ROCKILIENCE La vita di un infermiere rock che voleva lasciare un segno
di Luca Morelli
Un ringraziamento speciale a www.pexels.com e in particolare all’autore/user (Karolina Grabowska) che ha permesso l’uso della sua splendida Imagine artistica usata in copertina
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To My Father
LETTERA A MIO PADRE Caro babbo, ti scrivo perché avverto la tua mancanza. Ora che non sei più fra noi, ripenso a tutte le occasioni perse nelle quali avremmo potuto dialogare, confrontarci, e manifestare il bene, l’uno all’altro. I nostri caratteri non hanno agevolato la comunicazione quando eri in vita, anzi, in diversi momenti sono diventati muri invalicabili. Ti scrivo adesso, anche se è tardi, ma voglio pensare che tu mi riesca a sentire. Oggi che sono un uomo, rivedo ciò che eri in chiave diversa. La severità, la tua integrità, la tua autonomia di pensiero ci allontanavano esattamente come oggi ci avvicinano. L’educazione che mi hai trasmesso chiude il cerchio dell’uomo che sono diventato. Devo a te ogni traguardo raggiunto senza arrendermi, devo a te la determinazione e la capacità di sogno, cercando orizzonti sempre più lontani. Di te ho dentro l’attitudine a capire il mondo, la gentilezza nei modi e la buona educazione. Peccato non esser stato capace di godere della tua presenza quando eri in vita, e che tu non possa partecipare ai miei piccoli, grandi successi. Saresti fiero di me. Certo, non tutto è stato idilliaco. Il mio matrimonio è finito e abbiamo venduto la casa di Roma. Sono tornato a vivere da mamma, a Gubbio. Sta bene, le sono accanto, devi star sereno per lei. Sono stati anni durissimi, ma neppure uno è trascorso invano, anzi, proprio il dolore è stato un trampolino di lancio, il punto da cui ripartire per trasformare la mia vita. Ho sviluppato un progetto di ospitalità turistica nella casa che ci hai lasciato. Quella casa, costruita con tanti sacrifici, oggi accoglie turisti da ogni parte del mondo; abitano i nostri spazi nelle loro vacanze felici e l’eco delle loro risate e dei momenti sereni rinverdisce l’atmosfera di quegli anni lontani della mia infanzia accanto a te.
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Manchi tanto babbo. Speriamo di ritrovarci un giorno per darci tutti gli abbracci che non ci siamo dati quando ero giovane, e di poter chiacchierare da uomo a uomo sotto un cielo incantato di stelle. Tuo, Luca.
PREFAZIONE Cosa lega una batteria, un infermiere, e un B&B? La risposta è semplice: la vita. E la vita scorre come musica, ma non come una nenia di paese, bensì come un concerto rock che agita gli animi di chi ne viene travolto. E la vita per Luca Morelli è stato un concerto dove le note dolci e amare hanno segnato tutta la sua esistenza. E sono queste note che escono dal libro per lasciare in testa profonde riflessioni sul senso della vita, sulle scelte che ogni giorno siamo chiamati a fare, il valore di un gesto che può sembrare insignificante ma che può cambiare la vita di moltissime persone. Questo concerto di vita che scorre davanti ai nostri occhi non lascia indifferenti perché la storia di Luca può essere benissimo la storia di tutti noi. Così in questo racconto-diario personale Luca ci porta per mano, attraverso la sua musica, dentro la sua vita fino negli angoli più segreti, quelli che spesso tutti noi abbiamo paura di far vedere. E Luca diventa uomo tra gli uomini: ama ma ha paura di amare, gioisce ma ha paura della tristezza che incombe, vive ma ha paura della morte. Ma la musica è più forte di ogni debolezza e da bravo musicista sa quando bisogna segnare il tempo, cambiare registro. Le sue sconfitte, le sue note sprecate diventano invece delle grandi chance di rimettersi in gioco, di creare nuova musica. Ed è un nuovo sottofondo quello che lo accompagna a indossare di nuovo il camice da infermiere per mettersi a disposizione di una società provata da una feroce pandemia. Un gesto da assolo metal che nel racconto è sicuramente la parte più musicale e che riesce a toccare le corde dei nostri sentimenti. Ma Luca non è un eroe, è piuttosto un testimone di quanti come lui hanno scelto con grandi sacrifici di mettersi al servizio del prossimo. Come lui hanno gioito nel sentire il suono della musica che i polmoni fanno quando si riempiono di aria, ma come lui conoscono l’ultimo suono di chi si lascia alle spalle la pesantezza della vita.
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Insomma leggendo questo personale diario avrete l’impressione di essere davanti ad una grande orchestra che all’unisono suona ma di cui il pezzo forte è la batteria, perché dietro a quello strumento c’è si Luca, ma ci siamo anche tutti noi. Pierfrancesco Pensosi Giornalista di Rai News 24
RINGRAZIAMENTI Finalmente dopo una lunga gestazione questa meravigliosa creatura è nata!! Non è stato facile portare a compimento questa opera, da quando è nata l’idea, non avendo esperienza come scrittore, ero come un bambino che doveva imparare a muovere i primi passi per camminare. Sono riuscito a portare a termine questo percorso anche grazie a tutte le persone che a vario titolo sono state coinvolte e mi hanno aiutato a realizzare il progetto. Spero di non dimenticare nessuno. Ringrazio innanzitutto i miei genitori che mi hanno messo al mondo e mio fratello, Giuseppe, Dina e Angelo per i loro pensieri, il loro amore, per i loro insegnamenti, per il loro esempio, per i valori che mi hanno trasmesso, per aver sempre sopportato il mio aspetto eclettico e borderline. Grazie a loro ho costruito il mio rifugio e il mio riparo di fronte alle avversità. Grazie a mio zio Raimondo Cinti, i cui consigli e insegnamenti di vita e professionali, sebbene sia di recente purtroppo prematuramente scomparso, risuonano nella mia anima come la doppia cassa di una batteria rock. Grazie a mia cugina Marianna Tranchida, sempre intellettualmente stimolante come solo le grandi menti riescono a fare. Un ringraziamento speciale é rivolto a Paola Merzaghi per avermi aiutato con grande umanità a raccontare le emozioni durante la stesura del libro. Grazie ad Alberto Giombetti per la sua fraterna amicizia!! Grazie a Edoardo Magnotta perché rappresenta in tutti i miei progetti, per cui anche nel libro, una guida professionale e umana. Grazie al mio amico Riccardo Fatarella che durante la mia permanenza a Milano ha condiviso con me parole e pensieri sugli elementi di forza e di debolezza del nostro sistema sanitario di fronte ad una crisi emergenziale senza precedenti come quella da covid19. Grazie alla mia grande amica Maria Elena Soffientini che nelle difficili e stressanti giornate di lavoro non ha mai fatto mancare il sostegno e il calore della sua amicizia. Grazie ad Arianna Poggetti, cliente speciale del mio bed and
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breakfast che nelle lunghe conversazioni durante il lockdown a Milano rappresentava per me la sintesi perfetta tra passato presente e futuro avendo visto tutti i miei cambiamenti. Da cliente, nel passato, del B&B si è trasformata in un’amica, nel presente, che non vedeva l’ora di venirmi a trovare, nel futuro, a fine emergenza!! Grazie a Pierfrancesco Pensosi per la splendida prefazione, vera, autentica e originale. Grazie a Bobbie Jean Brown, la mia adorata “Cherry Pie’s girl”, icona rock degli anni ‘80 ‘90 che ho conosciuto a Los Angeles, ha accolto con grande entusiasmo il progetto autorizzando i contenuti a lei dedicati. Immagine intramontabile di donna forte e resiliente. Grazie alla scrittrice Marcella Nardi per avermi offerto i primi preziosi consigli sulle scelte da seguire per costruire correttamente un romanzo tratto da una storia vera. Grazie a Massimo Boccucci per avermi aiutato con la sua esperienza a compiere le scelte di campo da fare quando questo libro era soltanto un’idea. Grazie a Giulia Denti della direzione infermieristica dell’Istituto Palazzolo della Fondazione Don Gnocchi per la speciale accoglienza che mi ha riservato appena sono arrivato a Milano. Grazie a tutto lo staff professionale della Fondazione Don Gnocchi che ha vissuto insieme a me l’esperienza inedita del reparto Covid (medici, infermieri/e, logopedisti/e, fisioterapisti/e, terapisti occupazionali, coordinatrici infermieristiche). Grazie alla direzione strategica della Fondazione Don Gnocchi perché ha mostrato sempre un atteggiamento favorevole alla composizione di questo romanzo non facendo mai mancare concessioni e autorizzazioni. Grazie a Elena Gallina per la sua testimonianza come host di accoglienza del personale sanitario trasferitosi a Milano per l’emergenza da covid19. Nel residence dove alloggiavo non mi ha fatto mai mancare nulla.
INTRODUZIONE Ciò che mi ha spinto a scrivere questo libro è stato il desiderio di fissare nel tempo quello che mi è accaduto dentro, o meglio, quello che ci è accaduto dentro a causa della pandemia da Covid 19. Chi come me ha avuto l’onere e l’onore di essere infermiere durante quei mesi drammatici, credo abbia la possibilità di diventare come la cassa armonica di uno strumento che dà voce al sentire di tutti. Noi siamo stati a stretto contatto con il dolore, con la paura e la morte. Noi siamo stati quelli che hanno attaccato un respiratore e quelli che lo hanno spesso staccato riportando alla vita i malati. Siamo infermieri ma siamo anche persone. Il libro vi racconta una di loro. Non ho mai cercato la strada più facile, ho sempre scelto con il cuore ed un certo spirito di avventura. Sono come una canzone rock. Sono la mia canzone rock. Nella vita, come nella musica, amo la potenza delle sonorità vivaci, quelle che ti sorprendono; non sto seduto, mi metto in piedi e ballo. Queste pagine vi porteranno in corsia, in una Milano fantasma e poi fra le dolci colline che circondano la città di Gubbio in Umbria. Vi racconteranno cosa spinge un infermiere a calarsi nell’occhio del ciclone per poi riprendere in mano i propri sogni ancora più motivati di prima. La vita ci pone sempre delle sfide che, invece, bisognerebbe sempre definire “occasioni”.
SOMMARIO 1. MONSTERS OF ROCK...................................................15 2. ROMA, IL MIO CAPUT MUNDI.................................25 3. IL CENTRO SPIRITUALE..............................................39 4. BOBBIE BROWN.............................................................55 5. BED AND BREAKFAST.................................................61 6. LA DECISIONE................................................................73 7. IN VIAGGIO PER MILANO..........................................83 8. GIORNATE IN CORSIA.................................................87 9. UN INFERMIERE ROCK.............................................107 10. LA TELEFONATA.........................................................119 11. CPAP................................................................................123 12. UN SENTIMENTO........................................................131 13. RAMBLIN’ MAN...........................................................145
CAPITOLO I
MONSTERS OF ROCK “Hell ain’t a bad place.... Hell is from here to eternity......” IRON MAIDEN
Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza non è stato semplice; ma mi chiedo, alla fine, per chi lo sia. Bambini dentro a corpi di ragazzi o uomini dentro a corpi di bambini. Strani esseri in mutamento che cambiano voce, idee e sogni ogni giorno. Quel ragazzino che faticava ad esprimersi in società è cresciuto trascinandosi dietro tutte le frustrazioni dei silenzi. Gli adolescenti avrebbero tante cose da dire ma non riescono a capire come dirle. Dentro hanno un mondo pieno di colori, di amori, di progetti che si infrangono sulle pareti della loro cameretta. Nel mio caso fu un concerto visto nel 1992 a Reggio Emilia che diede voce finalmente a ciò che ero, a ciò che volevo urlare al mondo. Ci sono momenti che lo senti, lo sai, che rimarranno indelebili nel tempo. Non sono eventi solenni, né tanto meno spettacolari, eppure mentre li stai vivendo percepisci che ti trasformeranno dentro e che, ci puoi giurare, li risfoglierai nell’album della memoria quando sarai vecchio.
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A rompere la sfera di cristallo nella quale ero solito esistere, ci ha pensato il concerto “Moster of Rock”, quello è stato il Mio “Big Bang Emotivo”, la data in cui sono sbocciato, aprendomi al futuro. Non è stato un concerto come tanti: tutti i più grandi del rock e dell’heavy metal si sarebbero esibiti in questo festival europeo nato alla fine degli anni ’80, band del calibro dei Van Halen, degli Iron Maiden, AC/DC, Aerosmith, Black Sabbath, Motley Crue, Metallica e Cinderella. Non esagero se vi dico che quella sera mi ha cambiato la vita per sempre. Fu come se la musica e la potenza di quegli strumenti riuscissero a liberare il mio esistere da sempre compresso, come se mi autorizzassero a sciogliere tutti quanti i miei nodi con sonorità che sapevano interpretare esattamente ciò che sentivo. Ricordo il viaggio in treno accompagnato da mia madre per raggiungere l’Emilia Romagna. Dal finestrino vedevo scorrere l’Italia con i suoi cieli e i suoi paesaggi da cartolina, mentre ad ogni fermata salivano metallari in carne ed ossa diretti al mio stesso concerto. Jeans stracciati, teschi, croci, capelli punk. Se un pezzetto di musica rock si stava scrivendo, io ne sarei stato finalmente al centro. Fu un crescendo di emozioni, stupore e brama. Arrivati a Campo Volo mi sentii per la prima volta esattamente dove volevo e dovevo essere: quello era il
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luogo sacro di tutti i festival storici di musica, quello era il fulcro su cui la vita svolta. L’attesa del concerto fu bella quanto il concerto stesso. Io e mia madre ci mettemmo in fila davanti ai cancelli. Ricordo che ero molto preoccupato perché temevo di non riuscire ad entrare. Ad un passo dal mio personale paradiso, la sola idea di rimanere fuori dalle sue porte mi procurava un’ansia tremenda. Un ragazzo lì accanto, interpretando il mio volto, mi rassicurò. “Se hai il biglietto, entri di sicuro, amico. Il rock non tira pacchi.”. Solo a ripensarci mi fa tenerezza quel lontano me quindicenne. Mi sentivo già grande e invece mi perdevo nelle piccole cose, nell’ingenuità delle prime volte. I cancelli si spalancarono di colpo, un fiume di persone si riversò verso il palco, migliaia come me in attesa dei mostri sacri della musica, solo un battito cardiaco che pulsava nell’aria. Per la prima volta mi sentii parte di un gruppo, sfiorai quella bellissima sensazione di “appartenere”. Non era importante che non conoscessi nessuno, io ero parte di “loro”. Quel ragazzino che ha sempre faticato a sostenere una conversazione con i coetanei ora poteva comunicare con tutto il mondo senza neppure aprir bocca. La presenza di mia madre, che inizialmente temevo avrebbe stonato sul pentagramma rock di quella me-
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morabile giornata, in realtà instillò curiosità e simpatia nei giovani che mi stavano intorno. Mi feci coraggio e mi spinsi anch’io sotto il palco, e lì, imponente, immenso, sopra di me: il frontman dei Warrant, un vichingo biondo con la stessa iconica presenza del Cristo del Corcovado, ma senza dover neppure aprire le braccia. Jani Lane era una creatura quasi mistica nello scenario musicale “heavy metal” di Los Angeles, una semi divinità. Mi ricordo che venne a mancare prematuramente proprio mentre ero in vacanza in Alaska, con la mia ex-moglie; mi ricordo perfino la data: era l’11 agosto del 2011. Accesi la radio e stavano annunciando la sua morte in diretta. Pensai: “Tu mi hai fatto nascere una seconda volta, a 15 anni, sotto a quel palco tutto italiano, io sono qui, a casa tua, a tenerti la mano il giorno della tua morte”. Quando iniziò la prima canzone dei Warrant a Campo Volo, mi misi a ballare come se non potessi fare altro, abbandonandomi ad un vortice di energia che mi spingeva a girare, braccia aperte e occhi alle stelle, mentre le dita delle mani graffiavano l’aria, la afferravano. Il mondo era mio, io ero il mondo. È questo il potere della musica: una diga carica d’acqua da troppo tempo che si apre in una cascata a getto libero. Inondò le vallate del mio esistere frizzando l’aria di gocce di felicità. Nell’eccitazione del momento mi cadde il giubbotto che avevo comperato apposta per i miei concerti rock.
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Mi si fermò il cuore, ero convinto che la folla l’avrebbe calpestato, che l’avrei perso. La musica squarciava il cielo ed io a cercare in terra. Poi, nella ressa intravidi un fan chinarsi per raccogliere qualcosa che era cascato ai suoi piedi. Quel gesto così delicato fermò il tempo per un lunghissimo istante di cortesia; lui mi porse il giubbotto e io cristallizzai quel momento per sempre. Il mio “giacchino” era molto più di una giacca: era il mio abito di scena, mi avrebbe seguito in tutti i concerti rock. Divenne un simbolo, arricchito di toppe e scritte. E ad ogni trasferta acquisì sempre più valore perché è su quella stoffa che sono riuscito a collezionare gli autografi dei più grandi mostri sacri della musica rock. Mi ha seguito persino molti anni dopo, nel 2017, a Londra, autografato da tutti i componenti degli Iron Maiden. Il giorno prima ero andato al concerto dei Metallica alla O2 Arena e proprio lì una ragazza, in prima fila sotto al palco, mi aveva rivelato che ci sarebbe stata la presentazione del nuovo libro di Bruce Dickinson a Piccadilly Circus. Pensate che io mi sia fatto scappare l’occasione?... I Metallica, del resto, mi hanno sempre portato bene, li ho inseguiti anche a San Francisco, due anni dopo, nel 2019, dove ho avuto la fortuna di assistere ad un evento inedito: si sono esibiti al fianco della San Francisco Symphony Orchestra nel nuovissimo Chase Center, tempio del basket americano dove oggi giocano i Warriors. Affacciato sulla Baia, in una splendida
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giornata di sole, sono stato testimone della nascita di un disco live già entrato nella storia del rock. La loro musica, sposata con le sonorità classiche e gli strumenti del passato, ha acceso la scintilla della magia: è stato come assistere dal vivo ad un’alba musicale che scivolava nel tramonto, all’andare e venire di onde impetuose del mio sentire che si allungavano fino alla riva dei miei pensieri, placandosi. Gli anni ’90 mi hanno regalato la colonna sonora perfetta per la mia adolescenza: i concerti rock esplodevano anche in Italia, elargendo a tutti noi una felicità pura, priva di tutte le contraddizioni che sarebbero arrivate più avanti. La società allora poteva aspirare al sogno. Non erano ancora cadute le Torri Gemelle, erano tempi di pace e di benessere economico. Ed io mi sentivo spettatore e protagonista di quel tempo, attraversandolo, concerto dopo concerto, cantando e ballando su un tappeto di serenità. Come avrei potuto portarmi a casa quel benessere? In che modo avrei potuto strappare un pezzo di quella felicità per tenerla sempre con me? Imparando a suonare strumento, fu la riposta che mi diedi. La batteria sarebbe stata la mia voce per arrivare alla gente. Così iniziai a prendere lezioni, formai perfino il mio gruppo. Ci chiamavamo Sex Spirit: un cantante con chitarra, un bassista, una chitarra solista ed io alla batteria.
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La prima prova la facemmo nel mio garage, senza insonorizzazione, improvvisando una sala di registrazione. Il primo brano suonato, quello dei Litfiba, El Diablo, e la prima esibizione pubblica fu un successo inaspettato. Se davvero esiste un settimo cielo io mi ci sono seduto sopra a cavallo quel giorno. In un’enorme sala, all’interno del nostro liceo, suonammo come una vera band. Fu meglio che alle prove, suonammo ispirati, e tutti ci applaudirono; le ragazze cominciarono finalmente a notarmi. Eravamo giovani uomini sulle barricate che cercavano a modo loro di far della vita una poesia rock. Laddove non sapevo incantare le ragazze con le chiacchere, potevo affascinarle con il ritmo della mia batteria. Era lo strumento a raccontare della mia passione, delle mie paure, ma anche della voglia di arrivare in capo al mondo. Si presentò anche il giorno della seconda scelta decisiva per la mia crescita: entrare a far parte del Gruppo Sbandieratori della città di Gubbio. Fu come quel primo concerto: il mondo femminile, e non, iniziò ad accorgersi di me, ad apprezzarmi, e senza che dovessi usare una singola parola, lo strumento a me più ostile in quegli anni. Suonavo il tamburino e il mio ruolo era stimato. In più, la compagnia era composta da persone più grandi di me che facevano a gara per farmi sentire il loro affetto.
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Non è semplice spiegare l’importanza delle usanze di una terra a chi non ci è nato, ma per come la vedo io, ogni città ed ogni paese dovrebbero mantenere vive le tradizioni attraverso la musica, i costumi storici e quei riti che ancorano la gente al proprio territorio e viceversa. I miei ricordi legati alle trasferte con il Gruppo Sbandieratori sono tra i più belli che serbo ancor oggi. Girammo per tutta l’Europa. Ogni viaggio ci spingeva sempre più lontano e noi tenevamo alto il baluardo della nostra Gubbio. Orgoglio, gratificazione, tradizione, fierezza, giovinezza, sacrificio, abnegazione, stupore e anche goliardia in un’unica squadra di amici. Fra i tanti eventi, quello in Alsazia fu il più commovente, nella cittadina di Thann, gemellata alla nostra per il medesimo Santo, Ubaldo. A volte ero sbandieratore, altre volte ero rockettaro. Nel 1993 i miei genitori decisero di accompagnarmi a Torino per il concerto dei Metallica. 565 chilometri un giorno per l’altro. Si unì all’ultimo minuto anche mia madre, anche se avrebbe dovuto accompagnarmi solo mio padre. Non ricordo il perché, non ha importanza, quel viaggio divenne un simbolo della nostra famiglia proprio perché c’era anche lei, perché si impuntò pur di esserci per me, accanto a me, a condividere un mio momento felice. I miei genitori non entrarono al concerto, fisicamente, lo fecero con tutto quanto una famiglia incarna.
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Si erano accorti che la musica aveva aperto i miei polmoni, sentivano il mio nuovo respiro di vita e a modo loro volevano dirmi che avevano compreso. Questo fu il significato di quel viaggio di oltre 1000 chilometri fatto in poco meno di 24 ore. Eppure, mi è toccato diventare adulto per riscoprire i miei genitori con occhi nuovi. Tutto ciò che davo per scontato allora celava precise indicazioni d’amore. Non perdetele mai per strada, conservatele sotto pelle. I genitori si chiedono spesso se i figli dimenticheranno in fretta crescendo. Bé, la risposta è no. Quei 1000 chilometri fatti con e per me sono una carezza che sento ancor oggi sul viso dopo 30 anni. Uscito dal concerto fui io il ragazzo più felice sulla terra, una felicità piena, rotonda, sognante, appagata. Il viaggio di ritorno si sciolse in quella felicità perfetta che sfumò, noi tre ai bordi, lasciando in piedi, per sempre, tra le colonne portanti del nostro essere famiglia, quell’emozione condivisa.
CAPITOLO II
ROMA, IL MIO CAPUT MUNDI “it’s a beatiful day don’t let it get away you are on the road but you have got no destination” U2
Alle superiori mi sono iscritto a un biennio propedeutico che offriva due indirizzi, uno dei quali era per la professione di infermiere che poi ho finito per scegliere. Ho dovuto attendere fino al momento del tirocinio, però, per avvertire un trasporto particolare per quel tipo di studi. La mia scelta era nata in seno ad un contesto familiare che mi aveva sempre spronato ed educato a rendermi utile al prossimo, ma fu la fase del tirocinio la vera e propria prova del nove: alle ore di studio si sommavano le ore di pratica in reparto, eppure il ritmo pressante mi caricava al posto di stremarmi. Fu allora che il mio gruppo rock si sciolse; ognuno di noi si trovò di fronte a nuove priorità personali, nuove spinte centrifughe che rimpicciolirono gradualmente lo spazio da ritagliarci per suonare seriamente, noi che eravamo abituati a metterci l’anima in ogni prova, in ogni ritrovo. Non era più una questione di note musicali, eravamo noi ad essere diversi.
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Quando si è giovani mettere in piedi una band è come costruirsi una seconda identità rafforzata dall’idea di gruppo, e la ciliegina sulla torta è il fascino che inevitabilmente si emana quando ci si esibisce davanti agli spettatori. La nostra torta era finita, l’avevamo divorata pezzo per pezzo. Attaccarsi alle briciole minò certezze e serenità. Quel vuoto, però, lasciò il passo all’amore nella mia vita, una ventata inattesa, fresca, capace di spazzare via il vortice di negatività nel quale ero caduto. L’ho conosciuta a 21 anni, ad un veglione per gli infermieri. Il primo amore arriva così, come un soffio di vento alle spalle. Una cascata di presente che scroscia sul passato lavando via qualsiasi pensiero. Il qui ed ora!! Mentre dal domani ci si occuperà domani. Avevamo molte cose da condividere, io e lei, compresa l’idea che lo studio fosse un percorso da portare avanti. Insieme ci affacciammo agli studi universitari. Dovetti raddrizzare la mira, dopo aver scelto un indirizzo sbagliato sull’onda di quello che avevo studiato alle superiori. Dopo sei mesi, mi sono iscritto alla Facoltà di Scienze Politiche a Perugia, con indirizzo politico amministrativo. Diedi il meglio in quel contesto. Non mi limitai a studiare, ogni esame fu l’occasione per aprire un varco nel mio sapere, per approfondire, scavare, diventare adulto e non solo istruito.
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Ricordo come fosse ieri l’esame di diritto pubblico sostenuto con la presidentessa di facoltà; era temuta da tutti per la sua severità ed intransigenza. Portai a casa un 28, motivato dicendo che rispetto ad altri mi ero distinto dimostrando di analizzare gli argomenti con ammirevole perizia. Quel giorno mi raggiunse mio padre a Perugia, brindammo nel bar accanto alla facoltà, mentre io nei suoi occhi leggevo un orgoglio che raddoppiava la mia felicità, la riempiva da dentro. Inconsciamente credo mi portassi dentro il desiderio di emancipazione rispetto alla piccola cittadina in cui ero nato. Il mio sogno, anche se ancora non aveva un nome preciso, era quello di approdare ad un ruolo intellettualmente e socialmente elevato - il famoso “fare carriera” - e di formare al contempo una famiglia. Era la mia idea di riscatto. Conclusa l’università feci un tirocinio in una scuola di formazione in management pubblico per dipendenti degli enti locali. Fu l’ennesima scintilla per sognare ancora più in grande. Mi sarebbe piaciuto diventare Segretario Comunale; non ci sono dirigenti di un ente locale più importanti di un segretario comunale, diventi praticamente il consulente giuridico di un’intera comunità. Svanì tutto in un attimo, la vita mi richiamò a Gubbio non appena terminato il ciclo di studi. Fu come sentirsi strappato a metà, mezza pagina attaccata alle origini, mezza pagina in cerca di nuove avventure. Nel 2005, accettai un impiego da infermiere a Bologna. Non avrei potuto ricominciare in un posto mi-
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gliore. Bologna è una culla di vita ideale per i giovani. I portici sotto ai quali ti fermi a chiacchierare quando piove, una birra in mano e i migliori anni davanti. Le speranze di milioni di studenti hanno abitato le sue strade antiche, hanno riempito le trattorie del centro. Visi puliti, libri sotto braccio, qualche sigaretta fumata di fretta prima di entrare all’università. Iniziare la mia prima avventura professionale proprio lì fu una fortuna. Fu come partire in piano e non in salita, e quella convivialità che impregna l’aria mi fornì la giusta energia per andare incontro al nuovo. Solo dopo arrivò l’opportunità di perseguire la professione a Roma. Nella Città Eterna. Mi trasferii lì con la mia compagna e il matrimonio siglò ufficialmente la nostra vita in comune. Essere in una città estranea inizialmente non fu semplice. Era difficile ambientarsi, creare nuove amicizie, la mia passione sportiva per la squadra della Capitale che mi ospitava aprì qualche porta. Non mi limitavo a seguire le partite della Roma allo stadio, frequentavo assiduamente il Roma Store. I titolari del negozio, vedendomi spesso, mi presero in simpatia. Furono loro i miei primi amici. Non appena ne avevano la possibilità, mi inserivano negli eventi più importanti della squadra. Ricordo i giorni precedenti alla partita Roma-Genoa, mi invitarono a preparare un enorme striscione da esporre sugli spalti: ci avevamo scritto sopra una vera e propria dichiarazione di stima per un giocatore in particolare.
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“Siamo tutti Christian Panucci”. Mi ricordo le risate, le mani sporche di vernice rossa e gialla, la nostalgia per la mia terra affievolirsi. Sapevo che i miei nuovi amici conoscevano il calciatore ma mai e poi mai mi sarei aspettato la sorpresa che avevano in serbo per me. Sul finale di partita, Panucci mi venne incontro consegnandomi la sua maglia, davanti ad uno stadio gremito di gente. Se ci penso ancora adesso mi batte il cuore fino in gola, come allora. Un altro ricordo indelebile è legato all’incontro con una famiglia di tifosi conosciuti durante una partita all’Olimpico. Una famiglia trasteverina appassionata di calcio, perfino più di me. Marito, moglie e tre figli con i quali sbandieravo i colori della Roma fino a sfinirmi. Nella gestualità del far volteggiare la bandiera c’era tutto l’amore per la squadra ma anche l’orgoglio di appartenere ad un gruppo di amici che hanno la stessa passione per la squadra giallorossa. Le forme infinite virtualmente definite dalla bandiera mi facevano tornare in mente gli anni spensierati trascorsi insieme agli sbandieratori di Gubbio durante la mia adolescenza. Le due cose anche se completamente diverse si tenevano per mano. Quando si sceglie di rappresentare una fede, che sia sportiva o per le proprie origini, la forza e la volontà di comunicarlo deve passare attraverso le mani. Loro, sapientemente fendono l’aria, la stoffa prende vita e danza come le ali di una farfalla.
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In uno stadio, così come in una piazza gremita di spettatori, la bandiera dà valore ad un messaggio. Ed io ero fiero di essere lì, nella curva “Distinti Sud”, con quella famiglia, con la quale condividevo una passione così forte. Ho scoperto solo dopo che il padre di questi ragazzini era una persona molto importante e che conosceva l’allora allenatore della Roma, Luciano Spalletti. Gli raccontò di me, gli spiegò chi era quel giovane uomo, seduto accanto a loro, che durante le partite spiccava fra i tifosi sbracciandosi. Il giorno della partita Sampdoria-Roma, prima che la squadra entrasse in campo, Spalletti iniziò a parlare e dando il benvenuto ai giocatori, parlò di me a tutto lo spogliatoio, facendo proprio il mio nome. Disse: “Ti faccio i miei complimenti per una fede così commovente e unica.” La domenica c’era la Roma, il resto della settimana c’era la mia professione di infermiere. A quel tempo avevo iniziato a lavorare in una clinica in periferia, nella zona di Tor Marancia. Al mattino presto uscivo di casa nei pressi di San Giovanni in Laterano, lasciavo che la visione di quella basilica mi riempisse gli occhi di bellezza e poi, accanto all’obelisco più imponente e più antico di Roma, attendevo il bus 714 che mi avrebbe portato all’Eur. L’autobus straripava di lavoratori, tutti, come me, alla ricerca del loro spazio nel mondo, alla conquista di uno stipendio.
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Il direttore sanitario della clinica mi stimava molto. All’inizio credevo fosse colpito dalla mia laurea in Scienze Politiche, ma poi capii che di me apprezzava soprattutto il modo in cui mi dedicavo anima e corpo alle mansioni richieste, la mia voglia di dare un contributo senza limitarmi a svolgere semplicemente un compito. Era un uomo intrigante: proveniva da una famiglia di spicco proprietaria di diverse cliniche sparse per il mondo, una addirittura a Mosca. Era illuminato - così mi piace descrivervelo - moderato e di grande cultura, ma anche esigente e rigido con chi non riteneva all’altezza della professione. Pensai: “Se vuoi entrare in relazione con tutto il mondo, annullando diversità e distanze, queste sono le qualità che devi possedere”. Il direttore sapeva di poter contare su di me. A volte penso che ritrovasse nella mia indole curiosa e combattiva un po’ del giovane che era stato. Ricordo che una sera ero con gli amici in un pub di fronte alla basilica di Santa Maria Maggiore a bere una birra finito il lavoro. Mi chiamò al cellulare chiedendomi di rientrare d’urgenza in ospedale. Mi disse: “Luca. Ciao, sono il direttore, è subentrata un’emergenza in ospedale, ti chiedo di prendere un taxi e mi occuperò personalmente della spesa. So che hai concluso il turno ma se ci sei tu mi sentirò più tranquillo”. Risposi: “Sarò lì in pochi minuti”. E così feci. Non mi reputava un infermiere qualunque.
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Nei giorni in cui nei nostri reparti era ricoverato il figlio del celebre segretario del Partito Socialista Matteotti, mi chiese di occuparmi personalmente di lui. Immaginatevi l’emozione provata nel trovarmi davanti il figlio di una delle figure più rappresentative della storia d’Italia. Per me, che avevo condotto studi di politica, fu come essere catapultato dentro ad un libro di storia. Quell’anziano signore di novant’anni riceveva visite importanti. Un giorno arrivò la famiglia del fondatore del Partito Comunista, i corridoi del reparto si trasfigurarono, passo dopo passo, nelle colonne del passato sulle quali si costruì la nostra democrazia, io, in punta di piedi, involontario spettatore. Di ogni esperienza fatta nella mia vita ho saputo comprendere fin da subito, e non a posteriori, la portata, le opportunità che si celavano dietro, grandi o piccole che fossero. Date retta a me: se l’anima è aperta alla conoscenza e permane l’ambizione di migliorarsi, ogni giornata può offrire uno spunto di crescita. Allora mi sentivo ai blocchi di partenza della mia esistenza. Pronto allo scatto, a tracciare i miei record personali. Ogni muscolo era colmo di energia, la testa fervida di idee. Forse tante, troppe. C’erano giorni in cui faticavo a metterle in ordine ed era in quei momenti che l’assenza di mio padre batteva come un mal di denti che si faceva nuovamente acuto.
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Sapevo, però, di poter contare su Zio Raimondo, una figura che ha saputo egregiamente sostituire quella paterna, che tanto mi era mancata. Era un uomo determinato, Zio Raimondo, che proveniva da una famiglia umile; il padre minatore aveva sacrificato la vita al lavoro, ammalandosi di silicosi nelle miniere del Belgio. Mio zio aveva respirato sin dall’infanzia il significato vero della parola fatica, il valore del desiderio che ti spinge oltre le difficoltà. Per me fu un vate. Si era laureato in ingegneria ed era riuscito ad inserirsi a pieno titolo nella classe imprenditoriale del Nord Italia, lavorando alla Montedison. Era un professionista uguale a nessuno, integro, tenace, capace di meritarsi il titolo di cavaliere del lavoro, era il mio modello di vita. Un giorno, dato che era a Roma per affari, passò a trovarmi. Mi portò a cena in una storica trattoria vicino all’Ara Pacis. La primavera rendeva l’aria piacevole e il profumo delle piante fiorite addolciva persino il caotico via vai delle auto. Zio Raimondo mi conosceva meglio di molti altri, sapeva che l’aver agguantato il posto fisso in ospedale non rappresentava un traguardo per me, ma solo una tappa della mia vita. Mi disse, davanti ad un piatto meraviglioso di carciofi alla giudia: “Luca, devi riflettere molto bene sul futuro ed investire ora in un’estensione dei tuoi studi. Specializzati in qualcosa che faccia di te una persona
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ancora più ambita a livello professionale. La Luiss offre dei master di altissimo profilo. Potrebbero offrirti una carriera in ambito dirigenziale, anche se ti allontaneresti del tutto dagli studi che hai fatto. Oppure potresti rimanere nel settore sanitario, frequentando un master proprio sul management legato al mondo ospedaliero”. Sapevo che avrebbe preferito la prima strada per me, ma scelsi la seconda perché mi sembrava la più naturale, oltre che la più idonea alle mie tasche. “Zio ti ringrazio per i tuoi consigli preziosi. Farò un master alla Luiss e ti renderò orgoglioso di me”. Non avrei mai voluto che quella cena finisse. Accanto a lui mi sentivo a casa, mi sembrava di recuperare una figura paterna a capotavola, mi abbeveravo alle sue parole imparando la vita. Ma il mio turno di notte incombeva. E così mi iscrissi ad un prestigioso Master alla Luiss. Gli studi universitari avevano lasciato in me il desiderio di imparare ancora di più, di arricchire le mie conoscenze, e quel tipo di master mi avrebbe illuminato sugli aspetti dirigenziali, gestionali, aziendali del mondo sanitario. Zio Raimondo mi aveva assicurato che mi avrebbe formato professionalmente, finì per formarmi anche come uomo. Fu un nuovo periodo ricco di soddisfazioni. Eccellevo nei risultati e i docenti mi tenevano in gran considerazione. Era inusuale per loro avere tra i propri allie-
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vi un infermiere desideroso di acquisire nuovi saperi, capace di sognare in grande. La bolla esplose nel 2009 quando persi mio padre. Un ago devastante dentro a quel momento felice. Ricordo che nei giorni della sua morte avevo un esame da sostenere, ma non riuscii a tenere la rotta dello studio in quel mare di dispiacere. Ci volle del tempo prima di recuperare la determinazione di sempre, ma uno dei lasciti caratteriali che mio padre mi ha trasmesso è stata proprio la resilienza: la forza di non mollare mai, di attutire i colpi della vita. La sua assenza si affievoliva quando ero concentrato nelle mie ricerche e si riacutizzava quando non potevo renderlo partecipe dei miei successi. Per redigere la mia tesi finale entrai in contatto con alcuni dei docenti e manager più carismatici di Roma. Nonostante arrivassi da una realtà diversa, ricevevo sempre un’accoglienza generosa; la curiosità era l’arma che mi apriva un varco in ogni campo e che mi differenziava dagli altri studenti. Solo io avvertivo sotto pelle la discrepanza fra i due mondi che frequentavo: il quotidiano da infermiere in corsia e gli studi che mi catapultavano in un contesto sociale e culturale decisamente più elevato. Il poco tempo libero che mi restava lo dedicavo ai convegni sulla sanità pubblica: quelli medici scientifici e quelli di approfondimento sulla parte economica manageriale. La mia fame di conoscenza era insaziabile. Da una parte all’altra della città correvo per non perdermi nes-
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sun evento. Roma era una fonte inesauribile di occasioni, di frammenti di futuro di cui non avrei voluto perdere neppure un pezzo, mi sembrava di collezionare tasselli del puzzle per il mio futuro, sulle fondamenta dei tanti sogni che mi portavo dentro. Nel frattempo, seppur a distanza, coltivavo i rapporti con le figure dirigenziali dell’Umbria in ambito sanitario. Fu grazie (o a causa) di una di queste figure che mi fu proposto di rivestire il ruolo di capo sala in un’importante clinica privata di Perugia, una posizione che per un giovane della mia età era davvero ambita. Accettai immediatamente; non so se fossi più onorato dalla proposta, o se covassi inconsciamente il desiderio di tornare nella mia terra natia per formare una famiglia nel luogo delle mie origini. Fu un vero salto nel vuoto, adesso che ci penso: lasciare un posto fisso a Roma, una delle città più affascinanti del mondo, allontanarmi dai tanti prestigiosi contatti che faticosamente avevo intessuto... Credo sia stato quello il seme del mio disagio, la crepa nella grinta che avevo mostrato fino ad allora. In fretta, come avevo accettato, feci dietrofront e decisi di ritornare nella Capitale, là dove tutto soffiava nella mia direzione. Iniziai a lavorare ad un nuovo progetto insieme ad un imprenditore conosciuto nel mondo della sanità. Creammo una prima startup no profit di ricerca per l’innovazione scientifica e poi una seconda di servizi infermieristici per cure domiciliari.
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Ma ancora una volta, la felice fibrillazione dei nuovi progetti professionali veniva scolorita dalla crisi matrimoniale che via via dilagava nella mia anima. La fine del matrimonio fu la spinta dentro al baratro. L’amarezza, il fallimento, la tristezza erano emozioni logiche davanti al crollo di un progetto così bello come quello di camminare accanto a una persona per tutta la vita, ma su di me ebbero l’effetto di una deflagrazione che manda tutto all’aria senza lasciare in piedi neppure le fondamenta. Non vi so spiegare perché la vissi così, non so ancor oggi spiegarlo a me stesso. So solo che di quella cartolina che mi ritraeva al centro della mia famiglia, con accanto una moglie, dei figli, una bella casa ed un lavoro appagante, mi rimanevano in mano solo le briciole di un sogno andato in frantumi, oltre a pratiche burocratiche da sistemare. La prima fra tutte: vendere la casa che avevamo acquistato insieme a Roma. Per me significò anche abbandonare la mia città elettiva per la terza volta; non avevo i soldi per comperare un nuovo appartamento tutto mio. Rientrare nella terra natìa vestito a lutto e non a festa fu orribile. L’avevo lasciata pieno di sogni e progetti, tenendo per mano la donna amata, mi sembrava di “tornare al via” come in uno di quei giochi di società che, con un tiro di dadi, ti buttano in coda a tutto e tutti.
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Non vi nascondo di aver attraversato un periodo durissimo. Il cuore ferito mi lasciava inerme, io che ero abituato a prendere gli eventi della vita come un toro per le corna. La tristezza mi azzittiva e l’incapacità di reazione mi spersonalizzava. La risalita, cari miei, è stata lunga, procedendo a piccoli passi, seguendo il filo di Arianna che mi ha guidato fuori dal labirinto del dolore. La porta magica, ancora una volta: la curiosità, che mi spinse ad avvicinarmi alla meditazione e all’analisi interiore. E poi mi diede una spinta anche Zio Raimondo, standomi semplicemente accanto, come avrebbe fatto mio padre se avessi potuto sentire la sua forte mano sulla mia spalla china. Trascorrevo molto tempo a chiacchierare con lui, confrontandomi e mettendo sul tavolo le conoscenze acquisite a Roma. Mi consigliava, mi spronava e per primo anticipava la messa in opera di un sogno che custodivo dentro: far nascere un progetto imprenditoriale legato all’ospitalità turistica. Era un uomo saggio. Illustrava gli strumenti che un buon imprenditore doveva attivare, non senza ricordarmi di evitare i passi più lunghi della gamba. Era una preziosa guida professionale e una figura paterna allo stesso tempo. Fu la mia ancora, ma anche la mongolfiera in volo dalla quale intravedere nuovi orizzonti.
CAPITOLO III
IL CENTRO SPIRITUALE “We are all God’s people Gotta face up Better grown up yeah yeah yes there was this magic light” Queen
Il periodo vissuto a Roma mi ha trasformato dentro. Le grandi città sono come titani davanti ai quali, prima ti senti piccolo e indifeso, poi nel tempo inizi a conoscerne tutte le sfaccettature, le dimensioni e le debolezze fino al giorno in cui riesci a condurre la sfida e ti senti vincente e forte quanto loro. Il master fatto alla Luiss, poi, è stato quel cavallo bianco che mi ha permesso di attraversare con fierezza le avventurose giornate romane, ricche di eventi, di incontri stimolanti, galoppando verso il futuro con la convinzione che nulla potesse fermarmi. Ma se io galoppavo, il mio matrimonio viaggiava ad un ritmo diverso, era una sottile sensazione alla quale non permettevo diventasse un problema di portata più ampia. Eppure, a volte, era come se ci guardassi da fuori: due giovani innamorati, partiti assieme dalla terra umbra verso la capitale, che percorrevano strade parallele che li avrebbero condotti a destinazioni diverse.
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Non posso negarvi che la trasformazione più impattante fu la mia. L’infermiere con il posto fisso d’improvviso era diventato uno studente modello che frequentava corsi di management, finanza, che si relazionava con docenti, direttori sanitari, manager di un certo calibro, che riceveva proposte di progetti professionali affascinanti. I miei valori erano rimasti identici ma la scala delle priorità aveva invertito un paio di scalini. Il matrimonio iniziò a vacillare esattamente come una scala che non ha i pioli ben allineati. E la sua fine arrivò più veloce del previsto, così come realizzare che la mia vita a Roma si concludeva lì. La casa che avevamo comperato insieme, fummo obbligati a rivenderla, ed io non ero ancora affermato nei miei progetti al punto da poter investire in un nuovo immobile. Non rimaneva altra soluzione che tornare a Gubbio, a casa di mia madre. Credo, nel trambusto, di non aver capito fino in fondo cosa mi stesse accadendo. Come quando cadi per strada e sei talmente preoccupato a rialzarti e levarti dai pericoli che non senti neppure le ferite che ti sei fatto. Io ero impegnato a risolvere le grane burocratiche: la vendita della casa, il trasloco, la fatica di gestire da Gubbio i progetti attivati in città; le giornate erano una centrifuga di incombenze che non mi lasciavano né respiro né tanto meno lo spazio mentale per realizzare cosa fosse successo.
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Poi, una volta trasferitomi definitivamente, la botta arrivò violenta, stendendomi a terra. Le prime settimane fui ingannato dal piacere di rivedere gli amici, e devo dire che si sono fatti tutti in quattro per starmi accanto. Le serate spensierate assieme, come ai vecchi tempi, avrebbero ingannato chiunque. Per un po’ mi illusi che sarebbe andato tutto bene: ero tornato alla terra natia, rientravo nel grembo dal quale ero nato, riconoscevo me stesso specchiandomi nel volto della mia gente. Riassaporavo la bellezza della natura, la pace e i silenzi della campagna. Ma questo ristoro molto presto non mi bastò più. Una grossa parte di me era ormai trasformata per sempre, mi sentivo un cittadino di Roma catapultato a Gubbio. Non l’inverso. Mi sentivo un’auto di Formula Uno, che fino a quel momento aveva sfrecciato veloce tagliando traguardi importanti, chiusa in un box senza più benzina. Quell’immagine dapprima scherzosa si fece concreta, palpabile sotto pelle, invadente. Drammaticamente dolorosa. Avevo l’orribile sensazione di aver buttato via tutto quanto appreso al master, tutti i contatti coltivati con la mia abnegazione e gli esiti eccellenti degli esami sostenuti. Tutto scoloriva. Tutto perdeva di consistenza. Lentamente mi abbandonarono tutte le forze. Lo sguardo sulla realtà si offuscò e non c’erano lenti che mi potessero aiutare a vederci chiaro.
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Camminavo a tentoni nelle mie giornate. Sempre più stanco, sempre più inerme. La porta che mi ero chiuso alle spalle a Roma si aprì sull’inferno, il mio inferno personale. Quello che mi ha ridotto in pezzi, badate bene, non era fatica, non era la paura di dover affrontare una nuova sfida, quelle cose le avrei sapute affrontare benissimo, erano il pane quotidiano per la mia innata tenacia e determinazione. No, il nemico che mi trovai davanti e che non ero pronto ad affrontare - fu la mancanza di prospettive. Il mio cervello non riusciva ad intravedere un orizzonte, a mettere a fuoco dentro di sé una meta da dover raggiungere, un’opportunità di crescita in un piccola “grande” Città di cui conoscevo (o almeno mi pareva di conoscere) tutti i limiti e i confini. Non era paura dell’ignoto, era paura del noto. Io che avevo affrontato trasferimenti, lavori diversi, io che avevo interagito con uomini di cultura, figure di grande levatura sociale senza mai tirarmi indietro, semmai spinto dal desiderio di conoscere e di mettermi alla prova, mi ero risvegliato formica inerme all’ombra del pianeta. Era il nulla che mi terrorizzava, non il tutto. E io nel mio rientro a Gubbio, allora ci vedevo solo il nulla. È cominciato così il periodo peggiore della mia vita: come un lento e inesorabile distacco dalla realtà.
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La notte incubi, di giorno la notte, la mia notte dell’esistere. Aprivo gli occhi al mattino ed ogni risveglio era accompagnato da un tonfo al cuore: non avevo sognato, quella vita era proprio la mia. Mi vedevo dall’alto, da fuori. Un essere sdraiato sul suo destino. Non in piedi, non seduto: s-d-r-a-i-a-t-o. Ed è così che volevo stare, quasi a credere di meritarmi solo quello. Vestirsi, lavarsi, organizzare la giornata erano mansioni che consideravo inutili prima ancora che faticose. Mia madre faceva del suo meglio per accudirmi. Ero tornato un bimbo da seguire passo a passo. La sua presenza, tanto mi serviva tanto mi ricordava quanto fossi indifeso. E a volte, quasi sentivo il rumore sordido di quell’ingranaggio in cui ero cascato e che non riuscivo a fermare. Più ero inerme più ero stanco e fragile, e più ero stanco e fragile e più ero inerme. I giorni diventarono settimane. Ricordo che provavo ad affrontare qualche banale mansione come andare a fare la spesa. Partivo di casa, con la lista delle cose da comperare ben chiara in mente, e poi una volta arrivato al supermercato non ricordavo più nulla. Avevo dei vuoti di memoria incredibili. Lo ammisi a me stesso: non ero autosufficiente. Un piccolo sussulto di reattività lo ebbi quando mi iscrissi ad un bando regionale che offriva una picco-
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la cifra per lavorare in un ambulatorio specialistico. Ero riuscito a concepire l’ipotesi di potermi assumere quell’incarico sulla scia della mia passata professione di infermiere. Iniziai a prestare servizio in ambulatorio ma il disagio mi perseguitava, mi veniva a cercare. Le mansioni all’interno delle ore di lavoro le svolgevo in automatico, era quasi semplice. Poi tornavo a perdermi nel vuoto del mio spazio temporale. Le segretarie del centro furono tutte molto gentili, intuivano il mio malessere e la sera mi accompagnavano addirittura a casa. A nulla serviva vestire i panni del lavoratore. Fare come se fosse che... La mia intelligenza mi sbatteva in faccia che quello, lungi dall’essere un lavoro, era un ripiego che umiliava tutte le mie competenze. E stava passando troppo tempo. Mia madre, poi, era terribilmente preoccupata per me. Quella nuova versione di Luca aveva spaventato anche tutti gli amici. Dopo un po’ smisero di riconoscere il vecchio me in quello nuovo e smisero di riconoscere loro stessi dentro di me. Era uno scollamento totale dalla mia storia di uomo. Il punto di non ritorno. E fu proprio in quel momento che presi una delle decisioni più importanti della mia vita. Esattamente quando toccai il punto più basso del pozzo, presi l’iniziativa.
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Datemi retta: chi ha detto che bisogna toccare il fondo per darsi una spinta e risalire dev’esserci passato personalmente, perché le cose andarono precisamente così. Ero venuto a conoscenza di un centro spirituale che da tempo si era insediato nella mia regione. Era un gruppo di meditazione orientale che ospitava persone da tutto il mondo. Chiunque volesse ritrovare il contatto con la natura e con se stesso andava a trascorrere un breve periodo lì. A Gubbio la gente era molto diffidente nei loro confronti; da noi le origini cattoliche sono molto radicate, mentre il centro era di impostazione orientale. Mi dissi che a me non interessava l’aspetto confessionale del centro bensì la sfera spirituale di quell’esperienza, volevo semplicemente regalarmi una possibilità di essere ricondotto all’essenziale. Avevo bisogno che qualcuno mi indicasse la via smarrita e il centro prometteva di ricondurre chiunque, a piccoli passi, verso il piacere del vivere. Così presi quel poco che mi serviva e mi trasferii lì. Se ci penso oggi, è stato un atto di grande amore verso me stesso, il primo dopo tantissime settimane in cui avevo smesso di credere di meritarmi qualcosa di bello o di futuribile. Non ho dato troppe spiegazioni agli altri, né informazioni su ciò che andavo a fare. Sono partito e basta. Il giorno in cui sono arrivato, ho respirato la prima sensazione positiva dopo molto tempo.
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Nonostante avessi lasciato casa e la presenza rassicurante di mia madre, mi sentii finalmente nel posto giusto. Era un grande casale immerso nella natura e già questo favoriva il senso di pace; ne avevo ormai una fame sconfinata. Il programma di permanenza, però, era tutt’altro che basato sull’ozio. Le giornate erano scandite da rituali precisi che avrebbero dovuto incanalare le nostre energie e favorire la “pulizia” del corpo e dell’anima. Al risveglio eravamo invitati a fare meditazione. A stomaco vuoto. Poi facevamo una ricca e sana colazione. Dopodiché ci venivano assegnate mansioni legate alla cura dell’orto e a tutto quanto contribuisse al buon funzionamento della comunità. Anche se nella vita avevo vissuto diverse esperienze, non mi era mai capitato di lavorare la terra. Inutile dirvi che fosse molto faticoso, soprattutto nelle giornate in cui il sole picchiava forte sui campi. Ma concentrarsi sul raccolto delle patate, sull’estirpazione delle erbacce, sui restauri di falegnameria, ci allontanava per qualche ora dai nostri pensieri negativi e ci stancava le membra quel tanto per ambire ad un sonno ristoratore. Le nostre ansie e ossessioni che, soprattutto la notte, diventano animali feroci che mordono l’anima, erano come ammansite. Gli ospiti del centro erano di provenienza e di origini diverse dalla mia, molti trascorrevano del tempo lì
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per il puro piacere di meditare e di incontrare i magnifici paesaggi dell’Umbria. Un filo conduttore però ci avvicinava tutti, gli uni agli altri, ed era il desiderio di entrare in contatto con se stessi, andando in profondità. I dialoghi erano ricchi di riflessioni, di emozioni. Il livello culturale era elevato ed io sentivo di arricchirmi giorno dopo giorno. Solo a volte avvertivo la nostalgia della socialità, quella leggera e giovane che avevo lasciato fuori. Al centro l’età media era più alta della mia, le esperienze di vita più costruite, più complesse rispetto a quelle che avevo sperimentato io. Erano comunque brevi istanti che ricacciavo indietro, certo dei benefici del cammino intrapreso. Fra le tante piccole mansioni che mi assegnarono quella che preferivo era il ruolo di accompagnatore degli ospiti d’onore e di coloro che non potevano raggiungere il casale con i propri mezzi. Andavo a prendere all’aeroporto i nuovi arrivati o mi prestavo a far conoscere le bellezze della mia terra. Umbro verace, sapevo raccontarla meglio di chiunque altro, aggiungendo piccoli aneddoti, sconosciuti ai più, che incuriosivano soprattutto gli stranieri. Con alcuni di loro ho stretto un’amicizia che è rimasta nel tempo. Ricordo una donna facoltosa, bella, con la quale ho trascorso tanto tempo a parlare delle nostre vite. Il dialogo fluiva semplice, come se ci conoscessimo da sem-
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pre. Ritornò in Umbria diversi mesi dopo e le feci visitare le grotte di Frasassi. Poi pranzammo in una piccola trattoria locale. E su una tovaglia bianca e inamidata caddero le briciole delle nostre sofferenze, raccontate senza falsi pudori. Ricordatevelo: a volte aprirsi a chi è poco più di un estraneo aiuta a rivedere il proprio passato in un’ottica nuova, senza le contaminazioni affettive che si trascinano dentro alle amicizie di vecchia data incanalate in clichés difficili da scardinare. Anche Greg, un signore eclettico e molto simpatico, fu una conoscenza del centro trasformata in amicizia. Veniva spesso a mangiare da noi, a casa. Nelle belle giornate di primavera ci piaceva stare in giardino. io mi abbeveravo della sua saggezza e lui ascoltava le mie esperienze di studio e di infermiere. Capitava anche che rimanessimo in silenzio, come eravamo soliti fare al centro. Ma nessun silenzio dei nostri era vuoto o sterile. Il silenzio era colmo di universo. Permettevamo alla natura di comunicarci le sue bellezze, i suoi profumi e i suoi suoni armoniosi. Non c’è niente di più musicale della sinfonia dei prati, dei boschi e dei ruscelli. Anche un rametto che si spezza al vento emette un rumore completo e ricco di significato, basta volergli trovare uno spazio nei propri pensieri. Un giorno Greg, guardando il nostro giardino, ci propose di creare delle forme in mattoni per renderlo ancora più gradevole e l’idea mi parve da subito molto
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affascinante. Sapevo che una mente come la sua avrebbe sicuramente generato qualcosa di bello; contattai i muratori il giorno stesso in cui mi consegnò il progetto. Ho capito da solo quando era giunto il momento giusto per abbandonare il centro spirituale. Lo scopo di quella comunità - ormai mi era chiaro - non era quello di portare un sostegno alle persone, a senso unico, come travasare il contenuto da un contenitore all’altro, in modo passivo. Se di rinascita bisognava parlare, essa passava dal sentirsi parte attiva nelle relazioni, come nel quotidiano. Non ero stato solo un paziente da accudire, ma un individuo che nel suo piccolo aveva contribuito e donato cose di sé. Avevo raccontato, ma anche ascoltato. Ero stato ospite ma anche padrone di casa. Mangiavo i prodotti della loro terra ma non senza dare in cambio la forza delle mie braccia per coltivarla. Il coronamento di quel cammino era rendersene conto: ero entrato annientato ed inerme, ora uscivo consapevole di aver dato un senso al tempo. La tappa successiva sarebbe stata solo mia e tutta interiore: la gestione delle giornate fuori da lì, senza perdere le energie mentali che custodivo gelosamente nel mio zaino. Tempo addietro uno psichiatra mi aveva prescritto dei farmaci al fine di tamponare la deriva dei momenti più difficili. Avevo accettato perché capivo che la de-
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pressione era come una ferita che perdeva sangue in modo copioso e bisognava correre ai ripari velocemente. Ma sapevo anche che non era “la soluzione”. La formazione medica per diventare infermiere mi permetteva di comprendere perfettamente tutti gli aspetti nocivi dell’assunzione continuata di certi farmaci. Così, con quelle poche ma preziosissime energie accumulate nel centro spirituale, cominciai a ridurre le sostanze chimiche alternandole all’attività fisica. Piano piano mi sganciai dalle prime ancorandomi alla seconda. Mi allenavo tutti i giorni, anche due volte al giorno. Le endorfine scatenate dai muscoli in movimento erano la mia nuova droga. Un nuovo senso di benessere si impadronì di me, spingendomi ad alzarmi dal letto molto presto al mattino, per uscire di casa e percorrere le strade e le campagne adiacenti. Fisicamente notavo le trasformazioni del mio corpo, queste, alimentavano la mia autostima. Seguendo le indicazioni imparate al centro, cercavo di mantenere un’alimentazione corretta ingerendo prodotti sani. Insomma, avevo rimesso in moto la macchina. Anche i miei pensieri subirono una metamorfosi: dapprima confusi e rallentati, ora erano vivi e presenti. I vuoti di memoria erano decisamente diminuiti, iniziavo a riscoprire la mia indole curiosa e dinamica. Arrivò la primavera fuori e dentro di me. Le giornate si allungarono e fu come se la luce del giorno mi invitasse a godere del presente un minuto ancora, un minuto in più.
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Il profumo dell’erba appena tagliata frizzava nell’aria e le api ronzavano sulla tavola lasciata apparecchiata dal pranzo. Rivedevo la mia terra come uno straniero che viene da molto lontano, ogni paesaggio mi arrecava stupore, ogni piccolezza un’emozione. Mi ero definitivamente lasciato alle spalle l’inferno ed ero pronto a riprendere il cammino. Ricordo che la prima cosa che ho desiderato fare, d’istinto, è stato andare a trovare il mio gruppo di sbandieratori. Lo ricordo come fosse ieri: suonai alla porta del palazzo signorile dove si riunivano con l’agitazione nel petto, i dubbi nel cuore. Come mi avrebbero accolto? Cosa mi avrebbero chiesto? Non temevo il loro giudizio, mi domandavo se sarei stato ancora un abile tamburino. Mi accolsero a braccia aperte. Il sorriso generoso di tutti che, senza bisogno di parlare, era il più dolce “bentornato”. Molti di loro, ben più grandi di me, mi avevano sempre considerato una sorta di mascotte da far crescere. Mi resi conto di non aver perso tutti quanti i riferimenti della mia vita di prima, le amicizie che mi avrebbero potuto tenere la mano mentre mi incamminavo sul filo, posto là in alto, fra il mio prima e il mio dopo. Proprio al mio arrivo stavano organizzando una trasferta a Sarajevo, ospiti dell’ambasciatore italiano, per celebrare la festa della Repubblica del 2 giugno.
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Non avrei potuto desiderare nulla di meglio. Un viaggio, in compagnia di persone amiche, che mi potesse inebriare di nuove emozioni. Partii con loro e ripartii con me stesso. Non appena misi piede a Sarajevo tornai bambino in un inatteso paese dei balocchi. Camminavo senza meta perdendomi tra le vetrine, i monumenti e le bellezze locali. È stato per una di loro che mi sono dimenticato persino di tornare in hotel insieme al gruppo. Dopo mesi e mesi di prigionia fra le mura della depressione, decisi di riassaporare la libertà. Di cogliere ogni istante e lasciarmi contagiare dalle infinite sfumature che hanno le emozioni. Volevo ridere, guardare, camminare e poi correre. Volevo parlare, cantare, ascoltare. Una ragazza incontrata per strada era come una dea da ammirare senza perdermi un solo sguardo. Gli altri sbandieratori, arrivati all’hotel, si spaventarono nel constatare la mia assenza. E se uno sbalzo di umore o un momento di panico mi avesse fermato all’angolo di qualche via? Girarono tutta la città intenzionati a ritrovarmi, a venire in mio aiuto. Quando mi videro varcare l’ingresso, a sera, con il viso pacifico di un bimbo appagato da una giornata di gioco, sembrò non essere passata neppure un’ ora dalla nostra prima esibizione.
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La nostra manifestazione della mattina successiva fu trionfale, rappresentammo orgogliosamente la nostra nazione, eravamo lì per quello. Le nostre trasferte ci avevano sempre fatto sentire ambasciatori della cultura italiana, ci facevano sentire importanti non per noi stessi, ma per l’Italia intera. Finita la parata fummo accolti nell’ambasciata italiana per un banchetto condiviso con gli ambasciatori delle altre nazioni. Girare fra i tavoli ai quali sedevano figure istituzionali provenienti da tutto il mondo mi fece sentire nuovamente a mio agio, nella mia vera pelle. Il viaggio a Sarajevo occupa un posto speciale nei miei ricordi, lo considero un regalo che la vita mi ha fatto con tempismo perfetto, e il biglietto di auguri recitava: “esistere è bello”.
CAPITOLO IV
BOBBIE BROWN “She ‘s my cherry pie cool drink of water,such a sweet surprise, tastes so good, makes a grown man cry sweet cherry pie” Warrant
Sì, la vita è stata generosa con me. Mi ha dato tante opportunità, tanti stimoli. Il segreto, però, è stato imparare ad ascoltarla nel bel mezzo del frastuono del quotidiano. Nel 2019, per esempio, le ho dato ascolto nel vero senso della parola. E mi è venuta voglia di raccontarvelo. Quell’estate sono partito per un viaggio in America. Una vacanza che mi avrebbe premiato delle tante fatiche vissute per avviare il B&B. Già: ho avviato un B&B e anche di quello vi parlerò, ma adesso torniamo all’estate del 2019. Non volevo che fosse una vacanza come le altre, volevo che fosse indimenticabile. Avevo pianificato il viaggio in America memore della bellissima esperienza fatta con la mia ex moglie, quando eravamo andati a spasso per gli Stati Uniti per un intero mese. L’America mi aveva colpito, me n’ero invaghito con lo spazio, ho trovato adesso questo errore. Amavo i suoi
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paesaggi ma anche la cultura di un popolo sempre in movimento, reattivo al nuovo, aperto al diverso. Sarà come dicono, che è solo un approccio di facciata, ma resta comunque uno dei posti in cui mi sono sentito più accolto. Avevo nostalgia di quella terra, così ho deciso di tornare da lei inserendo nel mio programma una tappa obbligatoria a Los Angeles. Una star che ho sempre ammirato avrebbe presentato il suo nuovo libro in una famosa libreria della città e la sola idea di vederla dal vivo mi emozionava ad un oceano di distanza. Dal momento in cui ho posato piede in quella metropoli, a metà tra fantasia collettiva e sole, mi sono sentito in fibrillazione. Tutto è rivestito da una patina di sogno, la luce, i colori, i ritmi, sembra di muoversi dentro ad un enorme set cinematografico in cui tutto è possibile. La gente se ne va in giro vestita come se fosse in uno show, anche le automobili sembrano più grandi e fanno a gara a chi ha la carrozzeria più sgargiante, le donne – che ve lo dico a fare – sono bellissime. Quelle che correvano sui pattini a rotelle, tra le palme di Santa Monica, incorniciate dal primo tramonto mozzafiato del mio viaggio californiano, mi ricordavano le pin up anni ‘50 viste sulle cartoline. Ero pronto a vivere il grande circo, ma soprattutto era l’idea di incontrare Bobbie Brown dal vivo a ticchettarmi dentro.
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La mattina della presentazione del libro mi sono preparato come se dovessi andare ad un appuntamento importante. Mi sono fatto una lunga doccia, una colazione corroborante e ho indossato l’abito elegante portato appositamente dall’Italia. Tutto doveva essere perfetto. Ai suoi occhi sarei stato uno dei tanti ammiratori, ma la cosa mi importava poco. Ho vissuto quella vigilia come se mi dovessi preparare ad un tête-à-tête. Spossato ed elettrizzato allo stesso tempo. Ero in anticipo, per cui mi sono seduto a bere un caffè nel bar accanto alla libreria, sulla Sunset Boulevard, scambiando due chiacchere con la cameriera. Quando è giunta l’ora, mi sono aggiustato la camicia e ho varcato la porta del mio sogno ad occhi aperti. C’erano poche persone, per lo più qualche giornalista seduto vicino al piccolo palco davanti ad un cartellone che la ritraeva in tutta la sua bellezza. Il libro si intitolava “Cherry on top” e la ciliegia in bella mostra sulla copertina richiamava le sue labbra rosse. Nonostante il passare degli anni, la ragazza che era stata la compagna del frontman dei Warrant, era ancora un bella donna. Brillante, ironica e determinata. A precedere il suo ingresso ci aveva pensato un pezzo rock, l’intro di “Cherry Pie”, poi era entrata lei, illuminando tutta quanta la sala, con il suo carisma e i suoi capelli biondo platino rimasti intatti.
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Ha rotto gli indugi facendo subito qualche battuta, spogliando il clima della sua formalità. Mentre lei parlava dei suoi anni d’oro, la toppa dei Mötley Crue sul mio giubbino rompeva il ghiaccio a suo modo, senza che neppure me ne accorgessi. Alle mie spalle e a mia insaputa sedeva un’altra donna che aveva solcato la gloriosa scena del rock negli anni Ottanta, Sharise Ruddell, ai tempi compagna del cantante dei Mötley Crue,Vince Neil. Sia lei che Bobbie Brown, in quegli anni, avevano preso parte ai video delle canzoni più famose dei loro compagni e gli adolescenti di mezzo mondo si erano innamorati di loro almeno quanto di quella musica. A un certo punto si è seduta accanto a me e ha cominciato a parlare. Sono rimasto paralizzato dall’imbarazzo – allora è vero che a Los Angeles può davvero succedere ogni cosa… – Aveva visto la toppa dei Mötley Crue sul mio giubbino e aveva desiderato conoscermi. Ma non è tutto. Gli angeli di L.A. non scherzano affatto, e così poco dopo ha voluto accompagnarmi da Bobbie Brown per presentarmela di persona. Se le porte del paradiso sono sulla terra, io mi ci sono trovato di fronte. Le ho chiesto un autografo sul libro e di poter immortalare quell’istante. Datemi retta, se vi capiterà mai di accarezzare il destino, il giorno che tifa spudoratamente per voi, fate in modo di avere una foto di quell’attimo. La mia riesce
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ad emozionarmi ancora oggi ogni volta che la tengo in mano. Passati i primi istanti di imbarazzo, ho deciso di trasformare quell’incontro in un gran bel ricordo. Ho raccontato loro del mio Bed and Breakfast in Umbria, della mia terra d’origine, ho detto loro che sarei stato onorato di averle mie ospiti qualora fossero venute in Europa. Mi sono spinto perfino oltre: se lo avessero voluto, avremmo potuto pensare addirittura ad una partnership, per dare visibilità alla mia struttura. Formulavo queste frasi ed ero io stesso il più incredulo, ma se c’è una capacità che mi sono sempre riconosciuto è quella di cogliere l’attimo. Non buttate via le occasioni speciali, non riducetele ad un selfie; ve lo dice un infermiere in tutto e per tutto, che prova a prendersi cura degli attimi che contano così come prova a prendersi cura degli altri. Bobbie Brown mi ha rivolto un gran sorriso. Ero pronto a sentire un sonoro NO e invece mi ha stupito con un musicale SÌ. Per fortuna ero appoggiato ad una sedia, altrimenti sarei caduto a terra. Ci siamo scambiati gli indirizzi di posta elettronica e poi l’icona della bellezza rock ha lasciato la libreria portandosi dietro un pezzo del mio cuore. Nel 2018 ero stato al concerto dei Pearl Jam a Roma ed una volta finita la serata tutti i fan si erano ritrovati a
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una festa celebrativa proprio lì accanto. Non mi infastidiva essere lì da solo, ero abituato ad andare ai concerti da solo, variante che preferivo nettamente all’eventualità in cui gli amici di turno non fossero fans sfegatati quanto me del gruppo rock in questione. In quei momenti volevo essere completamente libero di vivere le emozioni senza dovermi occupare di nessuno. Mentre ero seduto a bere una birra sotto il Ponte della Musica, vicino allo Stadio Olimpico, ho iniziato a chiacchierare con una ragazza americana che viveva in una località balneare proprio alle porte di Los Angeles. Era venuta fino in Italia per vedere il suo gruppo preferito. La bolla di magia che si forma ai concerti ci aveva avvolto, concedendo qualche ora in più all’adrenalina dentro ai nostri corpi. Prima di lasciarci ci eravamo scambiati i numeri di telefono ripromettendoci di vederci qualora uno dei due si fosse trovato nei dintorni della vita dell’altro. E così, trovandomi a Los Angeles, con il destino dalla mia parte, ho fatto. L’ho chiamata, abbiamo cenato assieme e siamo finiti pure a ballare. Il finale perfetto di una giornata perfetta.
CAPITOLO V
BED AND BREAKFAST “What are you waiting for?, what are you waiting for? You gotta go and reach for the top believe in e very dream you have got” Nickelback
Rinascita. Una parola usata troppo spesso in circostanze non attinenti al suo significato. Per me rinascita ha voluto dire proprio rinascita. Nonostante la mia giovane età, in pochi mesi era come se mi fosse passato addosso il mondo intero. Avevo vissuto le più varie esperienze, avevo cambiato città, posti di lavoro, mi ero sposato e poi separato, avevo studiato infiniti giorni ed infinite notti, sostenuto esami, toccato vette esaltanti e scavato fin giù all’inferno, d’improvviso, là dove mancava la luce, l’ossigeno e una finestra per guardare lontano, per scorgere quel paesaggio, di cui tutti abbiamo bisogno, chiamato futuro. Piano piano, a mani nude, scalando le viscere della terra, sulle pareti scivolose dell’oblio, sono riuscito a salire in superficie, ed è stato come riapparire al mondo. Ecco, questa è una rinascita. E io voglio raccontarvi fin dove mi ha portato la mia.
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I primi tempi ogni cosa riusciva ad esaltarmi, a rallegrarmi. Tornato padrone delle mie facoltà, ho cominciato a chiedermi di nuovo come avrei potuto farle fruttare al meglio. L’esperienza da infermiere era stata molto importante e mi aveva reso indiscutibilmente un professionista nel settore sanitario, ma in quel momento sentivo il bisogno di rinnovare tutto, perfino nel mio quotidiano. Cosa potevo fare? Cosa potevo inventare? La testa spaziava su vari fronti. Alcuni giorni progettavo di ripartire per una grande città, altri di aprire una startup che mi permettesse di arrivare ovunque stando seduto sul divano di casa. Non me ne rendevo conto, ma c’era ancora una parte di me che aveva bisogno di pace, di ristoro. Non potevo e non dovevo ignorarla. Sarebbe stato come mancare di rispetto a ciò che avevo vissuto poco prima, mentre io ero fermamente intenzionato a far tesoro delle mie fatiche. Non avrei nascosto le mie cicatrici, né a me stesso né agli altri. Pensavo spesso agli insegnamenti di Zio Raimondo. Mi diceva sempre di non fare il passo più lungo della gamba, di progettare sogni possibili, di dare il massimo anche nel minimo, che non era necessario costruire castelli per essere grandi nel proprio lavoro. Dal nulla prese corpo l’idea di un B&B esattamente dove vivevo. Perché no?
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Mio padre ci aveva lasciato una casa molto grande. Da piccolo si può dire che sono cresciuto in una sorta di cantiere aperto: c’era un via vai costante di muratori che, un pezzo alla volta, sotto la sua guida, erigevano muri, abbattevano recinzioni, arricchivano di nuovi spazi la proprietà. Per me e mia madre quella casa era diventata troppo grande. Mio fratello si era trasferito in un’ altra città e io e lei trascorrevamo le nostre giornate in una piccola porzione dell’abitazione. Così, un giorno alla volta, l’idea di una casa vacanza cominciò a prendere forma nei miei pensieri. Una visione dapprima adombrata da preoccupazioni e dubbi, poi colorata dall’eccitazione di un nuovo inizio. Attingendo ai miei studi di management pianificai il percorso, stilando una lista di criticità, di variabili, di pro e di contro. Vivere in uno dei luoghi più belli d’Italia era nel peggiore dei casi una garanzia di dignitosa riuscita. Gubbio - mi continuavo a ripetere - non è solo un comune intriso di storia e ricco di monumenti, ma anche il luogo dove annualmente si svolgono manifestazioni che attirano turisti da tutto il mondo. “Il tempo del ben fare è subito!” Allestii le prime tre camere da letto. E la risorsa vincente fu mettersi nei panni dei turisti che sarebbero venuti nella mia dimora. Mi chiedevo: cosa avrei gradito trovare come ospite in una casa? Come avrei voluto essere accolto? Non po-
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tevo offrire un arredo da Grand Hotel, né sauna né spa, ma avrei potuto far sentire speciali i miei avventori. L’avventura ebbe inizio prima di quanto mi aspettassi, con le prime prenotazioni al telefono. Vi confesso che il giorno in cui fisicamente si materializzarono i primi turisti davanti a casa la percepii quasi come un’invasione pacifica fra le mura di casa. Venivano stravolte tutte le abitudini alle quali io e mia madre eravamo, direi, “assuefatti”. Nei mesi precedenti quel luogo per me era diventato come una clinica nella quale trascorrevo il tempo curando la depressione, un nido, un guscio, una boule de neige che mi teneva protetto dal mondo. Ora, d’improvviso era un luogo immerso nel mondo. Ora la mia casa era IL mondo. Il giorno in cui registrai i primi ospiti fui terribilmente impacciato. Ma con mia sorpresa agli altri non sembrava dispiacere, anzi, rimanevano piacevolmente colpiti dai miei modi riservati e delicati. Con il passare delle settimane diventai più sciolto ed esperto. La mia empatia verso il prossimo si riattivò un ospite alla volta, non più nella veste di infermiere, ma nell’inedito ruolo da albergatore. Mi dissi che nulla capitava per caso, e quale mestiere più di quello di infermiere avrebbe potuto prepararmi all’accoglienza e all’ascolto dell’altro? In corsia non basta saper somministrare un farmaco o fare un prelievo di sangue. La guarigione
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del paziente passa attraverso l’accudimento fisico ed emotivo. La condizione di estrema fragilità che vive un paziente rende decisivo il sostegno psicologico dell’infermiere. Siamo l’anello di congiunzione tra le cure mediche e quelle emotive. I malati, spogliati di tutto, dei loro abiti civili e degli affetti famigliari, dei loro ruoli abituali, si affidano al personale ospedaliero come bambini alla ricerca di conforto. Un bicchiere d’acqua fresca, un cuscino comodo, un antidolorifico dato al momento giusto fa la differenza. Mi bastò aprire quello scrigno di esperienza in corsia e farne dono ai miei ospiti. Ed è così che l’avviamento del B&B è scivolato più agevolmente di quanto mi aspettassi sui binari della mia nuova vita. Più in fretta del previsto. Da una camera sono passato ad allestirne 10 e le prenotazioni non tardavano a venire. Il 2019 è stato l’anno di maggiore affluenza. Negli ultimi decenni, l’insofferenza verso i ritmi di vita imposti dalle metropoli hanno spinto molte persone a cercare ristoro in un turismo capace di offrire pace interiore, immersione nel verde, o visite ai luoghi di culto. E la mia Umbria è la culla della spiritualità in seno alla nostra Penisola. Gubbio, tra l’altro, è la meta intermedia del percorso francescano che parte da La Verna ed arriva ad Assisi: 46 chilometri di cammino che ripercorre quello intrapreso da San Francesco nel 1206 D.C., attraverso
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colline verdeggianti, piccole chiese e resti di antichi castelli. Ospitare molti dei pellegrini, appagati da quel viaggio, liberi dallo stress di un’annata lavorativa, con gli occhi colmi di paesaggi e l’anima pacificata, è stato un autentico regalo. Non riesco a vedere i frequentatori del mio B&B unicamente come clienti, li vivo tutti come opportunità: Di conoscenza, di scambio, di arricchimento personale. I Camminatori hanno tutti in comune il sorriso di chi sa di aver vissuto intimamente una trasformazione psicologica. Alcuni si soffermavano a raccontare gli aspetti mistici del viaggio, altri le bellezze naturali, altri ancora le fatiche del corpo e l’orgoglio di averle affrontate dignitosamente. Il prato del B&B, dopo il tramonto, si trasformava in un morbido tappeto verde sul quale i pellegrini affondavano i piedi doloranti e affaticati. Le stelle si nascondevano dietro a qualche nuvola di passaggio per poi tornare più brillanti di prima per essere contate. L’atmosfera di quei giorni aveva un non so che di magico. Tutto mi appariva perfetto. Eppure, a pensarci oggi, non ci si rendeva pienamente conto della sua preziosità. Il bello era bello, non ne coglievamo gli aspetti straordinari. La pace era pace, non si valutava l’importanza di poterla interiorizzare per bilanciare le nevrosi della
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vita. Insomma, tutto ci sembrava a portata di mano, compresa la libertà. Potevamo spartire una fetta di luna accanto a decine di persone sentendoci parte dell’universo, fratelli sotto lo stesso cielo, senza paura di contaminarci, semmai con il desiderio di essere vicini. In estate la grande casa era come un orchestra che risuonava di tante voci, d’inverno le giornate si accorciavano e il silenzio dei boschi scendeva fino al paese avvolgendolo nel buio della sera. Gubbio sembrava un presepe punteggiato da piccole luci. I miei ospiti rimanevano volentieri in camera a guardare un po’ di tv. Ci si limitava al buongiorno e alla buona sera. E la cosa mi dispiaceva un po’, perché perdevo l’occasione di fare il giro del mondo stando seduto comodamente su una sedia, ascoltando le vite degli altri. Ricordo che una sera vidi rientrare un signore dal viso molto triste. Viaggiava da solo, in genere sono i turisti che hanno scelto la propria solitudine. Eppure quel signore non sembrava né appagato né sereno. Camminava ricurvo e chiuso nelle sue spalle. Ero molto indeciso sul da farsi, se trovare una scusa per provare a parlargli, o se sparire dalla sua vista. Da padrone di casa mi sembrava quasi doveroso chiedergli se avesse bisogno di qualcosa. Gli chiesi se avesse una bottiglia di acqua fresca in camera o se volesse una tisana. Sono bastate quelle due parole per rompere gli argini di un pianto ininterrotto.
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Mi sono trovato di colpo davanti ad un bambino fragile e disperato. Aveva perso un figlio pochi mesi prima e mi confidò di essere tornato in Umbria perché era qui che avevano vissuto la loro ultima vacanza insieme. A cavallo di una moto. Era una vacanza premio per il diploma del liceo. E la moto del padre, dopo quell’estate, sarebbe passata al figlio, in dono. Mi spiegò minuziosamente tutto quanto il viaggio, i loro pranzetti nelle trattorie, la visita alla basilica di San Francesco - che a suo figlio era piaciuta così tanto da provare a ritrarla sul retro della cartina stradale con un disegno improvvisato. Sedeva davanti a me, in lacrime, singhiozzando, nel gelo di un inverno che per lui non avrebbe più avuto fine. Aveva deciso di tornare in Umbria illudendosi di poter sentire suo figlio per un’ultima volta vicino, immaginarsi l’eco delle sue risate, rivederlo davanti ad una chiesa o in cima alla scalinata del Duomo di Perugia. Invece, via via che passavano i giorni, i ricordi si erano trasformati in trappole taglienti capaci di lacerargli pelle e cuore. Dopo un paio d’ore eravamo entrambi stanchissimi, chi per aver pianto, chi per aver accolto quell’oceano di tristezza. Prima di andare a dormire, non me lo dimenticherò mai, si è girato verso di me quando già era sulla porta. “Grazie Luca per aver compreso che questa sera la solitudine sarebbe stata un macigno troppo pesante da portare da solo.”
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L’ho sempre pensato: poter parlare con uno sconosciuto aiuta soprattutto a parlare con sé stessi, ad esprimere le nostre emozioni senza nasconderle dietro a parole inutili. A me è capitato ogni volta che ho accennato della mia vita agli ospiti di passaggio. Da quelle chiacchere ne sono sempre uscito arricchito, con degli spunti nuovi per il futuro. Il giorno dopo quell’uomo ha pagato il soggiorno ed è partito. Non ho accennato a nulla, gli ho lasciato carta bianca sul da farsi e sul da dirsi e ho capito che non sarebbe mai più tornato in Umbria. In silenzio, tra me e me, gli ho augurato di visitare nuove terre per costruirsi nuovi ricordi. Io di ricordi legati al B&B prima dell’arrivo del Covid ne ho tantissimi. Una coppia di turisti americani era arrivata in Umbria dopo aver toccato tutte le regioni d’Italia, e dico toccato perché è il verbo più giusto. Erano una coppia di obesi, non riuscivano a camminare oltre qualche passo, la distanza dalla stazione ad un taxi, dal taxi ad un hotel era quanto potevano permettersi le loro gambe. Avevano comunque deciso di visitare il mondo a loro modo, di coglierne le diverse atmosfere, i profumi differenti, il suono dei dialetti e, neanche a dirlo, il gusto dei piatti tipici. John e Barbara, marito e moglie di circa 60 anni, sembravano usciti da una commedia americana. Rubi-
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condi, la pelle bianca scottata dal sole, il cappellino da baseball e delle belle scarpe bianche, comode. Quando li ho visti entrare erano stremati come se fossero reduci da una maratona. Hanno abbandonato la valigia fuori dalla porta e mi hanno chiesto immediatamente una sedia su cui sedersi. Come faccio sempre, ho chiesto loro se desiderassero un caffè o dell’acqua fresca; loro, nonostante fossero le 4 del pomeriggio, mi hanno chiesto un piatto di pasta al ragù. Così, come se fosse normale. A nulla è servito spiegare che non avevo il servizio ristorante. Mi hanno spiegato che, avendo problemi seri di deambulazione, aiutarli a reperire i pasti sarebbe stato un gesto davvero caritatevole. Lì per lì mi ero chiesto come mai non avessero scelto un vero e proprio hotel, ma avevano anticipato i miei pensieri. Desideravano un’atmosfera familiare, capace di raccontare l’identità dell’Umbria, e le recensioni che avevano letto sul mio B&B confermavano la gentilezza e l’accoglienza tipica della cultura italiana. Come avrei potuto negare un piatto di pasta a quel punto? Sono corso a chiedere a mia madre di andare dal macellaio e farsi dare la carne migliore: dovevamo stupire la nostra coppia di americani. È allora che mi avevano comunicato che avrebbero trascorso un’intera settimana presso la mia struttura, senza mai uscire a causa dei dolori alle gambe.
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“Ci accontenteremo di ascoltare l’Umbria dalla tua voce…” Insomma mi chiedevano di fare loro da guida turistica ma senza oltrepassare il giardino della dimora. Sono passato dalla voglia di scoppiare a ridere alla rabbia e poi ancora alla gioia in pochi secondi. Potevo dirgli di no? Oddio, potevo anche dirgli di sì, a dire il vero. L’unico momento della giornata in cui ero libero era il tardo pomeriggio, per cui ho annuito e ci siamo dati appuntamento in giardino, con un bel bicchiere di vino fresco, ogni giorno attorno alle cinque. E ogni giorno, attorno alle cinque, ho servito loro un vino diverso e tipico: un Montefalco rosso, un bianco di Torgiano, un Orvieto classico superiore; ogni giorno li ho accompagnati attraverso la mia meravigliosa terra con aneddoti e descrizioni appassionate dei miei luoghi. Ricordo che nel primo viaggio virtuale li ho portati alla Festa dei Ceri che si tiene il 15 maggio proprio a Gubbio. Un evento molto atteso dagli eugubini che attira migliaia di turisti ogni anno. Consiste nel portare a spalla correndo per le vie della Città tre grandi ceri di legno ciascuno dei quali è costituito da una “barella” e da due prisma ottagonali sovrapposti coronati dalle statue di tre santi (Sant’Ubaldo, San Giorgio e Sant’Antonio). Una tradizione che nasce probabilmente nel XII secolo e che, grazie alla
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passione e devozione di tutti gli Eugubini verso il Santo Patrono è giunta fino ai nostri giorni seguendo l’evoluzione del tempo. La preparazione dell’evento è il momento che preferisco, perché unisce gli animi e nel tessuto sociale della città crea entusiasmo, desiderio di ritrovarsi insieme in compagnia di un bel bicchiere di vino rosso locale. Tutti cercano di partecipare: chi alla creazione degli stendardi e delle divise da ceraiolo, chi alle pietanze tipiche, chi si occupa della musica, della pulizia e dell’allestimento delle vie per vestire a festa la Città, chi organizza riunioni per decidere le mute di ceraioli che si danno il cambio lungo il percorso, insomma ognuno sa cosa deve fare. Di giorno in giorno ho regalato loro gli affreschi più suggestivi della mia regione ma anche della mia vita. Nei loro occhi leggevo lo stupore del bambino quando ascolta una favola, solo che quella favola era la tradizione italiana, la storia della mia gente, della mia terra, e io non smetterò mai di essere fiero di farne parte. Vi confesso che il giorno della loro partenza mi sono commosso. Sapevo che gli sarei mancato quanto loro sarebbero mancati a me. L’ appuntamento in giardino davanti ad un buon calice di vino e a una passeggiata nella memoria era diventato un rito quasi sacro per me. Ancor oggi ci scriviamo. Attendono come tutti noi che la pandemia diventi un lontano ricordo. Sogniamo tutti la stessa cosa. In ogni angolo di mondo. Da quanto non capitava all’umanità?
CAPITOLO VI
LA DECISIONE “It’s my life It’s now or never but I ain’t gonna live forever I just want to live while I am alive” Bon Jovi
Un giorno, ricordo come se fosse ieri, squillò il telefono mentre ero in giardino a sistemare i vasi dei fiori. Avevo comperato diversi ciclamini di un bel rosso acceso per ravvivare l’entrata del B&B. Il telefono continuava a squillare ed evidentemente mia madre non era in casa. Mi guardai le mani sporche di terra e decisi di non rispondere. In serata ricominciò a squillare insistentemente come un allarme. Era la mia amica da Hong Kong. Era lei che aveva provato a chiamarmi anche di mattina. L’avevo conosciuta alla conferenza mondiale che booking.com organizzava in autunno ad Amsterdam per tutti i suoi partners. Faceva la sales manager di un’importante catena alberghiera e le chiacchiere tra noi erano nate quasi spontanee. La sera, poi, fra i tanti svaghi proposti da Booking, scegliemmo di andare a ballare insieme. Nei mesi successivi mi era venuta a trovare al B&B, come turista. E quando non era troppo stremata dai
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suoi lunghi giri, le nostre chiacchiere sgorgavano ancora con naturalezza. Era una giovane donna di bell’aspetto, ma soprattutto colta. Lo si capiva anche da come visitava l’Italia. Non si limitava ad andare nei luoghi più conosciuti, voleva scoprire chi, nel corso della storia, aveva reso glorioso il nostro patrimonio artistico, dagli architetti che avevano creato meravigliosi palazzi, ai poeti che avevano cantato la bellezza delle nostre colline, ai pittori che avevano impreziosito le navate delle chiese. Ogni giorno, minuziosamente, preparava l’itinerario da seguire. Quando la sera la sentivo rientrare, le andavo incontro e le preparavo una tisana calda con qualche biscotto fatto da mia madre. Un grande sorriso le illuminava il volto, appoggiava lo zaino e i sacchettini dei souvenirs per terra e cominciava a raccontare. Il giorno della telefonata era sul finire dello scorso gennaio. “Luca… C’è un’influenza anomala che sta dilagando nella regione di Wuhan. Molti infetti muoiono. I nostri luminari di medicina stanno cercando una cura più in fretta possibile...” Iniziò tutto dalla sua voce allarmata, da quella sensazione che fosse inseguita da qualcuno mentre mi parlava. Il mattino seguente mi rimisi chino sui ciclamini. Quante volte nella vita ci è capitato di far finta che… Quante volte abbiamo impostato il navigatore automa-
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tico, scollegato il cervello e proseguito senza osservare la realtà? Ecco, quella fu la modalità perfetta per godere degli ultimi giorni di vita occidentale nel benessere. Feci in tempo a gioire per la prenotazione di una squadra di calcio che aveva richiesto tutte le camere del Bed and Breakfast, a riordinare, lavare, scandire le mie giornate tra lavoro e buon umore. Poi fu il boato...Lo tsunami...La notte. Febbraio fu il nostro purgatorio prima di cadere all’inferno. Ero ancora impegnato a pieno ritmo nella gestione del B&B ma non al punto da ignorare quello che dicevano al telegiornale. Il virus era arrivato in Italia e al Nord iniziavano ad infettarsi le prime persone. Non era bastato un continente di mezzo a proteggerci. Come una vischiosa macchia di petrolio, il Covid si espandeva, chilometro dopo chilometro, casa dopo casa, persona dopo persona. Era contagioso in maniera disarmante. Ci lasciava quasi più inebetiti che terrorizzati. A fine febbraio il Nord era sotto assedio. Poi chiusero i bar, e poi i negozi. Sulle vetrine comparvero i primi cartelli con su scritto “Noi stiamo a casa”. Le vie e le piazze si spopolavano mentre gli ospedali si riempivano a dismisura. In tv i giornalisti, accampati all’entrata dei pronto-soccorsi, raccontavano di quel
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formicaio senza pace di ricoveri, ambulanze, decessi. Alle loro spalle marziani con degli scafandri che rendevano irriconoscibili i volti. Solo nei film di fantascienza avevo visto una cosa del genere, ma non era più un film, era la nostra vita. Compresi ben presto che anche il B&B sarebbe stato travolto dalla pandemia, proprio quando iniziavo a godere dei suoi primi frutti. Ve lo devo confessare: ero più arrabbiato per quell’arresto imprevisto della mia nuova attività che per ciò che stava accadendo alla nostra civiltà. In televisione iniziavano a mandare i primi appelli per reclutare personale medico. Sentivo il timbro di voce dei giornalisti che ripetevano le stesse frasi, mentre in sovrimpressione passavano i numeri di telefono da contattare. Sentivo ma non ascoltavo. Finché un giorno ho ascoltato, ed è in quel preciso momento che ho deciso che mi sarei offerto come infermiere volontario per fare la mia parte in questa immane tragedia. Dall’8 marzo il B&B cadde in un silenzio irreale. Camminavo lungo i corridoi all’improvviso afoni di vita. Sentivo solo il rumore dei miei passi e dei miei pensieri tristi. Entravo nelle camere per controllare che tutto fosse a posto come se da un momento all’altro dovesse arrivare un turista; era un riflesso incondizionato ormai. Nulla era fuori posto: la biancheria perfettamente stirata, gli asciugamani elegantemente adagiati sul
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letto, un buon profumo di pulito e un timido sole che illuminava le tende. Chiudere quelle stanze alle mie spalle non fu solo un brutto colpo alle entrate economiche, fu un colpo al cuore. Mi sentivo nuovamente spogliato della mia identità, quella riconquistata così a fatica dopo un lungo lavoro di introspezione. Il ritmo serrato della gestione del B&B mi aveva aiutato a distrarmi dal passato in tutte le sue amare declinazioni. Quando ripensavo al fallimento del matrimonio, al mio addio alla città di Roma, il ricordo si fissava solo per un istante, come un singolo fotogramma, poi veniva scalzato da un’incombenza pratica: che fosse la richiesta di un consiglio per un buon ristorante della zona, una bottiglia di acqua fresca, il check-in preceduto da una telefonata che arrivava dalla stazione. Amavo quel fermento perpetuo. Potevo lavorare anche 14 ore al giorno ma ero felice. Quello stato di pace impostomi dall’esterno era carico di ombre invece. Non volevo ripiombare nella paralisi mentale che mi aveva attanagliato la prima volta, quando mi ero seduto sul divano a contare le ore vuote dei giorni. Non volevo riposare o stare fermo. Riprendere in mano la mia professione di infermiere fu la scelta più logica, la più intelligente. Arrivò prima dal cuore che dalla ragione. Il mio cuore disse “vado”, la mia testa rispose: “Va bene, Luca, organizziamoci”.
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L’unico dettaglio che avevo ignorato era il come comunicare la scelta a mia madre. Da un lato mi dicevo che ne sarebbe stata orgogliosa; dopo tutto era su consiglio accorato dei miei genitori che avevo intrapreso gli studi da infermiere. Dall’altro lato anticipavo la sua preoccupazione. A cena, una sera, ho messo sul piatto la cosa come se fosse una banalissima informazione di servizio, fra le briciole di pane cadute sulla tovaglia e il formaggio grattugiato. Mi ha guardato con gli occhi da bambina; sapeva che non spettava più a lei l’ultima parola, che non poteva più proteggermi da tutti i mali del mondo, men che meno da quelli invisibili arrivati dalla Cina. Non ero più io il ragazzino di famiglia, colui che aveva assecondato la loro richiesta di iscriversi alla scuola per infermieri. Era lei la ragazzina adesso, che doveva assecondare la scelta dell’adulto. Crescendo i ruoli si ribaltano. I figli prendono in mano la propria vita e i genitori perdono le redini del comando assieme alle tante sicurezze acquisite nel fiore degli anni. Le è venuto da piangere; neppure le lacrime sapevano che direzione prendere, le vedevo stare in bilico fra le ciglia, nel tentativo di mascherare un sentimento, per poi lasciarsi andare stremate, scivolando sul suo viso in un atto liberatorio. “Mamma, tu e papà mi avete sempre insegnato che aiutare il prossimo è un arricchimento personale. Sono
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cresciuto vedendovi impegnati a dare, in ogni ambito. Non puoi stupirti che oggi senta così forte il richiamo a fare lo stesso. La nostra nazione è in ginocchio. Gli ospedali gridano aiuto. Devi essere forte così come voglio esserlo io. Ho bisogno della tua benedizione.” Seguii la sua sorta di predica mischiata al conforto, una serie di raccomandazioni infarcite da attestati di fiducia. Mi stava lasciando andare per la mia strada, in modo goffo ma era ciò che stava facendo. È il ruolo più difficile al mondo essere madre: essere titani in grado di combattere qualsiasi guerra in nome dei figli e poi cedere loro la spada, convivere con le preoccupazioni e non farle mai trasparire. Avevo bisogno di una madre leonessa e lei, a suo modo, mi ha fatto sentire i ruggiti. Il passo successivo è stato inviare il mio curriculum. Ogni giorno squillava il telefono e ogni trillo sembrava una granata che ci piombava fra le mura di casa. Alcune impiegate avevano la voce cordiale, rassicurante, altre erano fredde e nervose. Le proposte variavano a seconda della città e della struttura, ma nessuna mi convinceva. Quando è arrivata la proposta da Milano, ho sentito immediatamente un trasporto diverso. Era lì che sarei andato. L’idea di trasferirmi in una grande città mi allettava, sarebbe stata un’esperienza arricchente. Volevo respirare l’anima della metropoli, le sue bellezze e le sue incongruenze. Anche se le circostanze non erano le migliori, volevo misurarmi
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con “la città” italiana per eccellenza. E poi la gestione ospedaliera della regione Lombardia era considerata un nostro fiore all’occhiello, ne ero incuriosito professionalmente. L’incarico sarebbe durato sei mesi, un tempo abbastanza lungo ma neppure eccessivo. Dissi di sì in un attimo. Di pancia. E riconobbi in quello slancio il Luca dei tempi migliori. Dall’adesione al giorno della partenza trascorse una settimana. Ricordo come fosse ieri la preparazione della valigia. Sembrava volessi portare con me tutto l’armadio, forse l’idea mi faceva sentire protetto. Ma protetto da cosa? Dal freddo di certo, per il resto non c’erano armature adeguate se non quelle che mi avrebbero fornito in reparto. Eppure è vero: quando bisogna partire per una terra lontana o per andare incontro ad una nuova esperienza, il rituale della valigia palesa tutte le nostre incertezze. Pensate ai test psicologici: ti chiedono cosa metteresti in valigia se dovessi abbandonare la tua vita di sempre. Molti dicono un libro, altri delle foto ricordo. In realtà, vorremmo portare tutti centinaia di cose. Ho chiuso in fretta la cerniera su tutte quelle elucubrazioni e ho caricato la macchina. L’idea di fare ore di viaggio da solo non mi infastidiva; sarei stato in compagnia della musica rock, la mia
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compagna fidata nei miei momenti felici così come in quelli difficili. La mia consigliera, capace di spronarmi a nuove riflessioni o di farmi prendere decisioni importanti. Releghiamo spesso la musica ai nostri piccoli spazi di evasione, ma non avete idea di quanto possa sostenerci davanti alle scelte più ardue e complesse. Le note musicali sciolgono i nodi interiori facendo fluire i pensieri, aprono la porta al sentire più profondo, mettendoci nelle condizioni di arrivare al nucleo dei nostri desideri. Quanto al rock, credo sia capace di scuoterci, di farci sentire vivi, di predisporci alla gioia.
CAPITOLO VII
IN VIAGGIO PER MILANO “So close no matter how far couldn’t be much more from the heart forever trusting who we are and nothing else matter” Metallica
Caricare la mia Panda è stato un gioco di incastri e di forza fisica. Non volevo rinunciare neppure ad un calzino. Mi sentivo fin troppo nudo davanti al mondo. Mia madre mi guardava litigare con i sedili e le borse, abbozzando un sorriso. L’ho salutata frettolosamente evitando di guardarla a lungo negli occhi. Non volevo che leggesse i miei pensieri né io volevo scoprire i suoi. Il tonfo sordo del portellone, chiuso a fatica, ha siglato l’inizio del viaggio per Milano. Ho acceso il motore e ho lasciato la mia Gubbio straziato dalla nostalgia di ogni suo angolo di pace, di ogni suo anfratto che si apriva a sorpresa sulle campagne verdeggianti. I vicoli in pendenza nei quali sfrecciavo in bicicletta da bambino, il suono delle campane della domenica mattina. Credo di aver ripercorso tutta la mia vita in una manciata di minuti. Ma non era nostalgia, era consapevolezza di entrare nell’occhio del ciclone, certezza che mi avrebbe cambiato per sempre.
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Pensai di essermi arruolato per una guerra più grande di me. Misi in dubbio i miei studi che non mi avevano specializzato nelle malattie infettive, né tantomeno per gli stati di emergenza. Era un salto enorme nel vuoto, e mentre guidavo quel vuoto assumeva i connotati della voragine. Lungo l’autostrada, con il variare del paesaggio, hanno cominciato a trasformarsi anche le mie riflessioni, non intendo dire che il cielo si sia schiarito del tutto, ma l’orizzonte aperto davanti a me mi ha aiutato ad intravedere la bellezza dell’esperienza che andavo a compiere. I viaggi lunghi e solitari a questo servono: a cambiare le proprie prospettive. Era stato il cuore a mettermi su quella autostrada. Un atto di cuore e di apertura verso il prossimo. Era stato l’istinto a propendere per il sì, le orecchie della generosità ad aver ascoltato l’appello accorato che echeggiava da un telegiornale all’altro. Come accade per ogni cosa della vita, possiamo ascoltare ciò che ci circonda o rimanere sordi. Nessuno ci obbliga ad ascoltare davvero, nessuno lo nota, è la nostra indole che rimane vigile ai richiami esterni o sceglie di ignorarli, noi giudici e timonieri delle nostre scelte. Ed eccomi diretto a 400 chilometri da casa, nella direzione del dare. La prima sosta ho deciso di farla nell’autogrill all’altezza di Pesaro. Tappa di rito della mia gioventù, quan-
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do insieme agli amici partivo alla volta di un concerto rock. Ai tempi poche valigie e tanta voglia di divertirsi. Di cogliere l’attimo. Musica nell’autoradio a tutto volume, briciole e coca cola a tenerci svegli fino alla meta. Quel ricordo si è frantumato davanti agli occhi quando ho fatto il mio ingresso nell’area di servizio totalmente disabitata. Era l’inizio del lockdown, in quel famoso marzo 2020 senza colori ma con un unico diktat: “Non uscire assolutamente di casa!”. Le autostrade erano un deserto di cemento. Si sarebbero potute attraversare a piedi. Quelle poche automobili che mi passavano accanto sembravano sagome di cartone su un palcoscenico irreale. Avevo portato con me diversi disinfettanti, i guanti ed una scorta di mascherine. Ricordo che prima di uscire dalla macchina mi sono bardato come Neil Armstrong al primo passo sulla luna. L’idea di bere un semplice caffè prendeva i contorni di una sfida. Ho quasi colto di sorpresa il barista ormai rassegnato all’assenza di clienti. Mi ha guardato con aria stranita, come se in un solo mese fosse diventato assurdo che in un bar aperto entrasse un uomo a bere un caffè. Ho bevuto il mio caffè “lunare” e mi sono avventurato fino alla toilette, cancellando poi accuratamente le tracce di quella sosta dal mio corpo. Durante i primi giorni della pandemia qualsiasi cosa si toccasse veniva definita letale.
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Solo una volta risalito in macchina, ricordo di essermi sentito al sicuro. Ho chiuso le sicurezze come a proteggermi dall’invasione del virus. Ho acceso la radio sintonizzandola su Virgin Radio, il canale che trasmette ininterrottamente musica rock, una compagna di vita più che una stazione radio per me, la mia sfinge da viaggio, capace di pormi le domande esistenziali giuste e generare in me anche le giuste risposte. Il ritmo che mi ha fornito il coraggio per camminare sul filo della vita. Con il rock io non sono mai stato solo. L’abitacolo della Panda si è riempito di note che ballavano intorno a me rimbalzando sul cruscotto, scivolando sui vetri, infrangendosi a terra. Certi giorni credo proprio che abbiamo tutti bisogno di scelte rock, di idee rock. Sulle corde di una chitarra ed un giro di basso mi sono trovato allo svincolo di Bologna, la porta, per chiunque viva nel Centro Italia o al Sud, che ci separa dal Nord. Anche se Bologna per me è stata molto altro. È lì che ho vissuto la prima esperienza lavorativa. È lì che ho indossato il primo camice da infermiere. E a marzo mi è sembrato di chiudere il cerchio, di tracciare materialmente una linea retta fino a Milano, sfruttando la mezz’aria che la Panda inghiottiva davanti a sé mentre il cielo si scuriva.
CAPITOLO VIII
GIORNATE IN CORSIA “I, I will be the king and you, you will be the queen though nothing will drive them away we can beat them, just for one day we can be heroes, just for one day.......” David Bowie
L’affievolirsi della luce del giorno mi aveva scortato fino al sonno dopo tutte quelle ore di viaggio, ma il suono del cellulare squarciò il silenzio facendomi sobbalzare. Era un giornalista della mia regione che, saputo della mia scelta dalle mie pagine social, mi chiedeva se potevo rilasciare un’intervista. Mi pareva prematura come cosa, dato che avevo appena messo piede a Milano, ma prima ancora che io potessi avanzare le mie remore, mi aveva inondato di domande sulle motivazioni che mi avevano spinto fin lì, sul mio passato e sulle previsioni delle giornate a venire. Ricordo che ci eravamo accordati su una mezz’ora di tempo per fissare le mie risposte su carta e ancora stordito dal sonno avevo iniziato a buttar giù qualche riflessione. A quella prima intervista ne sono seguite altre. Tutti erano alla ricerca di eroi, più o meno consape-
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volmente, mentre io provavo ogni giorno a ripetermi che non c’era nulla di speciale in quello che facevo. Fare l’infermiere per me era tornare a fare il mestiere che avevo fatto per anni. Finito di scrivere, la notte era ormai troppo vicina per sperare di farci pace. Il pensiero vagava dal letto al soffitto trascinandosi dietro le mie paure recondite; una volta saliva veloce sull’onda dell’entusiasmo per la nuova avventura, di colpo si catapultava in picchiata verso l’abisso dei dubbi. Montagne russe dalle quali sono sceso verso le due di notte, crollando nuovamente nel sonno, sfinito. Il mattino dopo ero un fascio di nervi pervaso da scosse di gioia profonda e moti interni d’orgoglio per l’aiuto che potevo dare alla mia nazione. Mi chiedevo se potessero alterare i risultati della visita medica necessaria per la mia idoneità a lavorare. La misurazione dei parametri vitali, la spirometria, l’elettrocardiogramma, ad ogni parte del mio corpo veniva chiesto di collaborare. Non bastavano la volontà ed il cuore. Nei reparti affollati da quelle anime fragili doveva esserci un personale medico pronto a tutto, anche ai turni estenuanti di cui avevo sentito parlare. Alla RSA del Don Gnocchi avevo passato tutti i test, il motore umano era in perfette condizioni. Mi hanno allungato tra le mani le chiavi del residence che sarebbe stata la mia nuova casa e le ho strette
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nel pugno come a voler sentire concretamente la nuova vita che mi aspettava. Il residence era nei pressi di Porta Garibaldi, un quartiere di Milano completamente rinnovato sul quale si stagliavano grattacieli dalle forme futuristiche, aree pedonali arricchite da timide macchie di vegetazione che agli occhi di un umbro sembravano la brutta caricatura della natura, benché immaginassi il valore che potesse avere per un milanese buttare lo sguardo su un fazzoletto di verde in un quotidiano di cemento. Era ciò che avrei fatto io per sei mesi: buttare l’occhio fuori dalla finestra che mi avevano assegnato. Nessun aperitivo, nessuna movida, né shopping; solo turni estenuanti e lockdown nel tempo libero. Eppure ero contento di essere lì, in trincea, a Milano, una città in cui storia e modernità andavano a braccetto. La direttrice del residence mi ha accolto come se fossi un amico di vecchia data. Elena, così si chiamava: una donna semplice, tenace, diretta, tutt’altro che formale - come mi sarei aspettato a Milano - bensì materna nel prendersi cura dei suoi ospiti. Risoluta ma mai impassibile. Credo che sentisse ancor più urgentemente il dovere di essere ospitale con volontari come me, saliti al nord per dare una mano alla parte più colpita del Paese. Quando la sera tornavo dal turno, nonostante la stanchezza, mi fermavo volentieri a scambiare due parole con lei. Sapeva sempre come farmi staccare la spi-
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na. Una ad una mi raccontava la vita degli altri ospiti, salvaguardando solo un minimo di privacy. Alcuni avevano lasciato il residence a fine febbraio, appena compreso ciò che stava accadendo. Altri, non potendo a causa del lavoro, o mossi da spirito ben più eroico, avevano deciso di restare per provare a salvare la propria attività. Un ristoratore napoletano, per esempio, non riusciva ad “abbandonare la nave”, anche se non avrebbe potuto tenere aperto il suo ristorante per chissà quanto tempo. Era un’idea straziante, assurda quanto romantica. C’erano anche professionisti che abitavano in città ma che ritrovandosi reclusi in casa, con moglie e figli, in una metratura decisamente limitata, di giorno venivano al residence a lavorare in pace. La signora Elena era allenata a consolare i suoi ospiti; durante l’anno era abituata a ricevere familiari, provenienti da tutta Italia, dei pazienti del vicino Ospedale Buzzi, specializzato nelle cure ai bambini. Soggiornavano al residence per qualche settimana in attesa che i figli venissero operati o spesso salvati da condizioni di salute estreme. Guardavo le mura di casa e pensavo che avessero assorbito lacrime e disperazione ma anche visto fiorire tante rinascite; la signora Elena, il giardiniere costante dietro a quei delicati stati d’animo, accompagnatrice saggia di ogni suo residente per un breve ma cruciale tratto di vita.
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Il primo giorno di lavoro lo metto fra le pagine che mai dimenticherò nella mia vita. Ero più agitato del solito, concitato, mi sentivo addosso le sorti del mondo. Avrei fatto la differenza? Avrei fatto la mia parte al massimo delle mie capacità? Era così tanto tempo che non indossavo un camice. Del resto, chi sul territorio italiano aveva fatto esperienza di pandemie? Forse solo i colleghi che avevano scelto di fare volontariato nei paesi africani. Ebola, tifo, lebbra. Immagini spezzettate, viste in tv, facendo staccare lo sguardo dallo schermo alle anime più sensibili. La macchina era gelida nonostante fossimo in marzo. Ero gelido io come una bacchetta di ghiaccio. Il rock alla radio mi aveva sciolto e scaldato un po’ le vene. È al triage della struttura ospedaliera che ho finalmente conosciuto la caposala; da quel momento sarebbe stata lei il mio punto di riferimento per tutto. Non immaginate il sollievo nel vedermi accogliere da un sorriso aperto, o almeno è quello che mi sono immaginato dietro la mascherina sotto ad un paio di occhi felici. Da lì in poi avremmo imparato tutti a “dedurre” i sorrisi. E a prepararci meticolosamente all’immersione tra gli infetti. La caposala mi ha piazzato tra le braccia una montagna di protezioni, mascherine, visiere, tute, cuffie e
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sovrascarpe, più un papiro da leggere che - mi diceva - avrei fatto bene ad imparare a memoria. Meglio di un mazzo di fiori, date le circostanze. Nulla era lasciato al caso. Si sapeva ancora molto poco della letalità del virus, se non il peggio che si potesse ipotizzare. Entrare in un reparto Covid era come buttarsi senza paracadute. Tutti avevamo paura ed io mi reputavo ben più fortunato rispetto ai colleghi che nelle settimane precedenti avevano camminato là dentro senza mascherina, ignari delle polmoniti sospette, dei rischi per i parenti, chiamati a fare doppi turni senza troppe storie. I corridoi erano pieni di operai che costruivano barriere, isolavano stanze, attaccavano segnaletiche per separare le zone “pulite” da quelle “contaminate”. Io ero stato assegnato al reparto di medicina, che sarebbe come dire prendersi carico di qualunque patologia, almeno inizialmente. Medicina è come un enorme contenitore di umanità in attesa di venir definita per i suoi mali. Essere nella struttura del Don Gnocchi poi significava avere a che fare con l’umanità più anziana; il numero dei decessi era elevato. Approdare in un ospedale nel marzo del 2020 è qualcosa che mi ha cambiato nel profondo. Forse è anche per questo che ho avvertito la necessità di scriverne e di condividere. È stato come partecipare ad una guerra invisibile, senza poter guardare in faccia il nemico. Avevo scelto
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Milano per raccontarmi di esser salito sul carrarmato più efficiente, ma quella grande città era in ginocchio esattamente come l’ultima città di provincia. Noi un esercito di soldati con l’armatura di carta. Finito il primo giorno di lavoro sono salito in macchina, ho messo le mani sul volante e sono rimasto lì, fermo, per non so quanti minuti. Ero stanco, stanchissimo. Appesantito come un vaso colmo fino all’orlo. Ho incrociato il mio sguardo nello specchietto retrovisore e ho stentato a riconoscermi. Chi era quell’uomo dagli occhi stravolti e il viso segnato dalla mascherina? Ho attivato il navigatore perché non mi ricordavo più dove abitassi. Non mi ricordavo neppure l’arredo del bilocale. Una tabula rasa. Nei pressi del residence c’era un piccolo supermercato. Avrei fatto volentieri a meno di andarci, ma il frigo era quasi vuoto e dovevo avere a portata di mano tutto il necessario per fare una buona colazione visto che sarebbe stato l’unico pasto della mia lunga giornata di lavoro. Due litri di latte, fette biscottate, marmellata, miele, prendevo dagli scaffali tutto quello che capitava. La memoria è corsa a quando allestivo la tavola delle colazioni al mio B&B. Fare le provviste aveva un sapore così diverso allora, cercavo di precedere i desideri degli ospiti immaginando le loro preferenze sulla marmellata, sullo yogurt…All’alba spalancavo le finestre della sala colazione e facevo planare le tovaglie bianche sulle spes-
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se tavole in legno antico. Mia madre coglieva qualche fiore dal giardino per dare un accenno di colore, poi i turisti iniziavano ad arrivare, il viso riposato da una notte nel silenzio della campagna. “Diciassette euro e trenta!” - la cassiera del supermercato mi guardava indispettita; si stava formando la coda ed io non mi decidevo a pagare. Arrivato nel bilocale ho mollato la spesa sul tavolo e ho tirato su le tapparelle, ma il sole aveva ormai voltato l’angolo della mia giornata. Mi mancava tutto: il mio letto, il mio stereo, i miei cd, mia madre, le piante del giardino, le campane di Gubbio, persino i gatti randagi appollaiati sulle staccionate. “Papà! Ricordami come si fa ad esser forti quando sembra che tutto ti sovrasti. Cosa facevi tu per rivestire i ruoli di responsabilità che ti capitava di indossare? Vorrei alzare un telefono e sentire la tua voce.” Nessuna risposta. Ho acceso la musica e lentamente ho iniziato a ballare. Avrei ritrovato me stesso dentro le note di una canzone, lei avrebbe dato voce a quel groviglio di emozioni chiuse nello stomaco. Le luci dei lampioni erano il cielo stellato offerto in omaggio alla mia notte e la luna l’avrei ritagliata nel cartone della pizza. Ormai ero lì, solo, come tutti del resto, davanti ad una strada in salita. I reparti della RSA erano ben organizzati. Iniziavo a muovermi con disinvoltura fra le varie stanze e al cam-
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bio di turno, per il passaggio delle mansioni, spiegavo ai colleghi, nei minimi dettagli, tutto quanto era avvenuto nelle ore precedenti. Conoscevo il nome dei pazienti e le loro fragilità emotive oltre a quelle cliniche. I malati non erano solo ridotti allo stato larvale, l’impossibilità di vedere e sentire i proprio cari li debilitava ancora di più. La maggior parte delle persone anziane faticava a ricordare addirittura il motivo per cui era ricoverata e a nulla serviva ricordarglielo tutti i giorni. Un’anziana signora passava le giornate a chiamare suo marito defunto. Era convinta che fosse lì, a pochi passi da lei, e si intestardiva a pronunciare il suo nome. “Aldo, Aldo, Aldo...” A volte ci scoppiava la testa ma eravamo rassegnati a farci l’abitudine. Un giorno è squillato il telefono del reparto ed era sua figlia che voleva sentirla. L’ho avvisata del rischio che potesse non riconoscere la sua voce, e invece, non appena udito il timbro di voce della figlia, è rientrata perfettamente in sé. Parlava sciolta e sembrava riconciliarsi con tutto. I ricordi e le persone care sono il timone che ci riporta idealmente a casa quando siamo alla deriva. Basta una parola per tenere in mano il filo di Arianna che ci conduce fuori dal labirinto. Io lo so bene. Quando la moglie del signor Aldo era particolarmente assente, le raccontavo che aveva chiamato sua figlia e mi inventavo delle domande da farle. Solo all’idea di organizzare una risposta da dare, si impegnava scor-
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dandosi per un istante del marito. Il viso si rischiarava e mentre le sistemavo le coperte mi insegnava come si facevano le frittelle tanto amate dalla sua bambina. Le RSA sono case di riposo ma non dovete pensare ad un posto dove un anziano decide di trascorrere gli ultimi anni della sua vita come se fosse in hotel. Il Don Gnocchi, dove prestavo servizio, è un enorme centro che accoglie soggetti non più autosufficienti e al suo interno ha diversi reparti nei quali si lavora per migliorare le condizioni di vita o lenire la sofferenza. C’è ad esempio un nucleo specializzato per la cura dei soggetti affetti da Alzheimer, un centro per la prevenzione e il trattamento delle demenze, più tutti gli ambulatori geriatrici. Carlo Gnocchi, il sacerdote che ha dato vita a questo progetto, non immaginava certo che sarebbe diventato uno dei centri più grandi ed accreditati d’Italia. Durante la seconda guerra mondiale si era arruolato come cappellano volontario fra gli alpini e con loro ha vissuto la tragica ritirata di Russia. Salvatosi per miracolo, rientrando in patria, ha deciso di accogliere i primi orfani di guerra; con il passare degli anni il suo ricovero si è ampliato dando spazio a chiunque avesse necessità di un sostegno medico e psicologico. Ancora oggi, fra le mura dell’edificio, si percepisce lo spirito di un uomo che aveva fortemente voluto dare dignità e speranza ai più deboli.
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Gli anziani arrivano nelle RSA spesso privi di lucidità. Purtroppo è vero che strapparli dalle loro rassicuranti abitudini peggiora lo stato confusionale ma se si approda a questa scelta, in genere, è l’ultima carta da giocare. Essere ricoverati nei mesi della pandemia era devastante per loro. Immaginate cosa sia stato per quegli uomini e quelle donne giunti all’ultimo tramonto avere a che fare con delle figure completamente mascherate, volti senza occhi né sorrisi, corpi avvolti dentro a tute bianche, presenze tutte quante uguali e anonime. Immaginate come si sentirebbe un bambino se all’improvviso gli venissero tolti tutti i riferimenti affettivi, lo sguardo di una madre, le sue carezze... È stato lo stesso per loro. E noi, ogni volta che entravamo in reparto, ci trasfiguravamo involontariamente in mostri inquietanti. Quando arrivavo in ospedale, all’inizio del turno, entravo nella stanza della vestizione e pezzo dopo pezzo abbandonavo le sembianze umane trasformandomi in un marziano. Nulla, ma proprio nulla rimaneva dell’uomo che ero. Non le scarpe, non le mani, né i capelli; neppure la voce rimaneva la stessa perché la mascherina e la sovramaschera la distorcevano. Tutti, dal primario alle donne delle pulizie, erano vestiti uguali; i primi giorni poteva accadere di scambiare una persona per l’altra, ma nessuno se la prendeva. La pandemia non andava per il sottile, le gerarchie erano secondarie, quello che contava era mantenere alta l’efficienza e la collaborazione.
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Poi abbiamo incominciato a riconoscerci dall’altezza, dal peso corporeo. Imparavi a memoria l’incedere dei colleghi. Chi camminava eretto, chi con le piante dei piedi aperte. Scrivere il nome di battesimo sulle tute era comunque la prima cosa da fare. I colleghi portati per il disegno si cimentavano nelle caricature o a trasformare il nome in un rebus divertente da intuire. Capitava di tratteggiare dei grandi sorrisi sulla maschera per avvicinarsi gli anziani più spaventati. Facevamo di tutto per rassicurarli, per non dover più incontrare quelli sguardi spauriti. Anche questo è stato il Covid: un male aggressivo non solo per polmoni e funzioni vitali ma anche per la dignità dei malati, violentemente allontanati dai loro affetti e dal mondo intero. Stava a noi, fantasmi senza volto, dar loro da mangiare, somministrare farmaci, convincerli che dentro a quei bozzoli informi c’era un professionista che agiva per il loro bene. Quanti occhi liquidi di terrore, quanti lamenti e pianti sommessi mi sono portato a casa la sera; non mi lasciavano neppure di notte. Così come il suono del campanello che suonava incessantemente, perennemente nelle mie orecchie. Quel suono, il più delle volte, significava che a qualcuno iniziava a mancare il respiro. Bisognava correre ed intervenire al più presto. Ho vissuto sei mesi nel terrore di non arrivare in tempo. Eravamo agli inizi della pandemia, mancavano le statistiche e se c’erano
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pazienti che peggioravano gradatamente, c’era anche chi di colpo non riusciva più a respirare. Gli studi che ognuno di noi aveva compiuto per diplomarsi nel ruolo di infermiere sembravano un ricordo lontano. Camminavamo tutti di fretta lungo un campo minato, ogni imprevisto poteva costare una vita. Mascherarsi da alieni non creava problemi solo nell’interazione con i pazienti, anche i nostri bisogni primari ne risentivano. La vestizione era un procedimento talmente lungo e da eseguire con meticolosa attenzione che a nessuno passava per la testa di cambiarsi per andare in pausa pranzo. Anche bere dell’acqua era complicato, avvicinare la propria bottiglietta alla bocca e far scorrere il liquido in gola comportava togliersi la maschera, uscire dal reparto, togliersi i guanti… Con il passare dei giorni nessuno sentiva più l’urgenza né di mangiare né di bere, né di conseguenza di andare in bagno. Ciò che abitualmente fa un essere umano dall’alba al tramonto era ormai usanza estranea. Quando la sera sfilavo il volto dalla maschera, le narici venivano inondate dagli odori circostanti. Azzerando per ore ed ore le funzioni dell’olfatto, venivamo poi colpiti da qualsiasi profumo leggero: l’aroma del caffè passando davanti alla cucina del reparto, il sudore delle fatiche di un esercito senza volto che macinava turni senza più guardare l’orologio. E poi, l’odore inconfondibile della pioggia che tocca l’asfalto nelle giornate di primavera.
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Che meraviglia era poter sentire il profumo della vita in tutte le sue declinazioni. Al residence certe sere mi preparavo una bella pasta al sugo e basilico oppure una mozzarella fresca con il pomodoro e l’origano. Mi beavo nel sentire la diversità di quelle spezie e le trovavo perfette nell’incontro con le verdure. Era fantastico odorare, ma anche toccare. Senza guanti sentire la crosta ruvida del pane, la buccia della mela e poi il bagnoschiuma morbido nella vasca da bagno, il cotone sulla pelle, le lenzuola fresche e inamidate. Al B&B mi occupavo personalmente di controllare che le lenzuola venissero stirate per bene e durante la bella stagione le facevamo asciugare al sole, sul retro della casa. Nessun detersivo può donare un buon profumo alla biancheria come la carezza del sole. Diamo per scontato tutto fino al giorno in cui nulla è più scontato. Toccare, sentire, assaporare, guardare, sfiorare... Noi in reparto eravamo condannati alla privazione di tutti e 5 i sensi, ma è anche vero che ci è stata data l’opportunità di sentire l’anima delle persone. A noi è stato concesso di immergerci nelle profondità dei loro sentimenti. Abbiamo imparato a toccare con il pensiero, ad ascoltare con lo sguardo, ad annusare le emozioni. E chi era costretto fra le mura di casa ha dovuto imparare a camminare da fermo, a viaggiare nel perimetro di una stanza, ad inventarsi un ristorante, ad imma-
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ginarsi gli alberi fioriti dei parchi là fuori, a ricordarsi il volto dei nonni, il sapore del bacio della fidanzatina, la corsa sulle scale della scuola. La pandemia ci ha chiamati tutti all’immaginazione, ha raso al suolo ogni diritto, ci ha forzati negli istinti, ci ha terrorizzati, ci ha piegati, fornendoci in silenzio la chiave di volta: la forza collettiva. Eravamo tutti soli in una stanza ma insieme nell’attesa di tornare a vivere. Man mano che passavano le settimane, ci si conosceva meglio fra colleghi. Così come mi era già capitato nelle precedenti esperienze da infermiere, anche a Milano gli ospedali erano un crogiuolo di diverse nazionalità. Molti arrivavano dall’est, molti erano latino americani. C’era qualcuno per ogni regione d’Italia. Nei momenti di pausa, quando facevo l’infermiere in regime di normalità, era divertente fermarsi a chiacchierare per conoscere le tradizioni dei colleghi. I dialetti, il pasto portato da casa in cui scoprivi i ricordi dell’infanzia di ognuno. C’era l’abitudine di portare un assaggio per tutti se la sera prima, a casa, capitava di cucinare qualcosa di speciale. Così facendo si imparavano ricette da ogni parte del mondo. I colleghi del Sud portavano intere scatole di prelibatezze: cannoli siciliani, focacce al pomodoro, dolcetti alla mandorla. Nei turni di notte, quando la corsia era più tranquilla, potevamo stare seduti a scambiare due chiacchiere, assaporando i prodotti
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della nostra meravigliosa Penisola, ridendo per qualche incomprensibile battuta in dialetto. Nei reparti Covid non è stato possibile condividere nulla, solo le diverse cadenze dialettali, i diversi passati o nazionalità per distrarsi un istante dall’infernale macchina ospedaliera. Le origini differenti significavano anche approcci differenti alla malattia e alla morte. Sudamericani e polacchi sono i più religiosi. I rumeni i più superstiziosi, temono il malocchio e con loro non puoi parlare di alcune cose. Ci siamo confrontati e sostenuti a vicenda rispettando le emozioni e il diverso sentire di tutti; ci scambiavamo piccole cortesie per darci forza. Nel clima angosciante che si respirava in corsia era fondamentale mantenere alto il morale. Era vitale rimanere propositivi e lasciarsi avvolgere dal calore di una frase gentile o divertente. In cuor nostro sapevamo quanto costasse fatica ed energia una semplice battuta, per questo davamo ancor più valore al collega che si impegnava a strapparci una risata. I pazienti, da parte loro, ci hanno offerto molti spunti; accanto ai reparti di terapia intensiva c’erano i reparti in cui sostavano, per settimane, anziani in fase di guarigione che preferivano rimanere in ospedale sapendo che a casa non c’era nessuno ad attenderli. Non avete idea di quanti anziani rinascano entrando in un centro ospedaliero. Chi ha toccato i 90 anni ha perso tutte o gran parte delle amicizie, a volte anche i figli. È difficile trovare una ragione per svegliarsi al mattino. Adotti un cagnolino o un gatto che, sornione,
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si aggomitola ai tuoi piedi condividendo le briciole di pane che ti cadono dal grembo, ma non è abbastanza. Quando entrano in una casa di cura, i più anziani recuperano la presenza dell’altro, la sensazione che ci sia qualcuno ad occuparsi di loro. Sono loro la fonte dei nostri sorrisi; capisci che stanno bene dove sono e non soffrono la prigionia e quello basta per dare un senso al nostro lavoro. Fanno anche parecchi capricci e come i bambini ne combinano di tutti i colori. Ho smesso di contare le scatole di caramelle che ho dovuto requisire nella mia carriera da infermiere, o le perquisizioni nelle camere per controllare che dentro alle sacche che dovevano contenere biancheria non si nascondessero invece cioccolatini. Non è raro scoprire che cercano di scaldare il termometro per la misurazione della febbre nel timore di venire dimessi. Così come trovare le medicine sotto al cuscino quando si mettono in mente di autogestire le cure. Li controlliamo a vista e li sgridiamo pure, ma una volta usciti dalla camera ridiamo sotto ai baffi. Il maledetto virus ha spazzato via anche queste piccole cose che scaldavano le giornate in reparto. Tutto è diventato asettico, incolore, monotematico, pericoloso. E la conta dei morti è stata una delle attività che ci spettava più frequentemente. Un morto fra tutti mi è pesato sul cuore: era un’adorabile signora fino al giorno prima, poi un biglietto scritto lasciato dentro al comodino della sua stanza.
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L’ho trovato mentre sistemavo i suoi documenti e radunavo gli effetti personali. Prima di aprirlo ho pensato di avvisare la caposala affinché rintracciasse i familiari, ma mi aveva informato che era senza parenti prossimi. Le persone a lei più vicine eravamo noi. Così ho aperto il bigliettino scritto con una calligrafia incerta. “Cari tutti voi infermieri, ho tanta paura di morire. Eppure dovrei aver preso confidenza con la morte vista la mia età. Questo maledetto virus ha messo ancor più paura a chi ne aveva già abbastanza, a noi poveri vecchi. Scrivo perché ho tanta paura di morire e ogni giorno vedo passare dalla porta socchiusa della mia stanza barelle che trasportano corpi sotto ai teli neri. Allora, in attesa che arrivi il mio turno, inizio a dirvi grazie per tutto l’aiuto che mi avete dato, per i piccoli gesti di umanità che quotidianamente mi avete offerto senza che nessuno vi obbligasse a farlo. Noi vecchi sembriamo distanti dalla realtà, chiusi in una bolla di vetro, invece vediamo e sentiamo tutto, in ogni maniera possibile. Vediamo come sistemate le lenzuola, come ci porgete un bicchiere d’acqua. Nulla ci sfugge perché gli anni ci hanno resi sensibili ed esperti delle faccende della vita. Quindi voglio dirvi grazie perché le settimane trascorse fra le mura di questa stanza sono state dignitose allontanando il sapore amaro della solitudine che a lungo avevo vissuto a casa mia. So di averne combinate di tutti i colori e
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di avervi tirato fuori dalla grazia di Dio, ma so anche di avervi fatto sorridere. All’infermiere Luca ho spiegato tutte le ricette segrete dei dolci che faceva mia nonna. Luca è un infermiere speciale, mi ha sempre ascoltata. A lui ho raccontato la storia della mia vita così che possa condividerla con tutti voi quando la pandemia allenterà la morsa. Vorrei poterlo fare io e mettere in forno una delle mie torte speciali per voi, ma non dovessi riuscire a farlo, do il permesso a Luca di svelarvi i trucchi per preparare un dolce magico, senza zucchero ma squisito perché arricchito con la fantasia e la volontà di vivere, come è accaduto alla nostra generazione fra le due guerre mondiali. Vi abbraccio infermieri, mie sentinelle del cuore”.
CAPITOLO IX
UN INFERMIERE ROCK “When all are one and one is all, to be a rock and not to roll and she’ s buying a starway to heaven” Led Zeppelin
La morte arriva sul finire della notte. Accade molto spesso che le persone anziane si spengano appena prima dell’alba. Questa cosa mi ha sempre fatto riflettere. Sembra che si incamminino sul viale del tramonto e che non vogliano più recare disturbo all’umanità. La morte arriva annunciata da un sospiro più lungo e lieve. Corpi esili dalla pelle trasparente che contiene ossa come legnetti. Il Covid ha congedato di fretta una generazione intera ma non è riuscito ad inasprire i volti di queste delicate anime canute. Quando facevo il turno di notte sapevo che dovevamo esser pronti a chiamare un figlio, un fratello, per annunciare la fine. Ma quante volte nella scheda del paziente non c’era nessun numero da contattare. Esistenze che si chiudono su se stesse, avvolte solo da un manto di stelle che le porta su, al creatore. Noi infermieri ci siamo sentiti spesso figli, mariti, mogli di estranei. Ci siamo sentiti la rappresentanza più prossima di un amore e di un cuore. Seppur per una manciata di minuti, abbiamo accompagnato a
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miglior vita ogni paziente solo, con un pensiero, una preghiera o nel riporre per bene degli effetti personali. Piccole valigie logorate dal tempo e dentro una maglia di lana, un rosario e la tessera del tram. Qualche caramella al rabarbaro ed un giornale vecchio, letto chissà quante volte o forse mai, preso in omaggio all’angolo della strada. Le RSA sono terre di mezzo fra l’oggi e il mai più. Bolle di cristallo che proteggono tutti coloro che non possono più stare nel vento aspro dell’esistere. E noi siamo i maestri vetrai che soffiano e soffiano sfere di vetro dentro alle quali poterli cullare lontano dal dolore. Una coperta sulle spalle, una medicina accompagnata da un sorriso, una carezza per sistemare i capelli arruffati dal cuscino. L’atmosfera raccolta delle scene finali della loro vita era squarciata dal sole che mi veniva incontro all’uscita dell’ospedale. Milano mostrava i primi vagiti di primavera. I viali alberati iniziavano a colorarsi di un verde puntiforme e le aiuole di margherite selvatiche. Iniziava a sentirsi il profumo di viole che mi riportava agli odori primaverili di Gubbio, quelli che segnano l’attesa per la Festa dei Ceri; raggiunge il suo culmine quando tutti i ceraioli si recano nelle taverne a prendere il mazzolino di fiori benedetto che li accompagna durante la corsa travolgente del 15 maggio.
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A Milano non c’era nessuno che le potesse vedere, le viole nelle aiuole ai lati delle vie. Sembravano sprecate, un po’ come tutto. Pure il sole. Ero sfinito dal turno, perciò la mia unica urgenza era quella di buttarmi sul letto e dormire. La direttrice del residence ormai mi conosceva così bene da saper decifrare il mio volto e comprendere se la notte fosse stata pesante. In genere crollavo immediatamente, anche vestito. L’ideale sarebbe stato farsi una bella doccia e mettersi comodo, ma la realtà è che dovevo riposare e staccare il cervello quanto prima. Quando mi svegliavo potevano essere le tre del pomeriggio, le sei. Come fossi tornato da un viaggio oltreoceano, dovevo fare i conti con il jet-lag mentale. Avevo fame? Sonno? Avrei voluto ascoltare un po’ di musica o guardare la tv? Cosa avrei fatto se fossi stato a Gubbio proprio a quell’ora? Mi capitava di comporre il numero di telefono di un amico e poi sull’ultimo tasto di desistere. Sapevo che le persone care aspettavano notizie ogni giorno, ma raccontare l’intero turno di lavoro era quasi come riviverlo. Preferivo il silenzio. Mia madre era stata avvisata fin dalla partenza che non era funzionale continuare a dirci le stesse cose. Rispettava le mie assenze e credo che le riempisse di ri-
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cordi attingendo dall’infanzia, quando mi stringeva fra le braccia e tutto sembrava così normale. Avessi potuto portarmi un po’ d’Umbria in tasca sarebbe stato tutto più facile. Una manciata di terra, di vigneti, un alito di vento, il tocco delle campane. La voce delle vicine, il dialetto stretto dei vecchi. Milano era lì, severa compagna di un’avventura più grande di me, silenziosa, ma in qualche modo percepivo la sua gratitudine. Milano era in ginocchio ed io provavo a sorreggerla insieme a tanti italiani che avevano lasciato casa per venire fin qui. Come vi ho accennato, nella struttura dove prestavo servizio non c’erano solo anziani ma anche persone non autosufficienti che non potevano contare sull’aiuto dei genitori perché già troppo in là con gli anni o addirittura perché rimasti soli. Le città nascondono anime fragili che notiamo appena, passando loro accanto col passo spedito; ci affrettiamo a voltare le spalle perché farebbe troppo male chiedersi come facciano a sopravvivere al frenetico incedere del quotidiano. Sono gli invisibili, non frequentano locali pubblici, non producono reddito, non li vedi nei parchi a passeggiare con il cane, non hanno amici. Escono di casa giusto per raggiungere il supermercato più vicino sottobraccio ad un anziano genitore o di una badante che li accompagna dentro a giornate tutte uguali.
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Anche loro si ammalano, ed è lì che la loro fragilità si frantuma, umiliata da un prepotente isolamento. È nelle RSA che trovano accoglienza. Piero era un giovane uomo sui 40 anni. Era affetto dalla sindrome di Down e aveva contratto il Covid. Sua madre, rimasta vedova, superava ormai gli ottant’anni ed era l’ultima persona al mondo che si sarebbe potuta occupare di lui. Quando è arrivato al Don Gnocchi era terrorizzato. Non parlava ed ogni minima cosa lo rendeva nervoso, si agitava in un moto perpetuo; i volontari dell’ambulanza avevano deciso di stare al suo fianco finché qualcuno non lo avesse fisicamente preso in carico. Era palesemente in stato confusionale. Aveva la febbre ed un forte mal di gola sospetto, doveva essere immediatamente isolato. Da lì a poche ore era stato necessario mettergli l’ossigeno e la sua condizione psicologica era peggiorata dall’esatto momento in cui i volti delle persone erano spariti dietro alle mascherine. Ci guardava angosciato, incapace di esprimere i suoi perché. Non era al corrente di come il mondo fosse cambiato né delle ragioni per cui il personale medico dovesse travestirsi. Era privo di qualsiasi informazione base nonostante continuassimo a ripetergli che dietro alla maschera c’erano persone buone che lo avrebbero aiutato a guarire.
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Nessun argomento ne sanava l’angoscia. Avrebbe solo avuto bisogno di un volto umano. Ma il Covid provava ogni giorno ad allontanarci gli uni dagli altri. A impedirci di darci conforto. Piero era isolato nell’isolamento. Sulla sua cartella clinica solo il numero di telefono della madre che, sapevo, aveva telefonato in ospedale già un paio di volte. A lui però non servivano voci, servivano sorrisi, occhi, la sua serie tv preferita, il gelato delle quattro, la signora Amelia, la dirimpettaia che ogni giorno lo salutava sulle scale. A lui serviva così poco eppure così tanto, serviva esattamente ciò che non gli potevamo dare. Fra colleghi ci chiedevamo cosa avremmo potuto fare per placare la sua sofferenza psicologica. Era un tormento vederlo in quello stato di terrore. Le sue condizioni di salute erano complicate ma stabili. Erano gli occhi a gridare, a chiedere aiuto, erano lame che ci trafiggevano il cuore. Avevo pensato di portargli un piccolo pensiero, un pupazzo, un libro colorato ma il protocollo dei reparti Covid non permetteva di introdurre nulla. È allora che mi è venuta un’idea tanto banale quanto geniale: ho preso tanti piccoli barattolini, provette, un cucchiaio ed un piatto. Con un pennarello ho disegnato sopra delle facce strambe e divertenti, tutte sorridenti. Alcuni li ho avvolti nella bambagia come fossero abiti di scena e mi sono presentato ai piedi del suo letto. Con aria solenne gli ho annunciato
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l’inizio dello spettacolo e lui di colpo ha arrestato il suo lamento. “Signori e signore, ecco a voi la Famiglia Bicchierini! Padre, madre e due bambini! Sono in partenza per trascorrere una giornata in riva al mare!” E mentre facevo parlare le provette, le facevo camminare avanti e indietro sul tavolino della colazione. Per la prima volta dopo tanti giorni Piero ha aperto la bocca in un ampio sorriso e poi ha riso, tanto, di gusto. La mascherina dell’ossigeno sobbalzava e i suoi occhi hanno addirittura cambiato forma. Da quel momento, quando mi vedeva entrare in camera, mi riconosceva perfettamente affidandosi al ricordo dei miei occhi e della mia voce, era il momento in cui arrivava la Famiglia Bicchierini. Gli era tornata la voglia di telefonare a sua madre e ricordo di avergli sentito dire che “in ospedale si stava bene perché finalmente aveva conosciuto degli amici che avevano la bocca che sorrideva sempre”. Ecco cosa significava essere infermieri. Non è il raggiungimento di una serie di competenze. È l’accoglienza delle fragilità umane, quell’andare oltre i doveri stabiliti dalla professione. È stare nei panni dell’altro e chiedersi sempre come si sentano dentro, non solo fuori. Le settimane passavano ma le pagine del mio calendario interiore erano ferme lì, inchiodate alla parete di una sfida davvero tosta. Erano passati tre mesi dal mio arrivo a Milano.
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La pandemia stava allentando le sue morse e gli Italiani sognavano la libertà come i nostri avi l’annuncio della fine del conflitto mondiale. Il paragone non sussiste eppure chi ha vissuto la guerra è il primo a sostenere che questa battaglia sia stata per certi versi più drammatica. Penso che la forza dei nostri avi sia stata quella di non avere nulla e dal nulla risorgere. La pandemia da Covid19 invece ha sorpreso i Paesi Occidentali al sole della modernità. Viaggi, divertimenti, cellulari di ultima generazione, svaghi, comodità. Abituati a farci pulire i pavimenti da un robot e a raggiungere Londra in un’ora, ci siamo ritrovati prigionieri in una stanza dovendo chiedere il permesso pure per fare la spesa. Anche la scienza è crollata inerme davanti allo schiaffo di un virus subdolo e imprevedibile. Ecco, credo che la differenza non si sia giocata tanto sul tipo di guerra ma sul come sia piombata su di noi. Detto questo, sono fiero di noi italiani. Quei primi mesi ci hanno stesi ma non vinti. Abbiamo imparato a fare il pane (in guerra tutti lo facevano in casa), abbiamo imparato a sognare affacciati alla finestra, a convivere in molti in una stanza, abbiamo imparato che la vita è un soffio e che è vera quella storia che “il tempo vola e che bisogna cogliere l’attimo”. Ed io che con la morte ci facevo i conti per mestiere, ne avevo promemoria tutti i giorni.
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Milano a maggio appariva come una bella signora di petali vestita. Il suo rigore era ammorbidito da alberi fioriti che spuntavano dagli angoli delle vie. Tutti quei colori mi facevano tornare alla memoria la tradizionale festa dell’Infiorata che ogni anno si svolge nella mia terra. In occasione della festa del Corpus Domini, nei borghi antichi dell’Umbria, vengono ricoperte le strade di un tappeto di fiori su cui poi transita la processione religiosa. L’abilità degli artigiani dell’Infiorata si tramanda da generazioni e attira migliaia di turisti ogni anno, ma per noi umbri è un momento per rinnovare il legame profondo con la propria terra. A Milano dovevo saper cogliere quel poco di natura che gli spazi urbani cercavano di mostrare. I parchi, privati del vociare dei bambini, lasciavano il palcoscenico ai gatti selvatici, a qualche scoiattolo e agli stormi di uccelli che planavano sulle pozzanghere frizzando l’aria di acqua piovana. Se dal 21 febbraio al 4 maggio avevamo vissuto in un cono d’ombra, ora, piano piano, come formiche autorizzate a lasciare il formicaio, cominciavamo a riprendere possesso delle strade. La città era comunque orfana dei suoi giovani, rintanati in casa a seguire lezioni a distanza sul computer; non vedevo ragazzini in giro e in compenso vedevo così tanti anziani morire. Il mio appuntamento fisso con l’allegria era il bimbo dai palloncini colorati che abitava davanti al mio
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residence. Di rientro dal mio turno speravo di intercettarlo sul pianerottolo, stavo perfino qualche minuto fuori dalla porta ad aspettarlo. Purtroppo non sempre lo trovavo sveglio; lui, a differenza mia, aveva una vita regolare. Compariva sempre con qualcosa di nuovo. Un cartellone con dei disegni astrusi, giocattoli giganteschi, dinosauri, un pezzo di pizza, un giorno un casco di banane. Mi limitavo a sbracciarmi per fargli capire quanto apprezzassi la sua compagnia. Una notte, una delle tante insonni, ho cominciato a scrivere una storia, a caratteri cubitali, su dei fogli 35x50. La magia non sarebbe stata in quello che inventavo ma nel mostrarne una frase al giorno creando mistero. Lo stupore e la gioia del bimbo, a 200 metri di distanza, mi faceva tornare bambino a mia volta, un bambino bisognoso di leggerezza e fantasia. Noi infermieri indossavamo una corazza ogni giorno e ci gettavamo sul campo di battaglia intenzionati a salvare quante più vite umane, ma chi salvava noi infermieri da tutto quel male? Alcuni colleghi avevano iniziato ad assumere sonniferi per dormire. Le notti erano colme di fantasmi e all’alba bisognava essere operativi fin dal primo minuto. Io non volevo un sonno indotto. Volevo un sorriso da portarmi sul cuscino, che mi accompagnasse per mano fra le braccia di morfeo.
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“At this moment word fail me, and my vision’s unclear. Blind to the truth...but I don’t believe that we’re in this alone...I’m embracing the fight, I will not live under a shadow of fear” Il brano dei Dream Theater rimbalzava fra le pareti della mia stanza. “Along for the ride”: Insieme per il viaggio. Mi appellavo ai testi delle canzoni rock. Per molti il rock è musica per giovani, per chi è bisognoso di ballare e divertirsi. Al contrario, il rock cela la poesia della vita. La maggior parte dei testi trae spunto dalla sofferenza e dalle esperienze personali delle band o dal desiderio di trasmettere un messaggio positivo sul futuro delle generazioni. Il rock era la mia ninna nanna della sera o la tromba del risveglio mattutino. Il rock era il romanzo della mia vita. Di canzone in canzone ne scriveva i capitoli. Nella valigia per Milano ci avevo fatto stare anche il mio giubbino dei concerti, quello autografato dalle star internazionali. Il tempo degli eventi musicali dal vivo era rimandato chissà di quanto, ma lui era il baluardo dei momenti felici. Lo avevo appeso sull’attaccapanni, all’ingresso. Sembrava pronto per essere preso al volo e indossato alla volta di qualche concerto. Era il mio portafortuna. Luca era sì un infermiere, ma un infermiere rock.
CAPITOLO X
LA TELEFONATA “Change, now it’s time for change nothing stays the same now it’s time for change” Mötley Crüe
Una delle cose che mi aiutava concretamente a staccare dalla vita in reparto era andare a fare la spesa. Benché il personale sanitario avesse l’autorizzazione a saltare le lunghe code che si formavano davanti ai supermercati, non ne approfittavo quasi mai, tranne quando ero a ridosso dell’orario di turno. Stare in coda mi faceva sentire parte di una comunità che non fosse solo e sempre quella ospedaliera. Ero un normale cittadino che, lista alla mano, camminava fra gli scaffali dei surgelati o si soffermava davanti al reparto dei vini scorrendo con lo sguardo tutte le etichette regionali. Avere in casa un buon vino rosso era garanzia di una cena quanto meno rilassante. Ed è stato proprio mentre ero alla cassa, con una montagna di cose inutili che scivolavano sul rullo, che ho ricevuto la telefonata del Professor Fatarella, DG Policlinico Umberto I, ex dirigente del sistema sanitario della Regione Calabria, imprenditore del settore socio assistenziale e condirettore Master sanità Luiss
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Business School, mio docente in materia di sistemi sanitari quando ero a Roma. Io e lui avevamo avuto l’occasione di conoscerci meglio proprio mentre frequentavo il suo corso e, anche se era passato molto tempo da quei giorni e da quel Luca, eravamo rimasti in contatto. Capita sempre che le telefonate che più vorremmo ricevere arrivino nei momenti meno adatti. Con le mani piene di borse ed i surgelati da portare a casa in fretta, sono riuscito a rispondere prima che lui rinunciasse nell’attesa. “Caro Luca, come sta? Le voci corrono e sono venuto a sapere che è partito per Milano per dare sostegno al personale medico. Come vanno le cose?” “Quale piacere, che bello sentirla. Io sto bene… Devo ammettere, però, che benché fossi preparato, la stanchezza psicologica inizia a farsi sentire. E poi lo sa, gliel’avevo detto, il B&B che avevo aperto cominciava ad ingranare…Ormai avevo dismesso i panni dell’infermiere, girato pagina…” “Lei mi ricorda il mio percorso di vita, caro Luca. In gioventù mi sono laureato in sociologia poi ho colto un’occasione professionale nel mondo dell’informatica, poi mi sono preparato per dei concorsi per il Comune di Roma perché avevano bisogno di un sociologo e poi ancora sono diventato direttore generale e imprenditore nel mondo della sanità. Abbiamo l’indole del manager noi due. Non ci basta portare un’azienda al successo, noi siamo protagonisti
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dei cambiamenti… E poi siamo troppo curiosi, vogliamo spaziare in più campi, non fermarci alle apparenze. Per noi è vitale mantenerci caparbi, ambire costantemente a migliorare noi stessi.” “La ringrazio professore, inutile dirle quanto le sue parole contino per me. Vanno oltre la gratificazione. Il momento è davvero complesso, dico per me e per tutti gli italiani. Ognuno prova a reagire con le risorse che si porta dentro. Ci vuole tanto equilibrio, professore… E capacità di sogno.” “Il futuro, come vi abbiamo sempre insegnato durante le lezioni, è un fiume ricco di risorse che scorre veloce. Va seguito e direzionato, caro Luca. Solo così si possono tagliare traguardi che ci possono rendere fieri di noi stessi.” “Professore, è esattamente quello che ho imparato al master. Non mi avete solo insegnato l’approccio analitico e tutte quelle informazioni contenute nei libri, mi avete fornito un modus operandi nei confronti della vita. Ho compreso veramente il senso di quegli insegnamenti proprio in questi mesi in trincea, sa...” La telefonata è stata breve ma ricca di tutte quelle parole che avrei voluto sentire. I surgelati erano salvi e tutto appariva ancora possibile dentro a quel girone dantesco in cui erano finite le nostre vite.
CAPITOLO XI
CPAP “Heaven from hell? blue skies from pain? can you tell a green field from a cold steel rain? a smile from veil? do you think you can tell?.......” Pink Floyd
CPAP. L’attrezzatura per somministrare ossigeno e aria ad alti flussi ha proprio questa sigla. L’avreste mai detto che sarebbe mancata l’aria a così tante persone? La pandemia ha avuto il potere di spazzar via tutte le paure del precedente immaginario collettivo. Tutti schiavi, in questo nuovo mondo, dello stesso padrone, un virus che comanda a bacchetta intere comunità togliendoci qualsiasi libertà primaria. Pure quella di respirare. Nei rari momenti in cui uscivo a far due passi per le vie del centro, mi trovavo davanti a degli orribili blocchi di cemento, messi lì poco tempo prima, per scongiurare gli attentati terroristici. Ricorderete quello che era successo sulla Promenade des Anglais a Nizza, nel luglio del 2016. Un uomo di origini islamiche aveva sfondato la passeggiata lungomare con un autocarro.
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E anche in altre città europee erano accadute cose simili. Per quello a Milano era stato dato l’ordine di posizionare degli enormi blocchi di cemento dove vi era il rischio di assembramento. Ci siamo dimenticati quei mesi, in cui prendere un aereo o visitare determinate città del mondo faceva paura. Oggi nessuna piazza al mondo è affollata. Ognuno a casa propria, ad affollare la mente di pensieri che ci perseguitano. Purtroppo il virus non è arginabile con un muro, o meglio, murandosi in casa si è provato ad arginarne una parte. Qualche artista della notte aveva dipinto quelle superfici grigie come murales, inneggiando alla pace e alla libertà, ma non bastava a mascherarne la bruttezza. La Piazza del Duomo, incasellata in una scacchiera di marmi sulla quale si stagliava la bellissima chiesa neogotica, era picchettata dal cemento. Ed ora come allora, c’erano presidi di militari ovunque. Erano lì ad assicurarsi che il nemico non facesse strage di civili. Ora come allora, il nemico non aveva un volto; la differenza sostanziale: oggi un intero esercito di scienziati e personale medico poteva arginare e vincere la guerra. Mentre ero assorto in questi pensieri un poliziotto mi si è parato davanti. Mi sono quasi spaventato. “Cosa ci fa lei qui? Non sa che siamo in pieno lockdown? Non è permesso di passeggiare per Milano!” Senza riflettere gli ho risposto.
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“Guardi, lei ha perfettamente ragione, solo che se non faccio due passi rischio di impazzire. Sono un infermiere arrivato dall’Umbria per dare una mano nell’emergenza Covid. Vivo ininterrottamente in ospedale o chiuso in un bilocale di pochi metri quadrati. Sono solo, non ho nessuno con cui scambiare due chiacchere. Per come vivo oggi, la mia casa è solo questa piazza. Mi conceda di toccare le mura del Duomo e che il suo meraviglioso marmo mi dia la forza di cui ho bisogno per andare avanti nei mesi che mi aspettano.” Il poliziotto è rimasto basito. Ho visto i suoi occhi velarsi di lacrime. Ha fatto un passo indietro ed ho avuto la sensazione che si mettesse quasi sull’attenti. Senza dire una parola mi ha ceduto il passo e con un cenno mi ha salutato. In quei mesi tremendi eravamo visti come eroi, anche se esserlo ci metteva più paura. Avremmo voluto essere persone normali, benché a conti fatti vivessimo vite bioniche. Sono arrivato fino all’ombra di quella maestosa cattedrale. La Madonnina luccicava come una stella da lassù. Ho appoggiato le mani aperte sul marmo liscio e possente. Le statue scolpite con incredibile maestria mi guardavano silenti. Alcune aprivano le braccia al cielo, altre indicavano un punto lontano. La mia ora d’aria era finita. Dovevo tornare al residence prima che facesse buio.
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Credetemi: mi sentivo davvero meglio. Camminare aiuta a riflettere, a riprendere possesso dei nostri spazi mentali. Sono ripassato davanti al poliziotto e l’ho ringraziato, con un cenno, per aver compreso. Ho camminato e camminato e camminato. Da Piazza Duomo al residence, sono quasi 4 chilometri. Le vie erano deserte, le svoltavo ad una ad una scommettendo se ci avrei trovato o no un passante, ma ne avrò visti una decina in tutto. Neanche a Gubbio in una giornata d’inverno c’era così poca gente. “So, so you think you can tell heaven from hell? Blue skies from pain? Can you tell a green field from a cold stell rail? A smile from a veil? Do you think you can tell?” La canzone dei Pink Floyd a tutto volume mi penetrava fino al cervello e appena finiva la facevo ripartire. La batteria del cellulare era quasi a zero, speravo che almeno la musica mi facesse compagnia in quel deserto urbano. La musica, salvezza, gioia, oracolo dei miei forse, dei miei chissà. Una luce, una stella, l’Orsa Maggiore del navigare incerto al bivio della mia esistenza. “Così tu pensi di saper distinguere il paradiso dall’inferno? I cieli azzurri dal dolore, un campo verde da una fredda rotaia? Pensi di saperli distinguere?”. No, molto spesso non li ho saputi distinguere. Ho toccato il paradiso e mi sono ritrovato all’inferno in un
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tempo impercettibile. I cieli azzurri sotto i quali correvo da bambino mi hanno sovrastato facendomi sentire una nullità, e i prati, che da piccolo sapevano di infinito, durante la depressione si sono trasformati in lastre d’acciaio, soggiogando lo scenario dei miei pensieri e i contorni del mondo circostante. No, questa città non era il paradiso che immaginavo quando la vedevo ripresa in televisione. Per quanto ogni cosa fosse al suo posto, i palazzi, le piazze, le acque dei Navigli scorressero quiete sotto le sue fondamenta, Milano era scomparsa. Non è un luogo a dare i connotati a se stesso ma chi lo abita. Senza il suo popolo uno spazio è come un quadro senza i colori, come un pentagramma senza note. Questa era Milano nei giorni della pandemia. La batteria del cellulare si è spenta davanti all’ascensore del residence. Se non fosse che sono una persona razionale, avrei pensato che lei, la batteria, avesse compreso quanto fosse importante per me arrivare fino a casa in compagnia della musica. E invece ero solamente tanto stanco. In reparto mi trasformavo in un essere invincibile, o, per lo meno, volevo che i pazienti mi percepissero così, in modo che nei momenti più critici si aggrappassero all’idea di essere circondati da qualcuno di superiore in grado di salvarli. Mi convincevo di essere forte. Poi, una volta varcata la porta delle nostre abitazioni, dismesso il costume di scena, crollavamo a terra distrutti.
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Invidiavo terribilmente i colleghi di Milano che tornando a casa trovavano i loro cari ad attenderli. Sebbene la maggior parte di loro avesse optato per l’isolamento in una stanza, qualcuno porgeva loro un vassoio con un piatto caldo accanto alla porta; prima di andare a dormire si mettevano a chiacchierare con i parenti da una camera all’altra. Capitava che trovassero piccole sorprese, un fiore sul cuscino. Dio come avrei voluto anch’io trovare un cenno di vita di ritorno dall’ospedale. Era questa la prova più dura per gli infermieri che arrivavano dal resto d’Italia: ciò che ci distingueva non era all’interno dell’ospedale ma fuori. Prima di andare a dormire, che fosse giorno o notte, mi ritagliavo un momento per guardare fuori dalla finestra. Era il mio appuntamento fisso con l’orizzonte. Portare lo sguardo lontano era d’ausilio ai miei pensieri. Li accompagnava fuori dal recinto, li liberava spronandoli a vagare per poi ricondurli a me. Un pomeriggio, saranno state le quattro, ero appena tornato dal turno, mi ero fatto una bella doccia bollente e cercavo di resistere al sonno ascoltando un po’ di rock. Con un buon tè caldo tra le mani, mi sono appoggiato alla finestra guardando oltre il vetro. Invece di buttare lo sguardo oltre i palazzi, come facevo di solito, la mia attenzione è stata rapita da una macchia di colore che spiccava dal palazzo di fronte. In un frenetico via vai di verde, rosso e blu, intravedevo dei piedini che correvano dietro ad una vetrata. Non riuscivo a met-
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tere bene a fuoco perché, dopo 8 ore di mascherina e visiera di plastica, gli occhi erano molto provati. Poi quei piedini si sono di colpo fermati e due manine hanno cominciato a sbracciarsi. Erano proprio davanti alla mia finestra. Sembrava che volessero attirare la mia attenzione. È stato il mio primo incontro con il bambino dei palloncini. Mi era venuto istintivo salutarlo e lui aveva restituito il saluto portando sul terrazzo dei palloncini, la macchia di colore che aveva catturato la mia attenzione poco prima. Li ha lasciati andare e in un istante erano già oltre il palazzo, puntini microbici diretti chissà dove. Sono rimasto lì, ipnotizzato da quella poesia, da quel gesto così semplice eppure così meravigliosamente vivo. Quando era stata l’ultima volta che avevo visto dei palloncini dirigersi verso la troposfera? Quando era stata l’ultima volta che avevo preso in mano dei palloncini? Quel bimbo “poeta” aveva saputo interpretare i miei pensieri, donando una carezza inattesa alla mia giornata amara. Ho cercato di dirgli grazie ma non avrebbe mai letto il labiale. Ho fatto il cenno di un applauso e lì ho visto la sua comprensione. Mi ricordo di essermi buttato sul letto, leggero, come quei palloni che erano ormai chissà dove, in volo oltre la città, verso il mare, o diretti in America. Un sonno profondo e pacifico mi aveva avvolto fino all’alba.
CAPITOLO XII
UN SENTIMENTO “When you can’t do what you do you do what you can they build an hospital on East Meadow in Central Park last night doctors, nurses, truckers, grocery store clerk manning the front lines” Bon Jovi
Il desiderio di andare ad un concerto stava diventando incontenibile. Non ero l’unico. Sentivo che era un vero e proprio bisogno collettivo. E invece, eventi del genere rientravano ormai tra gli “assembramenti” civilmente errati e pericolosi. Pericolose le lunghe attese davanti ad uno stadio o ad un teatro per assistere ad un’esibizione dal vivo, pericoloso starsene sotto al sole cocente sorseggiando una birra bionda accanto a migliaia di fans che accennano ad una canzone, pericoloso trovarsi in mezzo a quel boato di voci, sentire l’odore degli altri, l’unità fra perfetti sconosciuti, pericoloso fare il pieno di felicità. Quanto mi mancavano quelle emozioni: indossare i panni del metallaro, essere dark, essere metal. La divisa da infermiere era così asettica, incolore, così seria. E io dentro così rock.
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Anzi, credo che una delle cose più rock che abbia mai fatto nella vita sia stato proprio scegliere di lasciare la mia comfort zone a Gubbio per venire a Milano nell’occhio del ciclone. Trovo siano queste le scelte che cantano i nostri sentimenti al mondo. Lo dico a nome di tutti gli infermieri che non sono ancora riusciti ad esprimere ciò che hanno vissuto e che in molti stanno ancora vivendo. Siamo tantissimi. Ogni giorno conoscevo nuovi colleghi che venivano spostati da un reparto all’altro. Gente, che come me, aveva appeso il camice al chiodo da tempo ma che aveva avvertito il richiamo della corsia per dare una mano al proprio Paese. La migliore dimostrazione che, la professione dell’infermiere, una volta intrapresa, non ti lascia mai. Diventa una modalità di essere, una forma mentis. In quei mesi eravamo pronti a tutto, un esercito assediato che ogni mattina si preparava a rispondere al fuoco nemico con le ultime forze che aveva. Turni di 12 ore senza mangiare, senza bere, senza andare in bagno fino all’alba seguente. I nostri volti erano rigati sulle guance e gli occhi arrossati dalla mancanza di ossigeno, o spesso per un pianto che ci coglieva all’improvviso per un paziente che se ne andava, per un paziente che inaspettatamente guariva, per un grazie ricevuto dai malati, per un mazzo di fiori trovato ai cancelli dell’ospedale.
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Ogni tanto i parenti dei degenti ci aspettavano all’uscita con delle prelibatezze cucinate apposta per noi. Era tale il desiderio di riconoscenza da non pensare ai rischi che comportava il mangiare cose fatte dalle mani altrui. Prendevo ciò che mi veniva donato e lo portavo al residence. Lo tenevo lì all’ingresso per qualche ora e poi ero costretto a buttarlo via. Quando sei lontano da casa per mesi ricevere una crostata casalinga da un perfetto sconosciuto ha il potere di piegarti in due dalla commozione. Era più di un semplice ringraziamento, era la voglia di farti sentire parte di una famiglia, di trattarti come un fratello, un figlio o un padre. Quando telefonavo a mia madre le raccontavo dei manicaretti delle mamme milanesi acquisite. La sentivo sorridere, qualche volta piangeva pure, ricomponendosi in fretta per non farmi rattristare. “Luca, si vede che ti fai voler bene. Sono orgogliosa di te. Qui a Gubbio mi chiedono tutti come va lì a Milano ma so così poco, non mi racconti tutto, forse non vuoi farmi preoccupare…” “No mamma, non ti racconto tutto perché quando ti sento non ho voglia di parlare di malati o di virus, voglio che mi racconti della mia Umbria. Dei ginepri, delle ginestre, dei biancospini. Si vede ancora quella poiana volare sul B&B? Sono in ordine le camere? Passi a controllare che non si accumuli la polvere? Hai ricevuto qualche chiamata dai turisti per Natale?”
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Mia madre dava risposte rassicuranti più che concrete. Mi diceva che era tutto sotto controllo, che il giardino era un tripudio di colori e che le vicine di casa passavano tutte le mattine a farle un po’ di compagnia, chiacchierando dalla cancellata. Tutto era in perfetto ordine tranne il mondo intero. Probabilmente la nostalgia della mia terra trasudava da tutti i pori, per quanto io cercassi di non parlarne con nessun collega. Ma se la bocca tace, gli occhi parlano. Una notte a fine turno si è avvicinata una collega nuova. L’avevo già intravista... Non potete alludere al fatto che mi fossi accorto di lei per questioni estetiche, non ve lo permetto. Eravamo tutti tanti sacchi di cerata bianca con in testa uno scafandro. Mi ero accorto di lei perché un paio di volte, esattamente nei momenti di maggiore sconforto, aveva accennato all’importanza di essere una squadra affiatata, al potere del gruppo per fronteggiare una tragedia di tale entità. Sillabe semplici ma perfette che mi erano arrivate dritte al cuore. Mentre l’alba si palesava alle vetrate del nostro reparto, tagliando il pavimento in spicchi di luce, mi ha salutato chiedendomi se mi andasse di bere un caffè giù al bar. “Dopo aver ripreso le sembianze umane, si intende…”
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Anna era una donna sulla quarantina, l’avrei compreso appena dopo. La sua dolcezza di modi si sposava perfettamente con un viso antico, con il suo incarnato pesca e gli occhi nocciola. Ricordava una dama dei ritratti leonardeschi, o almeno quello è stato il mio primo pensiero quando l’ho vista uscire dall’ascensore e venirmi incontro. Ero vagamente agitato; da molte settimane non interagivo con esseri femminili al di fuori delle ore di lavoro e per la prima volta da tanto tempo eravamo entrambi spogliati del nostro bozzolo. Come me aveva lasciato la terra natìa per l’emergenza Covid. Veniva da Rimini e di quei luoghi possedeva tutta la generosità e l’affabilità, con quell’accento allegro che ho sempre amato. A casa aveva lasciato l’anziano padre che godeva di ottima salute; anzi, era stato lui a darle il benestare per la partenza. Milano, diceva, le stava un po’ stretta, anche se non si poteva giudicare una città in una situazione così anomala. Giudicare chi, poi? Cosa? Non c’era anima viva in giro. Era impressionata dall’efficienza dei suoi ospedali, dall’organizzazione certosina e dal fatto che fosse ostinatamente perfetta anche nella disgrazia. Concordavo su tutto. Io la chiamavo la signora elegante, questa città mai sbagliata, impossibile da cogliere in difetto. Soffriva ma con dignità.
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Scambiare due parole con un essere umano con i connotati in volto era fantastico. Avrei voluto che quel caffè durasse per ore. E invece i caffè delle macchinette sono compressi in un bicchierino minuscolo. Maledetti. Percepivo che anche lei faticava a salutarmi. Eravamo due naufraghi reduci da infiniti giorni di solitudine che avevano finalmente trovato un compagno di zattera. Lasciarsi era tristissimo. “Perché non ci scambiamo la griglia dei reciproci turni, così programmiamo il prossimo caffè?” Anna era luminosa. Lo ero anch’io per lei? Mi sentivo uno straccio. Da quanto tempo non mi tagliavo i capelli? Avevo fatto la barba quella mattina? Ero ingrassato, dimagrito? All’improvviso mi interessava capire cosa avevo indosso. Sembrava che lei sentisse il rumoreggiare dei miei pensieri. “Non ti preoccupare, anche io mi metto la prima cosa che trovo quando mi alzo, tanto so che dovrò mettermi quella tuta orribile tutto il giorno.” Era giugno. Un mese favoloso. Perché, sì, c’era sempre il sole e c’era Anna. Con un gioco di incastri siamo riusciti a berci un caffè quasi ogni giorno, che fosse alle sei di mattina o alle cinque del pomeriggio. Il lockdown ci impediva di andare oltre un caffè bevuto a distanza. O forse no.
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A un certo punto abbiamo smesso di bere caffè e abbiamo cominciato a baciarci. Anna, una Madonna giunta da molto lontano per alleviare la pena, la solitudine e tutti quei lutti che diventavano anche nostri. Mi sorrideva, mi chiedeva di Gubbio. Si diceva meravigliata che un infermiere avesse fatto così tante cose nella vita. Una laurea, un master e poi Roma e il B&B. E poi cos’altro ancora? Mi riempiva di domande. Aveva fame di novità e di leggerezza. La capivo alla perfezione. Sentire la sua pelle era sorprendente e fenomenale. Accarezzarle il volto. La pelle delle persone è così morbida. Non mi stufavo mai di guardarle il viso. Come cambiano le prospettive. Essere guardati e guardare era una cosa meravigliosa. Guardami ancora Anna. Le avevano assegnato un appartamento non molto distante dal mio. Le isole dei due naufraghi erano nello stesso atollo. Da quando le avevo raccontato del bambino con i palloncini, al quale narravo una storia scrivendola a caratteri cubitali, foglio dopo foglio, era ansiosa di assistere al miracolo di quell’amicizia così poetica fra l’infermiere ed il piccolo. E da quando mi aveva detto che le sarebbe piaciuto venire da me ero ansioso di averla fra le mie braccia.
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Era mercoledì. Era un mercoledì. Dio benedica tutti i mercoledì. Il giorno cedeva il passo alla sera ed il sole era già intrappolato fra i palazzi. Ero rientrato a casa giusto in tempo per mettere in fresco il vino e riordinare le stanze del tipico scapolo, con l’aggravante che lo scapolo era anche un infermiere Covid perennemente stanco. Per dare il tocco di magia alla serata non contavo sulle candele ma sul bimbo dei palloncini. La mia candida speranza era che si facesse vivo esattamente quando lo avrei mentalmente chiamato. Perché non potevo avvisarlo? Mi veniva quasi da scendere in strada e bussare alla sua porta, cosa che non avevo mai ipotizzato di fare fino a quel momento. Il campanello suonava ed io lì ad intercettare la sagoma del bimbo sul balcone. “Entra, come stai? Temevo ti fermassero i carabinieri. Ormai si vive nel terrore pure di respirare…” “Nessuna paura. Insomma siamo infermieri no?” – mi aveva risposto sorridente. “Sei bellissima.” In quell’istante due grossi dinosauri sono apparsi sul balcone del palazzo di fronte. “Eccolo! Vieni a vedere. È lui.” Nella mia testa ho ringraziato il mio amico speciale per essere arrivato giusto in tempo per salutare la mia dolce Anna.
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“Non sai quanto sia bella, forse lo vedrai anche da laggiù.” – avevo pensato. Anna si sbracciava emozionata come una bimba. “Ciao! Ciao!” Il bimbo era stupito nel vedermi in compagnia. Non era mai successo prima. Invece di mostrargli un nuovo pezzo di storia, ho scritto sul foglio: “Lei è Anna. Un angelo mandato dal cielo per ridarmi tutti i sorrisi che perdo ogni giorno in ospedale!” Perché era proprio così: i sorrisi lì dentro cadevano a terra come perle di una collana che inesorabilmente si sfilava. Per quanto tutti noi ci impegnassimo a trattenerle, si riversavano ogni giorno sul pavimento di linoleum. Il bimbo era riapparso poco dopo con la madre accanto. Una presenza inedita anche per me. Della serie, giochiamo ad armi pari. Ad ognuno il proprio angelo. Abbiamo salutato entrambi mentre con la mano sinistra accostavo le tende e con la bocca baciavo i capelli di Anna. “I could stay awake just to hear you breathing, watch you smile while you are sleeping…I could spend my life in this sweet surrender. I could stay lost in this moment forever...Don’t want to close my eyes. I don’t want to fall asleep”. Gli Aerosmith davano voce al mio sentire. Questa è una delle più belle canzoni d’amore che conosca, e per quanto fossi cosciente che in una manciata di giorni non si potesse improvvisare un amore, ero davvero felice di poter dedicare quelle parole ad Anna.
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L’amore è eterno o vive dentro ad un attimo, come rinchiuso in una goccia di rugiada che non ha bisogno di null’altro se non di scivolare libera sulle foglie. Cadrà a terra, è molto probabile che si frantumerà, ma nessuno potrà negare quanto sia stata perfetta. I due naufraghi si sono abbandonati l’uno nelle braccia dell’altro. Era come se il sale non potesse più graffiare la loro pelle, era come se le onde non potessero più spaventarli, come se gli squali in acqua si fossero tramutati in piccoli pesci tropicali. L’incontro dei loro corpi era un inno alla vita. La sveglia li aveva colti nel sonno, vigliacca nemica degli amanti. Erano le 5 di mattina ed io dovevo iniziare il turno alle 6. Ho chiesto ad Anna di restare visto che aveva il giorno libero; sarebbe stato meraviglioso trovarla a casa alla fine del turno. Senza neppure parlare aveva messo un caffè sul fuoco mentre scriveva la lista della spesa. La sola idea di trovare un piatto caldo al mio ritorno mi ha sciolto in lacrime mentre l’ascensore toccava piano terra. Piangevo senza riuscire a trattenermi. Da quante settimane avrei dovuto farlo? Quanto era difficile affrontare la morte ogni santo giorno, andare incontro a parenti disperati, trovare parole di conforto. Gli infermieri che vedevate in tv non erano eroi, purtroppo. Erano esseri umani.
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Milano era deserta. Dove siete milanesi? Dove siete finiti? La città del fare era annichilita. Le era stato chiesto di arrestarsi, di smontare il palcoscenico. La pandemia era ovunque nel mondo, pure a Gubbio, ma a Milano sembrava più brutta. Uno sfregio al dinamismo vitale che Boccioni, pittore futurista, aveva saputo ritrarre così bene ai primi del Novecento. Anna si era trasferita a vivere da me e la direttrice del residence aveva accettato di buon grado la nuova inquilina. Nelle vie incontravo solo cani con padrone, carrello della spesa con anziano, bimbo con genitore. Il nostro “abbinamento” sembrava il migliore. A quei tempi il personale medico godeva di un’ammirazione smisurata. Sembrava che d’un tratto si fossero accorti di noi. E dire che noi c’eravamo sempre stati. Mentre mettevo in moto la macchina è squillato il telefono: era la mia amica dalla Cina, colei che per prima mi aveva informato sulla gravità di quello che stava succedendo al pianeta. “Ciao, come stai?” “Ciao Luca, come stai tu? Ho notizie dell’Italia dai telegiornali. So che i dati sono in miglioramento, sia per i decessi che per i ricoveri. Da noi, finalmente, sta per finire lo stato di emergenza. Sembra trascorso un secolo da quando ci siamo sentiti. Il peggio è quasi passato, Luca. Coraggio!...
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Vorrei prenotare una camera nel tuo B&B. Porto l’Umbria nel cuore. È da lì che voglio ripartire per una bella vacanza.” Le ho detto che avrebbe sempre avuto un posto d’onore al B&B e poi le ho raccontato di Milano. “Vedrai che tutto finirà presto, Luca.” - sono state le sue ultime parole prima di riattaccare - “La Cina è in grande ripresa. Ti abbraccio.” “Grazie amica mia, ci vediamo a Gubbio.” Lasciata la macchina al parcheggio, contavo i passi che mi separavano dallo spogliatoio e ogni tappa successiva: triage, misurazione temperatura, zoccoli, sovrascarpe, tuta, cuffia, mascherina, visiera, guanti. Prima del Covid il mattino era il momento dedicato alle medicazioni, dopo aver servito le colazioni, imboccato chi non riesce a mangiare da solo, somministrato i farmaci, controllato i parametri. Ci occupavamo dell’igiene dei pazienti e si rifacevano i letti. Magari bisognava portare qualcuno a fare fisioterapia, lastre, esami. E poi c’era il giro dei medici, che si muovono singolarmente o in gruppo, dipende. Arrivava il pranzo che, se tutto andava come doveva andare, ci lasciava una piccola tregua o cambio turno. La notte poi era dedicata alla revisione delle cartelle mediche. Dati e dati inseriti al computer, prima di controllare i macchinari e il carrello delle urgenze con il defibrillatore. Quando le notti erano tranquille si controllavano anche le scadenze dei farmaci e si riusciva a scambiare due chiacchere con i colleghi.
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Il Covid ha azzerato il prevedibile. Abbiamo vissuto in un perpetuo giro di giostra che ci strattonava di qua e di là. Avere una caposala in gamba per me è stata una gran fortuna. Preparata, determinata ma anche capace di ricordarsi che eravamo esseri umani. Quella mattina, dopo la mia prima notte con Anna, credevo che avrei avuto energie doppie, empatia doppia, così tanta fiducia in corpo da regalarne a due mani a chi era stato più sfortunato di me. È allora che aveva fatto il suo ingresso un nuovo paziente critico, e poi un altro dietro di lui, e un altro ancora, l’ennesima nuova emergenza. Mi ero voltato verso la caposala per scrutare il suo sguardo ed aspettare un suo cenno. Ci aveva diretto un’altra volta come una direttrice d’orchestra, dando le spalle al resto del mondo e concentrandosi unicamente sulla forza del suo personale e sui suoi pazienti. In lei ho visto tutta l’efficienza di Milano. In me un uomo che si stava innamorando. Le donne di cui mi circondavo in quei giorni brillavano di una personalità che illuminava ogni cosa. La loro presenza era di grande conforto. Anna fra tutte, una stella cometa da seguire con lo sguardo e con il cuore.
CAPITOLO XIII
RAMBLIN’ MAN Keep on rockin’ in the free world keep on rockin’ in the free world keep on rockin’ in the free world..... Neil Young
Verso i primi di luglio, Milano vibrava nell’aria calda che saliva dall’asfalto. Nonostante la temperatura non invogliasse a camminare per la città, la gente aveva una tale fame di normalità che usciva di casa con ogni scusa possibile. Non era importante dove andare ma andare. Si percepiva una gioia ritrovata non visibile nei sorrisi, ancora celati dalle mascherine, ma nell’incedere gaio e negli sguardi luminosi. La fiducia che la pandemia fosse stata sconfitta prendeva posto anche nella testa dei pessimisti. Il momento più bello era il mattino presto, la temperatura non superava i 25 gradi ed il cielo era turchino. Quando io e Anna facevamo il turno negli stessi orari, l’alba appariva come il palcoscenico perfetto per i due amanti che partivano alla volta delle loro giornate in corsia. L’emergenza stava palesemente allentando i suoi tentacoli e noi evitavamo di parlarne perché sapevamo perfettamente che da lì a breve avremmo concluso
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il servizio a Milano. Così come eravamo grandi abbastanza per comprendere che Gubbio non era così vicino a Rimini e che entrambi i nostri genitori anziani, ormai abituati ad averci accanto, avrebbero rappresentato un ostacolo. Se da un lato tutto è possibile quando lo si desidera veramente, dall’altro sentivamo che la nostra passione era figlia di un’anomala circostanza. Vi dirò di più: la presenza di Anna era un dono prezioso, un piccolo miracolo quotidiano che sbocciava nei fossi delle trincee, e allo stesso tempo ero consapevole che me le avrebbe ricordate per sempre. Ma non so se riesco a spiegare il dualismo di quel sentimento. Era un laccio che tirava e ci teneva uniti allo stesso tempo. Le settimane condivise erano intrise di dolore, di lutti, di paura. Ogni giorno entravamo in ospedale pieni di energia, ogni sera facevamo a tavola la conta dei morti. Nel frattempo il bambino dei palloncini colorati aveva lasciato la città per le vacanze estive. Mancava alla mia finestra, mancava a quella parte della mia infanzia che non avevo mai vissuto in modo così leggero, mi mancavano i suoi dinosauri che camminavano sul cornicione del terrazzo, i suoi pupazzi giganteschi che mi spronavano a tornare indietro nel tempo per riprendermi sprazzi di leggerezza. La sera mi mettevo davanti alla finestra con una birra gelata e chiacchieravo nella mente con lui, con
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me stesso. Cercavo di ricordare gli episodi più felici dell’infanzia, poi via via dell’adolescenza, gli studi. Ne avevo fatti di passi e mai avrei immaginato che mi sarei ritrovato a fare l’infermiere dopo l’apertura del B&B. Anche se non sapeva di passo indietro, semmai di passo in avanti. Il mio mandato scadeva ad agosto però era evidente che parte di noi infermieri iniziava ad essere in esubero. A quel punto mi hanno spostato in un reparto di riabilitazione perché, grazie a Dio, di Covid non si moriva e basta, si guariva o bisognava riabilitare i corpi provati dal virus. Per quel che mi riguarda era come passare dall’inferno al purgatorio. I pazienti vivevano in una sorta di limbo, felici di essere scampati alla morte, ma molto provati, soprattutto psicologicamente. C’era chi aveva guardato dritto in faccia la morte ma l’esser vivo non gli bastava come “consolazione”, chi viveva nella paura costante di venir reinfettato, c’era chi aveva perso un familiare ed era venuto a saperlo solo dopo. Non era raro che coniugi anziani prendessero il Covid e restasse al mondo solo uno dei due. Immaginate lo shock di venire a sapere che il compagno di vita, a differenza tua, non ce l’aveva fatta. Una coppia sull’ ottantina era stata ricoverata in contemporanea ma, mentre la moglie era guarita in fretta, il marito era attaccato al respiratore da giorni. Il medico di base, però, guardando il quadro generale degli esami
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fatti durante il ricovero, aveva scoperto delle metastasi nella paziente. Non appena saputo di avere i giorni contati la moglie aveva voluto visitare il marito mettendo in scena davanti ai nostri occhi il suo “lungo personale addio” fatto di sorrisi e non detti. Gli sguardi di lei dicevano arrivederci, a presto, il suo cuore era consumato dall’idea del loro per sempre giunto al termine. Eppure gli sorrideva impavida dall’altra parte del vetro per trascorrere ancora nuovi minuti in sua compagnia, per dargli conforto, per aiutarlo moralmente. Lui, rinchiuso da settimane in isolamento, si nutriva di quei sorrisi che illuminavano la stanza, anche se qualcosa mi dice che, conoscendola da 50 anni, anche lui stesse recitando il proprio ruolo per lei. Qualcosa mi dice che anche lui, colta quell’impercettibile discrepanza fra verità e finzione, a suo modo ricambiasse l’impegno della moglie fingendo entusiasmo e convinzione laddove aleggiava solo il profumo della fine. Dietro ai numeri snocciolati ogni sera dai telegiornali c’erano storie come questa, amori da romanzo spazzati via con una crudeltà inaudita. Chi non ha vissuto la realtà ospedaliera ha potuto soffermarsi solo per qualche minuto al giorno sulle statistiche, astraendo le persone in puntini disegnati sui grafici. Noi no. In una stanzetta in fondo alla corsia c’era anche un ragazzo giovane, arrivato in riabilitazione da un’altra struttura. In tempi di Covid l’emergenza aveva stra-
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volto qualsiasi differenziazione fra ospedali e reparti. Quegli edifici erano diventati un grosso contenitore da suddividere secondo necessità pressanti. I malati venivano trasportati dove si liberava un letto. E così quel quindicenne si era trovato nella nostra RSA. Era arrivato lì in seguito ad una brutta infezione che lo aveva debilitato al punto da prolungare la sua degenza di molti giorni. Essendo minorenne era in camera con sua madre. I ricoverati adulti, indipendentemente dal quadro clinico, non potevano ricevere alcuna visita, ma lui poteva “godere” di questo lusso. Madre e figlio vivevano in una simbiosi che li riportava indietro nell’ancestrale periodo in cui uno stava dentro all’altra, nel silenzioso viaggio verso la nascita, vagando in una dimensione senza gravità, lui legato al cordone ombelicale di lei, libero di sognare cose mai esistite e mondi immaginari. Madre e figlio sempre, che lui avesse uno, dieci o mille anni. Il ragazzo trascorreva gran parte del suo tempo cuffie alle orecchie e serie di Netflix divorate al cellulare. Sparatorie fra mostruose figure aliene lo distraevano dalle preoccupazioni e lo tenevano agganciato ai rituali della sua generazione. Ogni ora un infermiere irrompeva nella sua dimensione fantastica per provargli la pressione, fare un prelievo di sangue o peggio ancora, insegnargli noiosissimi esercizi sulla respirazione. La madre era una scrittrice, neanche a farlo apposta stava scrivendo un romanzo sulla pandemia.
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In un’altra circostanza sarebbe stata ben felice di acquisire del materiale per il libro direttamente sul campo, ma oggi avrebbe pagato oro per limitarsi ad attingere informazioni banalmente da internet. I due vivevano le loro giornate nella clausura della stanza per evitare d’infettarsi. Gli ospedali sono stati il luogo più adatto per salvarsi dal Covid ed anche per contrarlo. E se da un lato si è cercato di consigliare alla gente di non recarsi al pronto soccorso al primo sintomo, nel lungo periodo molta gente ha finito per fare autodiagnosi che hanno aggravato il proprio stato di salute indipendentemente dal Covid. Insomma, la pandemia ha ribaltato la vita ed il pensiero dell’intera società. L’ha costretta a giocare ad un gioco estremo in cui era fondamentale mantenersi lucidi e accorti. Tuttavia, se lo chiedete a me, non esiterò mai a ricordare gli ospedali, in quei mesi, come una roccaforte valorosa per espugnare il nemico, dei perenni Giano Bifronte, il Dio dei nuovi inizi, dei passaggi, raffigurato con due volti, uno che guarda al passato e l’altro al futuro. Per ogni malato che viene ricoverato vi è una storia che lo identifichi, e sta a noi modificarne il corso sperando che si avvii verso un destino migliore. Mi ha sempre affascinato la storia del Giano, una delle più antiche divinità adorate dai Romani, la cui statua si trovava proprio nella città di Roma. Era collo-
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cata su un arco a due ingressi che poi venne distrutto; e l’arco doveva essere stato una delle porte che permettevano l’accesso alla città, simbolo di buon auspicio per chi entrava. Della storia d’Italia a quel quindicenne non importava un granché. Si sarebbe dovuto trattenere diversi giorni nella nostra struttura e mascherava a fatica il suo scontento. Quando ero sul finire del turno passavo a salutarlo e gli chiedevo di spiegarmi la dinamica dei giochi che lo impegnavano al cellulare per diverse ore. L’entusiasmo con il quale si affannava a spiegarmeli non era sufficiente per capire di cosa stesse parlando. È inutile, le differenze generazionali lampeggiano proprio davanti a queste cose. Alla sua età trascorrevo il tempo a giocare a pallone e poi sono stato travolto dal fuoco del rock e della band che appagava tutti i miei sensi. Non sentivo la mancanza di niente, mi bastava suonare. E poi i videogiochi dei nostri tempi erano rudimentali. Comunque, dopo la consegna dei dati ai colleghi del turno successivo, passavo sempre a salutarlo. Sua madre, un giorno, accortasi del mio accento umbro, mi ha chiesto se vivessi a Milano e da quanto. L’ho vista commuoversi quando le ho spiegato i motivi che mi avevano portato al nord. “Si sente in televisione di infermieri che lasciano la propria vita per prestare soccorso negli epicentri della pandemia, ma ascoltarne uno dal vivo ti fa capire che
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razza di atto di coraggio e di umanità ci sia sotto davvero.” Sono stati fortunati quella madre e quel ragazzo, hanno potuto farsi reciproca compagnia scampando all’alienazione nell’alienazione. Se vi è capitato almeno una volta di esser ricoverati, ricorderete quella brutta sensazione del sentirsi estranei a tutto, completamente spogliati dei vostri ruoli oltre che dei vostri abiti. Quando appendi gli abiti nell’armadio e ti infili un pigiama, improvvisamente scolori, sei “uno, nessuno, centomila”. Perdi il nome, acquisti il numero di una camera. Diventa ininfluente se sei una bella persona, colta o stupida, neppure se sei ricco o povero conta. Sei un paziente. Le caratteristiche che verranno apprezzate saranno i tuoi trigliceridi, le piastrine, il colore delle urine. Ciò detto, sappiate che noi infermieri non siamo indifferenti alla vostra educazione. Ci sono malati che scambiano la struttura per un hotel. Suonano il campanello per richiamare la nostra attenzione pretendendo di essere serviti anche quando non ne hanno assolutamente bisogno. “Mi prenda questo, mi sposti quello, mi cambi il bicchiere” Non sapete quante volte le ho sentite quelle richieste. E all’esatto opposto, siate certi che sono sempre i più infermi a dispiacersi di disturbare, a scusarsi di continuo. C’era una signora che si era portata le piante di casa, introdotte ad una ad una da un parente che le mascherava dentro a grosse borse. Le lasciava fuori dal reparto
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per farle consegnare. Quello che sembrava un innocuo cambio di abiti si trasformava in un ciclamino o in un geranio. Meno divertente è stato quando ha iniziato a pretendere che avessimo il pollice verde. “Bagna bene la terra, recidi le foglie secche, ma cosa fai??? Così la fai morire!... Spostala dalla finestra che prende troppa luce, no, avvicinala alla finestra che non ha luce.” Era talmente autoritaria che ci eravamo piegati involontariamente ai suoi ordini. Fra i pazienti era la più temuta. Il cibo era troppo cotto, o freddo, il cuscino era basso, non alto. Le medicine erano amare... “Avete dello zucchero?” Un giorno, nella sua stanza, era entrato un primario e lei gli aveva intimato di bagnare i fiori. Non si era accorta del camice differente o forse, a pensarci, avrà pensato che anche un primario potesse prestarsi ai suoi comodi. L’aveva fulminata con lo sguardo. “Signora non è a casa sua, ma a casa nostra. Qui le regole le facciamo noi e l’impegno non è quello di tener vive le piante ma i pazienti, quindi la smetta di farci perdere tempo con i suoi stupidi fiori e lasci che gli infermieri si dedichino alle urgenze.” È stato un momento di rivalsa per tutti noi. Una sera tornando a casa dal turno ho trovato Anna che stava facendo le valigie.
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L’ho guardata attonito, non capivo perché. Non aveva ancora terminato i suoi giorni in corsia. Mi ha guardato triste e ha vuotato il sacco: “Luca il mio tempo a Milano si conclude qui. Ho parlato con la caposala per sapere se la mia presenza è ancora di vitale importanza e mi ha risposto di no, che posso andarmene se lo desidero”. Le ho detto: “E noi? Avevamo deciso che saremmo andati fino alla fine insieme. Come mai hai cambiato idea?” “Non ho cambiato idea, Luca. È che non ce la faccio davvero più. Questi mesi mi hanno distrutta. Prosciugata. Giorno dopo giorno, goccia dopo goccia. Sono partita per prestare servizio senza neppure pensarci e sono orgogliosa di quello che ho fatto, ma ora mi sento come un sacco vuoto. Sono stanchissima, e triste.” “Ti capisco Anna...” Chi poteva capirla più e meglio di me? Quando sentivo al telegiornale che ci volevano dare un premio di qualche decina di euro, mi saliva la rabbia fino alle tempie. Nessuno potrà mai comprendere cosa ci è accaduto là dentro, nessuno tranne noi che l’abbiamo vissuto. “Però essere insieme è stato fondamentale per me...” “Lo so Luca, è stato fondamentale ma non è più abbastanza...Ho fatto il pieno di dolore. Non mi ricordo nemmeno più il numero dei parenti ai quali ho dovuto comunicare che un loro caro era morto. Non ce la faccio più a reggere quegli sguardi di chi sta soffocando
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e implora aiuto… E io so già che non posso fare più niente per loro.” Aveva ragione. Aveva tutti i diritti di andarsene. Di lasciarmi lì da solo. Di mollare. Di girare pagina e mettere un punto, su Milano e su di me. “Anna, sai cosa vorrei fare?” - le ho risposto – “Vorrei chiudere la porta di casa, buttare via la chiave, abbracciarti per giorni lasciando fuori il mondo. E invece so che ti devo lasciare andare...” In fondo lo sapevamo che esserci conosciuti nell’inferno del Covid avrebbe falsato ogni emozione. Il rischio c’era e io lo stavo pagando in quell’istante, in una rata sola. Lei nel frattempo aveva finito di riporre le sue cose in valigia e l’aveva chiusa. Il suono di quella zip mi ha lacerato come uno strappo improvviso. In un automatismo, che ormai ci apparteneva, ho guardato fuori dalla finestra sperando che apparisse il bambino dei palloncini. Chissà dov’era adesso. Magari a fare il bagno, felice fra le onde. E noi lì, reclusi, in quella goccia di eternità che inesorabilmente scivolava a terra infrangendosi. “Vieni a trovarmi a Rimini appena avrai finito qui. Proviamo a trascorrere qualche giorno insieme lontano da Milano. Senza camice, in costume da bagno.” “Ok, ci penso,” – sono riuscito a dirle – “in fondo ce lo meritiamo, no?” Non potete immaginare cosa sia stato vederla andar via e trovarmi solo in quel maledetto bilocale.
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È stato come venir gettati in mezzo al mare, di nuovo solo, di nuovo naufrago fra le onde in tempesta. Quelle quattro mura senza gli abiti di una donna erano così fredde. Solo una miriade di mascherine nuove assieme a quelle vecchie da buttare. Ste maledette mascherine. In frigo gli avanzi del giorno prima. Tutto mi parlava di lei. Le fragole lasciate a metà in una ciotola, avremmo dovuto finirle quella sera. La mia vita è sempre stata così: un continuo finire di cose ed un eterno ricominciare. Ero così stanco. Non è vero che noi infermieri siamo eroi, non so quante volte ve l’ho già ripetuto. Mi veniva il vomito a sentire alla tv tutti quegli elogi ridondanti. Medaglie al valore di plastica da attaccare al petto di un esercito di zombie che ancora stringevano i denti, con l’immagine della gente che moriva fra le loro braccia negli occhi e il suono delle sirene che fischiava nelle orecchie. Ho cercato il bambino del palazzo di fronte, ho trovato solo il bambino che ero, riflesso nel vetro. “Getting older every day by two, drawing pictures of innocent time...sure it would change my perspective, take me somewhere.” La canzone degli In Flames mi appariva scritta sulle pareti della camera da letto. Portami con te Anna, perché mi hai lasciato qui da solo a combattere?
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Il mattino dopo la macchina da guerra era già operativa. Riparate quelle due crepe al cuore, ero già in macchina verso l’ospedale a ritrovare il sorriso dei colleghi. È stata la cura migliore. Il valore degli infermieri non lo riconoscevo tanto in me ma negli altri, lo scoprivo e riscoprivo nell’abnegazione degli altri, nei gesti degli altri. E poi i giorni hanno iniziato a scorrere lenti, tutti uguali come gocce d’acqua che cadono da un rubinetto, inesorabilmente. Non avevo più sentito Anna. Una sorta di rifiuto mi aveva impedito di comporre il suo numero di telefono. Poi, quando la caposala mi ha comunicato che potevo tornare a Gubbio, l’ho chiamata di getto. “Ciao, sono io, come stai? Con oggi chiudo anch’io con Milano... Senti, ho ripensato alla tua proposta… Se non hai cambiato idea, farei un salto a Rimini volentieri. Ho pensato che sarebbe bello farsi delle lunghe passeggiate in riva al mare e bere un aperitivo guardando il tramonto.” Non mi aveva chiamato perché temeva fossi arrabbiato con lei, ma non aveva cambiato idea. “Ti aspetto a braccia aperte. E non perdere tempo a comprare un costume. Lo compreremo appena arrivi.” Il suo entusiasmo mi ha commosso. Mi ha fatto ricordare i primi giorni in cui ci eravamo conosciuti. Ero partito l’indomani mattina. Se non trovavo traffico, potevo essere lì per l’ora di pranzo.
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E così eccomi sulla Milano-Bologna, in direzione Rimini. L’ultima volta che avevo imboccato un’autostrada era stato per venire a Milano in piena pandemia. Quel nastro di cemento era completamente deserto così come gli autogrill dove sostavo per riposarmi. Se l’inverno aveva schiacciato il mio cielo sull’asfalto stringendomi la gola di paura, l’estate adesso spettinava i capelli alla tristezza, spingendomi ad essere felice. Davanti ad un piccolo ristorante sul mare c’era Anna ad aspettarmi. Vista da lontano sembrava più giovane. Ci siamo abbracciati in un groviglio di emozioni e non è stato facile iniziare a dirsi qualcosa. Era strano trovarsi in abiti civili, immersi in un paesaggio vacanziero, con l’eco dei gabbiani e delle onde che in Romagna scivolano sul bagnasciuga dolcemente. Era abbronzata. Io rispetto a lei sembravo un cadavere. In un tacito accordo ci eravamo detti di non affrontare il tema del “dopo”. Sapevamo che avrebbe portato discussioni o alla meglio amarezza. Mi aveva prenotato una camera in un piccolo hotel, senza pretese ma grazioso. Sarebbe stato il nostro nido nei giorni a seguire. Al mattino andavamo al mare poi un panino in spiaggia e quando il sole piegava i suoi raggi orizzontalmente, facevamo delle romantiche passeggiate. Mi sembrava di essere passato dall’inferno al paradiso sen-
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za neppure aver attraversato il purgatorio. Ero talmente abituato all’oscurità psicologica, climatica, geografica, che ora tutto mi inebriava. Un bimbo al luna-park che cercava di approfittare di ogni attimo. Se il giorno era un parco divertimenti, la notte era il respiro dell’amore. I corpi si muovevano in una danza passionale e gli sguardi erano intensi come accade in un tango che grida desiderio ma è schiavo di sentimenti tormentati. Eravamo sulla cima del nostro Everest. Compagni di cordata, reduci da un pericoloso cammino, legati a corda doppia. Le settimane condivise a Milano erano state la mia bombola d’ossigeno ed ora eravamo lì, sul tetto del mondo, stremati ma appagati. Potevamo dirci felici, potevamo dircelo. Ma non lo eravamo fino in fondo. Le stesse identiche note luttuose schiacciavano maldestramente i tasti della nostra armonia, d’improvviso, senza preavviso. Arrivava la stonatura e rovinava tutto. L’esperienza in ospedale durante l’emergenza ci aveva cambiati per sempre. A posteriori, oggi, posso dirvi che mi ha arricchito, mi ha reso più forte, ma ci è voluto parecchio tempo prima di riuscire a lavare l’anima dall’oppressione che ho assorbito a Milano. La settimana con Anna volgeva al termine e mia madre mi telefonava ogni giorno per sapere quando ci saremmo rivisti. Gli amici intasavano il cellulare di messaggi chiedendomi che fine avessi fatto.
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Avevo fatto la fine che volevo: fra le braccia di Anna. Il nostro romanzo aveva già l’epilogo scritto. Consapevoli entrambi, posso dire oggi che lo abbiamo vissuto con grande dignità. Saldato il conto dell’albergo, ci siamo dati un bacio delicato sulle labbra e sono partito. La forza di non piangere l’ho attinta dal desiderio di tornare alla mia Gubbio, alle mie origini. Di quella terra mi mancava tutto. Il colore delle colline, il profumo dei campi, il gusto della cucina casalinga, il dialetto degli anziani, le strade ripide da mancar il fiato, le campane che suonavano a messa. Mancavo a me stesso. Un senso di necessità, quasi urgenza, mi spingeva verso casa. “Lord, I was born a rambling’ man. Tryin’ to make a livin’ and doin the best I can. When it’s time for leavin’ I hope you understand that I was born a ramblin’ man.” Gli Allman Brothers Band l’avevano scritta per me questa canzone? Ramblin’ man. Questo ero: un vagabondo. Se lasciare Gubbio aveva siglato l’inizio di un’incredibile avventura, tornarci lo era altrettanto. Dopo sei mesi, avrei dovuto riprendere la gestione del B&B e mi sembrava di aver dimenticato tutto. Non c’era tempo per riposare, l’estate era già cominciata e non volevo perdere l’occasione di ospitare i tanti turisti che avrebbero scelto l’Italia come meta per le vacanze.
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Ricominciava una nuova avventura. Mia madre mi aspettava al cancello di casa. Non voglio nemmeno immaginare da quante ore fosse lì. Bagnando le piante ed accarezzando i gatti che le sfioravano la gonna. “Eccomi qui.” L’abbraccio della madre al soldato, al manager, allo studente, al direttore della struttura turistica, al figlio, all’uomo, al titano e al cucciolo spaventato. Quanti ritorni avevo vissuto ed ognuno di essi indossando vite nuove. Ma ero sempre io. L’infermiere rock. E non importa se non indosserò mai più il camice; non sto parlando di divisa, parlo di indole. I vestiti schiacciati in valigia sono finiti tutti in lavatrice, il regalo per mia madre nelle sue mani, io sotto ad una doccia calda e lunga a sufficienza per lavarmi di dosso il pensiero di Anna. Un capannello di vicini si era formato davanti al B&B. Erano curiosi ma soprattutto felici di ritrovarmi. Li ho salutati dalla finestra della camera e ci ho scambiato due chiacchere. Non smettevano di farmi domande su Milano, sulla struttura in cui operavo, sulla casa, com’era, se avevo fatto amicizia, se ero riuscito a cucinare la pasta alla norcina, se avevo trovato del buon vino delle nostre parti. Sebbene fossi cotto dalla stanchezza, mi spiaceva chiudergli la finestra in faccia.
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Una signora mi aveva fatto pervenire un friccò all’eugubina, una specie di spezzatino di carne la cui preparazione richiede molto tempo e bravura. La temperatura estiva non invogliava ad assaggiarlo ma era da così tanto tempo che non lo mangiavo che me lo sono divorato quella sera stessa. Quando mia madre è andata a dormire, ho iniziato a fare il giro di tutte le stanze del B&B. Mi si sono riempitigli occhi di lacrime. Da quanto tempo cercavo l’attimo giusto per sciogliermi in lacrime? Per quanti giorni avevo dovuto essere forte? Davanti a chi e cosa dovevo resistere? A volte si pensa che evitare di farsi vedere piangere sia una maniera per proteggere i nostri cari dallo sconforto, ma probabilmente proteggiamo noi stessi dalla paura di pensarci deboli. Solo che le lacrime non se ne vanno nel nulla. Rimangono aggrappate alla parete del cuore in attesa che qualcuno le liberi. Ed il cuore pesa, pesa sempre di più. Rischiamo di soffocarlo. Così finalmente ho pianto. Mi ero dimenticato quanto ci tenessi al progetto dell’accoglienza turistica. L’impresa che avevo affrontato assieme a mille paure su consiglio di Zio Raimondo. Ero affezionato ad ogni singolo mobile, suppellettile, alle tazzine della colazione, alle lenzuola, al libro degli ospiti, alle cartine stradali che omaggiavo ai clienti. Ero desideroso di ricominciare. Per fortuna avevo già diverse prenotazioni.
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L’estate era la libertà tanto agognata, era lo spazio fra l’inferno e il futuro. C’era un desiderio incredibile di leggerezza e di visitare i meravigliosi borghi della penisola. Finalmente gli italiani si accorgevano dell’Italia. Lo dico io, poi, che sono perdutamente innamorato dell’America. Eppure, in questi mesi di pandemia, abbiamo avuto la grande occasione di non darci per scontati, né noi né la nostra terra. Ma vi rendete conto che viviamo nel Paese con il maggior numero di siti patrimonio dell’Unesco? Se in Italia ne abbiamo 58, l’Umbria ne detiene ben 7. Assisi la Basilica di San Francesco, Gubbio il Palazzo dei Consoli e gli altri siti francescani e poi tutte le zone su cui transitarono i Longobardi lasciando tracce architettoniche e culturali fra la fine del 500 ed il 700. Il mattino dopo avevo già dei check-in da sbrigare. Una coppia di Milano. Lei sembrava avere qualche anno in più di lui che era francese. Ero felicissimo del loro arrivo. Milano la pandemia, ma anche Milano la metropoli. Milano un pezzo della vita mia. Lei aveva un accento decisamente lombardo mentre lui parlava faticosamente l’italiano. Quando ho detto loro che fino a pochi giorni prima ero stato nella sua città, la donna mi aveva tempestato di domande. Era una donna simpatica, milanese nei modi, fino all’osso. Il suo compagno stemperava
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quell’eleganza informale che solo i meneghini riescono ad indossare con nonchalance. Lui era originario della Bretagna, da sempre innamorato dell’Italia - sarà stato per questo che aveva finito per innamorarsi di un’italiana? Nel giro di qualche ora tutte le camere erano al completo. Il Don Gnocchi sembrava un ricordo ormai lontano. Facevo ancora su e giù dalle scale, ma era per dare una sistematina al giardino; e quanto correvo correvo a comperare il necessario per le colazioni.
LETTERA AI LETTORI Si chiude qui il racconto di un’esperienza incredibile che ho voluto condividere ripercorrendo la drammaticità della pandemia da covid 19 e portando un punto di vista diverso, quello di un infermiere ma anche di un imprenditore che ha scelto di lasciare la propria attività per affrontare il cambiamento e non subirlo. Gli studi per indossare il camice bianco hanno accompagnato la mia gioventù mentre l’università e gli approfondimenti a seguire mi hanno formato come manager. Di entrambe le esperienze ho saputo far tesoro, professionalmente e umanamente. Non ho mai voltato la schiena ai sacrifici, non ho mai avuto paura del nuovo ma soprattutto non ho mai guardato in una sola direzione. Questo è il consiglio che mi sentirei di dare ai giovani e a tutti coloro che si trovano davanti ad un ostacolo apparentemente insormontabile. Nessun muro sarà mai tanto alto da non trovare la via per scavalcarlo. Bisogna solo imparare a guardarlo da diverse prospettive. L’esperienza di Milano, quando la pandemia faceva più paura, avrebbe potuto paralizzarmi o avrei potuto evitarla, ma un infermiere che sente profondamente il valore della professione deve esserci proprio nel bisogno. Ora che sono tornato alla gestione del B & B, mi sento ancor più ricco e completo umanamente. Il manager è felicemente rientrato alla base, colmo di esperienze e di energie. La vita riserva incredibili sorprese. Opportunità, non ostacoli. Questo è il senso del libro. Questo è l’augurio che porgo a tutti voi.
Il bed and breakfast del quale ho scritto non è frutto della fantasia, ma il palcoscenico dei sogni che ho realizzato. È stato il campo che ho coltivato giorno per giorno superando lecite paure e dubbi. È stata la casa cui fare ritorno, la finestra sul futuro. Uno spazio per accogliere chiunque voglia immergersi nelle bellezze della mia terra.
Via del Bottagnone 36 06024 Gubbio
Finito di stampare nel mese di settembre 2021 presso Fotocomposizione TPM S.a.s. Città di Castello (PG)