma 2012, p. 45). 76
3.5 Alla scoperta dell’anima dell’educazione olistica Nel corso del tempo si è assistito ad un costante aumento delle segmentazioni, parcellizzazioni e standardizzazioni del sapere. A questa frammentazione certamente ha influito il positivismo che, afferma Morselli, “rivaluta l’esperienza come fonte della conoscenza; rileva le leggi solo dai fatti positivi, ossia accertati e valutati nell’ambito del concreto e del controllabile, con esclusione di fini, di essenze e di origini. E poiché i fatti sono naturali, quindi soggetti a leggi analoghe, ogni indagine positiva stabilisce relazioni tra i fatti, tralasciando ogni ricerca intorno all’Assoluto” (Morselli, op. cit. 1993). Tale corrente di pensiero si è andata ad affermare in tutto il pensiero occidentale e si è tradotta in un paradigma di riferimento, tanto da essere successivamente tradotto nelle varie tradizioni culturali e politiche dei vari Paesi. Alla crescente domanda di specializzazione della conoscenza, però, non sempre, anzi quasi mai, sono corrisposte politiche volte alla comprensione olistica delle varie problematiche economiche, culturali e sociali, portando l’uomo ad una marcata “inquietudine”. Sembra sempre più che all’uomo moderno manchi “qualcosa”, quel qualcosa che fino a poco tempo fa era affidato alla spiritualità, la quale riusciva a mettere in luce i più alti valori della vita. La persona umana è dotata di potenzialità interiori profonde che chiedono di essere liberate, usate ed espresse. Esse si orientano certamente sul piano della esistenzialità, si pensi soltanto alla cura della salute fisica, ma anche e soprattutto della essenzialità, quale dimensione trascendentale che conduce alla valorizzazione dello spirito. Attraverso queste chiavi di lettura, date dalla corrente mistica della pedagogia, è possibile dotare la persona di aspetti 77
morali, valoriali ed empatici che spesso sono sopiti dietro a ritmi e ad azioni giornaliere oppressive e repressive. A sostegno di ciò G. Acone sancisce che l’educazione è l’autorealizzazione del soggetto persona, socialmente e culturalmente orientato, sulla scorta di una costellazione di conoscenze, competenze, valori e significati, in vista di un orizzonte di senso. Occorre rintracciare quelle matrici che donano vitalità ai valori etici, normativi e morali, una continua ricerca che Amartya Sen descrive in questi termini: “nel mondo contemporaneo c’è un impellente bisogno di porre domande non solo sull’economia e la politica della globalizzazione, ma anche sui valori e sull’etica che formano la nostra concezione del mondo globale”. L’educazione è l’unico elemento a disposizione dell’umanità al fine di calibrare e meditare su tali elementi, i quali restano indispensabili per un proficuo miglioramento individuale e collettivo. In questione c’è la generazione di un nuovo umanesimo; una rinascita che “abbia una fondamentale componente etica e dia la dovuta importanza alla conoscenza e alla stima delle altre culture e dei valori spirituali delle varie civiltà, ciò costruisce il necessario contrappeso a una globalizzazione che altrimenti potrebbe essere vista solo in termini economici e tecnologici. La coscienza di condividere valori comuni e un comune destino è in effetti la base su cui deve fondarsi qualsiasi progetto di collaborazione internazionale” (Rossi B., L’educazione dei sentimenti, Unicopli, Milano 2004, p. 148). Un umanesimo, quindi, che “davanti alla morte della ragione che è poi anche la morte di Dio e dell’uomo, come d’ogni altro valore, (ha) una sola possibilità di salvezza: il ritorno alla fiducia nei valori che l’uomo nutre dentro di sé; la restaurazione di un clima di razionalità di l’intelligenza e la volontà dirigono le azioni umane con il controllo dei mezzi e delle ric78
chezze, delle tecniche e dei bisogni: un circolo magico in cui, in fondo, l’uomo torna ad essere, a riconoscersi creatore e arbitro della propria condizione esistenziale, in solidarietà con gli altri, in un atteggiamento costante di riflessione e di ricerca, di apertura verso il progresso e di impegno a realizzarlo con tutte le sue forze” (Rosati L., Programmazione Sperimentazione e Innovazione come modelli culturali emergenti, pro manuscripto) Così la paideia si connota di quel concetto di appartenenza e di solidarietà umana, posti a fondamento di ogni asse educativo e riassumibili nell’aspirare a farsi secondo differenza ed identità culturale. Il paradigma olistico emerge e si convalida come movimento attivo e coerente ad un’idea di persona connaturata da una filosofia che riconosce nell’uomo parti che non possono essere trascurate e tralasciate. Occorre comunque tenere presente che il pensiero olistico è un prodotto della controcultura degli anni Sessanta, ma ha profonde radici nelle antiche tradizioni cosmologiche ottimamente descritte da Aldous Huxley (Aldous Huxley L., The Perennial Philosophy 1944) nella “filosofia perenne”. Il famoso spiritualista inglese, riconosciuta la valenza del lavoro di Segej Hessen, all’interno della sua dottrina ammetteva che tutti gli esseri fanno parte di una unità indivisibile e perciò appartenenti solo a se stessi e alla propria natura, donando, così, all’anima umana qualcosa un qualcosa di “divino”. 3.6 L’uomo nel mondo Nonostante le avversità culturali ed il contesto sociale e politico ostili riscontrabili fin dai suoi natali, la forza del pensiero olistico ha permesso la maturazione e la valorizzazione di una legittimazione del mondo “interno” della persona. I principi della filosofia perenne e dell’olismo risiedono in particolare nella percezione di una realtà interconnessa, tale 79
da rendere l’universo un ambiente armonico. Come nella fisica quantistica, l’olismo riconosce che il tutto è formato da parti e che queste costituiscono una unità nel momento in cui esprimono il rapporto con l’intero e viceversa. Numerosi sono gli autori che rispecchiano tale idea tra cui devono essere ricordati i contributi Gandhi ed Heidegger, i quali sottolineano che l’unità fondamentale dell’ “essere” è nel rapporto con il sé e con il mondo. A tal riguardo esiste un disaccordo tra i vari pensatori olistici circa la valenza che la scienza possiede nel rilevare e contribuire alla comprensione di questa unità fondamentale. Einstein, ad esempio, ha trascorso la sua vita nel tentativo di trovare una teoria che legittimi ogni elemento appartenente alla realtà sotto una prospettiva unitaria, mentre Stephen Hawking hanno dato nuova linfa al tentativo eisteniano di ricercare una teoria capace di collegare tutti gli elementi ed eventi fenomenologici. Una conoscenza che spesso è impossibile da comprendere in modo logico e razionale, ma è solo attraverso l’arte del trascendere che l’uomo conquista una sintonia di pensiero universale. Allo stesso modo, Heidegger non vede la persona come un sé incapsulato sotto la pelle, ma come un “campo di forza”, ciò che egli chiamava “Dasein”, che è intimamente connesso con l’ambiente circostante. Di qui l’esigenza di un uomo capace di uno spiccato senso intuitivo, in quanto potenzialità umana capace di vedere più chiaramente l’interrelazione della realtà e del mondo. W. Emerson nel riflettere su tale questione osserva che l’intuizione è una “saggezza primaria” e diretta, mentre Kant si riferisce alla intuizione come terza via della conoscenza. L’intuizione delle idee trascendetali rappresenta la più alta conoscenza possibile da parte dell’uomo, in quanto tende ad 80
una visione completa e generale. Detta l’importanza che l’olismo assegna all’intuizione, quale strumento per la comprensione delle verità, occorre che l’educazione tendi al suo massimo sviluppo attraverso strumenti come come la meditazione e la contemplazione. Queste metodologie rendono possibile l’ascolto dei bisogni spirituali, dei valori morali della realtà e del soggetto e la valorizzazione sincera d’empatia che costituisce la base della nostra etica. Questo rapporto fornisce la cornice per la moralità, che Noddings chiama “ideale etico di rispetto”. A partire dal momento in cui constatiamo e legittimiamo l’individualità dell’ “essere”, nello stesso tempo prendiamo coscienza di far parte di una unità fondamentale in cui la connettività e la responsabilità con gli altri comporta un determinato grado di attivismo sociale. Ciò è coerente con l’idea di alcuni transcendentalisti del fatto che ogni riforma sociale parte da dentro, dal “senso morale” appartenente ad ognuno di noi. Alcuni educatori sostengono che una scuola olistica dovrebbe incoraggiare ad impegnarsi nel servizio della comunità, attraverso una intelligenza prosociale, in cui l’obiettivo primario sia lo sviluppo della competenza del rispetto. L’intelligenza prosociale o sociale, esprimendoci alla golemaniana maniera (Goleman D., Intelligenza sociale, Rizzoli, Milano 2006), è quella intelligenza che identifica tutte le forme di socializzazione (Cfr. Trentini G., Oltre il potere. Discorso sulla leadership, FrancoAngeli, Milano 1997), di abilità e/o competenze appartenenti ad una determinata cultura. Di qui l’importanza della comunicazione sociale “come comportamento di apertura, che fa perno tuttavia su un raggiunto stato di sicurezza, ancora da consolidare ma tuttavia emergente. Persone adulte egoiste, chiuse in se stesse, insicure e nutrite di pregiudizi non sono capaci di socializzare, né tanto meno di progettare e realizzare un lavoro comune” (Rosati L., Parole e 81
significati, Morlacchi, Perugia 1999, p. 85). Come sottolinea Roche Olivar, nel promuovere la prosocialità come comportamento positivo nella relazione tra i soggetti occorre che sia sradicata ogni forma di violenza o di conflitto, aumentando la stima reciproca tra le utenze e cercando modalità di contatto e comunicazione dirette. In tale prospettiva diventano fondamentali “il ruolo che i comportamenti prosociali possono avere nel rendere più intelligenti le emozioni e mostrando come la promozione della prosocialità possa divenire un percorso preferenziale per l’educazione e la maturazione di tale intelligenza” (Roche Olivar R., L’intelligenza prosociale. Imparare a comprendere e comunicare i sentimenti e le emozioni, Erikson, Trento 2002, p. 13). “Per rendere quanto appena espresso funzionale e fruibile occorre che ogni soggetto sia in possesso di competenze specifiche, riassumibili nella cultura dell’empatia, quale valore e metodo per dare significato a tutte le relazioni interpersonali. In sintesi, dopo questo esame da parte dei fondamenti filosofici, notiamo che la visione atomistica del mondo può essere intesa come fonte di alienazione, in quanto fornisce una frammentazione e parcellizzazione della natura umana. L’indagine pragmatica è un miglioramento rispetto alle alternative educative connesse con la prospettiva atomistica, ma comunque si concentra sui alcuni fattori della persona e non fornisce alcuna unità del tutto. Così la principale fonte di connessione avviene solo attraverso esperienza riflessiva e meditativa, che è un riconoscimento della totalità dell’esistenza” (Mancini R., Segmenti sulla pedagogia della cultura, Margiacchi-Galeno, Perugia 2012). È facile giuoco dimostrare il fatto che l’olismo supera molti dei limiti del pragmatismo e dello stesso atomismo, soprattutto in due punti nodali. In primo luogo, il pensiero non si limita a una concezione monistica: approcci divergenti alla risoluzione 82
dei problemi sono accettati ed incoraggiati. In secondo luogo ciò che diviene importante per l’educazione olistica è l’accettazione della globalità del soggetto in relazione all’ambiente. 3.7 L’uomo totale e la pedagogia dell’essere Da quando Maslow agli inizi degli anni Settanta scrisse Verso una psicologia dell’essere, la pedagogia si è vista accreditata di un valore fondamentale nella costruzione delle potenzialità che ogni soggetto custodisce, soprattutto dopo quella vera e propria rivoluzione educativa espressa dal Richmond W. K. all’interno del celebre saggio La rivoluzione dell’insegnamento del 1969. Questa filosofia pedagogica, che incarna l’incantesimo di un uomo totale, incorpora diverse accezioni del sé, ad esempio, come quelle di spirito, anima eterna e divina e realtà ultima. C’è bisogno di totalità, afferma Rosati, “di completezza, di armonia, di sapere. Ecco i termini di un discorso sull’uomo. [...] Vogliamo dire, in buona sostanza, che l’uomo totale è l’uomo che non abdica a se stesso, piegato dalla potenza folgorante dell’ideologia o identificato nell’oggetto della sua esperienza. Egli sa distaccarsi, quando è necessario, dalle cose e dalle suggestioni (Rosati L., Paradigmi culturali e didattica, La Scuola, Brescia 1998, p. 127). Un uomo totale che è possibile custodire e avvalorare per mezzo di un apporto pluri-osservativo, dal quale ne derivano altrettante accezioni di significato. Di qui una prospettiva religiosa dove il sé è concepito come “inconscio Sacro” e nella quale si riscontrano fenditure teologiche circa la natura della persona e del rapporto con essa instaura con Dio; oppure un piano osservativo comportamentista capace di rilevare congetture traduttive di uno stimolo in una risposta, o, ancora cognitiva dalla quale si ricava un orientamento pragmatico circa la conoscenza dell’intelligenza. 83
Infine, da un punto di vista psicologico è possibile menzionare la psicologia transpersonale, quale base per un approccio olistico all’educazione. Questa ha avuto il coraggio di dare concretezza alla realtà metafisica della persona. Per le concezioni olistiche questa caratterizzazione ha un valore necessario, in quanto non solo conferma l’esistenza del “noumeno” nelle persone, ma fornisce un processo educativo diretto allo sviluppo dello spirito, indipendentemente dalla confessioni religiose di appartenenza. Come evidenziato da Rafel Yus Ramos, è possibile enucleare i maggiori contributi che hanno determinato lo sviluppo della pedagogia transperonale attraverso quattro caratterizzazioni: a. L’inconscio collettivo di Jung Un forte contributo alla visione di un Io transpersonale è data dallo psicologo Carl Gustav Jung. Per il noto psicologo svizzero l’ego è una piccola area illuminata nel chiaroscuro della psiche. Tuttavia, l’Io, che si identifica con l’anima, non ha più a che fare con il centro della psiche, esso è “inventore, organizzatore e fonte di immagini oniriche” (Jung C. G., La psicologia dell’inconscio, Boringhieri, Torino 1968). Secondo Jung si possono inviare immagini all’ego e queste sono importanti per lo sviluppo spirituale dell’individuo. Così, la persona ascolta ed osserva i messaggi del suo ego per ottenere preziose informazioni dall’ambiente che lo circonda, come l’ispirazione per l’artista. Un altro aspetto interessante della teoria di Jung che è possibile porre a fondamento della visione transpersonale è legato all’idea di “inconscio collettivo”. Come per la coscienza collettiva, l’inconscio rappresenta la fonte dell’auto-realizzazione umana, luogo entro cui il sé si muove e si realizza. Jung sostiene che alla nascita esista un inconscio personale composto in realtà da impostazioni psichiche innate, dovute alla natura del 84
sistema nervoso che, come per ogni cellula e DNA, è di fatto ereditario. Queste caratteristiche sono intrinseche del genere umano e, in definitiva, collettive. In tale modo l’inconscio collettivo è costituito da forme innate ed ereditarie, che lo stesso psicologo descrive come “archetipi”. Questi sono il Sé (che si forma con la crescita dell’individuo), l’ombra (la parte istintiva che contiene i desideri repressi dal conscio) e l’Anima/Animus (rappresenta l’inconscio/personalità). L’archetipo si integra con la coscienza e se non correttamente elaborato provoca disturbi psichici. L’archetipo è spesso anche legato al mito. Per far capire meglio l’archetipo, il mito e l’inconscio (stavolta personale) basta pensare al mito di Narciso. Dal punto di vista archetipico, il mito di Narciso è maschile. Il narcisismo, che è un disturbo di scarsa autostima inconscia, si ripresenta alla coscienza come il desiderio di essere accettato da tutti. Jung, quindi, ritiene che gli archetipi siano potenti figure inconsce che devono essere necessariamente elaborate. La visione transpersonale che se ne ottiene è un prezioso contributo per l’olismo, in quanto annulla i confini apparenti tra il sé ed il collettivo, tale da rendere il soggetto non più un microcosmo, ma una parte di un grande “Tutto”. b. L’autorealizzazione di Maslow Secondo Abraham Maslow gli esseri umani tendono verso “valori e comportamenti di maturità”, cioè quegli elementi che aiutano ogni soggetto a sfruttare al meglio il proprio potenziale. In pratica, ciò significa che aspiriamo costantemente ad autorealizzarci ed a sviluppare pienamente la nostra componente dialogica e relazionale. Tuttavia, ci sono molti fattori che impediscono questo processo trasformativo, tra cui la stessa natura dell’essere umano; le persone, infatti, per realizzarsi devono soddisfare determinati “bisogni”, che Maslow distribui85
sce secondo una piramide. Secondo tale modello i bisogni si articolano in 5 tipologie gerarchiche universali: partendo dal livello più basso, la base, si incontra il bisogno Fisiologico, il quale assicura al soggetto la sopravvivenza della specie (nutrimento, acqua, vestiario, alloggio, etc.); costatando la progressiva diminuzione dei soggetti capaci di soddisfare le proprie necessità, al secondo gradino troviamo il bisogno di sicurezza, come espressione di supporto, aiuto e protezione tali da consentire l’esternalizzazione delle potenzialità umane. Senza questi fattori, in particolare durante l’infanzia, lo sviluppo umano tenderà ad aprirsi e favorire comportamenti caratterizzati dalla paura, della disapprovazione, dalla xenofobia, dell’abbandono, etc.. Salendo si incontra il bisogno di appartenenza, quale espressione umana di empatia, dialogicità e la necessità di far parte di un qualcosa; al penultimo stadio risiede la necessità di Stima-status quali riconoscimento sociale; infine l’auto-realizzazione, dove ogni soggetto dovrebbe compiersi per quello che è. Deve essere aggiunto che per Maslow l’ordine con cui sono state presentate le necessità umane può anche essere modificato in base alla percezione culturale di appartenenza o dalle “inclinazioni” psicologiche soggettive. Per Maslow, quindi, lo sviluppo umano avviene come un processo continuo di maturazione, attuabile attraverso l’ascolto della “voce interiore” e della motivazione – volontà -. Verso la metà dello scorso Secolo Maslow, infatti, definisce la motivazione come “carenza di un ‘oggetto’ desiderato, talchè la persona orienta il suo comportamento per raggiungerlo o per soddisfare il relativo bisogno” Il sé non è compiuto al suo nascere, piuttosto un processo di rinnovamento permanente. Vi è una logica sottesa in quanto espresso, una idea di “cammino” verso la autocomprensione e la liberazione. Essere liberi vuol dire prima di tutto comprenderci e sapersi controllare, anche se può sembrare impossibile 86
nella sua realizzazione olistica. “Noi non possediamo un io, ma solo un complesso di operazioni mentali sempre cangianti. Abbiamo bisogno, per ragioni di ordine psicologico e morale, di credere il contrario; ma il fatto è che, ogni volta che diciamo “io”, indichiamo qualche cosa che già non esiste più. L’io è come l’istante. Per motivi pratici, noi abbiamo bisogno di credere nel nostro “io”, ossia in una realtà interiore permanente e sempre uguale a se stessa. Si tratta di un errore di prospettiva, come quello del bambino che vede la luna dal finestrino dell’automobile in corsa ed è convinto che essa lo stia seguendo, perché non si rende conto che quel movimento è, invece, il suo” (Lamendola F., È possibile bagnarsi per due volte nelle acque del fiume della propria vita?, Arianna Editrice, Bologna 2012). Ritornando al pensiero di Maslow, un’altra caratteristica della persona è “l’esperienza delle esperienze”, nella quale ognuno sperimenta, saggia e conosce la realizzazione del sé. In queste esperienze l’uomo sente la realtà e se stesso come valori (verità, bontà, bellezza, integrità, eccellenza, giustizia, ordine, semplicità, autonomia, etc.). Sono proprio questi aspetti che legano la filosofia di Maslow al campo dell’orientamento transpersonale e all’idea di un uomo totale c. Lo sviluppo spirituale di Assagioli Roberto Assagioli, psichiatra mistico italiano, è uno degli Autori che meglio ha affrontato la dimensione spirituale della psiche umana. Tutto il suo lavoro e le sue riflessioni sono incentrate nella trascendenza immanente appartenente ad ogni persona. Assagioli usa il termine spirituale nella sua connotazione più ampia, che include e si conclude nell’esperienza specificatamente religiosa, ma in quanto coscienza di tutte le funzioni e le attività che contengono i valori umani più elevati (etico, eroico, premuroso, umanitario e altruistico). In tali termini lo sviluppo spirituale comprende tutti i contenuti ed i 87
sensi dell’essere. In tal modo Assagioli si dissocia dal carattere esoterico oscurantista della spiritualità, così come di una visione dell’uomo puramente fattuale, pur legittimando la spiritualità come un fatto, un’esperienza che è stata vissuta da molte o da una sola persona che hanno avuto un contatto con realtà al di sopra o al di là dei fenomeni reali, cioè nel regno del trascendente. Deve essere osservato che Assagioli ha riconosciuto il carattere controverso del concetto di spirito. L’autore, infatti, lo definisce come “l’ultima realtà” o “realtà suprema”, essenza priva di qualsiasi limitazione o determinazione. Conseguenza di ciò, è, pertanto, l’impossibilità che il trascendente sia sottoposto a limiti di tempo e di spazio. Lì, nella dimensione senza tempo e senza spazio, dichiara Lamendola, “troveremo il nostro Sé e, nello stesso tempo, scopriremo che esso non è un “io” potenziato e permanente, ma un riflesso di quella Luce infinita che ha tratto l’essere dal non essere e che ha reso possibile il fatto che noi siamo qui, pensierosi e trepidanti, a interrogarci sul senso della nostra vita. Noi siamo stati chiamati alla pienezza dell’Essere” (Lamendola F., È possibile bagnarsi per due volte nelle acque del fiume della propria vita?, Arianna Editrice, Bologna 2012). Questa realtà non può essere conosciuta in maniera logica, in quanto trascende la mente umana, ma comunque la si può osservare nei suoi effetti mistici e palesi all’essere “interiore”. Da queste caratteristiche Assagioli deduce che non tutto è circoscrivibile all’interno del concetto di spirito e che esso è l’elemento cardine della trascendenza, dove intervengono e risiedono la durata, il potere, la libertà, l’interiorità, la creatività, l’armonia e la sintesi di tutte le manifestazioni umane. L’uomo spirituale è colui che è diretto a trascendere la sua natura egoista, le sue paure e inerzie, mentre si dirige verso le manifestazioni valoriali di amore, dedizione, responsabilità, cooperazio88
ne, etc.. Per Assagioli, infatti, gran parte dei problemi attuali dell’umanità sono dovuti allo scarso sviluppo spirituale. Ciò che vediamo e leggiamo sotto la lente della “vita moderna” è solo una facciata, dietro la quale si erge la vita delle anime. In tali termini quando si parla di crisi valoriale, ci si deve riferire ad una crisi spirituale, ad una decadenza delle esperienze umane capaci di dare all’uomo una propria identità. d. La coscienza di Wilber ed i livelli di Miller Il fisico Wilber attraverso la sua “teroria comprensiva” rappresenta un forte contributo sullo sviluppo della coscienza (Cfr. Wilber K., Lo spettro della coscienza, Edizioni Crisalide, Latina 1993). Per Wilber, infatti, la coscienza è un corso d’opera che avviene attraverso determinate fasi di sviluppo dell’Io. Di qui diversi livelli della coscienza che vanno dal livello profondo dove la coscienza è identica alla realtà, passano per il livello medio, quale unicità dell’esperienza, ed livello esistenziale di una esperienza razionalmente volontaria, e si conclude con il livello mentale o livello di coscienza, nel quale il soggetto si identifica con la propria immagine di sé. Allo stesso modo Rafael Yus Ramos, per mezzo delle teorie espresse da J. Miller ed in concordanza con i modelli sviluppati da Maslow, Piaget e Kohlberg , specifica 4 livelli di coscienza: a - livello arcaico: alla base dello sviluppo esiste un centro di sensazione fisica, emotiva e sessuale. Le persone che operano a questo livello sono dominati dai loro bisogni fisiologici, che Maslow organizza intorno ai concetti di punizione e obbedienza; b - livello di magia: in questa fase di sviluppo, la persona comincia a pensare, invece di limitarsi a reagire ai bisogni fisici. Piaget, assieme alla teoria delle esigenze di sicurezza dell’autorità di Maslow, definisce questo livello come necessità egocentrica; c - livello mitico: la persona inizia quello che Piaget dichiara 89
essere uno “stadio del pensiero operativo”, in cui può rappresentarsi mentalmente le azioni senza averle in concreto davanti. Tuttavia, il bambino non può ragionare astrattamente, convalidando quello che Maslow identifica come i “bisogni di appartenenza”. In generale, infatti, la persona è naturalmente orientato alla conformità ed omologazione dei comportamenti; d – livello razionale: la persona è in grado di pensare ed agire in modo razionale, avvalorando le operazioni formali di Piaget e la fase di autostima di Maslow. Deve essere osservato che molti modelli di sviluppo terminano al livello razionale. Tuttavia, gli psicologi transpersonali suggeriscono che l’individuo sia in grado di sviluppare livelli superiori di coscienza. Wilber, ad esempio, ritiene che sia ragionevole ipotizzare, sulla base del suo studio sulle psicologie mistiche, che l’evoluzione della coscienza umana si sviluppi in ulteriori tre momenti: a – livello fisico: oltre il livello razionale esiste uno sviluppo creato da una rete di relazioni concettuali e collegamenti capaci di riconoscere la verità, coordinare idee ed integrare concetti; b - livello sottile: la persona sperimenta ciò che Maslow chiama auto-trascendenza, in quanto espressione individuale di intuizione e di spiritualità; c - livello causale: il più alto livello di sviluppo transpersonale possibile è dato da una coscienza che si rigetta alla sua dimora assoluta ed eterna dello spirito. Un agire raggiante e totalmente diffuso sul “tutto”. In tali circostanze la mente viene percepita come l’occhio della ragione che partecipa al mondo delle idee attraverso la logica ed i concetti, mentre lo spirito è la fonte dell’intuizione e della contemplazione. 90
Cap. 4 Il mondo della realtà nella visione olistica Certamente quando si parla di bisogni la mente corre subito a quelli di origine freudiana, le pulsioni, o a quelle di stampo fisiologico riferibili alle idee di Maslow. Entrambe le impostazioni ed accezioni, comunque, essendo di derivazione biologica, richiamano la necessità di essere soddisfatti per non incorrere in stati biologici e/o psicologici deficitari. Non a caso molti dei bisogni primari sono dei veri e propri diritti, come, ad esempio, quello alla salute. Ma cosa succede nel momento in cui al termine bisogno si addiziona l’aggettivazione educativo? Il problema è reso ancora più acuto dal fatto che per molto tempo si è avanzata una percezione del corpo scisso dallo sviluppo olistico della persona, come a voler dire che corporeità non rientrasse nelle variabili che influiscono nello sviluppo umano, o che per lo meno non era tanto importante quanto altre maturazioni. Una disgiunzione che deriva da una errata percezione dell’educazione, la quale, oggi più che mai, richiama la necessità di investire nella nostra res extensa. L’educazione fisica non assume un significato di far muovere a casaccio il corpo, piuttosto rappresenta l’opportunità di prendere coscienza del proprio essere biologico e dello strumento che abbiamo per entrare in contatto con il mondo che ci circonda. Cambi, nel riferire sul problema dell’educazione moderna, afferma che “la formazione umana è soprattutto formazione affettiva. Farsi Uomini è far crescere l’universo dei sentimenti, vivere e regolare i loro conflitti, analizzare e filtrare le loro tensioni e i loro innesti, immergersi in un rete di sentimenti/ 91
emozioni/passioni/ che si tratta di rivivere e di organizzare, al tempo stesso” (Cambi F., Mente e affetti nell’educazione contemporanea, Armando, Roma 1996, p. 138). Gli stati affettivi derivano tanto dal mondo intrapsichico, quanto dal rapporto che rinnoviamo con il mondo fenomenico e con l’alterità. Così se queste forme non vengono ad essere educate, anche lo stesso mondo degli affetti risulta distorto e mal vissuto. Gli stati emozionali devono essere educati, proprio a partire dal carattere tangibile dell’essere umano. Per questo occorre accreditare “l’arte del sentire ed ascoltare “le grida silenziose dei nostri sentimenti” dichiara Rogers;”, quale momento di condivisione e relazione di valori positivi tra le emozioni ed il corpo, soprattutto in questa società che ha sempre preferito un uomo sapiens rispetto ad un uomo sentiens. Di qui l’errore cartesiano di divisione tra mente e corpo che sembra riverberare all’infinito e che dimentica troppo spesso l’assunto lasciato da Spinosa e sostenuta da A. Damasio (Damasio A., L’errore di Catesio, Adelphi, Milano 1995) che “la mente è l’idea del corpo”. Valorizzare la vita affettiva non significa sottrarre il primato del processo educativo all’egemonia cognitivistica e razionalistica, ma ripensare ecologicamente il comportamento umano in modo totalitario. Questa concretezza è caratterizzata dalla relazione che avviene tra mondo fenomenico e “mondo pensoso”, e ciò può avvenire solo per mezzo del corpo. La sostanza umana, però, non deve essere percepita come un qualcosa su cui intervenire edonisticamente, ma come un qualcosa di estremamente prezioso, unico ed irripetibile. Una unione tra corpo e mente, che secondo Giner agisce in modo sincronico per lo sviluppo dell’uomo stesso. L’educazione diviene, così, una formazione costante e totale dell’uomo, in armonia e in ottemperanza di tutte le sue forze. 92
Salas e Serrano (Salas B., Serrano I., Impariamo ad essere persona, tr. it. Università di Barcellona, Barcellona 1998), prestano particolare attenzione a questo principio, ed affermano che l’educazione del corpo dovrebbe avere come finalità quella dell’ “imparare ad essere persone”. Da tali discorsi è possibile estrapolare due matrici: a. Il corpo come identità. Ogni soggetto possiede una determinata percezione di se stesso e della sua corporeità, in quanto quest’ultima rappresenta la nostra fonte primaria di conoscenza. Fin dalla nascita interiorizziamo un modello culturale del corpo che esiste nella nostra società (sesso, razza, bellezza, etc). Questo perché l’immagine che abbiamo del nostro corpo è il risultato dell’interazione tra la nostra percezione personale e l’immagine sociale che abbiamo, cioè la somma delle percezioni corporee che ci vengono proposte e che ci circondano. Questo fatto può portare all’accettazione o al rifiuto del proprio corpo, a seconda se esso sia conforme o meno al modello o allo stereotipo sociale proposto; b. Il corpo come emozionalità. Le relazioni che instauriamo con gli altri spesso si realizzano per mezzo della fisicità. Il nostro corpo non è solo un mezzo che riflette e memorizza le emozioni ed i sentimenti nella nostra comunicazione con l’esterno, ma è espressione di una vera e propria comunicazione. Soprattutto negli adolescenti il contatto corporale, ad esempio abbracci, carezze etc, sono considerate come violazioni della privacy, generando così una cultura alessitimica nel contatto fisico. Oggi è ampiamente riconosciuto che la repressione di questo bisogno primario di comunicazione fisica è la radice di molte disfunzioni fisiologiche e psicologiche adulte. Il contatto tra corpi è un contatto tra anime. Come indicato da Salas e Serrano, per sviluppare un corpo espressivo occorre una elevata armonia interiore, che deriva da una accettazione incondizionata della nostra fisicità. 93
4.1 Res extensa e salute Risulta paradossale che proprio in un epoca in cui impera l’edonismo e l’apparire l’enfasi prestata alla formazione del corpo sia lasciata solo a poche iniziative di nicchia o a valorosi che ancora credono nel valore del vecchio adagio latino Mens sana in corpore sano. In un era dove uno dei maggiori problemi di ordine mondiale, in particolare delle società industrializzate, è rappresentato dall’obesità e dove il corpo è messo in vetrina, ritoccato, deformato e trasfigurato in nome di un narcisismo sempre più dilagante, la connessione tra mente e corpo subisce notevoli lacerazioni. L’esercizio motorio, asserisce Lucio Cottini, “riveste un ruolo di primaria importanza per un corretto sviluppo della persona. L’uomo fin da bambino ha bisogno di un attività fisica come lo è la curiosità per la mente o il cibo per il corpo. Essa non solo attiva tutti gli aspetti fisiologici dell’essere umano ma, al tempo stesso, assume un ruolo attivatore della conoscenza e della relazione che intercorre tra il sé e il mondo. Di qui l’importanza che il movimento ha per il corpo da un punto di vista materiale, ma anche, e soprattutto, il ruolo educativo che riveste se anche Rousseau lo pone come base per una corretta evoluzione fisico-psichica. [...] La persona, nella sua totalità, riceve l’adesione del pensiero moderno, perché ne avvalora il potenziale generale per una corretta educazione e concezione dell’uomo. A questo impegno formativo non può sottrarsi una ricerca rigorosa dell’attività motoria per una adeguata padronanza di sé e del proprio agire. Cosicché l’agire educativo non sarà più affidato ad un contesto occasionale, ma avrà modo di verificarsi in una azione orientata verso finalità di miglioramento. Deriva così una concezione dell’azione motoria che apre nuove strade a nuovi principi metodologici degli interventi a fine educativo.” (Mancini R., recensione del testo L. Cottini L., Psicomotricità, Carocci, Roma 2003, Educazione 94
motoria e psicomotricità, Vega Anno I, numero I aprile 2005). È possibile rilevare, inoltre, che molte delle problematiche inerenti la salute derivano dalla connessione e gestione errata tra mente e corpo. Alcuni studi su tale rapporto mettono in evidenza che in assenza di una coscienza corporea i messaggi che ci provengono dall’esterno possono non essere percepiti in modo corretto o addirittura confusi, andando, così, incontro a problematiche che investono sia la sfera psichica che quella sociale. Altre ricerche, invece, sottolineano la profonda relazione tra salute e felicità sostenendo che le persone felici sono più sane di quelle infelici. Così, oltre che ad intervenire e rivestire un ruolo centrale nel benessere e nella qualità della vita di ognuno, un cultura del corpo negativa può provocare notevoli problematiche ed alterazioni al normale funzionamento sinaptico. Sappiamo bene che le emozioni “distruttive”, come descritte da Goleman e il Dalai Lama (Dalai Lama, Goleman D., Emozioni distruttive, Mondadori, Milano 2003), provocano conseguenze nocive nel corpo, in particolare sul nostro sistema cardiovascolare e immunodifensore. “La rabbia, il desiderio e l’illusione destabilizzano la normale attività della mente e, di riflesso, anche quella della vita quotidiana; allo stesso tempo queste sono anche, secondo l’insegnamento buddista e secondo una visione razionale-occidentale, i tre “grandi veleni” che infettano la natura umana. Un modo per sfidare le “emozioni distruttive”, che covano dentro di noi, è quello di conoscerne la genesi, mettendo a confronto il pensiero orientale con quello occidentale. Infatti, il Dalai Lama, leader politico e spirituale del popolo indiano-buddista, e Daniel Goleman, noto soprattutto per aver diffuso il concetto di “intelligenza emotiva”, hanno discusso approfonditamente il problema in un colloquio seminariale ai piedi dell’Himalaya. Il problema non è da sottovalutare in 95
quanto richiama non solo azioni avvenute senza corrispondenza tra l’autocoscienza e la moralità, ma evoca fatti che avvengono giornalmente nella vita di ogni persona. [...] Si ricava così una prima convinzione: l’uomo non è solo pensiero e azione, ma anche materialità e trascendenza a cui tutto è riconducibile, o meglio a cui tutto deve ricondursi per una spiegazione oggettiva e soggettiva del suo vivere. [...] L’analisi delle emozioni distruttive è, allora, da condurre sulle modificazioni del cervello da parte dell’esperienza. Le zone più fortemente influenzate dall’ambiente esterno sono anche le più facilmente modificabili attraverso interventi correttivi mirati ad un miglioramento del funzionamento globale dell’organo cerebrale. Oltre ad un occidentalizzata idea dello sviluppo di un ego sano, la psicologia, come tutta la cultura orientale, pur accettando l’importanza di tale idea, pone l’accento sullo sviluppo del sé che orienta la persona al raggiungimento di un equilibrio tra obiettivi spirituali e azione sociale. L’amore, quindi, muove le fila dell’azione educativa. Fruire correttamente dell’intelligenza e della conoscenza, messe al servizio dei cambiamenti interiori, spinti dalla educazione del cuore, risulta di fondamentale importanza per sviluppare un rapporto giusto ed equilibrato sia con il proprio sé sia con l’ambiate sociale. La “coltivazione” della meditazione assicura lo sviluppo della capacità di provare emozioni quali gioia e compassione. La persona controlla le emozione negative al loro insorgere e “coltiva” costantemente quelle che la rendono, dal punto di vista dell’equilibrio interiore, capace di esprimersi adeguatamente nei singoli contesti”. (Mancini R., Le emozioni distruttive, tratto da Vega Journal, anno I, n° 2 anno 2005). Tutte le comunicazioni disturbate tra mente e corpo non sono la conseguenza di una fallace costruzione della nostra natura umana, ma di una forma molto particolare di vedere 96
il mondo che ha origine nei Lumi. L’illuminismo, seppur di fondamentale importanza nella costruzione della cultura occidentale, ha connotato l’anima intrappolata all’interno di preconcetti meccanicistici. A partire dal XVIII secolo e dopo la cartesiana separazione tra anima e corpo, l’illuminismo ha distinto due realtà: corpo-macchina e mente-anima. La mente-anima è quella che agisce sul corpo-macchina, riassunti nel “Penso, dunque sono”. Questo porta il corpo umano a fare qualcosa di totalmente irrilevante per il dialogo interpersonale. In questa prospettiva non si ritiene necessario, quindi, educare ai sentimenti. Si può solo “parlare di sentimenti”, cioè si insegna a cercare di capire i sentimenti, ma non a provarli in prima persona ed in massima libertà; si apprende solo il loro controllo per soddisfare le esigenze di natura sociale. Quanto espresso va a discapito di quel “sento, dunque sono” capace di vedere la persona in maniera completa, insomma olistica. Corpo e mente si relazionano costantemente, tanto da poter essere considerati una cosa sola nella loro diversità e differenziazione. 4.2 Intromissioni, inframmettenze ed elementi connotativi Sebbene l’interesse per l’educazione olistica sembri essere in moderato aumento, la maggior parte dei programmi scolastici si affidano ancora a modelli tradizionali di istruzione/formazione. Essi, in particolare, orientano la propria azione secondo una visione dualistica della persona, supponendo una scissione tra mente e corpo. Una prospettiva che risulta a volte antitetica, di certo asimmetrica ed antinomica, dove si cerca costantemente di promuovere uno sviluppo delle competenze logico/ razionali, a discapito di quelle socio-emotive e corporee. Questa lacerazione, oltre ad indebolire lo stesso processo apprenditivo, genera disturbi fisici e psicologici rilevanti, evi97
denziati in modo particolare nella mancanza di controllo ed espressione emotiva. Poiché il corpo e la mente sono così congiunti, è possibile riqualificare il fisico a partire dal cervello e viceversa. Copiosa è la letteratura medica condotta su tale settore, basti porre a mente di quando il polso di una persona si frattura, l’inibizione si verifica anche nella zona corrispondente della corteccia motoria. Le cellule deputate al movimento del polso, infatti, indeboliscono la loro funzionalità generando, così, un handicap anche a livello cerebrale. Non a caso dopo la rimozione dalla immobilizzazione per il paziente è molto difficile muovere immediatamente l’arto, non solo per la difficoltà oggettiva del ri-utilizzo dopo un periodo prolungato di inattività, ma anche per il deperimento della specifica area dell’encefalo. Occorre, quindi porre enfasi sulla persona nel suo complesso (emotivo, fisico, sociale, intellettuale e spirituale), attraverso un approccio olistico, il quale trova nella comprensione di sé e nell’auto-accettazione variabili capaci di una riconnessione mente-corpo. Per rendere concreto quanto espresso, da un punto di vista pedagogico devono essere ri-valutati elementi come la creazione di ambiente confortevole, capace agevolare l’evoluzione collettiva ed individuale attraverso elementi contestuali specifici; la realizzazione di un curriculum in grado di considerare il soggetto fonte e parte attiva dell’apprendimento; la strutturazione di un equilibrio tra corpo e mente basata sul concetto di inclusione ed integrazione. Tenuto conto di questa lacuna nella formazione tradizionale, Rafael Yus Ramos pone al centro del discorso educativo il modello espresso da Sandra Bosacki, quale tassonomia di collegamenti o relazioni tra il sé (mente / corpo, cognizione / emozione, razionale / intuitivo), la comunità e la Terra: a. collegamenti con se stessi. È possibile utilizzare un pro98
gramma basato sull’arte di incoraggiare lo sviluppo di una relazione positiva tra corpo e mente; per esempio, l’uso della narrazione, delle arti visive, della danza, della scrittura, del teatro e del diario. Tali elementi rappresentano strumenti privilegiati per promuovere auto-espressione ed auto-comprensione. All’interno di un contesto scolastico, infatti, l’uso dell’arte può incoraggiare ad esplorare diversi aspetti di se stessi, che a sua volta possono aiutare a scoprire il vero Io. “L’assenza di un riconoscimento dell’identità autonoma di sé stessi e dell’altro è alla base della patologicità della relazione e della disfunzionalità della comunicazione” (Cfr.: Bruscaglioni M., Spaltro E., La Psicologia Organizzativa, Garuti Ghirardini M. G., in La comunicazione nelle organizzazioni, Franco Angeli, Milano 1987, p. 216); b. connessione con la comunità. La relazione che abbiamo con noi stessi può essere adattata anche alla prospettiva sociale, evidenziando il fatto che gli esseri umani sono parte di una collettività. All’interno di questo schema possono essere incoraggiati i legami tra soggetto e società, individuo e cultura e persona ed ambiente. Questi legami influenzano i pensieri, le emozioni ed i comportamenti collettivi; c. collegamento con la Terra. In una prospettiva più ampia, l’uomo oltre ad essere in constante contatto con l’alterità, si ritrova immerso in una “famiglia globale”, cioè la Terra. I modelli di curriculum olistici, come il Waldorf Education, evidenziano la connessione tra ogni essere vivente e l’habitat che lo circonda. Più in particolare, le varie attività utilizzate dallo Waldorf Education, tra cui l’attività fisica con e nell’ambiente, mostrano la possibilità di far percepire al soggetto di vedere se stessi in un quadro più ampio: l’ecosistema e la natura; d. collegamenti con le altre culture. L’acquisizione della diversità come momento di sviluppo e maturazione collettiva aiuta a creare la propria identità, riconoscendola come una tra 99
le tante che esistono in tutto il mondo. “L’invito a non considerare la cultura/le culture in modo statico, descrittivo e museografico, si traduce in un serio approfondimento di questo concetto, in un’attenzione verso le prospettive dell’antropologia culturale, e ad una sua rilettura in chiave pedagogica che stimola il confronto non più sulle culture dell’altrove pensate in modo esotico, ma sul ruolo dei soggetti quali creatori di significati culturali” (Benvenuto G., a cura di, La scuola diseguale. Dispersione ed equità nel sistema di istruzione e formazione, Anicia, Roma 2011, p. 371). Ecco, allora, la necessità di dover investire circa un “progetto pedagogico interculturale generalmente inteso” (Santerini M., La qualità della scuola interculturale. Nuovi modelli per l’integrazione, Erikson, Trento 2010. In generale, lo sviluppo di un approccio olistico e la cura di un atteggiamento positivo e le questioni ambientali possono contribuire a relazionare ognuno al mondo ed all’alterità. Ciò che appare essere più di una speranza è il fatto che nel dialogo risiede la possibilità di creare un uomo consapevole del ruolo che assume nel confronto con gli altri e con la natura. 4.3 L’arte del vivere Si è ampiamente dimostrato che l’instabilità nella relazione tra mente e corpo ha conseguenze gravi per un armonico sviluppo individuale e sociale. Tale idiosincrasia, principalmente dovuta a fattori sociali di stress quali emozioni negative e attività che spingono il nostro cervello ad insostenibili carichi e ritmi di lavoro, porta ad effetti sia immediati, che a lungo termine: accelerazione del battito cardiaco, respirazione superficiale, aumento della tensione muscolare, sudorazione sono tutti meccanismi di allarme che il nostro corpo invia davanti a situazioni di pericolo o pseudo pericolo. Se poi si prende in considerazione la qualità della vita, cioè gli elementi che non appaiono nell’immediato ma presentano il loro conto con il 100
passare del tempo, allora occorre prendere dei seri provvedimenti in merito. Ogni persona dovrebbe essere dotata di una “cassetta degli attrezzi” che gli consenta di ripristinare una stabilità interiore, in modo tale da non incorrere in sgradevoli implicazioni fisiche e psicologiche. Di qui la necessità di tecniche specifiche, tra cui quella del rilassamento e della meditazione, appartenenti ad una letteratura olistica. Tali esercizi, infatti, tendono a trasformare la consapevolezza del nostro corpo e favorire il controllo e salvaguardia della nostra natura. Se oggigiorno ogni soggetto aspira in modo spasmodico al raggiungimento del “sogno obbligato”, questo si ripercuote e sottrae tempo al proprio Io interiore e alle relazioni con l’altro. “L’arte della vita” (Bauman Z., 2008), o meglio l’arte di vivere, non può esaurirsi in una economizzazione estrema del possesso, piuttosto dovrebbe fondarsi nelle relazioni affettive, ad esempio tra genitori e figli, nel prendersi cura del proprio essere e nel rispetto verso la madre Terra. Purtroppo tutto ciò è sempre più distante dal nostro modo di vivere e si riflette in una serie di ripercussioni che con il passare del tempo si acutizzano e si trasmettono di generazione in generazione, amplificandosi e rendendosi via via sempre vive. Occorre sovvertire questa pericolosa tendenza che altera la vera natura dell’uomo e della sua immanente trascendenza, che, seppur strapazzata, ignorata e nascosta è parte essenziale del nostro esistere. La gestione dello stress richiede una profonda conoscenza sia del nostro mondo interiore, sia della nostra corporeità, in modo tale da facilitare ed equilibrare la comunicazione tra mente e corpo. Di qui la necessità di una prospettiva della vita più “slow” in cui l’uomo ritrova la sua vera “temporalità” e naturalità. Non 101
a caso la natura non possiede ritmi frenetici o convulsi, essa procede lentamente, con fasi ben scandite e a misura d’uomo. Ecco che viene ad essere sollecitata quella “pedagogia della lumaca” che da Rifkin a Kundera, da Don Milani a Demetrio, fino a giungere a Gianfranco Zavalloni, offre una prospettiva lenta dell’educazione e della vita. Una categoria, quella slow, che ripete e rispetta i cicli naturali dell’uomo. La pedagogia non può non tenere conto, in particolare nell’età della fanciulezza, dei tempi e dei modi di apprendimento umano. Occorre “restituire all’infanzia gli spazi ed i tempi che le sono propri”, dichiara Paola Tonelli in un Sua recente pubblicazione. In un mondo che seppur pone al centro del progetto educativo il bambino, le grandi industrie, i mass media, i giochi, etc. risultano sempre più convulsi. “Abbiamo distrutto il loro modo di apprendere e di inventare”, costatando che “oggi impieghiamo tempo per insegnare al bambino il concetto di tempo, mentre massacriamo il suo tempo” (Tonelli P., Anche i bambini si stancano, Ancia, Roma 2011). Il bambino si ritrova sommerso sempre più nel vortice di ore scolastiche, nelle molteplici attività sportive, una famiglia sempre più esigente, da vere e proprie “terapie occupazionali” ed un gruppo di pari ove è sempre più massiccia la presenza di abusi e atti di bullismo. Tutto questo sfocia in una qualità della vita inevitabilmente meno elevata, appagante e soddisfacente. Non c’è più un vero benessere nei bisogni, riferendoci alla teoria di Maslow, piuttosto una cultura della mansione sempre più indiscriminata e qualitativamente meno efficace dal punto di vista evolutivo.
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Cap. 5 Feconde intersezioni È ormai da qualche lustro che la ricerca neurologica ha dimostrato che la maggior parte dei principi su cui si erige l’educazione tradizionale sono fallaci, parziali ed incompleti. L’avanzamento tecnologico e le incessanti scoperte scientifiche sempre più puntuali ed approfondite sullo studio del cervello hanno evidenziato la necessità di una revisione dell’intero organigramma ed architettura educativa. Attraverso le ricerche compiute già a partire degli anni Novanta da Caine e Caine (Caine N. R., Caine G., Making Connections: teaching and human brain, association for supervision and curriculum development, Alexandria 1991), Rafael Yus Ramos indica dodici principi su cui dovrebbe erigersi un processo olistico di apprendimento capace di soddisfare le esigenze educative e sociali odierne: 1- Il cervello è un sistema complesso ed adattativo. Una delle caratteristiche più rilevanti del nostro cervello è la capacità di operare in modalità “multitasking”, cioè compiere azioni a diversi livelli operativi e in molti modi contemporaneamente. Non a caso pensieri, emozioni, memoria, logica, etc. operano in modo interattivo, sia tra di essi, sia con l’ambiente che ci circonda.; 2- Il cervello è sociale. Grazie alla sua flessibilità ed elasticità, in modo particolare nei primi due anni di vita, il nostro cervello si adatta ed interagisce con il contesto entro cui si trova, in modo tale da conformare e stipulare relazioni con l’ambiente e con l’alterità; 3- L’innata ricerca di significati. Dare una senso alle nostre esperienze appartiene alla natura del nostro essere e del nostro evolvere. Tradurre creativamente in significati i 103
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simboli della cultura umana appare essere presente nei nostri geni, come il respirare ed il nutrirci. Questo è orientato non solo alla sopravvivenza, ma diviene un aspetto cruciale nelle trasformazioni sociali create dall’uomo per l’uomo. La ricerca di senso, in questo caso, è trovare un significato di noi stessi e delle nostre potenzialità; La ricerca di senso avviene attraverso la modellazione. Il cervello ha bisogno di registrare automaticamente gli eventi e gli oggetti che lo circondano ed, allo stesso tempo, cerca risposte a questi nuovi stimoli. In qualche modo, il nostro intelletto è sia scienziato che artista. Nel suo naturale funzionamento, infatti, le nostre azioni cerebrali sono orientate nel discernere e comprendere le variabili secondo schemi posseduti e, qualora questi non fossero adeguati o funzionali, ne crea di nuovi che modificano l’intero comportamento; Le emozioni sono fondamentali. È accertato che quello che impariamo nel corso della nostra esperienza è influenzato ed organizzato dalle emozioni; Ogni parte del cervello percepisce le cose contemporaneamente producendo risposte diverse. Pur differenziandosi e distinguendosi i due emisferi cerebrali possiedono la capacità di interagire costantemente secondo le proprie peculiarità fisiologiche e biologiche; L’apprendimento necessita di attenzione e percezione. Il cervello assorbe le informazioni che possono essere apprese come conoscenza diretta dall’attenzione, ma anche quelle derivanti dal contesto percettivo periferico; L’apprendimento deriva da processi consci ed inconsci. Oltre ad un apprendimento volontario, a volte si apprende in maniera del tutto inconsapevole. L’input sensoriale viene elaborato sotto il livello di coscienza mediante continue attività di riflessione e di meta-cognizione; 104
9- Possediamo almeno due forme di memoria organizzativa. Anche se ci sono molti modelli di memoria, la memoria spaziale/autobiografica rappresenta un’eccellente piattaforma formativa, essendo sempre implicita, inesauribile e motivata dalla novità. Nello stesso modo, nel momento in cui si tenta di separare le informazioni e le competenze possedute con l’esperienza reale, viene ad essere attivata la memoria ripetitiva; 10- L’apprendimento è evolutivo. La maturazione soggettiva avviene per mezzo di quella facoltà soggettiva che gli esperti dichiarano come “plasticità neuronale”. Tale attributo del cervello rende le connessioni sinaptiche flessibili e modificabili nel corso del tempo, sia attraverso le esperienze, sia per mezzo di nuove conoscenze. Paradossalmente sotto tali termini l’apprendimento è illimitato: i neuroni continuano ad essere in grado di stabilire nuove connessioni per tutta la vita, basta che siano continuamente stimolati. Ogni capacità, quindi, deriva da questa funzionalità dei neuroni. “La plasticità neuronale è tanto potenziabile ed incrementabile con l’esercizio cerebrale (potenziamento a lungo termine), quanto inefficace e indebolita con il non utilizzo (depressione a lungo termine)”. A ragione di ciò Boncinelli riferisce che “il nostro cervello si sviluppa per tutta la vita, perché tutta la vita siamo in grado di imparare cose nuove” (Boncinelli E., A caccia di geni, Di Renzo, Roma 1996, p. 64). Al di là dell’indiscutibile valenza educativa che possiede quello che potremmo definire come la capacità “apprenditiva permanente”, il noto neuroscienziato mette in guardia da una sorta di onniscienza in quanto, pur nella consapevolezza che non si finisca mai di imparare perché il cervello rimane sempre attivo e predisposto ad acquisire nuovi saperi, tale rafforzamento neuronale non può essere protratto all’infinito, se non altro per il fatto che si giun105
gerebbe al paradosso di non poter apprendere più nuova conoscenza” (Mancini R., Segmenti sulla pedagogia della cultura, Margiacchi-Galeno, Perugia 2012). 11- L’apprendimento si nutre di sfide e si indebolisce con la minaccia. Il cervello impara solo nel momento in cui ogni variabile educativa sia collocata in modo ottimale e venga sollecitato costantemente. Tuttavia, il cervello “cade” e “de-cade” nel momento in cui viene ad essere percepita una minaccia, divenendo meno flessibile e ritornando ad atteggiamenti primitivi e standardizzati, quali azioni rivolte alla protezione ed alla salvaguardia; 12- Ogni cervello è organizzato in modo unico. Abbiamo tutti un sistema cerebrale, anche se ognuno è diverso sia nella struttura genetica, sia nell’elaborazione sinaptica delle informazioni. Le differenze si esprimono in termini di stili di apprendimento, di organizzazione delle informazioni, di eterogeneità espressiva, di intelligenza, di comportamento, etc. 5.1 Apprendimento integrale L’apprendimento è una azione dalle molteplici sfaccettature. Certo è che non tutto lo studio e non tutta l’esperienza si trasforma in schemi comportamentali e di conoscenza. Apprendere, infatti, significa comprendere e mantenere nel tempo le conoscenze, ma anche saperle utilizzare in altri contesti rispetto a quello in cui si è venuto a creare. Sotto tali termini l’apprendimento possiede una duplice peculiarità: essere costruttivo ed attivo, cioè derivante principalmente dal confronto e dalla comparazione di nuove informazioni con schemi pregressi e di essere schema da poter eseguire anche mentalmente. Se questo processo si basasse solo sulla memoria o sull’abitudine sarebbe facile gioco dimostrare che invecchierebbe precocemente e rapidamente, risultando il più 106
delle volte inappropriato alla comprensione ed alla funzione richiesta. È possibile determinare una gerarchia degli obiettivi dell’apprendimento secondo il modello esposto da Bloom agli inizi degli anni Ottanta: 1° livello la conoscenza: questo livello è formato dal puro sapere nozionistico, mnemonico, di informazioni e dati puramente quantitativi (contenuti specifici, conoscenza di termini, fatti, eventi, criteri, metodologie e teorie); 2° livello la comprensione: rientrano in questo livello obiettivi che si possono riassumere sul fare proprio un concetto, ma non ancora di applicazione in altre situazioni che non quelle di partenza. 3° livello l’applicazione: si astrae il concetto chiave, la sua matrice per renderla disponibile a successivi momenti di applicazione ad un caso specifico; 4° livello l’analisi: in questo caso sono richieste abilità di comprensione più elevata dei precedenti. Si determina una capacità di cogliere elementi impliciti, ma non direttamente comprensibili. Per esempio se si vede un dipinto di un famoso artista si deve essere in grado di risalire all’autore attraverso l’utilizzo del colore, della pennellata ecc.; 5° livello la sintesi: consiste nel riunire gli elementi dell’analisi e nel crearne dei nuovi, unici e irripetibili perché derivanti da un atto creatore; 6° livello la valutazione: questa è la capacità più complessa in quanto richiede uno spirito critico, di analisi dettagliata e di una sintesi capace di penetrare all’interno dell’anima delle cose (Cfr. Mancini R., Soluzioni metodologiche nell’azione educativa, Margiacchi-Galeno, Perugia 2008). Di qui diviene fondamentale lo studio sulle modalità con cui ogni soggetto cerca nuove informazioni. Gli stili cognitivi rappresentano queste modalità attraverso i quali ogni cervello 107
elabora conoscenza. Secondo Sternberg lo stile cognitivo non è sinonimo di abilità o intelligenza, ma è l’uso che se ne fa di queste facoltà umane. Di qui un principio universale: non tutti imparano allo stesso modo. Gli stili di apprendimento, infatti, non rappresentano solo il modo più proficuo per capire noi stessi, ma anche la possibilità di controllo sulle nostre esperienze e l’aumento del nostro potenziale. Attraverso le riflessioni derivanti dallo studio sul cervello, Gregorc (Gregorc A. F., A giude to indentifying preferred learning style, Gabriel system Inc., Massachusetts 1982) enuclea l’esistenza di quattro diversi stili di apprendimento: a - Concreto-sequenziale, appartenente al pensatore metodico, pratico, stabile e dipendente. Uno stile orientato al prodotto, in quanto “tempo cosciente” concentrato sul dettaglio e sulla precisione; b - Astratto-sequenziale, aderente ad una logica accademica ed intellettuale basata sullo studio analitico ed approfondito; c – Astratto-aleatorio, incentrato sul sensibile, emotivo e percettivo. Riflessione intuitiva, creativa e dialogica; d – Concreto-casuale, riscontrabile in un soggetto creativo/ intuitivo. Logiche divergenti ed impulsive, alle quali corrispondono una forte propensione al rischio, alla curiosità e alla costante ricerca di risposte e stimoli sempre nuovi. Per il pedagogista americano gli stili di apprendimento sono i significati che diamo ai simboli della cultura umana che derivano dall’elaborazione delle informazioni che provengono dai sensi. Sotto tali termini lo stile di apprendimento dipende da due fattori: - capacità percettive: il senso con il quale cogliamo l’informazione; - competenze astratte o concrete del pensiero: cioè il modo 108
di organizzare e disporre le informazioni. Nella letteratura europea gli stili di apprendimento vengono distinti in: - Globale-analitico: visione parcellizata o generale; - Dipendente-indipendente: influenzato o non influenzato dal contesto entro cui opera; - Verbale-visuale: preferenza apprenditiva linguistica o visuo-spaziale; - Convergente-divergente: schemi di ragionamento lineari e conformi alle regole o dissonanti e distaccati da esse; - Sistematico-intuitivo: modalità di approccio; - Impulsivo- riflessivo: norme di operazione. Nell’analizzare le varie tassonomie di stili di apprendimento è possibile concludere che nessuno di questi modelli rappresenta, con perizia e completezza, il compito complesso che ogni soggetto compie nell’apprendere. Difatti, ognuno di noi non possiede un solo canale con cui apprende, ma spesso utilizza l’unione di più stili e quindi di più strategie. 5.2 Individui e uomini motivati Oltre ad una sensibilità pedagogico-didattica del tutto soggettiva nell’adottare uno stile piuttosto che un altro, un fattore che in particolare può influenzare il normale svolgimento formativo è senza dubbio la motivazione. La stessa parola MOTIV-azione è composta di due parti che indicano, appunto, avere dei motivi per agire. Ogni stile cognitivo deve essere redatto e sorretto da specifiche motivazioni individuali, altrimenti si rischia di fomentare apprendimenti superficiali e poco duraturi. Su tali aspetti è opportuno osservare che esistono diverse tipologie di motivazione e che quest’ultima è strettamente legata al contesto. In generale la motivazione può essere: 109
- intrinseca (interesse, curiosità, etc.), la quale si classifica in innata (bisogni) e mediata (obiettivi); trova legittimazione nella teoria dei bisogni di ordine cognitivista; - estrinseca (elogi, approvazioni, etc.) di ordine comportamentista, si basa sul rinforzo esterno (premi e punizioni). La capacità di motivare i partecipanti al percorso educativo, di qui il richiamo all’attivismo pedagogico, appare essere un elemento fondamentale sia in fase di progettazione, che di realizzazione e valutazione. Nel 1954 Maslow definisce la motivazione come “carenza di un ‘oggetto’ desiderato, talchè la persona orienta il suo comportamento per raggiungerlo o per soddisfare il relativo bisogno” ed articola i bisogni in 5 tipologie universali disposte a piramide (fisiologici, sicurezza, appartenenza, stima-status e autorealizzazione). La forma geometrica piramidale oltre che rappresentare la suddivisione dei bisogni, indica anche la presenza quantitativa di persone collocate sui vari livelli. Se, infatti, il primo bisogno è quello fisiologico, dove la spinta motivazionale è naturalmente legata alla sopravvivenza ed alla salvaguardia della specie, il numero dei soggetti che tendono alla sua soddisfazione sarà copioso. Tanto per il bisogno di sicurezze, quanto per quello di appartenenze e di stima/status, che occupano il secondo, terzo e quarto gradino della piramide, la motivazione deve essere sollecitata oltre che dall’esterno, anche da giustapposizioni strategiche e didattiche di alto valore formativo. Infine, il bisogno di autorealizzazione corrisponde alla necessità di sviluppare le proprie potenzialità, insomma di raggiungere l’eccellenza in un determinato campo dell’agire umano ove la motivazione interiore dovrà rivestire un ruolo primario. Appare quanto mai evidente che è solo nei due livelli estremi della piramide (sopravvivenza/fisiologico ed autorealizzazione) che il bisogno di imparare ed apprendere sono vera110
mente forti, mentre negli altri può essere un obiettivo quasi secondario o un mezzo per raggiungere altri scopi. Rifacendoci al concetto di “pedagogia della cultura” (per maggiori informazioni si veda: Mancini R., Segmenti sulla pedagogia della cultura, Margiacchi-Galeno, Perugia 2012) ogni bisogno, infatti, si traduce negli “elementi inalienabili” della persona: autonomia, apertura e singolarità. Nel momento in cui il bisogno individuale è fisiologico, esso rientra nella ricerca di autonomia, mentre se appartiene alla sicurezza, stima ed appartenenza altro non è che la conquista di una apertura verso l’alterità ed il sapere. Non ultimo è la naturale propensione individuale verso il bisogno di autorealizzazione che rappresenta lo spirito più intimo della singolarità umana che trova nella duplice relazione individuo/uomo la sua più alta espressione creativa. Noi siamo individui e uomini motivati, affermava Lombardo Radice. “C’è qualcosa in noi che sentiamo come negazione di noi: un eterno conflitto di due esseri, or l’uno or l’altro oscuro e mal certo a noi stessi. Il me individuo, coi suoi bisogni, colla sua estrema mutevolezza, colla prepotenza cieca delle sue manifestazioni di piacere e di dolore, coi suoi istinti e le sue commozioni, nega continuamente l’altro me: l’uomo, che ha esigenze costantemente in contrasto colla sfera della vita puramente individuale. Ciascuno come individuo è un mondo chiuso, impenetrabile; un avvicendarsi di stati ogni volta completamente diversi; in isolamento perfetto dal me di un’altra ora e degli altri. Ciascuno come uomo è un mondo aperto, visibile a tutti gli altri uomini, un permearsi di stati di coscienza, diversi ogni volta, non escludentisi, ma integrantisi; consapevole della sua continuità, consapevole della sua identità con gli altri esseri, consapevole del suo interiore progresso, che non annulla, ma assorbe in sé e sublima gli stati anteriori. Noi viviamo, in una, due esistenze: la esistenza individuale sarebbe 111
nulla senza l’altra” (Lombardo Radice G., Didattica Viva, La Nuova Italia, Firenze 1951, p. 5). Rispetto a quanto espresso circa la motivazione ed i bisogni primari del soggetto, deve essere aggiunta una ulteriore analisi. Le ricerche sul “split-brain” (divisione del cervello) evidenziano che i due emisferi del cervello tendono ad elaborare le informazioni in modi diversi e complementari: l’emisfero sinistro tende dividere l’informazione in tutte le sue parti attraverso il pensiero razionale ed analitico, mentre l’emisfero destro sintetizza le informazioni in modo globale ed integrale, dando significato alle cose per mezzo delle emozioni. Per intenderci si può semplificare tale concetto asserendo che l’emisfero sinistro è simile ad un computer digitale che organizza in modo analitico-sistematico gli eventi, mentre l’emisfero destro funziona in un modo caleidoscopico, quale sintesi di informazione in configurazioni diverse e soggettive. Da un punto di vista pedagogico le più recenti ricerche sul cervello suggeriscono che l’incapsulamento del potenziale umano nelle scuole può essere dovuto in gran parte ad un processo di apprendimento fallace, basato su un solo modello di apprendimento, che nella maggior parte delle volte appartiene al docente piuttosto che al discente: gli insegnanti preferiscono insegnare nel modo in cui prediligono imparare. Deve essere osservato però che molti insegnanti, per fortuna, cercano di adattare ed estendere il loro stile di apprendimento al discente, in modo tale da riconoscere e legittimare la diversità apprenditiva degli studenti. Pur riconoscendo l’importanza di quanto enunciato, numerosi Autori convengono nel raccomandare che gli studenti dovrebbero imparare con una “flessibilità di stile”, cioè evitare di focalizzarsi e cronicizzarsi verso uno solo di questi. È auspicabile, idealmente, che ogni soggetto che termina il proprio ciclo di studi esca con una capacità di apprendimento multi112
prospettica. Non deve essere dimenticato, infatti, che l’apprendimento è un processo cerebrale di carattere globale. Una duplice prospettiva che richiama una idea di educazione olistica e che conclama il fatto che nessuno di questi modelli fornisce un quadro completo di come le persone imparano. 5.3 Intelligenze e sviluppo armonico Il termine intelligenza è tradizionalmente inteso come “la capacità di risolvere problemi, trovare risposte a domande specifiche e acquisire nuovo materiale in modo rapido ed efficiente”. Dal momento che queste capacità sono presenti nell’essere umano e necessarie per superare un determinato ostacolo in vista di un obiettivo, fino a non molto tempo fa molti scienziati erano inclini a classificare, secondo una scala di misurazione definita come QI, tale abilità come “potere generale dell’intelligenza”. Una funzione, insomma, che si manifesta come competenza nel risolvere problemi di ogni natura ed intensità. Tale impostazione ha dato i natali alle teorie di Binet e Simon, i quali misero a punto il primo test di intelligenza basato sulla pedologia (termine usato per la prima volta da Binet per rappresentare il settore della pedagogia sperimentale del tempo che si occupava dello studio sistematico dell’evoluzione psicologica del bambino. Per una analisi più dettagliata si veda: cfr. Trombetta C., Psicologia dell’educazione e pedologia. Contributo storico-critico, FrancoAngeli, Milano 2002). Tale test rappresentò il bilancio di un trentennio di ricerche e di studi sull’intelligenza e sulla quantificazione delle abilità cognitive che ogni soggetto possiede. Oggi si conoscono oltre 2500 test di stampo cognitivo-psicologico, i quali cercano di indagare in profondità ogni aspetto della persona per garantirgli una risposta adeguata, di senso e magari predittiva. Altrettanto vero è che si può parlare di “isolamento degli 113
psicometristi delle grandi correnti della psicologia sperimentale ed evolutiva, di una loro tendenza a rinchiudersi in uno splendido eremitaggio, applicandosi a rendere sempre più sofisticate le tecniche di costruzione, standardizzazione e validazione dei test, senza preoccuparsi troppo delle ricerche sulla natura e lo sviluppo delle operazioni intellettuali” (Andreani Dentici O., Abilità mentale e rendimento scolastico, La Nuova Italia, Firenze 1970, p. VI). Da queste stesse correnti provengono tuttavia indicazioni basilari, come ad esempio sul grado di oggettività dei test o sulla loro validità ed efficacia nel controllo nozionistico. Altrettanto copiosa, però, è la letteratura che demarca il fatto che i test di intelligenza non possono essere considerati indicatori totalmente attendibili. Spesso gli studenti con alto quoziente intellettivo non raggiungono risultati altrettanto elevati nella vita, rispetto a coetanei aventi un QI per così dire “normale”. Questo suggerisce che c’è qualcosa di più rispetto a ciò che è possibile rilevare oggettivamente sull’intelligenza, un quid che risulta difficile da afferrare ed osservare anche attraverso le più sofisticate tecniche e strumenti. Nel 1983, Howard Gardner ha compiuto un passo importante nel chiarimento di questi problemi, introducendo la teoria delle “intelligenze multiple”. Lo psicologo statunitense ha fornito un’ampia concezione dell’intelligenza umana e della modalità e varietà del pensiero. L’innovazione apportata da Gardner risiede, appunto, nella pluralità cognitiva; egli, infatti, trasforma il precedente concetto monolitico di “intelligenza”, in una declinazione plurale. La nuova visione dell’intelligenza, o meglio, delle intelligenze, a cui perviene Gardner agli inizi degli anni ‘80, parte da molto lontano, e cioè dalle teorizzazioni circa la modularità del cervello umano che diede, nella prima metà dell ‘800, i natali alla cosiddetta “frenologia” (Cfr. Gangemi A., Miceli, S., Sprini 114
G. L’intelligenza. Teorie e modelli, Ed. Laterza, Bari, 2010). Tale disciplina pseudoscientifica affondava le sue radici epistemologiche nel presupposto che esistano specifiche aree del cervello deputate ad altrettante funzioni ed abilità, giungendo, però, ad una pericolosa enfatizzazione di tale visione. I frenologi sostenevano che sarebbe stato possibile stabilire le capacità e caratteristiche specifiche di un individuo attraverso l’ispezione della conformazione cranica; concezioni condussero anche a conclusioni estreme che vennero utilizzate durante il periodo nazista per la discriminazione razziale. Ovviamente le moderne indagini sull’anatomia del cervello misconoscono tale visione, ma confermano, d’altra parte, l’intuizione di una suddivisione, seppur con le dovute cautele unitarie del cervello, delle funzioni cerebrali. Tramite le recenti tecniche di neuroimaging, infatti, è stato possibile giungere a due conclusioni fondamentali, dalle quali Gardner è partito per formulare la sua teoria delle intelligenze multiple. Tali fondamenti sono: 1) nell’esecuzione di un unico compito possono essere coinvolte diverse parti del cervello in misura e con intensità differente; 2) pur in presenza di elevati deficit di funzionamento cerebrale, è possibile riscontrare prestazioni eccezionali. Da questi presupposti prende avvio la teorizzazione delle intelligenze multiple. In questo contesto il concetto di “intelligenza” è visto come “potenziale psico-biologico volto a risolvere problemi o a dar forma a prodotti che hanno valore in almeno un contesto culturale” (Cfr. Gardner H., Frames of Mind. The theory of multiple intelligences, Basic Books, New York, 1983 [trad. it. Formae Mentis, Feltrinelli, Milano, 1987]; cfr. Gardner H., Una molteplicità di intelligenze, in “Le Scienze - Dossier”, n. 1, 1998). Di qui la differenziazione in macro-gruppi dell’intelligenza 115
che, avvalendosi della scoperta delle varie funzioni cognitive attribuite a settori specifici del cervello umano, hanno condotto alla nuova concezione di intelligenze. Secondo la teoria gardneriana, le facoltà cognitive di un soggetto non possono e non devono essere misurate su di una scala unitaria, ma vanno valutate secondo una differenziazione in fattori che coinvolgono più abilità e facoltà, le quali sono attivate in maniera pressoché indipendente. Inizialmente Gardner distingue “sette intelligenze partendo dal presupposto che non si può essere intelligenti in senso assoluto, piuttosto si può eccellere in un determinato campo del sapere o in determinate azioni personali, sia in senso motorio che psicologico. Conviene, allora, soffermarsi maggiormente su tale classificazione, soprattutto per dare una visione più estesa ed avere una prospettiva educativa capace di dare completo sviluppo a tutte le potenzialità possedute da ogni soggetto” (Mancini R., Segmenti della pedagogia della cultura, Margiacchi-Galeno, Perugia 2012). “L’intelligenza linguistica è quella che autorizza l’espressione verbale e non verbale se ha avuto epigoni da Joyce a Nobokov. [...] La lingua, d’altra parte, è un mondo di simboli che assolve la funzione espressiva. [...] L’intelligenza logico-matematica dà ragione di un’altra forma della cultura umana, la scienza, e conferisce alla persona l’abitudine all’onestà perfetta se invita ad un’osservazione attenta e alla riproduzione sperimentale del fenomeno osservato, guidando il ragionamento e facilitando l’intuizione del numero e delle misure. Anche qui epigoni possono essere soprattutto Cartesio e Newton. L’intelligenza musicale costituisce una forma di creatività che, sul piano culturale trova spazio nell’arte, rappresentandone una modalità d’espressione che accredita, per distinguerli, il rumore e il suono, fino a dare origine ad una loro combinazione armonica. 116
Il caso di Mozart è qui emblematico. Non meno importante è l’intelligenza spaziale che dà ragione di come si orientino nello spazio i diversi oggetti. [...] La paziente e diligente impresa ha come antesignani Einstein e Leonardo da Vinci. L’intelligenza corporeo-cinesica dà ragione dell’impegno del proprio corpo ed abitua alla conoscenza dei rapporti causa-effetto. Modelli creativi in questo ambito sono certamente Michael Jordan e la ballerina Martha Graham. L’intelligenza interpersonale dichiara immediatamente tutta la sua applicabilità nella vita di relazione, perché abitua a conoscere gli altri. Gandhi è il modello proposto. Infine l’intelligenza intrapersonale che fa capo all’introspezione e alla capacità di guardarsi dentro, come ci ha insegnato Freud”. (Rosati L., Dentro l’anima della professione docente, Margiacchi, Perugia 2005). Infine, vengono ad essere aggiunte l’intelligenza naturalistica, quale contatto con mondo per mezzo di una coscienza eco, e l’Intelligenza esistenziale, potenzialità umana del suo essere e divenire. L’aver individuato distinte intelligenze serve a dimostrare che ciascun soggetto, nel corso di un qualunque processo cognitivo, ha a disposizione nove modalità di elaborazione delle informazioni che utilizza sincronicamente e pluralmente a seconda dei processi in cui è coinvolto. Altra prerogativa delle intelligenze, secondo la visione gardneriana, è che esse possono essere sviluppate, in uno stesso individuo, fino a raggiungere livelli di eccellenza. In altre parole, ognuno di noi ha una sorta di potenziale intellettivo che si differenzia quantitativamente e qualitativamente da un altro. Tale deduzione comporta la profonda convinzione che il raggiungimento dell’eccellenza soggettiva non è cosa data per assoluta, ma che ogni persona perviene alla sua realizzazione in un modo totalmente o parzialmente diverso rispetto ad un altro soggetto. Ciò che più interessa riguardo la teorizzazione delle intelli117
genze multiple è il fatto che potenzialmente sono tutte presenti nell’individuo ed il relativo sviluppo dipende da fattori biologico-culturali-ambientali che fanno sì che si sviluppi maggiormente l’una o l’altra tipologia. Occorre però precisare che, se non in presenza di soggetti già formati o affermati, ogni sviluppo di una intelligenza sia collegato in maniera olistica ad una maturazione armonica ed integrale della persona. 5.4 Corresponsabilità educativa Alle soglie del nuovo millennio Walters sottolinea che la competenza cognitiva umana è ascrivibile secondo termini di “insieme di competenze”. Nonostante la natura universale e diversificata di questi “poteri”, le loro espressioni sono conformi al modello ed al contesto culturale in cui sono espresse. Di particolare importanza per la tesi olistica, Gardner riconosce che in qualsiasi operazione mentale il cervello orchestra ed attiva diverse intelligenze. Per questo lo stesso scienziato americano definisce l’intelligenza come “un potenziale bio-psicologico” caratteristico della nostra specie. Insomma, la teoria gardneriana rivendica e convalida la tesi olistica nell’accettare che tutti gli esseri umani sono dotati di predisposizioni esattamente equivalenti in tutte le aree dell’agire. Si è tendenti a sostenere che nel lungo termine non ci sia niente di più pratico di una buona teoria, ma la teoria senza la possibilità di una realizzazione pratica perde presto valore. In questo senso è essenziale trovare il modo per integrare e trasformare ogni modello teorico in pratica educativa. Nel modello gardneriano è possibile riconoscere importanti implicazioni educative che vanno dall’adeguamento alle esigenze formative del soggetto discente attraverso un “mutuo-aiuto” e il potenziamento al gusto della scoperta, al creare 118
un ambiente favorevole allo sviluppo umano per mezzo di una valutazione di senso e di una prospettiva metodologico-didattica plurale. Un contributo interessante a quanto espresso è dato dal curriculum integrato, il quale si fonda che, sebbene non esista un modo ottimale per avvalorare l’eterogeneità nel comprendere, l’esercizio quotidiano dovrebbe essere garantito da una vasta gamma di attività. Dello stesso parare, anche se con implicazioni differenti, sono le tesi sostenute da Campbell (Campbell L., Variations on a theme: how theacher interpret M. I. Theory, Educational leadership, n°55 1997). Il noto pedagogista sostiene che vi sia una diversità di forme di applicazione di questa teoria, condividendone uno dei suoi principi fondamentali: ogni agenzia formativa ha la responsabilità di aiutare in tutti i modi possibili a scoprire i talenti nascosti dentro ognuno di noi. Per questo le intelligenze multiple non richiedono una revisione generale di un curriculum, ma solo fornire schemi di lavoro atti a promuovere gli sforzi in risultati. Lo stesso Gardner, sulla scorta dell’attivismo e sulla considerazione che la persona è umanamente unica ed irripetibile, propone un approccio centrato interamente sul soggetto. Questo, però, richiede la modifica delle strutture scolastiche esistenti e la volontà nel riconoscere che il sistema educativo si erige su di una prospettiva sbagliata della cognizione umana. In risposta a quanto espresso torna ad essere rivalutata, anche se con principi operativi diversi, un’educazione individualizzata. I presupposti teorici di questa nuova primavera risiedono sia nelle idee di Rousseau, sull’impulso naturale ad apprendere, sia sulla nelle moderne teorie della psicologia cognitiva. L’educazione deve essere considerata insieme aspetti intellettuali di apprendimento (meta-cognizione e cognitivi), for119
me motivazionali (affettivi), differenze individuali (evolutivo) e fattori sociali. Ignorare queste regole d’insegnamento può non solo generare facili equivoci circa i principi entro cui edificare l’impalcatura educativa, ma anche indebolire l’intera struttura operativa. 5.5 E-voluzione e ri-voluzione nella società della conoscenza La “società della conoscenza” rappresenta uno degli obiettivi che la Comunità europea perpetua attraverso le varie Organizzazioni internazionali e dal cui esito dipendono, a cascata, molteplici fattori ed implicazioni educative. In questo scenario, oltre a riflettere ad attuare le varie proposte espresse nelle indicazioni di Lisbona, urgono piani educativi che autorizzino il soggetto a formarsi e progettare modello sociale integrato. Se è pur vero che il raggiungimento di una società della conoscenza fosse un obiettivo stabilito nei piani politici di sviluppo a livello europeo, è altrettanto certo che analizzare il sensibile cambiamento che sta avvenendo nelle strutture sociali ed il relativo impatto sul concetto e sulle finalità dell’educazione è una questione quanto mai necessaria. Il concetto di conoscenza, infatti, si è andato via via modificando, e mai come ora richiama accezioni particolari e parcellizzate. La conoscenza è sempre incrementabile dal singolo soggetto, a patto che si pongano come basi dell’agire educativo quelle di libertà e la singolarità umana. Di qui l’origine di una società fondata sulla “conoscenza simultanea”, quale fenomeno di uguaglianza e uniformità evolutiva. In un’era sempre più frammentata, discontinua e disordinata in ogni ordine e grado e caratterizzata da metamorfosi sociali sempre più repentine, si avverte l’esigenza di riflettere 120
circa il valore ed il ruolo assunto dalla pedagogia, rispondendo, così, alla provocazione espressa da Rosati risiedente nell’illusione pedagogica che connota questa periodo storico. Un’illusione, afferma il pedagogista tifernate, che “crolla, d’improvviso, manifesta una caduta d’interessi e di azione, ma ha senz’altro delle cause remote che la determinano” (Rosati L., La fine di un’illusione. Le scienze dell’educazione al bivio, Margiacchi, Perugia 2008, p. 15). C’è da domandarsi, insomma, se tali trasformazioni, non conoscendone i reali confini, siano scaturite da un naturale mutamento che approda a nuove forme di stabilità ed equilibrio, oppure se lo stesso assuma una prospettiva costante, divenendo, così, una categorie dell’educazione. Il timore che la seconda ipotesi sia quella più concretamente futuribile e di essere realizzata pone nella condizione di rivendicare, ancora una volta, l’indiscutibile necessità di educare olisticamente l’uomo nel suo divenire. Molti sono i fattori che è possibile scorgere nel riconoscere tale stato di crisi. Uno dei primi segnali è dato dall’ampliamento delle disuguaglianze economiche e sociali, sia a livello planetario, sia all’interno di uno stesso paese. Le differenze, sempre più marcate, tra nord e sud, tra paesi in via di sviluppo o sottosviluppati e quelli facenti parte del G8 e tra diverse culture provoca un lento ma inesorabile declino del tessuto sociale. Tale difformità è particolarmente accentuata soprattutto laddove il processo tecnologico ha eliminato il presidio umano, senza produrne dei nuovi e promuovere educazione. Quanto espresso si traduce in una risposta sempre aperta alla esigenze individuali e collettive. Non possiamo essere smentiti quando asseriamo che il periodo attuale sia caratterizzato da una crisi generalizzata: errata organizzazione e gestione sociale, uno sviluppo economico inefficiente ed inso121
stenibile, una politica sempre più lontana dai bisogni reali del cittadino, una capitalizzazione monetaria dell’impresa ed una dispersa identità valoriale. Drucke, Gorz accreditano l’idea che tali crisi abbia come principali attori quelli della coesione sociale (crisi dello stato politico), della relazione tra economia e società (crisi del lavoro) e della decadenza del soggetto stesso (crisi dell’uomo). Un triplice crollo, quindi, che se non interrotto potrebbe portare a risvolti apocalittici. Di comune accordo con molti Autori, crediamo che si stia smarrendo l’unica fonte di legittimazione sociale possibile: l’essere umano e il suo benessere olistico. Tutto ciò provoca la mutazione delle competenze richieste per entrare a far parte dei contesti lavorativi, ma tralasciando la disincrasia tra competenze apprese e richieste. L’aumento della disuguaglianza nel mercato del lavoro porta inevitabilmente ad un accrescimento della “omogeneità mediocre”, quale tendenza diffusa verso il basso. Una uguaglianza, quindi, che seppur sembra essere l’unico strumento a disposizione delle moderne democrazie per salvaguardare la propria identità sociale, dall’altro registra una profonda e pericolosa tendenza verso la pochezza. Infatti, la stessa uguaglianza cede la sua vigoria soprattutto nel momento in cui rappresenta una “uguaglianza bassa”, cioè una omogeneità critica e diffusa tra le reali condizioni di una popolazione. Purtroppo ciò che non si tiene abbastanza in considerazione è il fatto che anche l’uguaglianza genera disuguaglianza. A tal proposito si deve registrare una notevole letteratura e svariate proposte politiche che tendono a descrivere ed analizzare il processo di globalizzazione dell’uguaglianza. Come evidenziato da Schnapper (Schnapper D., La communauté des citoyens, Gallimard, Paris 1994), il risultato di questo processo risiede nella perdita di significato e di affiliazione da 122
parte dei cittadini del concetto stesso di nazione. In tali circostanze l’omogeneità e la disomogeneità vengono ad essere concepite come integrazione/emarginazione culturale, e non come integrazione politica e sociale. La costruzione di una cittadinanza attiva e globale esige un concetto di solidarietà vincolato e veicolato dalla partecipazione costruttiva dei cittadini alla vita politica del paese. Tutto il cambiamento dell’organizzazione sociale e politica stimola lo sviluppo di nuove forme di segmentazione e differenziazione sociale. Le trasformazioni politiche, sociali ed economiche hanno comunque radici molto lontane che trovano natali nei mutamenti culturali. La profondità del cambiamento culturale è tanto significativa che ha portato a classificare, secondo Fukuyama, questo periodo come “la grande rottura” (Fukuyama F., La gran ruptura, Atlantida, Buenos Aires 1999), un punto di svolta dal quale non è possibile tornare indietro. Una rottura epistemologica, detta con Bachelard, in cui le trasformazioni appartenenti al ruolo e composizione della famiglia, all’evoluzione dell’individuo e del proliferare sempre più vorticoso delle nuove tecnologie rappresentano le manifestazioni più palesi e dichiarate. Il cambiamento quantitativo e qualitativo del nucleo famigliare ha generato una crescita della popolazione nativa negativa. Per citare solamente il caso italiano, gli studi di settore evidenziano una marcata tendenza alla composizione di famiglia nucleare – madre, padre, figlio/a- concedendo poca importanza all’educazione delle nuove generazioni. Tale costatazione porta Théry (Théry I., Diffèrence des sexes et diffèerence des générations; l’istitution familiale en déshérence, in Esprit, n° 227, dicembre 1996) a sostenere il fatto che la famiglia contemporanea non è più una istituzione, piuttosto una “rete di relazioni” che, invece di rendersi responsa123
bilmente attiva nella trasmissione di valori e patrimoni culturali, privilegia la costruzione di una identità individualista. Certamente notevole influenza viene esercitata dalle nuove tecnologie, le quali richiedono sempre più spazio e tempo al soggetto che tenta di progredire. Una e-voluzione e ri-voluzione che non tarda a farsi necessaria, in quanto attualmente sembra essere una in-voluzione. La nozione stessa di realtà comincia ad essere ripensata dalle possibilità di costruire una consistenza virtuale – realtà virtuale - in cui, anche se viene ad essere ignorata la complessità sociale ed individuale, la relazione io-tu è assoggettata a parametri tecnologici. Il sistema sociale ed educativo non è più responsabile del destino della persona. Non c’è, infatti, all’interno dell’architettura politica ed economica un’istanza di protezione e tutela sulla quale il cittadino possa salvaguardare se stesso. Il passo successivo sembra essere quello di mettere in opera quanto espresso e ripetuto, cioè realizzare concretamente un’educazione che ha nel suo naturale sviluppo quello di accompagnare il soggetto per tutto il suo cammino. Questo, però, sarà realizzabile solo se l’accesso alla conoscenza sarà democraticamente inteso, e cioè sarà necessario educare per tutto il corso della vita, migliorare la qualità dell’educazione presente e pianificare un uso della tecnologia in maniera più funzionale. Se fino a poco tempo era possibile parlare di “società della conoscenza”, dove tutte le informazioni potevano essere a disposizione dell’uomo con un semplice click, oggi sembra più legittimo riferirci ad una “società conoscitiva”, la quale sottolinea l’atto del conoscere da parte del soggetto in apprendimento. Un nuovo attivismo pedagogico che colloca l’informatizzazione nello strumentario a disposizione di ogni cittadino e non più semplice sapere che si dirige ad un soggetto passivo. 124
Cap. 6 Tra passato, presente e futuro L’olismo sostiene che il passato, il presente ed il futuro sono intimamente connessi, tale da rendere ogni processo educativo fondato secondo questi tre vettori. Non è possibile formare un soggetto solo nel presente, in quanto il suo trascorso influenza ed il suo futuro orienta. I neuroscienziati chiamano la possibilità umana di preordinare il futuro “pensiero episodico futuro”. Questa potenzialità dell’essere umano appare essere la capacità di simulare mentalmente azioni possibili o ipotetiche sfruttando dettagli ed elementi estrapolati dal passato, così come il pensiero costante e vigile al proprio domani avviene per mezzo di determinate aree cerebrali (memoria, funzioni esecutive, aree deputate alla gestione delle emozioni, etc.), le quali producono pensieri che rendono sempre vivo il nostro passato. Il nostro futuro, quindi, dipende inevitabilmente dall’elasticità neuronale nell’associare e riportare alla mente episodi passati, i quali generano congetture presenti e orientano il nostro futuro. Il presente, se incalzato da esperienze passate e proiettato nel futuro, rappresenta il momento critico del nostro essere. Per mezzo di ricerche neurobiologiche è stato dimostrato, infatti, che soggetti aventi deficit fisiologici nella memoria episodica non riescono più a decidere del loro futuro, non potendolo più immaginare (cfr. Hassabis 2007). In tale scenario per esperienza è legittimo intendere “una partecipazione personale agli eventi educativi, laddove il secondo significa una operazione (o un insieme di operazioni) compiuta da un operatore su una o più variabili indipendenti che sono elementi di una situazione per verificare le modifiche 125
che si determinano in una o più variabili dipendenti appartenenti esse pure alla situazione” (Bertoldi F., Sperimentazione, La Scuola, Brescia 1976, p. 162). Di qui il valore che assume l’esperienza soggettiva, quale unico strumento a disposizione dell’uomo per la sua evoluzione e punto di partenza di ogni processo educativo che, diversamente dalla coscienza, “è tutto ciò che l’uomo è”, sostiene Dewey. All’esperienza è doveroso assegnare un forte valore formativo, quale fonte e contesto di apprendimento entro cui si plasmano e rintracciano le orme dell’evoluzione umana. La scuola tradizionale è da sempre stata caratterizzata da una enfasi posta sul passato, così da legittimare una trasmissione di conoscenza costruita ed acquisita nei secoli. Questa però non è la visione corretta che dobbiamo assegnare all’esperienza storica. L’educazione olistica, riconoscendo la valenza formativa di un’educazione così radicata e rivolta verso la cultura, attribuisce un grande valore all’esperienza. L’apprendimento basato sull’esperienza soggettiva rompe gli schemi pregressi, stabilendo un collegando tra le numerose tradizioni pedagogiche materialiste e pragmatiste del secolo trascorso e con paradigmi appartenenti a quelle che comunemente vengono descritte sotto la semantica pedagogica di “esperienze alternative” facenti parte l’attivismo pedagogico. L’esperienza è un modello identificativo e conoscitivo. Infatti, esistono metodi che tracciano il percorso conoscitivo tramite induzione o altri che passano dal generale fino a giungere al particolare attraverso deduzioni. Stuart Mill prende in esame una metodologia diversa, basata nella logica di ricerca che si dipana dal particolare al particolare. In tale modello la verità viene ad essere estrapolata e resa significativa dall’esperienza, cioè nella natura umana e nella concatenazione degli eventi. Netto è il distacco di questo modello al concetto kantiano di 126
forme di conoscenza a posteriori. L’esperienza diviene base dell’apprendimento. Tuttavia, negli ultimi anni, con il rafforzamento del pensiero cartesiano, si è ciecamente guardato ed educato per mezzo di paradigmi appartenenti alla sfera razionale e tecnologica. Il razionalismo, quale tendenza a fare dell’uomo un perfetto “piccolo scienziato”, ha costruito una personalità collettiva superba e splendida, diremmo assieme a Maritain; certamente infrangibile, gelosa della sua immanenza e della sua autonomia. Seppur riconoscendo l’importanza di tali modello didattico-pedagogico che ha prodotto una notevole accelerazione in molti settori della scienza moderna, ciò ha avuto delle rilevanti ripercussioni nelle Istituzioni scolastiche e nella formazione di un uomo totale. Focalizzando l’attenzione solo su ciò che è comprensibile, osservabile e sperimentabile abbiamo perso di vista il vero significato della nostra esperienza e della nostra vera natura. Nonostante ciò, la scuola tradizionale stenta a percepire l’importanza che riveste la persona umana, il suo spirito e la sua essenza. Troppo spesso si assiste inermi ad ambienti di apprendimento statici, sopprimenti e soffocanti che non forniscono alcuna opportunità di sviluppo olistico ed integrale dell’essere umano. Si tratta di contesti passivi in cui ogni attività è strutturata intorno al rafforzamento di un apprendimento mnemonico e ripetitivo. Siamo concordi con Freire, il quale nella sua famosa opera “Pedagogia degli oppressi”, edita originariamente da Mondadori nel 1971, critica la scuola tradizionale, soprattutto per il suo trascurare il ruolo dell’esperienza in ogni azione formativa. Il pedagogista di origini brasiliane, infatti, definisce l’architettura educativa vigente basata su un “modello bancario”, secon127
do il quale l’educazione è divenuta un deposito di informazioni, con amministratori, creditori e/o debitori. Questo modello invece di comunicare, produce affermazioni, memorizzazioni e ripetizioni. In questa “banking” l’unico margine di azione che viene offerto al discente consiste nel ricevere questi “depositi” del sapere, e, nella migliore delle ipotesi nel salvarli ed archiviarli, secondo un catalogo anch’esso prestabilito. Un modello, quindi, che seppur da salvare nella sua bontà quantitativa, si sgretola sotto i colpi dell’avanzare tecnologico e culturale, dove ogni dato può essere rintracciato con un semplice “click” e dove ogni informazione invecchia rapidamente. Da questa visione distorta, o per lo meno non completa, dell’educazione si distendono notevoli conseguenze. Di certo non possiamo esimerci dal constatare una soppressione del pensiero critico-creativo e la totale assenza di una personificazione del processo apprenditivo generato dall’azione formativa. L’apprendimento esperienziale offre un approccio più integrale in una prospettiva di life-long learning. 6.1 L’apprendimento esperienziale L’apprendimento basato sull’esperienza, quale azione conoscitiva, si fonda su alcuni principi fondamentali. Gli elementi che connotano la capacità di agire, comprendere ed apprendere dal proprio vissuto si realizza per mezzo della scoperta. Si tratta di un processo il cui fine (o inizio) è la ricerca di significato che avviene all’incontro con il fare montessoriano. In effetti, l’apprendimento esperienziale può essere interpretato come il processo mediante il quale viene creata la conoscenza, che, a sua volta, trasforma l’esperienza futura. A tale azione deve però essere relazionata una astrazione, la quale rappresenta un elemento indiscutibile per la comprensione della situazione educative. Tutto ciò si traduce in implicazioni nella vita sociale, le quali devono essere in uno spirito di collabora128
zione costante tra scuola, soggetto in appredimento e comunità. Ma è essenziale che l’architettura scolastica e sociale sia osmotica ed aperta, pronta alle continue modifiche e trasformazioni della vita sociale. Di qui la necessità di impostare un curriculum basato su un apprendimento esplorativo, che sia diretto al di là e al di fuori della classe e fondato nel vissuto e nell’esperienza diretta. Questo modello si basa su tre principi di apprendimento che partono dagli spunti del Piaget sul legame che si instaura tra pensiero, osservazione ed esperienza del mondo che li circonda, passano dalla costruzione della conoscenza attraverso le interazioni dialogiche e relazionali e si concludono in una capacità di interpretazione critica degli eventi. Riprendendo le analisi compiute da Van Scoy, Yus Ramos (Yus Ramos, Comunidade e escola: o que a trasversalidade oferece, Pàtio 1999, n° 10) raccoglie tale sollecitazioni e comprende l’esperienza attraverso un schema descritto come “modello delle 4 E”, che in una traduzione personale dallo spagnolo divengono: esperienza, estensione, espressione, valutazione (evaluaciòn): o Esperienza. Poiché la comprensione del bambino si basa sull’osservazione, dobbiamo in primo luogo fornire esperienze e conoscenze reali. È importante che le esperienze dirette avvengano in prossimità dell’inizio dell’unità didattica, contrariamente a quanto avviene con le escursioni e le gite che solitamente sono poste alla fine del percorso formativo. Ogni qual volta sia possibile occorre fornire una reale e concreta esperienza, anche se naturalmente esistono delle eccezioni, soprattutto laddove non sia possibile “sperimentare” direttamente; o Estensione. Una volta che il soggetto sia stato coinvolto in modo attivo è possibile estendere ed ampliare la conoscenza attraverso immagini, parole, canzoni, rappresentazioni, 129
etc., così da motivare ogni soggetto ad esplorare ed interagire mentalmente. Questo passaggio fornisce l’esperienza necessaria e coerente, secondo un approccio olistico, per coinvolgere in ogni attività formativa il soggetto in apprendimento. Trovare, selezionare e creare esperienze di qualità richiede attenzione e sforzo, pensiero e pratica, in quanto significa qualcosa di più di sviluppare materiali o informazioni fine a se stesse; o Espressione. Ogni persona che intraprende un’azione educativa necessita di opportunità per esprimere le proprie peculiarità e singolarità creative. Parlare, scrivere, manifestare artisticamente, giocare, etc. sono tutte operazioni che rendono palese ciò che siamo, i nostri bisogni e le nostre esigenze. Questo è il pensiero critico, un insieme di azioni che coniugano l’apprendimento delle informazioni e la capacità personale di espressione; o Valutazione. Strettamente legata alle precedenti attività, la valutazione avviene in determinate fasi: conoscenza della situazione di partenza, dei progressi individuali ed , infine, i risultati raggiunti. La valutazione “è reperibile in un’attenta considerazione dei significati che la valutazione può esprimere, nelle funzioni che essa può e deve svolgere nell’ambito formativo, nell’identificazione delle corrette procedure, nella formazione di idonee ed efficienti metodologie di lavoro” (Santelli Beccegato L., Varisco B. M., Docimologia. Per una cultura della valutazione, Guerini Studio, Milano 2000, p. 11). 6.2 La rivoluzione progressista L’esperienza come strategia e metodo educativo è particolarmente importante nel cosiddetto “movimento progressista”. Tale corrente, che trova i suo natali nel Nord America sul finire del XIX secolo e al cui interno si trovano John Dewey e 130
William H. Kilpatrick, rappresenta una diretta reazione e rivoluzione alla natura autoritaria e antidemocratica della scuola tradizionale fondata sulle teorie herbartiane. Nella realizzazione pratica della corrente progressista ciò che viene messo in evidenza è l’imparare attraverso l’esperienza, vale a dire, per mezzo di metodi attivi, pro-attivi e costruttivi. La peculiarità del modello, le cui matrici si rintracciano nelle teorie deweyane, risiede nell’affermazione secondo cui l’uomo è un “essere sociale”. Se è pur vero che la finalità di ogni agire educativo è quella di “procurare l’acquisizione dell’abito delle virtù, per le quali l’uomo fa un retto uso delle sue facoltà, subordinate e ordinate secondo la retta ragione, posponendo gli interessi della società al raggiungimento di un fine personale”, dichiara Aristotele, con Dewey si può affermare invece che “coll’avvento della democrazia e delle moderne condizioni industriali [...] è impossibile preparare il fanciullo ad un ordine preciso di condizioni”. L’educazione, così, avviene per fini sociali e non più secondo una impostazione individualista. La formazione progressista ha chiaramente rivoluzionato l’impianto educativo, consegnando una forma di coscienza e conoscenza sorretta nell’azione autodiretta dello sviluppo emotivo e sociale. Certamente la sua natura non omogenea non ha coadiuvato al suo successo e sviluppo. Al centro del suo teorizzare, infatti, è possibile rilevare una profonda dicotomia tra i sostenitori di un curriculum centrato sulle esigenze e sugli interessi del discente, e coloro che investono maggiormente sulla necessità di un impianto teoretico che dovrebbe riflettere sui problemi sociali e politici di un determinato momento storico-culturale. Per colpa di questa distinzione e lacerazione l’educazione progressiva ha perso molto del suo radicalismo sociale ed epistemologico. 131
Da un punto di vista cronachistico, però, pur riconoscendo la paternità al XIX secolo è solo a partire dagli anni Sessanta e Settanta che il movimento progressista trova la sua legittimazione e più ampia manifestazione nelle idee di Giroux. Il noto pedagogista cercò di intercettare le richieste sociali da parte dei tecnocrati mettendo in risalto l’importanza dei metodi attivi e delle limitazione che possiede un approccio esclusivamente empirico verso la conoscenza. Gli stessi educatori olistici continuano tutt’ora a trarre molta ispirazione da tali impostazioni, soprattutto in quella che potremmo chiamare la ri-umanizzazione del curriculum, cioè partire da attività semplici, derivanti da impulsi creativi ed espressivi, per intrecciare azioni e progetti individuali di cooperazione via via sempre più complessi. Lo stesso Dewey presta molta attenzione al ruolo dell’esperienza, quale strumento, oltre che di formazione individuale, per il mantenimento della democrazia stessa. La nozione di società tecnocratica, come principio base per la vita comunitaria, è stato fondamentale per il pensiero del socio-americano. La parola democrazia, infatti, significa avere la possibilità di partecipazione attiva alla vita sociale e politica di un paese. L’efficacia di questo tipo di “accordo sociale” (“L’Accordo sociale è stato firmato nel dicembre 1991 da 11 Stati membri. L’accordo precisa gli obiettivi della politica sociale alla luce della Carta sociale del 1989: promozione dell’occupazione, miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, lotta contro l’esclusione, sviluppo delle risorse umane ecc., e stabilisce anche la procedura secondo cui vanno adottate le misure in materia sociale e ribadisce il riconoscimento del ruolo fondamentale svolto dalle parti sociali in questo settore” Cfr. http://europa.eu/legislation_summaries/glossary/social_policy_agreement_it.htm) dipende, in gran parte, dalla capacità di formare cittadini con l’abilità di prendere decisioni importanti in modo autonomo e 132
partecipativo. Il concetto deweyniano circa il processo educativo è in netto contrasto con la visione tradizionale di un apprendimento autoritario e gerarchico. Dewey sostiene, infatti, che gli esseri umani vivono in un mondo sconosciuto e l’esperienza diretta rappresenta l’unico strumento per la conoscenza. Dewey ha mostrato la necessità di recuperare educativamente il valore dell’esperienza quale ri-connessione psicologica con le necessità fondamentali della vita. L’esperienza diviene azione abituale, legata all’ambiente che circonda l’essere umano ed in continuo divenire. L’esperienza è un vissuto quotidiano, un processo che avviene spesso senza analisi o ragionamenti coscienti e che dalla quale è possibile apprendere solo se ci poniamo in modo attivo. Tutti gli organismi viventi sono strettamente connessi all’esperienza diretta in quanto espressione di abitudini, desideri, bisogni e pensieri. L’esperienza è essenzialmente una relazione in corso d’opera tra aspetti interni ed esterni della natura umana ed è un obiettivo primario; non è semplicemente aggiunta a esperienze passate, ma è continua trasformazione, come la vita stessa. Cosa importante in una società democratica è il bisogno di persone che vivono pienamente ed in modo attivo ogni loro evento, dove l’esperienza è reale e concreta. In tale modo ogni discente non è solo destinatario passivo di informazioni imposte dall’esterno, ma costruttore libero del suo stesso sapere e divenire. In egual modo gli insegnanti liberati dal ruolo tradizionale di “indottrinare” e “acculturare”, diventano “facilitatori” di esperienza. 6.3 L’esperienza tra problem finding e problem shaping Ogni processo di conoscenza implica un modo attraverso cui le persone determinano il senso della loro esperienza. Questo include atteggiamenti come il senso di meraviglia, 133
l’impulso alla scoperta, la necessità di risolvere enigmi o problemi, etc.. Rafael Yus Ramos, organizzando i contributi offerti da J. Miller (Miller J., Bruce J. R., Drake S. M., Holistic learning. A teacher’s guide to integrated studies, Oise press, Toronto 1990), compara l’interazione che ogni soggetto in apprendimento ha con il mondo attaverso tre modelli: a - livello trasmissivo: tendenza a vedere il mondo come un oggetto da manipolare, nei termini di ciò che Martin Buber (1996) ha descritto come “io-tu”. In questo livello l’uomo è più incline ed interessato a cercare di controllare l’ambiente, piuttosto che di scoprirlo o comprenderlo; b - livello di transazionale: propensione a collegare il mondo con i nostri processi mentali. Gli psicologi cognitivi sostengono che le nostre strutture di pensiero, o schemi mentali, forniscono i significati con cui rappresentiamo e traduciamo le esperienze; c - livello di trasformazione. Secondo questo modello ogni essere umano si relaziona con il contesto dove vive attraverso il nostro essere, tale da rendere l’uomo interconnesso all’ambiente che lo circonda. Se l’ambiente entro cui si muove l’agire educativo, inteso come spazio concreto, non assolve alle più elementari richieste biologiche o di bisogni primari, allora sembra essere inutile parlare di sviluppo delle potenzialità umane. In tali termini divengono fondamentali tre strategie di relazione: - Il problem solving: con questa locuzione si vuol indicare l’insieme dei criteri per studiare, esaminare e trovare la soluzione a determinate situazioni problematiche. La sua traduzione letteraria, infatti, significa “risolvere problemi”, e si esprime attraverso un dinamismo del pensiero messo in opera dalla persona per pervenire ad una condizione de134
siderata, la soluzione, a partire da un presupposto, il problema (Cfr. Mancini R., Soluzioni metodologiche nell’azione educativa, Margiacchi-Galeno 2008, p. 69); - Il problem shaping: espressione inglese usata per indicare l’inquadramento e la scoperta originaria del problema. In tale fase il soggetto compie delle vere e proprie identificazioni e definizioni, che hanno origine con la presa di coscienza del problema e viene enucleata nel determinare le variabili e i limiti entro cui ci si muove per la sua risoluzione. - Il problem finding: strategia tendente ad analizzare le molteplici sfaccetture che presenta ogni problema, in modo tale da poter entrare in possesso delle informazioni necessarie alla sua determinazione. Qui si determina la capacità di cogliere elementi impliciti, ma non direttamente comprensibili, ed espliciti appartenenti al problema stesso. Prima della fase “problem solving”, ovviamente devono essere attivati il problem shaping, quale garante dell’esistenza di un vero e proprio problema da affrontare, ed il problem finding, solitamente considerato come fase studio ed analisi. La strategia del problem solving, infatti, può facilitare i processi umani sulla base dell’esperienza in situazioni concrete attraverso la sintesi creativa delle analisi espresse nelle fasi precedenti. In realtà, molti sistemi educativi sono progettati come risolutori di problemi auto-motivati e auto-diretti, orientati, insomma, ad ottenere un senso di autostima e fiducia da una varietà di risultati. Lo studente è visto come un pensatore metodico, in grado di indagare, analizzare, sintetizzare, valutare e scoprire per mezzo delle sue conoscenze e peculiarità. Dal momento che l’educazione olistica deriva solo in parte dal dominio cognitivo, la sfida del problem solving è destinata non solo agli obiettivi cognitivi, ma anche fornire una forte competenza affettiva, evitando così uno squilibrio inadeguato 135
nelle intenzioni formative. I tale modo, oltre ad esaminare e circoscrivere il problema (finding-shaping), occorre una prospettiva olistica in cui vengono attivati sia i processo logico-formali, sia emozionali all’interno del problem solving. Su tali basi è possibile concordare con le riflessioni espresse da Rafael Yos Ramos nello stilare alcune raccomandazioni che intervengono, in un modello integrale ed integrato, nel problem solving: • Connessione interdisciplinare. Una considerazione fondamentale dell’olismo educativo è il concetto di connessione. Nel curriculum olistico le separazioni disciplinari tradizionali svaniscono per lasciare spazio ad una apertura dell’apprendimento che comprenda il legame che si genera dall’ “antropologia pedagogica”. L’esplorazione condotta dalla ricerca pedagogica, afferma Rosati, “in corrispondenza con lo sviluppo delle scienze dell’educazione, ha oggi accertato che quanto più amplio e aperto il capitolo dell’antropologia pedagogica, tanto meglio potrà essere conosciuto il potenziale umano – che Mencarelli definisce educativo e creativo – e che l’educazione è chiamata a liberare e non a manomettere e sperperare. (Rosati L., a cura di, Didattica delle scienze dell’educazione, Anicia, Roma 1997); • Aumento degli obiettivi. Il curriculum di apprendimento olistico include tutti gli aspetti dell’essere umano (cognitivo, emotivo, fisico, spirituale, estetico, etc.) e non solo uno di essi come nei percorsi tradizionali; • Lo studente attivo. Poiché un obiettivo primario dell’educazione è quello di aiutare lo studente ad assumersi la responsabilità in pectore del processo di apprendimento, esso dovrebbe essere caratterizzato dalla volontà di imparare secondo una prospettiva auto-diretta ed auto-controllata. Ogni fase attiverà, così, competenze di pensiero che rappre136
sentano singole operazioni mentali di un processo più ampio. Dal punto di vista della formazione olistica vi è una tendenza verso il potenziamento dei modelli di trasformazione, rispetto a quelli transazionali. Un esempio di trasformazione dei problemi è il modello di “risoluzione creativa” ideato da Ikagsen. Questo si compone di sei fasi: a – identificazione del disordine. fase iniziale che prevede la verifica dell’interesse, delle esperienze e delle conoscenze appartenenti ad un dato problema. È di fondamentale importanza saper selezionare, classificare ed analizzare i punti nodali; b - ricerca dei dati. Si studiano tutte le informazioni (conoscenze, fatti, sentimenti, pensieri, opinioni) inerenti il problema. L’attenzione è focalizzata sul chiarimento della confusione; c - scoperta del problema. In questo stadio viene effettuato un tentativo di suddividere il “problema” originario in una serie di sottoproblemi, in modo tale da ridurre la difficoltà risolutiva; ogni strategia generale dipende dall’acquisizione di strategie specifiche, in quanto il compito complesso se frazionato in unità più semplici diviene anche di più fattibile; d - scoperta della idea. Al centro di questa fase risiede la generazione di molte idee (magari attraverso un braistoming) e le ipotesi di risoluzione; e - scoperta della soluzione. La soluzione dei problemi avviene attraverso la proliferazione di una sintesi delle analisi effettuate precedentemente; f - Accettazione della soluzione. Si verificano e testano la funzionalità, pertinenza ed efficienza delle soluzione ideate. “È possibile rintracciare, dunque, all’interno di questa tecnica una filosofia, una impostazione di fondo del pensiero e cioè quella della continua ricerca delle soluzioni non appena si 137
avverte un problema. Il problem solving può essere cos’ì definito come capacità di avvicinamento ai problemi, una metodologia che sollecita continuamente la persona al miglioramento personale e, di riflesso, collettivo” (Mancini R., Soluzioni metodologiche nell’azione educativa, Margiacchi-Galeno 2008, p. 70). Rafael Yus Ramos evidenzia l’esistenza di un ulteriore modello che può essere incluso in questo “problem solving creativo”. Il pedagogista spagnologo sofferma la sua attenzione nel modello nato dalle riflessioni di Wallas (Wallas G., The Art of Thought, Harcourt Brace, New York 1926). Lo psicologo sociale inglese enfatizza il processo creativo come una serie di fasi che si dipanano tra incubazione ed illuminazione, combinandoli con il pensiero analitico. Il modello originale è suddiviso in sette fasi: • Incertezza/Ambiguità. La maggior parte dei problemi risiede in una situazione irrisolta; • Chiarimento del problema. La persona o il gruppo, cercando di ottenere qualche tipo di controllo sul problema, cerca di raggiungere la radice e le cause di esso; • Preparazione/schematizzazione. Si cerca di sviluppare un ventaglio di soluzioni il più completo ed ampio possibile; • Incubazione. Lasciare che gli elementi estrapolati nelle fasi precedenti si amalgamino a livello di subconscio; • Ricerca alternativa. Esaminare e ponderare le opzioni trovate; • Selezionato/illuminazione. Azione valutativa delle alternative e delle intuizioni creative espresse nelle fasi precedenti; • Verifica. La soluzione viene testata nel campo di azione per riscontrarne la pertinenza e la validità. Deve essere osservato che l’apparente semplicità che può dare ogni proposta evidenziata rimane solo utopica; si è ben lungi dall’asserire che ogni scoperta creativa appartenga e si 138
enuclei attraverso una lista lineare di lavoro o una sequenza di abilità esecutive di passaggi e fasi. È importante sottolineare che ogni modello possiede l’onere e l’onore di essere in una condizione di equilibrio dinamico, tra divergenza e convergenza, in ogni sua fase. Nel momento divergente, infatti, la risoluzione dei problemi è incoraggiata attraverso la ricerca di possibili risposte al problema, così come nella fase convergente è richiesto uno sforzo di selezionare le opportunità scaturite dalla fase divergente. La guida alla soluzione dei problemi, quindi, non è da rintracciare nella casualità, nella semplice fantasia e nemmeno nella logica o nella razionalità analitica, piuttosto “dalla sequenzialità ordinata delle procedure da seguire, sia con la predisposizione degli strumenti che delle tecniche da utilizzare. La soluzione si darà come felice intuizione, come scoperta dichiarata attraverso un’espressione parecchio comune: evviva, ho trovato!” (Rosati L., Didattica della cultura e cultura della didattica, Morlacchi Editore, Perugia 2004, p. 133). Il modello creativo per la soluzione dei problemi ha molti aspetti olistici. In questo, infatti, lo studente è incoraggiato ad impegnarsi cognitivamente ed emotivamente, raggiungendo, così, la piena coscienza del problema trattato. Occorre che ci sia la predisposizione ad una “apertura all’esperienza” e la mente sia preparata ad una fase convergente, dalla quale si estrapola la direzione corretta. Il modello di Wallas rappresenta un tentativo trasversale ed esperienziale di coinvolgimento attivo del discente nel processo di apprendimento. Il fine del modello creativo volto al superamento dei problemi diviene quello di fornire uno strumento efficiente a disposizione di ogni soggetto per un “apprendimento olistico intenzionale”. Di qui, la necessità di collegare il passato, il presente ed il futuro dell’esperienza di vita individuale, quale 139
forma più alta di integrazione e relazione con il mondo. In un recente articolo scritto da Alberto Oliverio, comparso all’interno della rivista Mente e Cervello, si evidenzia che ogni situazione di incertezza attiva esercita la capacità umana di rispondere alla sollecitazione aumentando l’efficienza dell’adattamento. “Per raggiungere questo obiettivo la mente usa conoscenze legate a esperienze precedenti, così da formulare previsioni sul futuro e minimizzare i costi della sorpresa” (Oliverio A., La capacità di predire il futuro, in Mente e Cervello, Ottobre 2012, anno X n° 94, p. 20). 6.4 L’Olismo nell’educazione del futuro Nel corso del suo sviluppo empistemologico e scientifico l’educazione progressista si è connotata soprattutto per l’enfasi posta nel potenziale creativo ed emotivo dell’essere umano. Teorici e ricercatori di tale proposta educativa vedono ed incoraggiano la realizzazione del sé come obiettivo fondamentale dell’agire educativo. Tuttavia, seppur ritenendo l’educazione progressista un modello di sicuro spessore formativo, si deve lamentare l’attuale critica posta ai principi filosofici su cui si erige, i quali nella società postmoderna sembrano orientati esclusivamente sugli aspetti tecnologici e sulla smisurata fede nel modello sperimentale. Appare essere un errore concettuale, ad esempio, quello di interpretare il ragionamento progressista come esclusivamente “romantico”, “sentimentale” o pragmatico. La filosofia ad esso relazionata è estremamente equilibrata. Ciò che premeva a Dewey, infatti, era lo sviluppo e la diffusione di una società implichi l’esistenza di abitudini sociali che formano le norme e gli ideali per la direzione e la determinazione della crescita dell’individuo. All’interno della società si possono, così, rintracciare le origini dello sviluppo armonico 140
di ogni soggetto, il quale, attraverso la propria maturazione sociale, migliora la comunità entro cui si trova a relazionarsi. L’approccio offerto dal Dewey all’olismo è pragmatico, piuttosto che esistenziale o idealisticamente romantico. Per il noto filosofo e pedagogista statunitense l’educazione possiede fini democratici e sociali e non incentrati in una visione olistica dei poteri intrinseci della natura umana. Tuttavia d’accordo con Rafael Yus Ramos, è possibile scorgere in Dewey alcuni principi olistici, i quali offrono un forte sostegno circa la crescita personale: ➢ Il discente non deve essere visto come una mente in attesa di essere riempita da una serie di fatti e di conoscenza, ma entità da rispettare ed avente esigenze, interessi e peculiarità uniche ed irripetibili; ➢ L’azione educativa dovrebbe evocare la ricerca, l’interazione attiva e l’esperienza effettiva; ➢ L’intelligenza è la facoltà umana che porta la persona a contatto con il mondo. La missione dell’educazione, così, sarà quella di sviluppare abitudini di riflessione e critica; ➢ La “ricerca di informazioni” pone l’insegnante in uno stato di disagio deontologico, in quanto pone troppa enfasi su un curriculum rigido e puramente accademico. L’educazione, invece, deve perseguire lo sviluppo di un’esperienza integrata; ➢ Gli impulsi naturali del discente devono essere un’attività dinamica. L’apprendimento è una relazione funzionale tra la persona e l’ambiente e tra soggetto e soggetto; ➢ La rigida disciplina intellettuale è inadeguata per lo sviluppo creativo ed espressivo di ogni discente; ➢ L’apprendimento strettamente accademico dovrebbe essere visto come un arricchimento, piuttosto che come un sostituto dell’esperienza diretta del mondo. Il processo di alfabetizzazione a cui si è assistito per oltre mezzo secolo 141
in Italia, infatti, è un’estensione dell’intelligenza piuttosto che la sua fonte. Nella cultura contemporanea vi è un sovraccarico di informazioni, ma molte meno opportunità di partecipare attivamente alle azioni. Senza questa sensibilità etica, qualsiasi quantità e qualità intellettuale è inerte, meccanica ed anche pericolosa; ➢ L’indagine critica può essere sviluppata solo se usata in un contesto concreto, reale e significativo; ➢ La radice primaria di ogni azione educativa risiede nelle attitudini ed attività istintive e impulsive del discente, e non nella presentazione ed applicazione di informazioni quantitative. Le tesi espresse dal Dewey appartengono ad una prospettiva olistica, almeno per il suo approccio nei confronti del potenziale umano. Altri autori, comunque, tra cui deve essere ricordato Hutchison (2000), sono più critici nell’assegnare caratterizzazioni olistiche al pensiero deweyniano, soprattutto alla luce delle nuove sfide educative di inizio secolo. Dewey era un filosofo strettamente pragmatico, non un educatore progressista. Il movimento di educazione progressista, nel suo “puerocentrismo”, appare limitato ai fondamenti sociali dell’educazione. Certamente la concezione espressa della libertà: la libertà come il prodotto di attività intelligente, è differente dall’illusione della libertà come semplice perdita di controllo e giudizio. Questa posizione limita fortemente il ruolo del potenziale umano. Pertanto, è d’obbligo riconoscere che la tesi di Dewey è molto più vicina ad un orientamento educativo “transazionale” che non quello “trasformazionale” tipico della corrente olistica.
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