Connessioni 1. primavera 2012

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CONNESSIONI per la lotta di classe

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E ditoriale I wear the black for the poor and the beaten down, Livin' in the hopeless, hungry side of town, I wear it for the prisoner who has long paid for his crime, But is there because he's a victim of the times. Johnny Cash, Man in black, 1971 Connessioni non vuole convincere, non vuole guidare, ma provare attraverso un’attività collettiva a indicare le dinamiche della crisi e della lotta di classe. Non pensiamo di eseguire queste indicazioni in nome della classe, ma semplicemente partecipare a questa dinamica di classe: l’emancipazione dei proletari sarà opera dei proletari stessi. Connessioni vuole connettere, inchieste, analisi, passioni tese alla critica dell’economia politica e della politica stessa. Gli attuali processi di crisi ci permettono di sognare: sogni che sono la raffigurazione di una realtà più profonda. Gli attuali processi di crisi ampliano una dinamica di de-integrazione di classe, che offre una possibilità importante di rottura con la politica e con tutto l’armamentario della sinistra. Di fronte a chi si strappa le vesti per la crisi, noi salutiamo questi processi come un’occasione. Se la lotta di classe è stata combattuta sul terreno dell’economia politica, muovendosi all’interno dei rapporti di produzione capitalistici, oggi può rompere quel meccanismo, superando quel confine, distruggendo la relazione capitale-proletari e perciò anche l’economia politica. Il numero che presentiamo è di fatto monografico, oltre al nostro contributo sulle interpretazioni della crisi, pubblichiamo un saggio di Antonio Pagliarone, di Anwar Shaikh e di Perspective Internationaliste, che pur con approcci diversi, e tra loro discordanti, riteniamo utili contributi per comprendere le attuali dinamiche della crisi. Segue un saggio sul lavoro improduttivo di Visconte Grisi e una recensione al libro di Beverly J. Silver, Le forze del lavoro. I materiali non firmati sono scritti dai compagni/e della redazione, ma non hanno la pretesa di essere organici e definitivi, vanno quindi letti come dei semi-lavorati e con questo metodo pensiamo di proseguire la nostra attività e ricercare nuove connessioni. Redazione Connessioni

Sommario Interpretazione della crisi Lavoro improduttivo e crisi del capitalismo, di Visconte Grisi La più grande depressione del XXI secolo, di Anwar Shaikh La più grande depressione della storia?, di Antonio Pagliarone Penuria artificiale in un mondo di sovrepproduzione, di Perspective Internationaliste Recensione “Le forze del lavoro” di Beverly J. Silver

connessionic@yahoo.it http://connessioni-connessioni.blogspot.it/ http://connessioniedizioni.blogspot.it/

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Interpretazioni della crisi

“In quanto che il denaro, più ne circola, più chi ne è senza spera” Marcovaldo al supermarket Italo Calvino, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città

Oggi la parola crisi è sulla bocca di tutti. Cercheremo tuttavia di non cadere in un inconsistente immediatismo, ma di cogliere la dinamica del processo di crisi. Il tentativo di questo articolo è di analizzare le dinamiche che ruotano attorno a due possibili interpretazioni della crisi: quella di una stagnazione/parassitismo e quella di una ristrutturazione nella ristrutturazione; e se esiste una relazione tra questi aspetti. Abbiamo deciso di analizzare comunque soltanto gli approcci che si pongono sul terreno della critica dell’economia politica, in quanto inseriti in una visione dinamica dei processi del capitale, rifiutando l’approccio economico-politico, ossia quello “keynesiano” o “neokeynesiano” e quello liberale “neoclassico”. La “teoria del mercato”, come teoria dell’equilibrio (della mano invisibile) in cui l’offerta determina la domanda e viceversa, al di là dei diversi adeguamenti, rimane il mito teorico egemone. Ambedue (keynesiano e neoclassico), anche se in forme diverse, rimangono legate a una visione in cui la produzione è legata al consumo, con la conseguenza che domanda e offerta finiscono per eguagliarsi nel mercato. Se la teoria neoclassica dell’utilità marginale si regge su fondamenti psicologici, quella keynesiana non fa che riprendere la vecchia teoria del mercato, con l’unica differenza di considerare inefficace l’azione d’equilibrio che agisce spontaneamente concependo invece un equilibrio stabilito consapevolmente allo scopo di dare soluzione alla crisi. In questo senso sia la teoria neoclassica che quella keynesiana sono teorie statiche fondate su un immaginario meccanismo di equilibrio. Bisogna ricordare che i limiti di queste ipotesi si manifestarono dentro precisi contesti sociali legati alla crisi: l’abbandono delle teorie neoclassiche con il crollo del 1929 e la messa in discussione delle teorie keynesiane con la crisi, che si è verificata alla

metà degli anni Settanta. Dobbiamo comunque ringraziare una serie di autori e gruppi di cui siamo debitori (tra questi ad esempio ricordiamo per l’Italia la rivista Plusvalore uscita tra gli anni 80-90), che in questi anni – pur nella loro estrema solitudine e osteggiati dalla sinistra ufficiale e alternativa – hanno continuato ad analizzare la dinamica della crisi. La stessa crisi dei primi anni Settanta veniva ricondotta al modello marxiano, fondato sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, piuttosto che sulla tesi dell’aumento del prezzo del greggio imposto dall’OPEC. Questi autori nei loro studi hanno di fatto smontato le diverse teorie basate sulla manifestazione ciclica di uno squilibrio fra domanda e offerta, sul sottoconsumo così come hanno evidenziato i limiti dell’ipotesi keynesiana, incentrata sull’eccessivo tasso d’inflazione, conseguenza, piuttosto che causa della crisi. Ma prima vogliamo introdurre un aspetto che riteniamo importante e indispensabile come premessa alle diverse interpretazioni che illustreremo: la storicità del sistema capitalistico. Inoltre vogliamo provare a sintetizzare quanto più possibile il contenuto di alcune categorie che spesso ricorrono nella letteratura di sinistra rispetto alla crisi. Infine arriveremo direttamente alla disamina delle interpretazioni della crisi da quelle legate alla stagnazione/parassitismo a quelle che privilegiano la dinamica della ristrutturazione. Storicizzare il capitalismo Il capitalismo dev’essere considerato nel suo carattere storico, come l’insieme specifico di una fase dell’umanità. Esiste uno sviluppo dialettico delle forze produttive creato dal capitalismo stesso. La loro accumulazione e concentrazione appa1


rentemente illimitata, è in realtà un limite al capitalismo ma al tempo stesso la continuità del capitale presuppone l’accumulazione. La lotta di classe può influire su di essa, ma non sopprimerla. Un capitale che non accumula implica uno stato di crisi, che porta a una situazione rivoluzionaria oppure – attraverso modificazioni dei rapporti tra capitale e lavoratori, ovvero tra valore e plusvalore – conduce a una nuova fase di accumulazione. La coazione ad accumulare non esclude periodi di stagnazione, ma questi devono essere superati, se il capitale non vuole trovare la sua fine nelle lotte sociali. Le crisi sono endemiche al capitalismo: esiste il loro susseguirsi, questo non va letto tuttavia come un moto oscillatorio perenne, ma piuttosto dentro un sistema storico preciso. Queste dinamiche sono presenti nel sistema come tendenza oggettiva del suo sviluppo e si concretizzano in forze soggettive che si oppongono ad esso come reazione antagonistica costituita dalle forze dominate: la lotta di classe. Proprio perché nella società moderna non sono la scienza e la tecnologia ma è il capitale a rappresentare le forze produttive e i loro limiti storici, la rivoluzione proletaria – intesa come rottura radicale in cui si distrugge la relazione tra capitale e lavoratori e perciò la stessa economia politica – può distruggere i rapporti di produzione capitalista, e rappresenta la più grande delle forze produttive. Un tentativo di approccio di successione delle fasi storiche dell’umanità fu sintetizzato da Amadeo Bordiga (1). Le periodizzazioni storiche sono sempre un metodo di approssimazione, l’incasellamento della realtà scivola verso un metodo idealistico, tuttavia per agilità di esposizione e per necessità di analisi riteniamo utile riprendere l’interpretazione di Bordiga.

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Leggiamo questa schematizzazione simbolica visiva come una possibile successione delle forme storiche (1. feudalesimo, 2. capitalismo, 3.comunismo), come successione temporale di diverse forme di produzione sulle ascisse in cui le cuspidi rappresentano la rottura rivoluzionaria e il passaggio da una fase all’altra e sull'asse delle ordinate troviamo le forze produttive, col comunismo interviene una variazione qualitativa delle stesse e una variazione del loro ritmo di accrescimento, come si evince dalla minore pendenza del grafico. La stessa tecnologia diviene tecnica, il lavoro diviene attività, cosi come l’economia – forza esterna che controlla l’uomo – viene annullata dall’uomo nel comunismo, dalla stessa comunità umana, che inizia a vivere consapevolmente i propri bisogni. Il comunismo apparentemente è un sistema quanto il capitalismo, ma dove questo non è al di sopra degli uomini ma è degli uomini stessi. La crisi e i suoi effetti sociali sono la condizione primaria per individuare la rottura radicale con il capitale stesso e l’evoluzione da una forma all’altra di produzione, senza confonderli con la lotta per la democraticizzazione e l’equità sociale, dimensione propria di ogni società antagonistica. Apparentemente tale approccio potrebbe essere visto come fatalistico, in realtà lo leggiamo come combinazione di tre elementi precisi dinamici e non statici che agiscono contemporaneamente: «La caratteristica fondamentale dello storicismo di Marx ed il tratto che lo distingue dai suoi predecessori non è la teoria della successione storica dei sistemi economici ma una teoria particolare che oltre ai cambiamenti evolutivi entro un sistema dato spiega le condizioni oggettive e soggettive necessarie alla transizione da un sistema all’altro: per dirla in breve, il fatto che nell’economia presente nasca e si sviluppi una nuova forma economica, che queste entrano in conflitto sempre più violento fra di loro e che attraverso la rivoluzione violenta del conflitto alla fine subentra la nuova economia. All’interno di questa teoria generale si articolano poi tre teorie particolari: 1. la teoria di una “dinamica sociale universale” dei cambiamenti strutturali della società valida per tutte le società “antagoniste”; 2. la teoria delle tendenze oggettive dello sviluppo del capitalismo; 3. la teoria delle cause soggettive dei cambiamenti, cioè la teoria della lotta di classe. La secon-


da diversamente dalle altre due tratta solo del particolare fenomeno storico della trasformazione dal capitalismo al socialismo». Henryk Grossmann, La reazione evoluzionistica contro l’economia classica, (2) Questo approccio cosi descritto, pur nella sua estrema schematicità, rappresenta dal nostro punto di vista, una possibile sintesi per illustrare la storicità/evoluzione dei sistemi. Riprendere il filo del discorso L’esame delle tendenze oggettive dello sviluppo/crisi del capitalismo è stata sempre un punto fermo delle vecchie correnti radicali europee che vedevano interconnesso lo sviluppo/crisi del capitalismo con la lotta di classe stessa per il sorpassamento del sistema capitalista. Pur rischiando di fare dell’archeologia, non possiamo fare a meno di partire da chi pose per primo al centro questa interpretazione dello sviluppo capitalista. La vecchia ala radicale della socialdemocrazia tedesca (il movimento all’epoca più sviluppato e potente sotto il profilo organizzativo) a cavallo tra Ottocento e Novecento, comprese che se non esisteva la necessità oggettiva della rivoluzione, non poteva esservi nemmeno la disposizione soggettiva a farla. Non bastava contrapporsi al riformismo, si doveva invece negare che questa pratica potesse avere successo, dimostrando che come in passato le contraddizioni interne del sistema lo avrebbero portato alla distruzione. Non è nostra intenzione ricalcare il dibattito scaturito in quell’epoca che vide in Rosa Luxemburg una delle più accese paladine di questa tesi. Il suo testo, L’accumulazione del capitale, del 1913 (Einaudi, 1980, Torino), scatenò le ire dei socialdemocratici mettendo in discussione l’evoluzione pacifica del capitalismo e criticando anche gli stessi postulati della teoria marxista. Più tardi diversi autori delle correnti radicali e non, si proposero di dedurre dalla teoria marxista la stessa convinzione luxemburghiana della fine inevitabile del capitalismo, una convinzione che secondo Rosa Luxemburg nella teoria marxista era solo accennata e non sviluppata. Henryk Grossmann fu uno di quegli autori, ma non l’unico, nel campo radicale di sinistra, che mostrò che benché l'elaborazione della Luxemburg travisasse alcuni aspetti del pensiero di Marx, era comunque giusta rispetto alle critiche ai socialdemocratici. Per Grossmann,

così come per Marx, le difficoltà e i limiti stessi del capitalismo risiedevano sul piano teorico e pratico nei rapporti di produzione capitalistici, mentre per la Luxemburg la causa della necessità concreta della crisi non risiedeva nella produzione di profitto, bensì nella sua realizzazione sul mercato. All’interno delle relazioni tra capitale e lavoro salariato, a suo avviso il plusvalore non potrebbe venir realizzato appieno. A questo fine era invece indispensabile che esistesse un mondo non capitalistico. Con la progressiva trasformazione del mondo in senso capitalistico, sarebbe venuta meno anche la possibilità di un’ininterrotta accumulazione di capitale. Per la Luxemburg questa teoria spiegava il carattere imperialistico della concorrenza capitalista. Per Marx, invece, il problema della circolazione non era separato da quello della produzione, cosicché le difficoltà della produzione di capitale si presentavano anche nella forma di difficoltà di realizzazione di plusvalore. Ma anche supponendo che non esistesse un problema di realizzazione, le contraddizioni che risultano dai rapporti di produzione continuano a sussistere, cosicché il carattere necessario della crisi e la fine storica del capitalismo sono già insiti nei rapporti di produzione stessi. Tuttavia, indipendentemente dai limiti, l’impostazione luxemburghiana metteva al centro la dimensione storica del capitalismo e il rapporto con il processo rivoluzionario, dando un significato storico del modello di produzione capitalista in rapporto al socialismo. S’iniziava già a cogliere l’importanza dei meccanismi de-integrativi del capitalismo per individuare il punto di rottura. L’impetuosa crescita del movimento operaio (con l’aumento della sua forza organizzativa) era vista già dentro un meccanismo integratore al capitale stesso. Non è un caso che le correnti radicali sviluppatesi dopo la fine della Prima Guerra mondiale romperanno verticalmente, pur con approcci diversi, con il vecchio movimento operaio (3). È in questo modo che Paul Mattick (4) descriveva il vecchio movimento operaio nell’articolo Socialismo del capitale e autonomia operaia del 1939: “È ormai quasi diventato un luogo comune descrivere le incoerenze del movimento operaio come una drammatica contraddizione tra mezzi e fini. Eppure una tale incoerenza non esiste affatto. Il “socialismo” non è mai stato il “fine” del vecchio movimento operaio ma, piuttosto, un semplice termine di copertura per un obiettivo completamente diverso: la conquista, cioè del potere politico come strumento per la partecipazione al sur3


plus creato in una società basata sulla divisione tra classi dominanti e classi dominate. Questo era il fine che, a sua volta, ha determinato i mezzi. […] Nella società capitalista la contraddizione tra mezzi e fini è solo apparente e, in realtà, serve solo a coprire una pratica concreta non del tutto disarmonica con quello che si propone. Per eliminare l’apparente incoerenza basta scoprire qual è il fine reale che sta dietro a quello ideologico. Per fare un esempio pratico: se uno crede che i sindacati considerano lo sciopero come un mezzo per ridurre i profitti ed innalzare i salari, sarà sorpreso di scoprire che essi, quanto più potenti erano e quanto più necessari si ponevano gli aumenti salariali, tanto più riluttanti si sono mostrati ad usare lo strumento dello sciopero per il raggiungimento dei loro obiettivi, ripiegando, invece su mezzi meno appropriati ai fini che si ponevano, come, ad esempio, l’arbitrato e le trattative governative” http://connessioniconnessioni.blogspot.it/2011/1 1/socialismo-del-capitale-e-autonomia.html. Alcuni nodi delle vecchie correnti radicali Si iniziava a mettere in crisi la supposta dialettica tra riforme e rivoluzione – la lotta quotidiana per richieste immediate che si trasforma in lotta contro il sistema – vedendo come questa dinamica non portava a una crescita evidente della coscienza di classe rivoluzionaria. Le aspettative di Marx sugli effetti rivoluzionari dell’accumulazione di capitale sulla coscienza della classe si erano rilevate erronee, per lo meno nella fase di ascesa dello sviluppo capitalista. Andava visto e (va visto) se questa dinamica in realtà trovi invece conferma entro la crisi dello sviluppo capitalista. La teoria della crisi del capitalismo esplicitata prevalentemente nel III libro del Capitale da Marx deduceva l’aumento della miseria nel corso dell’accumulazione capitalista, e su queste basi le vecchie correnti radicali prendevano le mosse per mettere al centro la necessità della rottura rivoluzionaria (5), cogliendo la diversità tra le diverse fasi di accumulazione. Non è un caso che l’efficacia di queste correnti fu rigidamente legata a fasi di crisi, dove i meccanismi de-integratori producevano rotture quantitative e qualitative importanti. Nate dopo la Prima Guerra mondiale e con una rinnovata vivacità nel 1929 (anche se non paragonabile a quella del biennio 1919-1920, ma altrettanto se non supe4

riore sotto il profilo dell’azione teorica) si dispersero in mille rivoli, rappresentando al di là di quello che dicevano di essere (partiti, associazioni etc.) dei gruppi o individui che cercavano di constatare la tendenza del capitalismo al crollo e dov’era possibile provando a coordinare l’attività dei lavoratori in questa direzione. Non deve quindi sorprendere che nelle fasi di lotta più o meno generalizzate (ma dentro un processo di accumulazione impetuosa, con il relativo processo d’integrazione capitalista) l’efficacia di tali correnti sia stato praticamente nullo (6). Questo approccio può essere superficialmente definito deterministico, ma in realtà cercava di leggere le fasi del capitalismo nel suo complesso non arrivando mai ad assolutizzare il rapporto che esiste tra crisi e rottura, ma provando a studiare la dinamica che intercorre: «Io volevo mostrare che la lotta di classe da sola non basta. Non basta la volontà di abbattere. Nelle fasi iniziali dello sviluppo capitalistico una simile volontà non può neppure sorgere. Essa sarebbe operante anche senza una situazione rivoluzionaria. Solo nelle fasi iniziali dello sviluppo sono date le condizioni oggettive che creano i presupposti di un intervento coronato da successo, vittorioso della classe. […] La mia teoria del crollo non mira a escludere questo intervento attivo, ma si propone piuttosto di mostrare in quali condizioni una tale situazione rivoluzionaria data oggettivamente possa sorgere e sorga». Lettera di H. Grosmmann, 1931, in H.Grossman, Marx, l’economia politica classica e il problema della dinamica, 1969, Laterza, Bari È tuttavia facile osservare come queste sinistre radicali (indipendentemente dalla specifica corrente da cui provenivano) fossero state fin da subito osteggiate da coloro che vedevano il livello di vita e le condizioni dei lavoratori migliorare se rapportate all’inizio, vedendo il sistema capitalista dentro una dimensione eterna, dove il ruolo della sinistra “concreta” era quello di ritornare ad un equilibrio, è su queste basi che il fascismo, il monopolismo liberale, ecc.. vennero letti e combattuti, in nome di un antifascismo e anti-liberismo che si traduceva nel mito dell’equilibrio democratico della società. Ma venivano rifiutate, queste correnti radicali, anche da chi poneva l’accento unicamente sull’antagonismo. La cosiddetta sinistra “antagonista” non coglieva le implicazioni del limite stesso del capitale per il suo superamento, arrivando quindi a concepire o un capitalismo collettivo o


una fuga da esso (le correnti primitiviste fanno la loro comparsa già all’inizio del secolo scorso), indipendentemente dagli approcci pacifici o violenti che si davano. Ciò che rimane oggi è il loro contributo teorico e le questioni poste all’epoca, proprio perché non risolte, si riversano con rinnovata potenza, e questo è l’unico interesse che abbiamo rispetto a questi specifici filoni interpretativi, senza nessun feticismo di corrente o partito, proprio perché riteniamo storicizzato l’apporto di queste correnti. La fine del post-moderno… La colonizzazione da parte del mercato e degli apparati statali della vita quotidiana aveva determinato una apparente e totalizzante immutabilità, che investiva la produzione e la riproduzione (servizi, struttura familiare, regole sociali). Non è un caso che negli ultimi quarant’anni le teorie post-moderne hanno sancito il modo di leggere il presente. In queste teorie coesistevano approcci diversi: dalla fine della storia e delle narrazioni possibili, alla via d’uscita con l’esodo. Non è superfluo ricordare che la stessa teoria postmoderna, nelle sue varianti radicali, parlando della fine della storia, implicitamente parlava anche della fine del capitalismo, ma tuttavia disegnando uno scenario post-capitalista che non riusciva a codificare, perché il sistema sebbene mutato rimaneva comunque il medesimo: il modo di produzione capitalista. Si arrivava a parlare di una nuova centralità, la cosiddetta produzione immateriale, ma questa stessa produzione di segni e linguaggi era ed è comunque rivolta in massima parte ad assicurare le condizioni della realizzazione del plusvalore incorporato nelle merci-oggetto. Si leggeva la dinamica sociale dentro un invariante antagonismo come teoria di una dinamica sociale universale dei cambiamenti strutturali della società valida per tutte le società antagoniste. Nelle varianti più radicali si accettava la stessa lotta di classe come causa soggettiva dei cambiamenti, ma praticamente il capitale era visto nella sua dimensione totalizzante. La critica postmoderna – sicuramente efficace contro il vecchio positivismo e modernismo, che aveva influenzato non poco lo stesso vecchio movimento operaio – rimaneva tuttavia una lettura dei comportamenti e non riusciva a cogliere l’essenza della dinamica capitalista. La sua vittoria sul modernismo era in realtà sempre dentro lo stesso modello di produ-

zione capitalista, incapace di legare in modo dialettico quei tre elementi sopra descritti da Grossmann: le dinamiche sociali universali dei cambiamenti strutturali valide per tutte le società “antagoniste”, le tendenze oggettive dello sviluppo del capitalismo e infine la lotta di classe. In questi ultimi anni con il manifestarsi della crisi nei suoi tratti empirci vi è una forte ripresa di studi tesi a decodificare il presente nei suoi molteplici aspetti. Prendendo per buona la stessa vulgata culturale dominante, si passa oggi da una fase “post-moderna” ad una “autentica” dove sono le dinamiche stesse delle crisi che ci portano ad osservare il corpo sotto pelle con la sua complessità di elementi interconnessi e il suo sviluppo. I meccanismi di de-integrazione sul piano sociale, con tratti quantitativi sempre maggiori, rendono estremamente attuali le critiche mosse in anni non sospetti al concetto di integrazione assoluta di classe, anticipazione di quello che si chiamò poi “post-moderno”. Rimangono quasi profetiche le considerazioni critiche di Paul Mattick al concetto di integrazione assoluta, da I limiti dell’integrazione, critica a Marcuse, 1972: «Il conformismo ideologico dipende dalle condizioni di benessere, da solo non ha possibilità di esistere. […] Poiché non esistono “soluzioni economiche” alle contraddizioni del capitalismo, i suoi aspetti distruttivi vanno assumendo un carattere sempre più violento; all’interno, attraverso una produzione di spreco sempre più intensa; all’esterno, seminando distruzioni in quei territori dove la popolazione rifiuta di sottomettersi alle esigenze del profitto del capitale straniero, che segnerebbe la loro definitiva rovina. Mentre la miseria generale aumenterà, anche le situazioni particolari di “opulenza” svaniranno, e i benefici della crescete produttività verranno dissipati in una feroce competizione per i profitti in declino della produzione mondiale. Poiché la classe lavoratrice è la classe che più di ogni altra risentirà di un rovesciamento delle fortune della produzione del capitale, o delle avventure belliche del capitalismo, molto probabilmente sarà la prima a insorgere contro l’ideologia unidimensionale del dominio capitalistico» http://connessioni-connessioni.blogspot.it /search/label/P.Mattick Il mito della finanza L’enorme massa di capitali posti all’interno della finanza è l’emblema del sistema capitalistico in 5


crisi che accentua i suoi tratti parassitari nei confronti del pianeta stesso. Se analizziamo lo scambio capitalistico Denaro-Merce-Denaro’ (con Denaro’>Denaro), esso può presentarsi in tre modi: 1) come capitale commerciale con cui si comprano merci a buon mercato per rivenderle più care. Giusto uno scambio a valori non equivalenti (quello che uno guadagna, l’altro lo perde): D<M<D’; 2) come capitale industriale con cui si comperano mezzi di produzione e forza-lavoro per produrre merci poi vendute ad un valore superiore del valore anticipato per l’aggiunta del plusvalore ottenuto mediante lo sfruttamento del lavoro salariato: D=M... Produzione...M’=D’; 3) come capitale finanziario, con cui si presta denaro per riceverlo alla scadenza, senza nemmeno bisogno di transitare per le merci, maggiorati dell’interesse, così che lo scambio è di nuovo a valori non equivalenti: D<D’. Come si vede è soltanto il capitale industriale a rispettare la regola dell’equivalenza degli scambi, il che vuol dire che entrambe le parti implicate ci guadagnano perchè nuova ricchezza è creata, mentre nel capitale commerciale e finanziario si scambia appena la ricchezza esistente. Questa breve lettura delle formulette ci fa capire che se la redditività cade nei settori produttivi, il capitale emigra nei settori finanziari dove maggiori profitti possono essere realizzati, ma questo movimento alimenta la bolla speculativa e alla fine la crisi finanziaria. Quindi l’origine della crisi finanziaria si trova nella sfera produttiva, rendendo interconnesso il rapporto tra finanza e produzione, ma al tempo stesso accentuando proprio i tratti della crisi sistemica. I precedenti schemi ci servono a chiarire un punto fondamentale, non esiste una economia buona e una economia cattiva, industriali buoni e finanzieri cattivi, cosi come non esiste accumulazione senza la stessa produzione, il mito di un capitalismo senza contraddizioni, superate con la fine della produzione, il denaro che generava denaro all’infinito, trova invece le sue contraddizioni primarie dentro la logica stessa del suo modo di funzionare e nell’essenza del suo processo. Come vedremo più avanti, su questo punto le interpretazioni legate alla stagnazione economica/spirale finanziaria divergono con quelle legate al concetto di ristrutturazione continua del capitale, anche se sul piano dei fenomeni che si innestano vi è una relativa convergenza. 6

La percezione della miseria Per Marx, l’aumento della miseria non era dovuto alla crescita dello sfruttamento ma ai limiti stabiliti dal carattere della produzione capitalista. Il sistema del lavoro salariato è, in fondo un sistema di schiavitù, e di una schiavitù che diventa sempre più dura man mano che le forze produttive sociali del lavoro si sviluppano, tanto se l’operaio è pagato meglio, quanto se è pagato peggio. L’aumento dello sfruttamento della gran massa dei lavoratori – che non ha un rapporto particolare con il loro standard di vita e con le condizioni di lavoro – provoca un aumento del capitale, ma allo stesso tempo riduce la sua componente variabile, cosi diminuiscono le possibilità di un’ulteriore accumulazione. L’esercito industriale di riserva aumenta con la crescita dei lavoratori ed entrambi provocano una diminuzione o stabilizzazione dei salari. Così, durante i lunghi periodi di depressione, la disoccupazione diviene il problema principale per il potere spingendo la borghesia a modificare la legge generale di accumulazione. Prendendo in esame sia i periodi positivi sia quelli negativi è evidente che il rapporto tra i disoccupati e i lavoratori occupati aumenta con l’accumulazione di capitale che porta al declino del capitale variabile rispetto al capitale totale. Quando il prezzo della forza-lavoro varia, col mutamento delle condizioni storiche, il suo valore, che comprende un numero maggiore o minore di beni, allora un aumento della miseria assume un carattere storico e rappresenta diverse condizioni di esistenza a seconda delle circostanze. La miseria non può essere definita con un criterio assoluto, ma solo come un impoverimento riferito ai modelli di vita consueti. Non esiste il povero, o meglio non esiste se non in relazione ad un’altra condizione (escluso ovviamente il totale insoddisfacimento dei bisogni biologici elementari dell’uomo) quindi ciò che conta è la percezione della miseria. I bisogni (psicologici, biologici, sociali) dell’uomo, e volendo specificare del proletariato, da soli non hanno la capacità di rompere con il capitalismo, perché possono essere legati al feticismo della merce che sussume ogni cosa, meccanismo proprio del processo di integrazione del capitale, mentre è proprio la de-integrazione prodotta dal capitale che permette a questi bisogni di assumere un portato di rottura. La condizione di miseria crescente può essere stata provocata da coloro che ne sono soggetti e non da una qualche misura oggettiva che gli indi-


vidui sono in grado di sopportare. In tal senso le diverse modificazioni attuate contro la legge generale dell’accumulazione capitalista non prevengono l’aumento della miseria. Mentre il modo di produzione capitalista diviene sempre più generalizzato, non riesce ad assorbire la stessa quantità di forza-lavoro che ha utilizzato nei primi stadi del suo sviluppo creando un meccanismo di deintegrazione. La dinamica del capitale Il capitalismo non è un sistema chiuso con una popolazione lavoratrice costante, poiché l’espansione stessa del capitale presuppone un aumento della produttività accompagnato dall’aumento assoluto di lavoratori salariati. Il loro declino rispetto all’aumento di capitale non può essere percepibile, eccetto che nella formazione dell’esercito industriale di riserva, e il saggio di profitto può quindi rimanere invariato o addirittura aumentare con la crescita della composizione organica (7). La legge dell’accumulazione, la caduta tendenziale del saggio di profitto (8) è quindi una mera tendenza interna al processo di accumulazione, ma tale tendenza è reale, in quanto opera la legge del valore (9) anche se non è percettibile nei rapporti di prezzo sul mercato. Infatti la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto è un altro modo per esprimere la teoria del valore lavoro di Marx. La teoria del valore lavoro viene convalidata nelle crisi del capitale attraverso il calo dei profitti. Tale calo e la periodicità delle crisi possono essere soltanto spiegate in termini di discrepanza tra i profitti prodotti in un determinato momento e quelli necessari per un’ulteriore profittevole espansione di capitale. Le crisi quindi implicano una diminuzione della profittabilità, smantellamenti piuttosto che investimenti, una distruzione di capitale su larga scala e una disoccupazione di massa. Per Marx non esiste una legge economica in sé, anche se il processo di produzione e di riproduzione, in ogni tempo e in ogni circostanza, non è solamente un rapporto sociale ma anche un rapporto metabolico tra l’uomo e la natura. Quest’ultimo aspetto costituisce una necessità naturale e non una legge economica. Quando si parla di leggi economiche ci si riferisce alle misure adottate dall’uomo (i rapporti di produzione) che governano (finché durano) uno specifico modo di produzione, ma che non vengono applicate in circostanze diverse. La legge della caduta tendenzia-

le del saggio di profitto non è altro che la legge dell’espansione capitalista ed è tale solo finché la produzione di valore determina il processo di produzione. In queste condizioni la sottomissione di classe ai rapporti di sfruttamento è totalmente mistificata da apparire essa stessa come legge economica immutabile, che regola la società come se fosse una legge naturale, mentre in realtà non è altro che un sistema di rapporti di produzione mutabile e storicamente limitato. Poiché la produzione capitalistica è produzione di capitale attraverso la produzione di merci, una carenza di nuovi investimenti può essere causata solo dal timore che essi non possano produrre profitto e quindi siano senza senso. Questo timore non è di natura psicologica, ma deriva direttamente dal fatto che il saggio di profitto del capitale in attività mostra già una forte tendenza al declino. La ragione di tale declino non è visibile, per questo ha a che fare con il capitale preso nel suo insieme, attraverso il rapporto tra la massa totale di plusvalore e il capitale totale. Pur non essendo visibile influisce su tutti i singoli capitali (benché a vari livelli) e condiziona le decisioni individuali sulle politiche d’investimento. La caduta del saggio di profitto precede il declino, o l’arresto, dell’accumulazione che risulta essere la manifestazione evidente della caduta del saggio di profitto intrinseca al capitale. La caduta del saggio di profitto è il segnale dell’interruzione della spirale di squilibrio della produzione capitalista, come condizione necessaria per continuare lo sviluppo. Senza la ripresa del processo di accumulazione, la ragione d’essere della produzione capitalista cessa. Quindi è nelle reazioni assunte dai capitalisti di fronte al declino della profittabilità che la teoria dell’accumulazione/crisi di Marx trova il suo senso. Queste reazioni, qualsiasi siano le conseguenze, hanno solo un proposito: l’aumento del plusvalore attraverso un ulteriore aumento della produttività del lavoro, per il recupero della profittabilità del capitale in espansione. Questa è ed è sempre stata, l’unica soluzione adottata dai capitalisti per superare un periodo di declino dell’economia anche se questa accumulazione fine a se stessa rimane indifferente alle conseguenze sociali che comporta, provocando la possibile attivazione dei de-integrati. Qui il peso quantitativo della popolazione de-integrata può assumere un carattere qualitativo inedito. Gli strati poveri nelle economie moderne, pur essendo stati cospicue minoranze, erano sempre minoranze, per cui la loro opposizione rimaneva ine7


spressa. Non potevano diventare una forza sociale abbastanza solida per opporsi agli interessi particolaristici rappresentati dalla ideologia dominante. Il dualismo della crisi Nel cercare di capire le cause e le conseguenze della crisi, che nel 2007/2008 ha portato quasi al collasso il sistema bancario e finanziario delle maggiori economie mondiali, ci siamo rivolti alle pubblicazioni prodotte da alcuni gruppi e studiosi di riferimento marxista (10). Trattandosi dell’analisi di una realtà che, per quanto complessa, trova validi momenti di sintesi nella teoria marxiana del valore, molto del materiale analizzato è concorde nel riconoscere come rilevanti alcune determinazioni concrete del capitalismo contemporaneo. Per cui molte delle differenze riscontrate fra le diverse analisi sono, secondo noi, riferibili ad un maggior risalto dato ad alcuni aspetti piuttosto che ad altri. Ulteriori conferme o smentite teoriche dei diversi studi messi in atto potranno evolvere solo dall’analisi di eventi futuri, mentre la capacità di un movimento di classe di emergere dallo stato attuale di crisi non può essere confinato alla esclusiva analisi economica che ci siamo prefissi di privilegiare in questo articolo. Del resto non è “possibile far risalire la crisi ad avvenimenti ‹puramente economici›, pur essendo essa ‹puramente economica›, cioè pur scaturendo da rapporti sociali di produzione rivestiti di forme economiche. La lotta della concorrenza internazionale condotta anche con mezzi politici e militari influenza lo sviluppo economico, come questo a sua volta struttura le diverse forme della concorrenza. Ogni crisi reale può quindi essere compresa soltanto nel contesto dello sviluppo sociale complessivo” P. Mattick, Crisi e teorie della crisi, 1979, Dedalo, Bari. Anche se i rapporti sociali di produzione ne sono alla base, per la comprensione delle cause specifiche di ogni crisi è necessario cogliere il loro nesso nel concreto divenire storico. La teoria del valore di Marx rende possibile, tramite l’astrazione, la definizione delle contraddizioni del capitalismo presenti fin dal suo sorgere. Permettendo di cogliere l’essenza del fenomeno economico, essa apre la possibilità di delineare il funzionamento interno del processo di accumulazione del capitale, che conduce alla sua espansione, ma anche al suo arresto e alla crisi. Questa com8

prensione teorica della crisi supera i limiti della descrizione empirica e permette di formulare la conclusione logica del superamento del capitalismo. L’impossibilità per il capitale di espandere la produzione di merci, l’accumulazione e la valorizzazione al di là dei limiti rinvenuti da Marx e sintetizzati nella legge della caduta tendenziale del saggio di profitto conduce alla crisi economica. La legge permette anche di affermare che i rapporti sociali di produzione saranno necessariamente sovvertiti mostrandone i limiti e le contraddizioni profonde. Tuttavia la comprensione teorica della crisi come rottura rivoluzionaria, non è immediatamente sovrapponibile al concreto processo storico del suo dispiegarsi (11). La crisi rappresenta una condizione necessaria dell’accumulazione del capitale che, espandendosi, pone le basi per una crisi da cui scaturiscono le condizioni per un ulteriore processo di accumulazione. In questo senso la crisi è del tutto fisiologica alla prosecuzione dell’accumulazione, anche se comporta forti tensioni sociali. In linea molto generale si può vedere questo processo come la possibilità offerta al capitale di amplificare le cause antagoniste alla caduta del saggio del profitto. Il capitale ne esce vivificato e con un nuovo impulso all’accumulazione perché ha subito una svalutazione e perché ha messo in atto processi innovativi e di ristrutturazione, che permettono un maggior saggio di plusvalore. Il succedersi di espansione e crisi non è il succedersi di un normale stato dell’economia turbato dalla crisi come stato di malattia. Non è possibile definire la crisi come disfunzione dei mercati o della produzione, essa ha la funzione principale di ridare slancio all’economia capitalista. Allo stesso tempo essa è il pieno manifestarsi delle contraddizioni di quest’ultima che arrestano immancabilmente il processo di crescita di profitti o profitti e salari. Il limite della produzione capitalista si estende oltre la necessità del capitale di accumularsi, cioè di produrre plusvalore, comprendendo anche l’impossibilità del soddisfacimento dei bisogni sociali. “Non si tratta della possibilità o impossibilità di una accumulazione continua ‹bensì di un crescente e ineluttabile processo dialettico di perturbazioni, contraddizioni e crisi-non di un’impossibilità assoluta, puramente economica, dell’accumula-zione, bensì della costante interazione tra superamento della crisi e sua riproduzione a un livello più elevato finché lo schema


non salta in aria ad opera del proletariato›” P. Mattick, Crisi e teorie della crisi, 1979, Dedalo, Bari. Il verificarsi di una crisi ha quindi potenzialmente in sé sia la ripresa dell’accumulazione sia la messa in discussione dei rapporti sociali di produzione. Come specificheremo più avanti, la diversa interpretazione della ristrutturazione seguita agli anni settanta come ristrutturazione pienamente in grado di riprendere adeguati saggi di plusvalore o come continuazione della stagnazione del capitalismo che giunge fino ad oggi, scaturisce dalla duplice natura della crisi come limite del capitale o come suo momento catartico. Ma nel capitalismo sviluppato “non è detto che non possa esservi uno stato –permanente- di crisi” (ibidem) non come eternità ma come antitesi alla crisi temporanea. Aspetti della crisi Gli eventi che hanno caratterizzato la crisi finanziaria del 2007/2008 sono stati descritti in molte pubblicazioni e sono noti. I tentativi di spiegare le cause della trasformazione della ‘great moderation’ in un quasi collasso del sistema bancario e finanziario, hanno mostrato i limiti della teoria economica borghese che si è concentrata sugli errori dei “manovratori” istituzionali e di mercato, o sulla critica quasi moralistica condotta dal Keynesismo di sinistra alle politiche neoliberali e alla cosiddetta finanziarizzazione dell’economia. Il tentativo di confinare la spiegazione della crisi all’instabilità generata all’interno del settore bancario e finanziario è destinato a fallire perché “il settore finanziario non è ne una sfera autonoma indipendente dalla ‘economia reale’, ne una semplice espressione della accumulazione reale del capitale. Esiste una complessa interrelazione fra l’accumulazione del capitale monetario e l’accumulazione del capitale reale”(12). Anche se più autori evidenziano i limiti della teoria monetaria e del credito dell’analisi di Marx, non siamo riusciti a cogliere un’elaborazione coerente e complessiva di una teoria che porti al superamento di questi limiti. Se però consideriamo la teoria della moneta di Marx, appare evidente che essa non scaturisce dalla costruzione astratta di un modello concepito a priori, ma dalla analisi concreta del processo storico della nascita della moneta e di come le funzioni che essa svolge nel modo di produzione capitalistico siano ad esso

specifiche. Le diverse funzioni del processo di accumulazione, produzione circolazione e credito, pur trovando nella teoria del valore marxiana una sintesi generale e universale per il capitalismo, richiedono un continuo riferimento dell’analisi alle diverse forme del concreto manifestarsi di queste funzioni. La comprensione teorica di questi fenomeni richiede di per sé un livello adeguato di astrazione che deve subire un processo di rielaborazione per il suo riferimento ad un preciso contesto storico. Riteniamo valida e principale la teoria del valore di Marx che permette di cogliere il pieno dispiegarsi della realtà economica dell’accumulazione. L’analisi storica e teorica della forma merce come unità di valore d’uso e valore di scambio, non colta correttamente dall’economia classica, permette di pervenire alla spiegazione del profitto come pluslavoro oggettivato nell’ambito della produzione capitalistica. Il processo di produzione e riproduzione del capitale vengono considerati come una unità spezzata nella produzione e circolazione del capitale in cui la moneta assume un ruolo indispensabile. I rapporti sociali di produzione che rivestono nell’ambito dei fatti economici una veste cosale vengono messi al centro dell’analisi, considerando la merce forza lavoro come la fonte unica del valore. In questo ambito teorico un adeguamento dell’analisi che riesca a cogliere lo sviluppo di un sistema monetario e creditizio sempre più complesso ed esteso, può essere utile se non indispensabile per riferire la teoria del valore di Marx alle forme concrete di sfruttamento del capitalismo contemporaneo. Non ci aspettiamo quindi una teoria monetaria nuova e avulsa dal sistema teorico del valore lavoro, ma una teoria in grado di restare coerente con quest’ultimo e di riuscire nel contempo a spiegare i fenomeni attuali, quale ad esempio l’ampliarsi della speculazione finanziaria. Queste semplici constatazioni ci hanno indotto a condividere il tentativo di molti compagni di porre in campo analisi della crisi attuale che abbiano come punto di riferimento la ristrutturazione degli anni settanta e la nascita del sistema bancario e finanziario internazionale come fulcro per la spiegazione della crisi odierna. Restano valide per noi le elaborazioni fondate sulla caduta tendenziale del saggio di profitto, le quali però, specialmente se proposte come una continua tendenza lineare del riproporsi dell’accumulazione reale del capitale, portano a confondere l’attuarsi concreto dell’accumulazione del capitale con la sua rappresentazione teorica. La legge della cadu9


ta necessaria del saggio di profitto spiega il variare dell’accumulazione riferita al capitale complessivo e resta valida indipendentemente dalla circolazione del capitale perché ha come fulcro la produzione come presupposto essenziale per lo sfruttamento di classe. Ma l’accumulazione concreta del capitale richiede la sua circolazione e la necessità per il capitale stesso di rivestire sia la forma monetaria sia la forma propria del processo produttivo. La realtà economica quindi si determina con fenomeni che non sono immediatamente riconducibili alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Un’insufficiente crescita della produttività che non permette una adeguata crescita del plusvalore viene a concretizzarsi come crisi di sovraccumulazione spesso colta dai mercati come insufficienza di domanda per molti legata al sottoconsumo o specularmente a un livello troppo alto dei salari che determina un calo degli investimenti. “Come la legge del valore non appare direttamente nei reali avvenimenti di mercato, bensì mediante questi avvenimenti deve riuscire a fare accettare le necessità della produzione capitalistica, così la tendenza del saggio decrescente del profitto (quindi la ripercussione della legge del valore sul processo di accumulazione) non è un processo direttamente percettibile nella realtà concreta, ma è una coercizione all’accumulazione che si manifesta per mezzo dei fenomeni di mercato e i risultati della quale portano il modo di produzione capitalistico in una contraddizione sempre più grande con i reali bisogni sociali” P. Mattick, Crisi e teorie della crisi, 1979, Dedalo, Bari Considerato il ruolo della crisi come processo necessario per la svalutazione del capitale per procedere su nuove basi ad una ulteriore accumulazione, e considerato come i singoli capitali, o settori, o aree geografiche ristrette, possono avere andamenti divergenti fra loro e dall’accumulazione del capitale generale, i segnali del mercato vanno riferiti alla teoria ma non ci si può aspettare una immediata e sempre coerente conferma empirica. Come vedremo più avanti l’attuale fase di deindustrializzazione dei paesi a capitalismo avanzato, potrebbe rappresentare il decomporsi del sistema produttivo verso una continua stagnazione, ma anche un tentativo di spostare l’accumulazione verso nuovi ambiti di valori d’uso e geografici. A questo, si aggiunge il ruolo degli Stati che, pur non riuscendo a risolvere con l’economia mista il problema della valorizzazione del capitale accumulato, attenuano il manifestarsi cruento del problema e attuano trasferimenti di 10

valore fra capitalisti, settori e classi, influenzando il concreto svolgersi della concorrenza e del conflitto capitale-lavoro. L’economia attuale si sviluppa sempre più come economia del debito in cui gli squilibri fra le diverse aree di sviluppo dell’accumulazione assumono una connotazione anche finanziaria. I flussi delle bilance commerciali hanno generato dal 2000 ad oggi un continuo avanzo dei paesi Asiatici ed esportatori di petrolio. La crescita dei prezzi delle materie prime, in primo luogo il petrolio, ha rafforzato una tendenza già in atto di una maggiore presenza di capitale monetario proveniente dai paesi del petrolio e dalla Cina, a cui si aggiungono i continui flussi legati alla speculazione, che hanno ormai superato in ordine di grandezza gli Investimenti Diretti all’Estero (IDE). Se si aggiunge il pieno sviluppo di un sistema bancario internazionale dominato dagli Stati Uniti e la concomitante creazione di strumenti finanziari sempre più complessi, il quadro economico mondiale ci restituisce una quasi realtà virtuale, un castello di carta che sembra andare contro le leggi della fisica. Crediamo invece che molti preconcetti legati alla applicazione schematica della teoria del valore di Marx, abbiano indotto parecchi studiosi a generare un senso di rifiuto della realtà, piuttosto che di comprensione dei fenomeni di mercato. Ciclo di accumulazione del capitale Cercheremo di restituire un quadro complessivo dell’economia attuale che porti alla spiegazione dell’instabilità finanziaria legata al ciclo di accumulazione del capitale. Faremo riferimento principalmente al lavoro svolto dai compagni della rivista Aufheben (http://libcom.org/library /aufheben-19-2011) e all’analisi di P. Giussani (sui dati di Klimann) di cui riportiamo due grafici dall’articolo La crisi e il saggio del profitto (che abbiamo pubblicato sul blog: http://connessioniconnessioni.blogspot.it/search/label/crisi). Pensiamo che i grafici possano essere d’aiuto come riferimento temporale rispetto agli eventi che saranno brevemente descritti e per il nesso che questi hanno con l’accumulazione del capitale. L’emergere di un ruolo sempre più in primo piano della finanza internazionale è riferibile al venir meno del modello di sviluppo che ha caratterizzato gli anni del dopo guerra. Tassi di cambio fissi e finanza relativamente imbrigliata dai rego-


lamenti statali, avevano condotto i flussi finanziari a rispecchiare principalmente gli investimenti diretti e gli scambi commerciali, lasciando poco spazio a flussi di breve periodo alla ricerca di guadagni slegati dall’accumulazione di capitale. I monopoli statunitensi (corporations e conglomerates) spinti anche dalle politiche di spesa statali, costituivano un modello di sviluppo basato sul reinvestimento dei profitti e sull’accumulazione di lungo periodo. A partire dagli anni settanta il sistema di scambi internazionale comincia a subire quei cambiamenti che ci hanno portato al sistema bancario e finanziario internazionali dei nostri giorni. Premettiamo che dalla analisi di Giussani emerge una coerenza fra accumulazione e saggi di profitto dal dopoguerra a fine anni settanta, per cui una crescente accumulazione aveva causato una riduzione dei saggi di profitto. La corsa agli armamenti e l’emergere di crescenti deficit nella bilancia dei pagamenti hanno condotto gli Stati Uniti a sospendere la convertibilità del dollaro in oro, fino a giungere a un sistema di cambio valutario quasi flessibile, basato sul dollaro come riserva internazionale. Le banche potevano fornire prodotti finanziari ad hoc per prevenire perdite agli esportatori causate dalla fluttuazione dei cambi, inoltre potevano attuarsi speculazioni sull’andamento dei cambi delle valute. Nel 1973 lo shock petrolifero aveva fornito ai paesi produttori di petrolio ingenti surplus finanziari da riversare in occidente. Si è assistito quindi alla nascita delle banche off-shore, filiali o banche locali collegate alle grosse banche statunitensi e europee, che sfruttavano le scarse regolamentazioni degli Stati in via di sviluppo per non restare imbrigliate nelle regolamentazioni finanziarie di Stati Uniti ed Europa. Era stato dato il via ormai alla liberalizzazione dei flussi finanziari che sarebbe stato legittimato da leggi nazionali a cominciare dalle misure adottate dalla Thatcher arrivata al potere nel maggio 1979. E’ in questo periodo di crescita del sistema bancario internazionale che si assiste alla crisi del debito dei paesi del terzo mondo e alla crisi borsistica del 1987 negli Stati Uniti. Con la Reaganomic il deficit degli Sati Uniti raggiunse il 6 % del PIL nel 1984, crescendo di circa il 4 % in quattro anni. I grossi monopoli caratterizzati da un sovradimensionamento della capacità produttiva avevano resistito alla svalutazione del capitale fisso, causando un ristagno dei profitti. Si assisteva inoltre alla crescita dell’inflazione creata dalle cre-

scenti spese statali e da una spirale di crescita di prezzi e salari. La produzione industriale cominciò un declino lasciando le economie sviluppate in una stagnazione la cui dubbia ripresa ci porta ai nostri giorni. Come si vede dal grafico i profitti raggiungono un minimo a metà degli anni ottanta per poi riprendere a crescere, però sostanzialmente l’accumula-zione è in continua caduta. Potremmo identificare la svolta dei profitti degli anni ottanta come il momento in cui comincia il ciclo attuale di crescita della speculazione e che per alcuni, rappresenta l’affermarsi di un nuovo ciclo di accumulazione che cercheremo di descrivere brevemente in seguito. Volendo dare credito all’idea che la crescita dei profitti, cui si assiste dalla fine degli anni ottanta, sia l’effetto di una ristrutturazione del capitale, che è stato in grado di ristabilire una adeguata proporzionalità fra accumulazione e saggio di plusvalore, bisogna trovare il nesso fra lo smantellamento del vecchio apparato industriale, la crescita del settore bancario internazionale, l’ampliarsi della speculazione e il progressivo spostamento dell’accumulazione reale su nuovi ambiti merceologici e geografici. Come vedremo, anche se l’ipotesi di una ristrutturazione che abbia inaugurato un nuovo ciclo di crescita non è del tutto campata in aria, soffre di concretezza quando si passa all’analisi degli aggregati economici relativi a produzione e investimenti, non solo in seguito alla crisi del 2007, ma anche durante tutto il periodo precedente (vedi grafico sull’accumulazione). “La trasformazione parassitaria del capitalismo mondiale ha la sua origine nella fine del boom economico del dopoguerra sfociato nelle recessioni e nella stagnazione degli anni ’70 accompagnate da un considerevole eccesso di capitale monetario generato dalla tendenza al declino del saggio del profitto dominante nel dopoguerra. Dopo un decennio di stagnazione la pletora di capitale ha cominciato a venire impiegata per fusioni ed acquisizioni attraverso le acquisizioni di capitale azionario, che aveva mediamente quotazioni assai basse all’epoca. Questo potente movimento di concentrazione non ha potuto naturalmente evitare di offrire un improvviso e sostenuto impulso al rialzo ai valori medi di borsa dal quale si è prontamente generata la tendenza al trasferimento di capitale monetario verso l’impiego speculativo degli ultimi trent’anni; che ha rapidamente 11


fatto di Tokyo, Londra e massimamente New York i poli di attrazione del capitale speculativo mondiale. Il giro d’affari relativo di Wall Street, che nel corso del dopoguerra si era mantenuto grosso modo costante attorno al 15% del Pil americano, imboccò ora una strepitosa tendenza crescente, che lo condusse dal 17% nel 1975 al 35% nel 1989 e al 150% nel 1999, per toccare il picco storico assoluto del 350% nel 2006, il che implica un tasso annuo medio di crescita del 10.25% nel periodo 1975-2006” P. Giussani il vestito nuovo del capitalismo; http://connessioniconnessioni.blogspot.it/search/label/crisi La sintesi in cui viene descritta la stagnazione come involuzione del capitalismo verso l’economia del debito e della speculazione, non mette in rilievo alcuni aspetti rilevanti dei cambiamenti avvenuti nella divisione internazionale del lavoro, a cui si sono affiancati profondi cambiamenti organizzativi e giuridici delle imprese che hanno facilitato l’emergere della speculazione. Riteniamo che questi cambiamenti siano già di notevole interesse per la composizione di classe che hanno determinato nelle metropoli mondiali. Bisogna fare riferimento quindi all’affermarsi del settore delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni e al crescente affermarsi dei paesi asiatici come destinatari di investimenti dai paesi del capitalismo avanzato. L’emergere di nuovi settori merceologici e geografici non poteva che essere condotto a seguito della liquidazione del capitale investito nei settori tradizionali. L’affermarsi del sistema bancario mondiale aveva cambiato i soggetti giuridici che possedevano le azioni dei grossi monopoli mondiali. L’interesse principale degli investitori era stato spinto verso i ritorni di breve termine. Il pagamento di alti dividendi e l’assillo di mantenere alta la valutazione borsistica delle azioni si sono imposte alle scelte dei dirigenti del settore industriale. Le aziende dovevano essere sottoposte a cure dimagranti tramite un deciso scontro con l’opposizione operaia e l’attuazione di razionalizzazioni, ridimensionamenti e outsourcing. La disponibilità di fondi che scaturì da questo processo finì per finanziare la politica di deficit degli Stati Uniti che avrebbe restituito al capitale le nuove tecnologie informatiche e della telecomunicazione. Inoltre il definitivo collasso dei paesi del socialismo reale ha permesso di ampliare le aree geografiche su cui dirigere l’accumulazione. Il fallimento delle politi12

che protezioniste dei paesi in via di sviluppo, che fino al settanta avevano cercato di accrescere l’accumulazione con una politica di sostituzione delle importazioni, arenatesi per una crescente mancanza di tecnologie e mercati di sbocco, aveva creato sufficienti infrastrutture per inaugurare una politica orientata all’export. Il capitale occidentale poteva sfruttare adeguatamente i bassi livelli salariali che consentivano, unitamente alle tecnologie avanzate acquisite con gli investimenti dall’estero, bassi prezzi di produzione e la realizzazione di plus profitti. Quindi le economie emergenti hanno avuto un ruolo rilevante sia per riallocare il capitale dei settori tradizionali, sia come calmieranti per i prezzi nei paesi a capitalismo avanzato. Il sistema bancario mondiale ha permesso il trasferimento di liquidità dei settori ad alta capitalizzazione e bassa profittabilità verso i paesi emergenti del Sud America e dell’Asia, creando anche specifici strumenti finanziari- derivanti dai crediti concessi a banche locali oltre che a governi e corporations - che permettevano alti rendimenti e alta liquidità (emerging market economies Securities Market). Quindi si è delineato il ruolo della finanza internazionale nel facilitare e accelerare la riorganizzazione dell’accumulazione e nel restaurare la profittabilità degli investimenti. Tramite la razionalizzazione e la delocalizzazione verso le economie emergenti si è potuto contrastare la caduta dei profitti e ridurre la pressione salariale nei paesi occidentali. Nel contempo la produzione dei settori della new economy, uscita dal crash borsistico della dot.com, ha reso possibile l’espansione in nuovi ambiti merceologici, che adeguatamente applicati hanno permesso un certo recupero della produttività. Questo periodo è stato caratterizzato da una carente disponibilità di capitale monetario, di tassi di interesse relativamente alti e da diverse crisi: alla fine degli anni ottanta una crisi negli Sati Uniti (savings &loans crisis), 1994 Messico, 1997 Asia, e nel 2001 il crollo delle azioni della dot.com. L’emergere della Cina a seguito dello scoppio della bolla speculativa degli altri paesi asiatici, ha ridisegnato l’organizzazione della produzione di quell’area. Le economie emergenti che avevano puntato su una crescita trainata dalle esportazioni si sono ritrovate, in seguito alla crisi della loro valuta in balia della speculazione, a vedere calare gli afflussi di capitale che adesso si dirigevano verso i


settori emergenti della new economy. Nell’ area asiatica, la Cina ben presto si è ritrovata a rappresentare l’unico grande esportatore verso Sati Uniti ed Europa. Gli altri paesi dell’area asiatica lentamente hanno ristabilito una produzione indirizzata verso la fornitura di materie prime richieste dalla crescita cinese. La crescita della Cina è strettamente legata al ruolo dello stato cinese che ha favorito investimenti di lunga durata, limitando l’afflusso di capitale finanziario in grado di creare bolle speculative. Fino ad oggi la crescita cinese, indirizzata su nuovi settori o su settori in smobilitazione in occidente, è stata proficua per il capitale occidentale, anche se questo trend non può essere tenuto per molto tempo ancora, senza porre il problema della perdita di occupazione che comporta per Stati Uniti, Europa e Giappone. Quello che ci interessa sottolineare è che i surplus della bilancia commerciale cinese sono stati usati per l’acquisto di debito pubblico americano, creando in concomitanza con altri eventi, un eccesso di offerta di capitale monetario. Infatti dal lato della domanda, le imprese industriali hanno ridotto l’indebitamento, anche a seguito di una riduzione degli investimenti, reinvestendo i profitti anche nell’acquisto di azioni proprie. L’eccesso di offerta di capitale di prestito e una riduzione della domanda, hanno spinto in basso gli interessi e ridotto i margini di profitto del sistema bancario, causando una ricerca spregiudicata della profittabilità che ha condotto alla stretta creditizia e a problemi di solvibilità delle banche sovraesposte in operazioni finanziarie ad alto rischio. La sintesi che abbiamo proposto dell’analisi dei compagni di Afheben ha un fondamentale pregio, ricostruisce il flusso del valore e del processo produttivo, inserendo il ruolo principale del sistema bancario e finanziario. Non è indispensabile condividerne l’assunto di base, cioè che la ristrutturazione è stata in grado di ristabilire alti livelli di produttività legati all’accumulazione nella new economy. Ma come accennato precedentemente non è una analisi campata in aria, e gli avvenimenti descritti delineano una riorganizzazione mondiale della produzione che fin da oggi pone importanti cambiamenti nel modo in cui il proletariato vive e lavora in Occidente così come in Cina o India. Meno convincente, dal punto di vista teorico, è il non prendere in considerazione le relazioni fra l’aumento della accumulazione, l’espandersi della produzione capitalistica, le sempre maggiori contraddizioni che questo com-

porta, rendendo sempre più difficile il superamento della crisi tramite la svalutazione del capitale. In gergo calcistico si dice che dopo un goal si rimette la palla al centro campo, le due squadre avranno pari opportunità di portarsi in vantaggio. Ma chi subisce un goal riprende l’azione all’attacco, secondo il nostro modo di vedere la questione, l’azione non si riprende con la palla al centro campo, ad ogni crisi si ricomincia con un calcio di punizione fino ad arrivare al calcio di rigore. Le condizioni che caratterizzano una nuova “ripresa economica” sono peggiori di quelle che hanno contraddistinto la precedente ripresa. La ricostruzione dell’accumulazione come susseguirsi di crisi e ristrutturazione in grado di ristabilire adeguati livelli di plusvalore viene associata alla caduta del saggio di profitto, che viene ad aumentare dopo le crisi. Tuttavia secondo noi questo andamento ciclico di crisi e ristrutturazione non annulla la tendenza della caduta del saggio di profitto, intesa come continuo ampliarsi delle contraddizioni fra capitale e lavoro. L’attenzione data al processo produttivo nell’analisi prima esposta, permette di analizzare il processo di valorizzazione del capitale anche nel suo svolgersi come processo produttivo, ricollegandolo alla merce come unità di valore d’uso e valore di scambio. Altri compagni, come il gruppo Prospective Internationaliste (13), hanno privilegiato questo approccio all’analisi arrivando a conclusioni differenti rispetto ad Aufheben. Il ruolo giocato dall’espansione geografica del capitalismo “post fordista” e la produttività recuperata dal capitale grazie alle riorganizzazioni seguite agli anni settanta e all’applicazione dei valori d’uso prodotti nella new economy hanno permesso un ulteriore impulso all’accumulazione. Tuttavia da questa accumulazione non è scaturita una nuova base di crescita di profitti legata alla maggiore produttività, ma un’ulteriore impasse del capitale. Le cause antagoniste alla caduta del saggio del profitto (nuovi valori d’uso, espansione geografica e riorganizzazione della produzione, svalutazione del capitale fisso) hanno permesso un aumento dei profitti limitatamente a nuove posizioni di monopolio. Il monopolio che caratterizza la produzione attuale è basato sulla scarsità dell’offerta che permette di tenere i prezzi al di sopra del prezzo di produzione e il conseguente realizzo di un plusprofitto. Inoltre proprio l’ulteriore espansione del capitale, resa possibile dalla new economy, è caratterizzata da un valore 13


del capitale fisso notevolmente ridotto. Ne deriva un rapporto fra mezzi di produzione e lavoro vivo così elevato da rendere la concorrenza capitalistica basata sul valore lavoro priva di un concreto riferimento alla accumulazione reale. Sarebbe il sintomo di un autonomizzarsi della forma valore del capitale monetario speculativo. Il valore d’uso creato dai mezzi di produzione sarebbe di ordini di grandezza così superiori rispetto al valore di scambio da rendere impraticabile la trasformazione del capitale dalla forma moneta alla forma merce. La speculazione resta l’unica via percorribile per mantenere livelli di redditività che sono ormai il semplice trasferimento di plusvalore da un settore a un altro, oltre che alla riduzione forzata del valore della forza lavoro tramite un più intenso sfruttamento. L’analisi brevemente esposta cerca di dare un’unica espressione alle difficoltà del capitale nella produzione del plusvalore tramite un crescita della produttività e nella realizzazione del plusvalore ottenuto. Il sottoconsumo viene riproposto come problema di squilibrio interno al settore dei fattori produttivi. Un valore d’uso dei mezzi di produzione notevolmente accresciuto ed una riduzione del lavoro contenuto in essi uniti al limite del consumo, porterebbe ad una impossibilità della realizzazione del plusvalore. L’aspetto poco convincente dell’analisi è l’ambiguità del ruolo della produttività. Da un lato essa incrementa i valori d’uso e rende minimo il capitale fisso. Dall’altro non è sufficiente a creare una espansione della accumulazione per un sottostante limite del consumo. Ma se così fosse basterebbe espandere il consumo per uscire dall’impasse e permettere la valorizzazione del capitale. Perspective Internationaliste previene la critica facendo agire a quel punto il saggio di profitto dichiarando quindi non sufficiente il plusvalore recuperato dalla crescita della produttività. E’ una contraddizione che P. Mattick aveva già riscontrato nel tentativo di ricondurre la crisi legata alla caduta del saggio di profitto agli squilibri riferibili agli schemi di riproduzione di Marx: “nelle crisi non siamo di fronte ad una perturbazione neutralizzabile dell’equilibrio, bensì al crollo temporaneo della valorizzazione del capitale, la quale ne prima ne dopo è contrassegnata da chissà quale equilibrio. Il fatto del superamento delle crisi non sta ad indicare il ristabilimento di un equilibrio andato perduto, ma indica che, nonostante la dinamica ininterrotta del sistema, si è riusciti ad ingrandire il plusvalore per un’altra fase 14

dell’espansione” P. Mattick, Crisi e teorie della crisi, 1979, Dedalo, Bari Siamo più propensi a ritenere che il vero problema attuale del capitale è la mancanza di plusvalore che finisce col ripresentarsi sul mercato come sovrapproduzione e scarseggiare della domanda. L’analisi esposta da P. Giussani in Capitale fisso e guruismo (14), dimostra chiaramente i limiti che le nuove tecnologie hanno avuto nel far crescere la produttività nei settori tradizionali. Anche se si assiste ad un aumento dei profitti, non si può ritenere che la produttività associata alle innovazioni scaturite dalla new economy sia stata rilevante. Il basso livello di accumulazione, associato ad un continuo riprodursi della speculazione dimostra come il capitale non sia riuscito a ristabilire adeguati livelli di produttività, nel senso di ricreare una dinamica di crescita fra accumulazione e plusvalore sufficiente a realizzare il capitale investito. Il lavoro necessario è sempre più compresso da un accresciuta intensità dello sfruttamento piuttosto che da una riduzione del lavoro contenuto nei beni salario. La profittabilità è ottenuta attraverso la svalutazione progressiva del capitale fisso e alla rinuncia all'investimento (oltre che alla captazione di plusvalore prodotti altrove o in passato) piuttosto che tramite riduzioni dei prezzi di produzione ottenuti dalle innovazioni tecnologiche. Conclusioni provvisorie Il campo comune di tutte le analisi converge nell’indicare la spirale speculativa come un processo di cui nessuno riesce a prevederne la fine. Il disinvestimento nelle economie occidentali anche se è stato accompagnato da una crescita di Cina e India non sembra avere ristabilito adeguati livelli di accumulazione. Indubbiamente la speculazione, anche grazie agli interventi statali, sta attuando un trasferimento della ricchezza accumulata, essendo essa un gioco a somma zero. Il nuovo sistema di sfruttamento non sembra possa più conoscere la contemporanea crescita di salari e profitti. Le crescite dei paesi asiatici più che riportare il livello di accumulazione a livelli sufficienti alla valorizzazione hanno causato ulteriori squilibri finanziari in grado di fomentare la speculazione. Il ruolo dello Stato come dispensatore di welfare è inattuabile,


la politica della integrazione della forza lavoro è ormai negata da tutti i fenomeni economici e sociali. Le difficoltà dell’accumulazione, anche ammessa la ristrutturazione condotta dalla new economy e dalla Cina, hanno lasciato inalterato il problema dell’insufficienza del plusvalore. La profittabilità è confinata ad una quantità ridotta del capitale, il quale resta per lo più intrappolato nell’estorsione del plusvalore creato altrove e nel consumo della ricchezza accumulata in passato. La vera ristrutturazione che è stata messa in campo è quello di una nuova fase del rapporto fra capitale lavoro, che vede sostituire il bastone alla carota. Abbiamo definito la condizione attuale del proletariato come de-integrazione, per indicare l’impossibilita del capitale odierno di basare la propria crescita su accumulazione crescente, produttività, e recupero del consenso sociale basato sui consumi. Questa tendenza che vede crescere l’insicurezza della condizione di vita dei proletari, legata ai salari, alla disoccupazione e ai ricatti, è solo minimamente manifesta nell’attuale svolgersi degli eventi. Ma l’economia mondiale sempre più integrata e legata al ruolo crescente della finanza mostra come la crisi apre possibilità per l’insorgere di un movimento di classe che possa ridefinire il livello dello scontro al di fuori delle compatibilità volute dal capitale e ripercorse dal vecchio movimento operaio. Non siamo fatalisti né rozzi deterministi, ma neghiamo la pia illusione di una possibile fuoriuscita indolore dalla crisi tramite l’intermediazione di Stati e organizzazioni varie. Oggi gli esiti dell’estensione spaziale e temporale della crisi e della classe de-integrata pongono all’ordine del giorno inedite nuove problematiche e su queste basi pensiamo di approfondire le nostre ricerche.

Grafico Usa. Saggio del profitto after-tax del settore corporate. 1947-2007

Grafico Usa. Saggio di accumulazione del settore corporate. 1947-2007

Note 1) Edizioni Sociali, La sinistra comunista nel cammino della rivoluzione, 1976, Milano. In Amadeo Bordiga (1889-1970, storico fondatore del Partito Comunista d’Italia), vi è un’importantissima confutazione dell’impostazione legata ad una visione delle crisi dentro una cosiddetta onda infinita (sinusoidale), che di fatto assume il punto di vista gradualista nello sviluppo storico, dove le uniche turbolenze cicliche si hanno nei flessi delle curve, mentre nel secondo schema, quello riportato da Bordiga a cuspide lo sviluppo procede per fratture: la cosiddetta teoria delle catastrofi. Riportiamo un passo della rivista N+1, esperienza legata alla Sinistra comunista italiana che illustra il loro approccio alla teoria delle catastrofi, offrendo un punto di vista suggestivo che va tenuto in considerazione: “La moderna teoria delle catastrofi è per noi interessante perché mette in discussione una volta di più il dualismo tra quantitativo e qualitativo e in fondo si colloca positivamente nel grande filone della nostra teoria della conoscenza. Inoltre è perfettamente inserita nei "sistemi" deterministici, quindi è uno strumento in più per combattere le teorie del dubbio e dell'indeterminato. Infine, è in grado di descrivere una classe di fenomeni molto ampia: praticamente qualunque transizione discontinua che si verifichi in un sistema che sia composto da due o più stati stabili. In senso dinamico essa spiega un sistema che possa seguire più di un percorso stabile di trasformazione. Un esempio un po' rozzo ma efficace può essere quello di una biglia che si muove su un piano (stato stabile) e finisce per cadere (catastrofe) su un altro. La catastrofe propriamente detta è quindi il passaggio repentino da uno stato all'altro o da un percorso all'altro (anche un asse che si spezza sotto un peso crescente è una catastrofe). Si inco15


mincia a capire che la questione ha molta attinenza con la struttura dei cambiamenti sociali: da una situazione stabile, cambiamenti continui e impercettibili portano alla rottura discontinua, al salto rivoluzionario in un'altra forma sociale”. N+1, quinterna.org/pubblicazioni/rivista/19 /rovesciamento_prassi.htm Dall’altra parte uno dei principali sostenitori dell’onda sinusoidale, fasi ascendenti e discendenti che si alternano nel capitalismo sarà invece N.Kondrat’ev (1892-1938), economista russo, fu uno dei massimi teorici della NEP sovietica, ucciso durante il periodo delle purghe sovietiche negli anni 30 per la presunta accusa di essere stato una spia. Uno dei principali autori in campo marxista che riprenderà le cosiddette onde di Kondrat’ev sarà il trotskista E.Mandel. Per maggiori informazioni su Kondrat’ev rimandiamo al testo a cura di Giorgio Gattei: Nicolaj Kondrat’ev, I cicli economici maggiori, 1981, Cappelli, Bologna. 2) http://connessioni-connessioni.blogspot.it/ 2012/03/la-reazione-evoluzionista-contro.html. Henryk Grossmann (1881-1950), economista e accademico tedesco socialdemocratico di sinistra, partecipò nel primo periodo all’Istituto di ricerche sociali di Francoforte, per poi discostarsene. La sua più importante opera è La legge dell’accumulazione e del crollo del capitalismo del 1929, ristampata recentemente in italiano nel 2010 per le edizioni Mimesis, Udine. Per una critica alle stesse impostazioni di Grossmann (comunque interna al filone della critica dell’economia politica) rimandiamo a Lo schema numerico del crollo del capitalismo di H.Grossmann di Paolo Giussani, connessioni-connessioni. blogspot.com/2012/02/lo-schema-numerico-digrossmann.html, e al testo La théorie marxiste des crises del gruppo Robin Goodfellow, www.robingoodfellow.info 3) Per una breve disamina delle correnti radicali storiche: Gilles Dauves, Le roman de nos origines, 1983, in italiano uscito nel 2010 per le edizioni di Pagine Marxiste; Paul Mattick, Socialismo del capitale e autonomia operaia, 1939, http://connessioni-connessioni.blogspot.it/2011 /11/socialismo-del-capitale-e-autonomia.html; Jacques Camatte, La KAPD e il movimento proletario, 1971, in italiano nell’antologia di scritti di J.Camatte, Verso la comunità umana, 1978, Jaca Book, Milano; Philippe Bourrinet, Alle origini del comunismo dei consigli, 1995, Grafhos, Genova; CCI, La sinistra comunista italiana 1927-1952, 1984, Napoli. 16

4) Paul Mattick (1904-1981), attivista e teorico comunista, uno dei maggiori animatori del filone radicale denominato “comunista dei consigli” (espressione tesa a mettere in rilievo l’elemento consiliare contrapposto a quello statalista). La sua più importante opera è Marx e Keynes, i limiti dell’economia mista scritto nel 1969. Sul sito di Connessioni è possibile scaricare il libro e numerosi altri suoi saggi. 5) Sarebbe impossibile ridurre l’articolato dibattito interno alle teorie della crisi/crollo del capitalismo inerente alle correnti radicali del movimento operaio. Ci preme comunque sottolineare che pur trovando un punto di contatto rispetto agli effetti della crisi vi è sempre stata una contrapposizione tra chi calcava gli elementi soggettivi e chi gli elementi oggettivi. Solo raramente si è cercato di rompere questo schema. In questo senso l’apporto di Grossmann rispetto al superamento di questa dualità contrapposta rimane ancor oggi un interessante approccio da studiare: H. Grossmann, La reazione evoluzionista contro l’economia classica, del 1943. Dove il capitale era visto nel suo insieme come unità che si scindeva in due. 6) Antonio Pagliarone, Sulle teorie della crisi, 2010, http://connessioni-connessioni.blogspot.it /2011/12/sulle-teorie-della-crisi.html 7) La composizione tecnica è il rapporto di natura tecnologica tra la massa dei mezzi di produzione e delle materie prime e la quantità di forza lavoro necessaria per la loro messa in opera. Se si considera invece questo rapporto sul piano del valore si ha la composizione di valore. La composizione organica è il concetto che lega composizione tecnica a composizione di valore. Traduce le variazioni e le dimensioni della prima nella seconda. Marx, Il capitale, III libro: “si chiama composizione organica del capitale la sua composizione di valore in quanto essa viene determinata dalla composizione tecnica del capitale e costituisce un riflesso di quest’ultima”. K.Marx, Il Capitale, 1978, Einaudi, Torino. 8) Con «caduta tendenziale del saggio di profitto», Karl Marx identificò quel fenomeno secondo cui l’aumento progressivo degli investimenti sui macchinari a scapito degli investimenti sui salari avrebbe prodotto come risultato tendenziale del processo produttivo un saggio di profitto sempre minore. Marx giunse a questa conclusione sulla base della teoria del valore: essendo il capitale sotto forma di salari (capitale variabile) ad essere l’unica fonte di plusvalore, l’aumento della


composizione organica del capitale riferita agli investimenti sulle macchine e sul continuo aggiornamento tecnologico (capitale costante) avrebbe dato come risultato del processo produttivo dei profitti progressivamente decrescenti in proporzione agli investimenti complessivi. In particolare il saggio del plusvalore è nella teoria marxiana il rapporto tra plusvalore e capitale variabile, e il saggio di profitto è invece il rapporto tra il plusvalore e l’insieme del capitale investito, ovvero capitale variabile e costante (salari più macchinari, materie prime e ausiliarie). La conclusione teorica suggerisce quindi che, all’aumentare degli investimenti complessivi sulla produzione, se aumenta la sproporzione tra capitale costante e capitale variabile in favore del primo, il profitto diminuisce, e questa diminuzione è progressiva all’aumento della forbice tra i due tipi di investimenti. 9) Karl Marx eredita, rielaborandola, la teoria del valore dei classici, secondo cui la fonte ultima del valore è il lavoro, e nello stesso tempo opera una rottura nei loro confronti. Quello che mutua è l’idea, già rintracciabile in Adam Smith e fatta propria da David Ricardo, che il lavoro sia la fonte della ricchezza e che il valore sia determinato dalla quantità di lavoro contenuto nelle merci (lavoro incorporato). Marx tuttavia si distacca dai classici perché rifiuta una rappresentazione del modo di produzione capitalistico come qualcosa di a-storico, naturale ed eterno, sostenendo invece l'idea secondo cui la società capitalistica non è che una tappa dello sviluppo storico dell’umanità. Respinge inoltre la definizione del capitale come insieme dei mezzi di produzione, considerandolo invece come qualcosa di storicamente determinato, avente un carattere sociale specifico e non dato in natura una volta per tutte. Quindi per Marx il capitalismo è un modo di produzione transitorio, caratterizzato dalla separazione dei mezzi di produzione dai lavoratori e dalla massima diffu-

sione della produzione mercantile. In tale ottica il valore non è più una proprietà "naturale", ma risulta connesso alle determinazioni specifiche, storiche di tale modo di produzione. 10) Consideriamo il marxismo non come un corpo chiuso ne come un dogma. Ci consideriamo marxisti perché non abbiamo ancora trovato una scienza sociale di livello superiore a quella di Marx, e perché le analisi marxiste sono ancora quelle più efficaci per sussumere le nuove esperienze risultanti dallo sviluppo del capitalismo. Solo in questo senso consideriamo il marxismo come scienza sociale in via di sviluppo, che può ancora servire come teoria della lotta di classe pratica dei proletari. 11) H. Grossmann, Saggi sulla Teoria delle Crisi, 1971, De Donato, Bari 12) Afheben, “explaning the crisis”, n.19, 2011, http://libcom.org/aufheben 13) Sul nostro blog si possono trovare diversi materiali tradotti del gruppo Perspective Internationaliste (http://internationalistperspective.org/), dalla presentazione del gruppo:"Prospettiva Internazionalista è un gruppo rivoluzionario rivendicante il marxismo come teoria vivente capace di tornare alle proprie origini, di produrre la sua stessa critica e di svilupparsi in funzione dell'evoluzione sociale storica. In questo, se riprendiamo la maggior parte delle esperienze teoriche delle Sinistre Comuniste, noi consideriamo che il nostro compito principale è di oltrepassare le debolezze e le insufficienze delle Sinistre in uno sforzo di sviluppo teorico incessante. Non concepiamo questo compito come nostro, ma piuttosto come il frutto di un dibattito e di uno scambio con l'insieme dei rivoluzionari.” http://connessioniconnessioni.blogspot.it/2011/12/presentazionedi-prospettiva.html#more 14) dal sito: www.countdowninfo.net

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Lavoro improduttivo e crisi del capitalismo Visconte Grisi

In un articolo apparso su Terzapagina.eu l’analista russo V. K. Ivanov pone il seguente problema : il plusvalore si crea anche in attività lavorative di prestazione di servizi ? (1) Detto in altri termini, il lavoro svolto in una attività di servizio è produttivo dal punto di vista capitalistico ? Parliamo naturalmente in questo caso non della produttività sociale in generale ma della produttività specificamente capitalistica, cioè della produzione/estrazione di plusvalore da un lavoro determinato. La lettura di questo testo mi ha riportato alla mente i dibattiti che si svolgevano sullo stesso argomento verso la fine degli anni 70. In quel periodo le lotte degli operai di fabbrica erano in declino ma apparivano sulla scena nuovi movimenti. Le lotte degli insegnanti nella scuola, degli infermieri negli ospedali, dei lavoratori dei trasporti segnalavano il manifestarsi di nuove figure di lavoratori salariati che lottavano per rivendicazioni simili a quelle degli operai in un crescente processo di proletarizzazione. Cominciavano a nascere allora le prime teorizzazioni sulla “società dei servizi” o sul “terziario avanzato” oppure ancora sull’ “operaio sociale”. Notevoli a questo proposito sono le inchieste e le analisi sviluppate nella rivista “Primo Maggio” soprattutto sui lavoratori dei trasporti che segnalavano l’enorme importanza assunta dal trasporto delle merci in seguito al decentramento produttivo, già allora in corso ; un settore che avrebbe avuto in seguito un enorme sviluppo con il nome di “logistica”. Si cominciava anche a porre il problema della produzione “immateriale”, forse con qualche estremizzazione di troppo, tant’è vero che qualcuno si era spinto a ritenere, ad esempio, che il settore delle assicurazioni producesse una merce immateriale chiamata “sicurezza” ! Comunque l’analista russo citato all’inizio risponde alla domanda che si era posto nel senso “che qualsiasi lavoratore assunto dal capitalista affinché gli venda la propria forza lavoro, crea plusvalore indipendentemente dal fatto che produca 18

merci o servizi”. A sostegno della sua tesi Ivanov cita il noto passo in cui Marx dice che “un sarto che va dal capitalista e gli cuce un paio di pantaloni a domicilio, creando per lui solo valore d’uso, è un lavoratore improduttivo” in quanto scambia il suo lavoro con reddito, mentre lo stesso sarto che viene assunto da un capitalista in una fabbrica di tessuti scambia il suo lavoro con capitale (variabile) e dunque diventa produttivo di plusvalore (o altri esempi simili relativi a una cantante, un attore, un clown ecc.). Ora se ai tempi di Marx, come egli stesso dice, “le manifestazioni della produzione capitalistica in questa sfera (dei servizi) erano così insignificanti da poter essere tranquillamente trascurate”, ai nostri tempi l’aumento della domanda di servizi ha fatto si che “anche questa sfera del lavoro è stata interamente conquistata dal capitale, per cui non possiamo più trascurarla”. Stando così le cose, però, le tesi dell’analista russo rischiano di diventare un esempio di come una lettura troppo riduttiva o semplificata dei testi marxiani possa portare ad errori, anche gravi, nella interpretazione della realtà in cui ci troviamo immersi. Infatti, nonostante egli ammetta che “la sfera della produzione immateriale si sviluppa sulla base della produzione materiale, e in questa trova determinati limiti alla sua espansione. La produzione materiale è il fondamento” però aggiunge subito dopo che “eppure la produzione capitalistica si va spostando sempre di più dalla sfera materiale a quella immateriale, cioè alla produzione di servizi”. Stando così le cose se ne potrebbe dedurre che il capitalismo si trovi in una fase di grande sviluppo ed espansione. Come, del resto, si favoleggiava nei ruggenti anni 80. Ma forse non è proprio così. Una interpretazione più complessa della teoria marxiana in proposito ci viene fornita da Loren Goldner nel suo libro sul capitale fittizio (2). Secondo questo autore le analisi contenute nei primi due libri del Capitale di Marx si riferiscono a un modello astratto di società, dove esistono solo capitalisti e proletari; un modello che chiaramente non esiste


nella realtà, ma che era necessario per portare la critica della società capitalistica al suo più alto livello di astrazione. Successivamente però è prevalsa una diffusa lettura riduzionista del Capitale che ha perso completamente di vista la distinzione fra il capitale individuale e il capitale sociale complessivo. “Quello che è localmente vero per un capitale individuale può non essere necessariamente vero a livello dl capitale sociale totale”. Goldner sostiene quindi che “il modello dei volumi I e II (del Capitale) presume la riproduzione semplice, cioè nessuno sviluppo delle forze produttive” mentre il quadro si presenta totalmente diverso quando dalla riproduzione semplice si passa alla riproduzione allargata capitalistica (cosa che Marx tentò di fare nell’ultima parte del II e nel III volume). Per tornare quindi al nostro argomento si può considerare produttivo in senso capitalistico il lavoro il cui prodotto entra materialmente (come valore d’uso) nella riproduzione allargata del capitale, o come mezzo di produzione (sezione I) o come mezzo di consumo/sussistenza per la riproduzione della forza lavoro (sezione II), vale a dire nelle condizioni materiali dell’accumula-zione. Prendiamo ad esempio la produzione di armi : questo tipo di produzione procura certamente un profitto al capitalista singolo che le produce ma, non rientrando sicuramente nella I o II sezione, è destinato ad essere consumato improduttivamente dal punto di vista del capitale sociale complessivo. Inoltre la produzione di armi viene quasi interamente comprata dallo stato e quindi viene scambiata con reddito. E’ noto che la spesa pubblica statale, messa in campo nei periodi di crisi dalle politiche keynesiane di sostegno della domanda, non produce plusvalore per il capitale sociale complessivo ma è una specie di scommessa sul futuro. Sia che provenga dalle entrate fiscali o dal debito pubblico, la spesa in deficit di oggi dovrà essere ripagata con i profitti (privati) e con i salari di domani, ammesso che riparta in maniera sufficiente l’accumula-zione capitalistica, cosa che non è del tutto sicura (3). Tuttavia esiste una parte della spesa pubblica che potrebbe rientrare nei costi di riproduzione della forza lavoro, ai livelli storicamente determinati, come l’istruzione, la sanità pubblica, i trasporti pubblici, le pensioni ecc. Se non ricordo male negli anni 90 alcuni economisti tedeschi tentarono l’impresa, molto difficile e complessa, di calcolare quantitativamente la percentuale di spesa pubblica che poteva rientrare nei costi di ri-

produzione della forza lavoro, altrimenti detta salario indiretto o sociale. Si potrebbe pensare, seguendo questo ragionamento, che un lavoratore della scuola o della sanità pubblica eroghi almeno una parte del proprio lavoro in maniera produttiva, ma rimane il fatto che anche in questo caso il lavoro viene comunque scambiato con salario (sociale) e non con capitale. Come dice Goldner “il dibattito sociologico che tenta di determinare chi, fra gli operai presi individualmente, può essere ritenuto come produttivo è dunque puramente accademico”. Il concetto di lavoro produttivo o improduttivo nel modo di produzione capitalistico rimane un concetto eminentemente astratto, riferito al lavoro in generale, e non al singolo lavoratore, e a una entità ugualmente astratta come il plusvalore. Ciò non esclude comunque che nella dialettica astratto/concreto e concreto/astratto questo concetto possa darci delle indicazioni sulle tendenze in atto nella società capitalistica, sulla crisi e sulla composizione di classe. In ogni caso, ritornando alla spesa pubblica, è evidente che nei periodi di crisi come quello in cui ci troviamo, nel contesto di una sua generale riduzione, vengono privilegiati i capitoli di spesa relativi ad armamenti, sicurezza, forze di polizia, repressione, grandi opere (inutili come la TAV) a scapito di quelli relativi al welfare state, nel quadro di una generale riduzione dei salari dei lavoratori. Ad ogni modo, se è vero che la spesa statale (a tutti i livelli) è intorno al 40% del PIL degli Stati Uniti, se ne può dedurre la grande quantità di lavoro improduttivo che si nasconde dietro questo dato. Se poi aggiungiamo il lavoro del settore che, negli Stati Uniti, chiamano FIRE (finanziarie, banche, assicurazioni, agenzie immobiliari ecc.) legato alla circolazione del capitale monetario, e la produzione di beni di lusso, possiamo capire l’estensione impressionante del lavoro improduttivo nell’odierna società capitalistica. In conclusione, nell’interpretazione di Goldner, “una cantante lirica o un insegnante di liceo privato considerati dal punto di vista del capitale individuale sono lavoratori produttivi, ma, dal punto di vista del capitale complessivo, le cose stanno del tutto diversamente, ed è là che la forma materiale specifica diventa decisiva, secondo che essa è capace o no di allargare la riproduzione”. Ed infine, e questo è importante, “la produzione di carri armati, come quella dei beni di consumo usati dagli impiegati statali, sono, nella loro 19


forma concreta, deduzioni dal plusvalore (complessivo), non formano un suo accrescimento”. Un’analisi puntuale dell’argomento di cui ci occupiamo è contenuta in un opuscolo uscito dalle Edizioni Prometeo (4). Nell’interpreta-zione di questi compagni “all’interno del modo capitalistico di produzione è produttivo quel lavoro salariato che, scambiandosi con la parte variabile del capitale, riproduce questa parte e in più un plusvalore per il capitalista rappresentato in un plusprodotto e quindi in un incremento addizionale di merci vendibili con un profitto per l’imprenditore all’interno del ciclo di valorizzazione D-M-D’”. Si può quindi definire come lavoro produttivo quello di un insieme di lavoratori salariati, sia manuali che intellettuali (ingegneri, tecnici ecc.) che, con differenti capacità lavorative e mansioni, produce come risultato finale di un processo complessivo una merce o un altro prodotto materiale. Diversa è la condizione di coloro che scambiano il proprio lavoro direttamente con reddito, con profitto o con salario, senza che il loro lavoro produca capitale. Questo tipo di lavoro viene comprato come attività, valore d’uso, come servizio utile al soddisfacimento di un bisogno e quindi si esaurisce nello svolgimento di questa attività senza tradursi in produzione di merci. Dal punto di vista capitalistico questo lavoro, pur rappresentando esso stesso una merce vendibile sul mercato, è lavoro improduttivo di capitale, rimane nell’ambito della circolazione mercantile semplice M-D-M. Questi lavoratori improduttivi non ottengono gratuitamente la loro porzione di reddito, la loro partecipazione alle merci prodotte dal lavoro produttivo ; nella grande trasformazione di ogni prodotto e di ogni forma di lavoro in merce tutte le funzioni e attività si trasformano in lavoro salariato ma, per quanto detto prima, un lavoratore può essere operaio salariato senza per questo essere lavoratore produttivo. Questo operaio, o lavoratore intellettuale, è bensì un consumatore di plusvalore già esistente, già circolante nella società, rimane, con le altre forme di reddito (profitto destinato al consumo del capitalista, rendita, interesse) un mezzo per consumare e non per produrre il plusvalore, complessivamente proveniente dallo sfruttamento della forza lavoro nei processi di produzione di merci materiali. Per quanto riguarda la produzione immateriale essa può anche tradursi in merci che hanno una esistenza indipendente dal produttore 20

(libri, quadri, oggetti d’arte o più recentemente CD, DVD ecc.) ma nella maggior parte dei casi essa non è separabile dall’atto del produrre. Nel testo in questione è contenuto il seguente esempio : “un impresario che opera nel settore dello spettacolo organizza un concerto. Egli realizza un incasso proveniente dalle tasche degli spettatori (professionisti, commercianti, salariati ciascuno con un proprio reddito) e, dopo aver pagato la famosa cantante, l’orchestra, l’affitto del locale ecc. gli rimane un guadagno che può essere considerato il suo profitto. Il lavoro che egli ha impiegato può essere considerato “produttivo” di profitto per il singolo capitalista, ma poiché è stato scambiato con reddito non può essere considerato produttivo di plusvalore”. Quello che si è realizzato in questo caso è uno spostamento di plusvalore e non una sua produzione e lo stesso si potrebbe dire per il lavoro di insegnanti, medici, artisti ecc. Fermo restando che comunque in questa “compera di servizi” il singolo capitalista ha comperato del lavoro per ottenere più valore di scambio di quello che costa. Per quanto riguarda i “servizi alle imprese” (amministrazione, credito, pubblicità, marketing, elaborazione e trasmissione dati, pulizia ecc.) essi erano tradizionalmente considerati “costi aggiuntivi” o “spese generali” quando erano svolti da lavoratori salariati dell’azienda stessa. I costi di questi servizi si trasferivano direttamente sul valore della merce senza per questo produrre plusvalore. Il fatto che questi servizi siano stati, in grande maggioranza, esternalizzati nell’ambito del moderno processo di terziarizzazione non muta il carattere di “costi generali” del lavoro svolto nelle nuove aziende di servizio. Caso mai gli imprenditori che operano in questo settore devono intensificare lo sfruttamento della forza lavoro che impiegano per ridurre i suddetti costi e quindi ricavare un loro profitto personale. In questa sede non c’è il tempo né lo spazio per indagare sulla rete di appalti e subappalti che questo processo genera, nella generale concorrenza di tutti contro tutti, e sul progressivo degrado del lavoro e del prodotto che ne consegue, ma i termini generali della tendenza mi sembrano abbastanza chiari. Gli autori dell’opuscolo sopra citato prendono in considerazione poi il capitale commerciale e tutto il lavoro che viene impiegato nel commercio. Qui siamo in presenza di “mutamenti di forma del capitale da merce in denaro e da denaro in merce” cioè di un processo di circolazione del ca-


pitale, necessario comunque per la realizzazione del plusvalore. Tutto ciò “costa tempo e forza lavoro, ma non per creare valore, bensì per produrre la conversione del valore da una forma nell’altra”. I costi di circolazione delle merci non aggiungono nuovo sostanziale valore alle merci stesse e il capitale sborsato per la loro circolazione appartiene ai costi improduttivi ma necessari alla riproduzione allargata capitalistica. Il capitale commerciale è comunque una parte del capitale monetario complessivo, una parte del capitale anticipato per la produzione, quindi il processo complessivo di riproduzione allargata comprende anche il processo della vendita-consumo delle merci, mediato dalla circolazione, in cui il capitalista commerciale si appropria di una parte del plusvalore già contenuto nelle merci. Chiaramente il capitalista commerciale immette nei processi di circolazione una quantità di valore inferiore – nella forma di denaro – di quella che poi ne estrarrà, ma questo avviene perché ciò che viene introdotto nella circolazione in forma di merce è già comprensivo di una quantità maggiore di valore. Il saggio medio del profitto viene calcolato in base al capitale produttivo totale aggiungendo ad esso il capitale commerciale. Il capitalista industriale, il “produttore” diretto non vende al commerciante le merci al loro prezzo di produzione, ossia al loro valore, ma a un prezzo inferiore. Avremo quindi un effettivo prezzo della merce che è uguale al suo prezzo di produzione aumentato del profitto mercantile (commerciale). Il prezzo di vendita del commerciante è superiore a quello di acquisto di una data merce perché il prezzo di acquisto è stato inferiore al valore totale della merce. In questo modo il capitalista commerciale partecipa alla ripartizione del profitto complessivo e se ne appropria con il lavoro non pagato dei suoi lavoratori. Un discorso a parte va fatto per l’attività di trasporto, spedizione, magazzinaggio delle merci, cioè per quel settore che ha preso il nome di “logistica”, di grande importanza oggi, come testimoniano le lotte operaie che si stanno sviluppando su questo terreno. Alcuni autori ritengono che il lavoro per il trasporto delle merci dal luogo di produzione al mercato debba essere considerato ancora un momento, dal punto di vista economico, della produzione stessa. In effetti il ramo dei trasporti si è nel tempo trasformato in una vera e propria industria, costituisce un ramo industriale distinto dal commercio. Questo trasporto cioè eleva il valore del prodotto in quanto viene richie-

sto un impiego supplementare di lavoro. Tuttavia i compagni di Prometeo ritengono che “in questo particolare settore di attività viene investito del capitale produttivo il quale aggiunge valore ai prodotti trasportati solo attraverso il trasferimento del valore dei mezzi di trasporto più l’aggiunta di valore mediante il lavoro necessario al trasporto. La merce aumenta il suo valore solo in modo addizionale, aggiungendo cioè al costo della produzione le spese di trasporto (mezzi di trasporto e forza lavoro) più il profitto che il capitalista impegnato in questo settore realizza mediante il plusvalore che il pluslavoro degli operai impiegati in quella attività ha creato”. In questo modo quindi l’industria dei trasporti si pone in una situazione intermedia fra processo di produzione e processo di circolazione, ma in essa non viene prodotto nuovo plusvalore. Si potrebbe continuare all’infinito con gli esempi tratti dalla vita reale ma penso, con questo scritto, di aver fornito una introduzione all’argomento meritevole di maggiore approfondimento mediante una inchiesta condotta sul campo, soprattutto per quanto riguarda le nuove occupazioni, e di essere corredato da dati empirici, peraltro difficili da reperire (5). Tuttavia penso che si possa, già a questo livello, trarre alcune conclusioni preliminari. Da almeno tre decenni ormai, quanto meno nel mondo occidentale capitalisticamente avanzato, l’aumento della domanda di servizi da una parte e la ricerca di nuove fonti di profitto dall’altra, hanno portato a una estensione senza precedenti dei rapporti di produzione capitalistici a quasi tutti i settori della riproduzione sociale. Nella generale trasformazione di ogni produzione in produzione di merci ognuno aspira a diventare “trafficante di merci”, dalla badante al pony, dal pubblicitario all’informatico, e i capitali individuali trovano in tutto questo nuove occasioni di valorizzazione. In questo processo sempre più ampio, sempre nuove forme di lavoro vengono attratte nella sfera del lavoro salariato, cioè vengono inglobate (sussunte) sotto i rapporti di produzione capitalistici, anche se una parte di questi viene rappresentato formalmente come “lavoro autonomo”, che vende cioè il proprio prodotto, materiale o immateriale che sia, al capitalista di turno. Tuttavia, come abbiamo visto, se in questo tipo di attività il singolo capitalista riesce a realizzare un suo profitto individuale, la stessa cosa non si 21


può dire per il capitale sociale in generale. Infatti la maggior parte di questi lavori definiti capitalisticamente improduttivi vengono pagati da profitti, rendite o salari provenienti dai settori produttivi di merci, o dalla spesa pubblica, e quindi costituiscono una sottrazione o uno spostamento o un consumo improduttivo della grande massa di plusvalore prodotto a livello mondiale. Quindi l’estensione dei rapporti capitalistici a quasi tutta la sfera della riproduzione sociale che va sotto il nome di “società dei servizi” è, da una parte, una necessità per l’espansione del capitale, ma rappresenta, allo stesso tempo, un freno alla sua riproduzione allargata in seguito al consumo improduttivo di plusvalore sottratto agli investimenti produttivi. L’espandersi della “società dei servizi”, quindi, e del lavoro improduttivo ad essa legato, può essere quindi legittimamente considerato uno dei fattori, insieme allo sviluppo abnorme del capitale finanziario, dell’attuale crisi strutturale del capitalismo o, se volete, del declino del modo di produzione capitalistico. Siamo arrivati quindi a una conclusione, rovesciata rispetto a quella da cui eravamo partiti, che può sembrare paradossale, ma che, per chi è abituato a considerare le cose da un punto di vista dialettico, non lo è. Ho parlato prima del plusvalore prodotto a livello mondiale per sottolineare il fatto che l’aumento del lavoro improduttivo ha prodotto i suoi effetti sulla divisione del lavoro non solo a livello delle singole nazioni capitalistiche ma, forse soprattutto, a livello mondiale, ivi compresa la divisione, fondamentale nel modo di produzione capitalistico, fra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Fanno parte di questa divisione le differenziazioni che si creano continuamente fra nazioni o aree più portate alla produzione di merci e altre in cui si concentra il know-how tecnologico con le conseguenti migrazioni di forza lavoro manuale o dei “cervelli” da un luogo all’altro del pianeta. Per quanto riguarda gli effetti di tale divisione del lavoro sulla composizione di classe, molto opportunamente Emilio Quadrelli, in un suo recente lavoro (6) fa riferimento all’estraneità, o anche allo scontro, verificatisi sul campo fra i protagoni-

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sti della rivolta nelle “banlieues” parigine nel novembre 2005 e quelli del movimento anti CPE nelle università di Parigi pochi mesi dopo. I primi costituirebbero le nuove figure del proletariato metropolitano, precario e dequalificato, la cui condizione è assimilabile a quella delle masse subordinate dell’ex terzo mondo, mentre i secondi rappresenterebbero quel “lavoro cognitivo” che ha ancora qualcosa da perdere nell’approfondirsi della crisi capitalistica (7). Questi ultimi temi, appena accennati, meritano comunque di essere ripresi e sviluppati in un prossimo futuro. Note 1) V. K. Ivanov – Il plusvalore. in Terzapagina.eu n. 5 del 12/9/2010. Vedi www. youblisher.com/p/63487-TerzaPagina-ILPLUSVALORE/. Traduzione dal russo di Stefano Trocini. 2) Loren Goldner – Capitale fittizio e crisi del capitalismo – Edizioni PonSinMor – 2007. 3) Per un approfondimento su questa tematica vedi : Visconte Grisi – Welfare State – Collegamenti woobly nuova serie n. 9 – gennaio giugno 2006. 4) Lavoro produttivo e improduttivo nel modo di produzione capitalistico – Edizioni Prometeo – Supplemento a Prometeo n. 4 – novembre 2010. 5) Per un esempio di inchiesta sul campo vedi l’intervista : Un lavoro postmoderno - in Sindacalismo di Base – luglio 2000. 6) Emilio Quadrelli – Cogliere l’occasione ! – Supplemento a Contropiano – Associazione Marxista Politica e classe – 2011. 7) Per una descrizione cronologica documentata degli avvenimenti parigini vedi : Filippo Argenti – I giorni del rifiuto – Edizioni Tempo di ora – novembre 2006. In questo testo è contenuta una dichiarazione dell’allora Ministro degli Interni francese Nicolas Sarkozy del 12 marzo 2006 : “Se si verificasse un collegamento tra studenti e banlieues, tutto sarebbe possibile. Compresa un’esplosione generalizzata e una spaventosa fine di legislatura”. Così, purtroppo, non è stato, almeno per ora.


La più grande depressione del XXI secolo Anwar Shaikh

La crisi economica generale scatenatasi nel 2008 a livello mondiale è una Grande Depressione propiziata da una crisi finanziaria verificatasi negli Stati Uniti, pur non essendone stata la causa. La crisi è una fase assolutamente normale in un processo di lungo periodo ricorrente proprio dell'accumulazione capitalistica, nel quale lunghi cicli di boom lasciano spazio a lunghe regressioni. Quando si verifica tale transizione, la salute dell'economia da buona diventa cattiva. Nella seconda fase una crisi può essere originata da uno shock, proprio come è accaduto nel 2007 con il crollo del mercato dei mutui subprime e come shock precedenti che fecero da catalizzatori alle crisi generali negli anni '20 e '70 dell'Ottocento, negli anni '30 e '70 del Novecento (1). Nel suo libro sicuramente più famoso, “The Great Crash 1929”, J. K. Galbraith affermò che mentre la grande depressione degli anni '30 venne preceduta dal dilagare di una speculazione finanziaria, fu la condizione fondamentalmente instabile e fragile dell'economia nel 1929 che permise al crollo del mercato azionario di dare il via ad un collasso economico (2). Così come accadde allora, accade oggi (3). Coloro che scelgono di considerare ciascun episodio come un evento singolo, come l'apparizione casuale di un “cigno nero” in uno stormo finora immacolato(4), hanno dimenticato le dinamiche della storia che essi stessi cercano di spiegare e nel procedere si dimenticano inoltre, e volutamente, che è la logica del profitto che ci condanna a ripetere questa storia. L'accumulazione capitalistica è un processo dinamico turbolento caratterizzato al suo interno da ritmi imponenti regolati da fattori congiunturali e da particolari eventi storici. L'analisi storica reale dell'accumulazione deve perciò distinguere tra percorsi intrinseci e le loro particolari rappresentazioni storiche. I cicli economici sono i fattori più visibili delle dinamiche capitalistiche. Un ciclo breve (3-5 anni delle scorte) nasce dalle oscillazioni perpetue della domanda e dell’ offerta aggregata, e un ciclo medio (7-10 anni di capitale fisso) dalle fluttuazioni più lente della capacità e

dell’offerta aggregate. (5). Tuttavia sottostante questi cicli economici vi è un ritmo molto più lento che consiste nell'alternanza di lunghe fasi di accumulazione che può accelerare e decelerare per cui i cicli economici sono articolati sulla base di queste onde fondamentali. (6) La storia del capitalismo viene sempre recitata su un palcoscenico in movimento. Dopo la Grande Depressione degli anni '30 del '900 venne la Grande Stagflazione degli anni '70. In quel caso la crisi sottostante era mascherata da un'inflazione galoppante, ma ciò non impedì grosse perdite di posti di lavoro, un grosso calo nel valore reale dell'indice del mercato azionario e fallimenti su larga scala di aziende e di banche. A quel tempo vi era un'ansia considerevole secondo la quale il sistema economico e quello finanziario sarebbero crollati insieme. Per i nostri scopi attuali, è utile notare che in paesi come gli USA ed il Regno Unito la crisi portò ad alta disoccupazione, attacchi ai sindacati ed al sostegno statale per la popolazione lavoratrice e per la povertà, e ad una inflazione che rapidamente erose sia i salari sia il valore reale dell'indice del mercato azionario. Altre nazioni, come il Giappone, fecero ricorso ad una bassa disoccupazione e ad una graduale deflazione degli asset che prolungò la durata della crisi ma impedì che nel paese avvenisse un grave crollo che al contrario si verificò negli USA e in Gran Bretagna. A prescindere da queste differenze, in tutti i maggiori paesi capitalisti cominciò negli anni '80 un nuovo boom, stimolato da un poderoso calo dei tassi di interesse che innalzò notevolmente l’indice netto del rendimento sul capitale, cioè fece aumentare la differenza al netto tra il saggio di profitto e il tasso di interesse. Gli interessi in calo facilitarono inoltre la diffusione di capitale a livello globale, promossero un enorme incremento del debito dei consumatori e alimentò bolle finanziarie ed immobiliari a livello internazionale. 23


Le stesse imprese finanziarie chiesero prepotentemente la deregulation delle attività finanziarie in molte nazioni e ad eccezione di poche, come il Canada, questa pressione ebbe un enorme successo . Allo stesso tempo, in paesi come gli USA o la Gran Bretagna ci fu un aumento senza precedenti dello sfruttamento del lavoro, manifestatosi nel relativo rallentamento dei salari reali rispetto alla produttività. Come sempre, il beneficio diretto fu un enorme incremento del saggio di profitto. Un rallentamento dei salari avrebbe normalmente determinato come effetto collaterale una stagnazione del consumo, tuttavia, con tassi di interesse che cadevano e il credito reso perfino più facile, la spesa per il consumo e altri tipi di spesa continuarono a salire, sostenuti da una marea montante di debito. Tutti i limiti sembravano sospesi, tutte le leggi sui movimenti abolite. E infine venne la caduta. La crisi dei mutui negli USA era soltanto il catalizzatore immediato, ma Il problema sottostante era che la caduta dei tassi di interesse e la crescita del debito, che avevano alimentato il boom, raggiunsero i loro limiti. La crisi attuale è ancora in corso e in tutti i maggiori paesi avanzati sono stati creati aumenti massicci di denaro incanalato verso il settore delle imprese per puntellarle, ma questo denaro rimase per lo più bloccato nelle imprese stesse. Le Banche non hanno alcun desiderio di incrementare prestiti in un clima rischioso nel quale potrebbero non essere in grado di riscuotere il proprio denaro con un profitto sufficiente. Settori industriali come quello automobilistico hanno un problema simile, perchè sono sommersi da notevoli scorte di beni invenduti di cui è necessario sbarazzarsi prima ancora di pensare ad espandersi. Pertanto la maggioranza della popolazione non ha ricevuto alcun beneficio diretto dalle enormi somme di denaro elargite e i tassi di disoccupazione sono rimasti elevati. Rispetto a ciò, è sconvolgente che sia stato fatto così poco per espandere l'occupazione attraverso posti di lavoro creati dal settore pubblico, come è stato fatto dall'amministrazione Roosevelt durante gli anni '30 del '900. Questo ci porta ad una questione fondamentale: come è potuto accadere che il sistema capitalistico- le cui istituzioni, regole e strutture politiche sono cambiate così profondamente nel corso della sua evoluzione- sia ancora capace di manifestare certi fenomeni economici ricorrenti? 24

La risposta sta nel fatto che questi particolari fenomeni sono radicati nella ricerca del profitto, che rimane il regolatore centrale del comportamento del capitale in tutta la sua storia. L'involucro del capitalismo muta costantemente perchè il suo core rimanga lo stesso. Una spiegazione esaustiva delle dinamiche teoriche va oltre la dimensione di questo saggio, tuttavia possiamo cogliere il senso della sua logica esaminando il rapporto tra accumulazione e profittabilità. In ciò che segue mi focalizzerò sugli USA perchè essi sono ancora il centro del mondo capitalista avanzato, ed è lì che la crisi si è originata. Ma bisogna dire che il problema è globale, e ricade per la sua gran parte su coloro che già soffrono: le donne, i bambini e i senza lavoro del pianeta. Accumulazione e profittabilità “La macchina che guida l'impresa è...il profitto”(8) (J.M. Keynes) “Le vendite senza profitto sono prive di significato”(9) (Business Week) Ogni impresa sa bene, pena la sua estinzione, che la sua raison d‘etre è il profitto. Gli economisti classici affermavano che era la differenza tra saggio di profitto (r) e tasso di interesse(i) ad essere centrale per l'accumulazione in quanto il profitto è l’utile degli investimenti attivi, mentre il tasso di interesse è l’utile degli investimenti passivi. Un dato ammontare di capitale potrebbe essere investito nella produzione o nella vendita di beni, nel prestare denaro o nella speculazione, in ogni caso il saggio di profitto costituisce l’utile, carico di tutti i rischi, le incertezze e gli errori ai quali tali tentativi sono soggetti. Gli imprenditori finiscono per imparare che “Ci sono (cose) conosciute che sono conosciute. Ci sono cose sconosciute che vengono conosciute. Ma ci sono anche cose sconosciute che rimangono sconosciute” (10). D'altro canto, lo stesso ammontare di capitale potrebbe essere allo stesso modo investito in depositi di risparmio o in titoli sicuri, ricevendone così un interesse, in una tranquilla e relativa sicurezza. Il tasso di interesse è il benchmark, l'alternativa sicura all’utile sugli investimenti attivi. Marx afferma che è la differenza tra i due tassi- che egli chiama il saggio del profitto-di-impresa (r-z), che guida gli investimenti attivi. Keynes afferma pressappoco la stessa cosa: egli definisce il saggio di profitto l'efficienza mar-


ginale del capitale (MEC) e si focalizza sulla differenza tra esso e il tasso di interesse come il fondamento per la produttività dell'investimento. Anche l'economia neoclassica e postkeyenesiana si concentra su questa stessa differenza, benchè in maniera diretta: i costi di produzione sono definiti in modo che includano un “costo opportunità” che comprenda l'interesse equivalente sullo stock di capitale, così che “il profitto economico” è l'ammontare del profitto-diimpresa e il corrispondente saggio di profitto è semplicemente il saggio del profitto-di-impresa (ri). (11) Si consideri l’esempio seguente. Supponiamo che il profitto annuale di un'impresa sia 100.000$ e che il tasso di interesse corrente sia al 4% e il capitale dell'impresa all'inizio dell'anno sia 1.000.000$. Dunque, il capitale dell'impresa avrebbe potuto fruttare 40.000$ se fosse stato investito in un titolo sicuro. Da un punto di vista classico, possiamo pensare al profitto dell'impresa come avente due componenti: 40.000$ come interesse equivalente e 60.000$ come profitto-diimpresa totale. L'economia neoclassica nasconde tutto ciò trattando l'ipotetico interesse equivalente come un “costo” alla pari dei salari, delle materie prime e del deprezzamento. Come conseguenza, la sua definizione di profitto economico è già profitto-di-impresa (60.000$). L'economia PostKeynesiana adotta tipicamente molti concetti neoclassici, questo è uno di quelli. Il saggio di profitto è il rapporto tra profitto annuale e stock di capitale ad inizio anno, cioè: r = 100.000$/1.000.000$ =0,10. Il corrispondente saggio del profitto-diimpresa (re) è l'ammontare del profitto-diimpresa diviso per lo stock di capitale, il cui rendimento è re = $60.000/1.000.000$ = 6% . È facile osservare come il saggio del profittodi-impresa eguagli la differenza tra il saggio di profitto e il tasso di interesse: re = r-i = 10%-4%= 6%. A livello empirico diventano importanti due ulteriori considerazioni. Primo, il profitto come viene indicato nella contabilità nazionale non è né il profitto totale (P) né il profitto-di-impresa (PE) ma qualcosa che sta nel mezzo. La contabilità nazionale definisce il profitto economico come il profitto attuale al netto degli interessi netti pagati. Perciò se l'impresa presa in considerazione ha preso in prestito metà del suo capitale totale

($500.000), dovrebbe pagare 20.000$ per interessi attualizzati (4% del suo debito totale di 500.000$). Perciò, la misura del profitto (P' = $80.000) nella contabilità nazionale è il profitto attuale (P= 100.000) meno gli interessi pagati sul debito ($20.000). Pertanto, per misurare il profitto dobbiamo aggiungere gli interessi monetari attualizzati al dato del profitto rappresentato nella contabilità nazionale. Possiamo allora calcolare il livello e il saggio del profitto-di-impresa nella maniera precedentemente discussa. (12) Secondo, è importante notare che tutti i saggi di profitto saranno saggi reali, cioè aggiustati per l'inflazione, se usiamo i flussi di profitto in dollari-correnti al numeratore e lo stock di capitale a costi correnti (capitale misurato in termini dei suoi equivalenti a prezzi correnti) al denominatore. In questo modo sia il numeratore che il denominatore riflettono lo stesso set di prezzi, il che è l'essenza di una misura reale. (13) Ciò è ovvio nel caso del saggio di profitto (r) quando sia P sia K (capitale, ndt) riflettono i prezzi correnti, ma si applica anche al saggio del profitto-di-impresa (re) il cui numeratore è l'eccesso di profitto sull'interesse equivalente sullo stock di capitale di inizio anno (aggiustato) a costi correnti (P-iK). Misurato in questa maniera, il saggio del profittodi-impresa re = r-i è un saggio reale. (14). Ulteriori dettagli, derivazioni e considerazioni sulla specificità delle misure di profitto e del capitale nella contabilità nazionale sono presentate in Appendice: fonti dei dati e metodi. Con questi strumenti nelle nostre mani, ci volgiamo all'analisi degli eventi che hanno portato alla crisi attuale. In primo luogo i movimenti del saggio di profitto. Caratteristiche postbelliche dell’accumulazione negli USA Il saggio generale di profitto La figura 1 mostra il saggio di profitto per le imprese non finanziarie statunitensi, che è il rapporto fra i loro profitti prima degli interessi e delle tasse e i costi ad inizio anno degli impianti ed equipaggiamenti. Viene mostrato anche il trend del saggio di profitto. Come spiegato in precedenza, abbiamo bisogno di una misura del profitto prima del pagamento degli interessi perchè poi faremo una comparazione di questo ammontare con l'in25


teresse equivalente sullo stesso stock di capitale per derivare il profitto-di-impresa.

Poichè i profitti resi noti dalle imprese non finanziarie sono al netto del pagamento degli interessi, aggiungiamo questo secondo ammontare ai loro profitti pubblicati. Questa misura allargata di profitto dell'industria non finanziaria ingloba una parte dei profitti delle corporation finanziarie, poiché queste ultime derivano i loro utili dal pagamento degli interessi. Osserviamo che il saggio del profitto è soggetto a molte fluttuazioni e può essere fortemente influenzato nel breve periodo da particolari eventi storici. Per esempio, il grande aumento del saggio di profitto negli anni '60 riflette la contemporanea escalation della guerra del Vietnam. Le guerre di solito sono positive per la profittabilità, almeno nelle prime fasi. Il trend aggiustato del saggio di profitto, anch’esso mostrato nella figura 1, viene rappresentato in modo da distinguere tra i fattori strutturali del saggio di profitto e le fluttuazioni di breve periodo che sorgono da eventi congiunturali come la guerra del Vietnam. Vediamo che il trend del saggio di profitto è inclinato verso il basso per 35 anni, ma in seguito si è stabilizzato. La domanda è: che cosa ha determinato l’inversione di questa tendenza? Produttività e salari reali La figura 2 ci offre l'indizio principale. Mostra la relazione tra produttività oraria e compenso orario reale (salari reali) nel settore delle imprese U.S.A dal 1947 al 2008. I salari reali tendono a crescere più lentamente rispetto alla produttività, cioè il tasso di sfruttamento tende ad aumentare. Ma a cominciare dall'era Reagan, negli anni '80, la crescita dei salari reali rallentò in maniera 26

considerevole e ciò risulta evidente se confrontiamo i salari reali attuali, a partire dal 1980, con l’andamento che essi avrebbero seguito se avessero mantenuto il rapporto con la produttività del periodo postbellico.

Questa divaricazione dal trend fu realizzato grazie ad un attacco concertato al lavoro in questo periodo. Vedremo che il suo impatto sul saggio di profitto è stato drammatico, perchè la retribuzione dei dipendenti è un fattore importante rispetto al profitto. L'impatto sulla profittabilità della compressione della crescita dei salari reali La figura 3 mostra il forte impatto che l’eliminazione della crescita del salario reale ha avuto sui profitti. Essa mostra il saggio di profitto attuale così come l’andamento controfattuale che avrebbe seguito se i salari reali delle imprese non finanziarie avessero mantenuto il rapporto con la produttività del periodo postbellico. La repressione diretta contro il lavoro che cominciò nell'era di Reagan ebbe uno scopo ben preciso: alimentò il boom dell'ultima parte del XX° secolo.


La caduta straordinaria dei tassi di interesse Abbiamo appena visto come la caduta del saggio di profitto venne sospesa tramite un rallentamento senza precedenti nella crescita dei salari reali, ma questa è soltanto una parte della spiegazione per il grande boom iniziato negli anni '80. All'inizio del mio saggio ho sottolineato come l'accumulazione capitalista sia guidata dalla differenza tra il saggio di profitto e il tasso di interesse, cioè dal saggio del profitto-di-impresa. Ed è qui che troviamo l'altra chiave di lettura del grande boom: la straordinaria caduta dei tassi di interesse iniziata più o meno nello stesso periodo. La figura 4 mostra il tasso di interesse a 3 mesi dei Buoni del Tesoro negli USA e l'indice dei prezzi per i beni capitali (pk), rappresentato con una linea tratteggiata. Nella prima fase, dal 1947 al 1981, tale tasso di interesse è salito di 24 volte, dallo 0.59% nel 1947 al 14.03% nel 1981. Nella seconda fase, dal 1981 in poi, è caduto pesantemente nelle stesse dimensioni, passando dal 14.03% ad un mero 0.16% nel 2009. Al fine di distinguere le influenze sul mercato degli interventi di politica monetaria sarebbe necessario discutere la teoria dei tassi di interesse determinati competitivamente, il che non è possibile nello spazio di questo saggio. (15)

gli USA erano caratteristiche di tutte le aree capitaliste.

Il saggio del profitto-di-impresa e il grande boom dopo il 1980 Possiamo ora mettere insieme tutti questi elementi. La differenza tra il saggio generale di profitto (misurato al lordo dell'interesse) e il tasso di interesse è il saggio del profitto-di-impresa. Questo costituisce la guida fondamentale dell'accumulazione, la radice materiale degli “animal spirits” del capitale industriale. La figura 3 mostrava che il saggio generale di profitto riemerse dal crollo di lungo periodo grazie all’ attacco concertato al lavoro che dopo il 1982 provocò una crescita sempre più modesta dei salari reali rispetto al passato. Le figure 4-5 hanno mostrato come il tasso di interesse cadde profondamente dopo il 1982. La figura 6 mostra che l'effetto di questi due movimenti, che non ha precedenti nella storia, ha prodotto l’aumento considerevole del saggio del profitto-di-impresa. Questo è il segreto del grande boom che cominciò negli anni 1980. Il grande boom fu estremamente contraddittorio. La caduta fenomenale dei tassi di interesse scatenò un'orgia di prestiti, e gli oneri del debito nel settore si ingigantirono.

In ogni caso, qualsiasi fossero i pesi relativi dei fattori di mercato e delle decisioni politiche, la lunga crescita e la susseguente caduta di lungo periodo del tasso di interesse era evidente anche nei maggiori paesi capitalisti. La figura 5 mostra tale fenomeno attraverso il confronto tra il tasso di interesse USA e il tasso medio di interesse dei paesi partner commerciali degli USA. Tra le altre cose, ciò dimostra che le dinamiche che osserviamo ne27


Alle famiglie, i cui redditi reali erano stati compressi dal rallentamento della crescita dei salari reali, furono offerti prestiti perfino più convenienti per mantenere l’aumento dei consumi. Di conseguenza, come mostrato nella figura 7, il rapporto fra debiti delle famiglie e redditi crebbe enormemente negli anni '80.

Ma negli anni '90, mentre il debito continuava ad aumentare, anche il servizio-sul debito cominciò a crescere. Per il 2007 l'ondata del debito ha toccato il suo picco storico, e poi è sceso rapidamente nel 2008 poiché il debito diminuì perfino più rapidamente dei redditi negli spasmi della crisi ancora in corso.

Inoltre, una volta che il tasso di interesse era sceso fino a zero (attualmente è allo 0.0017, ossia 0.17%) in tali condizioni non si poteva andare più da nessuna parte. Certo, il gap tra questo tasso di base e il tasso al quale le aziende o i consumatori prendono a prestito (il tasso primario, il tasso sui mutui) potrebbe essere ulteriormente compresso dallo stato, ma questo gap è la fonte del profitto del settore finanziario, che prende a prestito al primo tasso e presta a quell'altro. Perciò, le possibilità di restringere il gap sono limitate. Ma allora cosa può accadere se aumenta il rapporto fra debito e reddito? Dopo tutto, se indebitarsi è più economico, uno si può permettere di indebitarsi di più senza incorrere in un maggiore servizio-sul debito (il rapporto tra ammortamento e pagamento degli interessi sul reddito). In effetti, come mostrato nella figura 8, mentre il rapporto del debito sul reddito è cresciuto stabilmente negli anni '80, il corrispondente rapporto di servizio-sul debito rimase all'interno di un intervallo piuttosto ristretto: le famiglie si stavano indebitando maggiormente ma i loro pagamenti mensili non aumentavano così tanto.

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Ciò solleva un punto importante. Dal lato dei lavoratori, il declino del tasso di interesse incoraggiò un indebitamento sempre maggiore delle famiglie; il che per un periodo li aiutò a mantenere il loro standard di vita nonostante il rallentamento dei salari reali. Da un punto di vista macroeconomico, la conseguente ondata di consumo delle famiglie aggiunse benzina al boom. La spinta primaria per il boom venne dalla fenomenale caduta dei tassi di interesse e dell'egualmente incredibile caduta nei salari reali rispetto alla produttività (crescita nel tasso di sfruttamento) , che insieme incrementarono enormemente il saggio del profitto-di-impresa. Le due variabili giocarono differenti ruoli su differenti fronti. Ma i dadi erano truccati. Lezioni dalla grande depressione degli anni ‘30 Quando la crisi attuale è peggiorata, i governi di tutto il mondo si sono dati da fare per salvare banche e aziende che fallivano, spesso immettendo, durante questa fase, enormi somme di nuovo denaro. Tutti i paesi avanzati hanno i cosiddetti “stabilizzatori automatici”, come gli ammortizzatori per la disoccupazione e le spese di welfare, che si manifestano durante una recessione. Ma questi sono pensati per una depressione, non per una recessione. I governi sono stati tutt'altro che entusiasti riguardo al creare nuove forme di spesa per aiutare direttamente i lavoratori, perfino sulla


questione del deficit spending esiste sicuramente una profonda divisione tra due diversi schieramenti politici. Tali divisioni sono emerse chiaramente agli incontri del G-20 recentemente conclusosi a Toronto nel Giugno 2010. Da un lato c'era l'ortodossia, che spingeva per l'austerity”, un parola in codice che significa una riduzione delle spese sanitarie, dell’istruzione, del welfare e di altre spese a sostegno del lavoro. J. C. Trichet, presidente della Banca Centrale Europea, in questi incontri ha affermato: “l'idea che le misure di austerity possano provocare una stagnazione è sbagliata”. “I governi non dovrebbero dipendere dal prestito come se fosse una soluzione rapida per stimolare la domanda…. il deficit spending non può diventare una condizione permanente delle politiche” ha detto il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schauble. Parte della motivazione per questa posizione nasce da una fede nella nozione propria dell'economia ortodossa: che i mercati siamo quasi perfetti e rapidi nel riprendersi. Dopo tutto, il saggio del profitto-di-impresa del settore non finanziario nella figura 6 mostra un deciso rialzo nel 2010, e per alcune banche di investimento il denaro è stato come il petrolio nel Golfo del Messico: aspettavano solo di fare la cresta. Nel primo trimestre del 2010 Goldman Sachs ha guadagnato 3,3 miliardi di dollari, il doppio dell'anno precedente, rendendolo il secondo più profittevole trimestre da quando i dati sono diventati pubblici nel 1999. Alla luce dell’ ottimistica teoria ortodossa, questo suggerisce che stanno per giungere di nuovo giorni felici. Inoltre i banchieri centrali europei conservano ricordi brucianti della iperinflazione tedesca finanziata dal debito degli anni '20 e le conseguenze sociali e politiche che ne seguirono. Infine, c'è la questione pratica dei benefici potenziali per il capitale europeo garantiti dai programmi di austerità. La forza lavoro europea è sopravvissuta all'era neoliberista in modo migliore rispetto a quella statunitense e britannica e, come dimostrarono Reagan e la Thatcher, una crisi offre una magnifica scusa per un attacco al lavoro. Da questo punto di vista la possibilità che l'austerity possa rendere le cose peggiori per la maggior parte della popolazione è un rischio accettabile se indebolisce una forza lavoro che in precedenza era resistente.

case sono sotto i livelli del 1981. Inoltre, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) ha recentemente messo in guardia riguardo al fatto che è in vista “una prolungata e pesante” crisi globale del lavoro- una cosa che deve essere presa molto seriamente da un potere imperiale già impantanato in svariate guerre ed in “azioni di polizia” globale. Infine, anche qui c'è una questione storica critica. Il presidente Barack Obama ha sollecitato i leader europei a ripensare la loro posizione, dicendo che essi dovrebbero “imparare dai gravissimi errori del passato quando le politiche di stimolo furono abbandonate troppo presto portando a rinnovate difficoltà e recessione”. (16) I “gravissimi errori” ai quali Obama si riferiva avevano a che fare con gli eventi negli anni '30. La Grande Depressione, innescata dal crollo del mercato azionario, portò dal 1929 al 1932 ad un grave calo nella produzione e ad una crescita decisa della disoccupazione, ma durante i successivi 4 anni la produzione crebbe di quasi il 50%. Certamente, nel 1936 la produzione stava crescendo ad un fenomenale 13%, ma il guaio era che negli stessi 4 anni il bilancio federale andò in deficit di quasi il 5%. Perciò nel 1937 l'amministrazione Roosvelt incrementò le tasse e tagliò nettamente la spesa statale. (17) Il PIL reale cadde immediatamente e la disoccupazione crebbe ancora una volta. Riconoscendo il suo errore, il governo tornò velocemente sui suoi passi e nel 1938 aumentò in maniera considerevole la spesa pubblica e il deficit così nel 1939 la produzione crebbe dell'8%. È stato solo allora che gli USA cominciarono a prepararsi ad una guerra che era nell’aria e nella quale vennero completamente impegnati soltanto nel 1942 . La figura 9 descrive il tasso di crescita durante questi anni critici.

Il versante americano ai meeting del G-20 ha espresso una serie di preoccupazioni. Solo negli USA, la ricchezza delle famiglie è già crollata di migliaia di miliardi di dollari e le nuove vendite di 29


Vi sono molte lezioni che possono essere prese da questi episodi. Primo, tagliare la spesa pubblica durante una crisi sarebbe un “errore madornale”, e questa è l'argomentazione di Obama. Secondo, è assolutamente chiaro che l'economia cominciò a riprendersi nel 1933 e, a parte il passo falso dell'amministrazione nel tagliare la spesa pubblica nel 1937, continuò così fino alla preparazione USA per la II guerra mondiale nel 1939 e al loro pieno ingresso nel 1942. (Pearl Harbor fu il 7 Dicembre 1941). È pertanto sbagliato attribuire la ripresa, cominciata nove anni prima delle guerra, alla guerra stessa. La guerra stimolò ulteriormente la produzione e l'occupazione. Terzo, è nondimeno corretto dire che la spesa pubblica (in tempo di pace) giocò un ruolo cruciale nell'accelerare la ripresa. Quarto, la spesa pubblica che venne impegnata non andò direttamente a favorire l'acquisto di beni e servizi ma fu anche diretta verso l'occupazione nella realizzazione di servizi pubblici. Per esempio, la sola Work Projects Administration (WPA) (18) diede lavoro a milioni di persone nelle costruzioni pubbliche, nelle arti, nell'insegnamento e nel supporto ai poveri. Alcune implicazioni di politica per il periodo attuale La spesa pubblica può fortemente stimolare l'economia, cosa evidente durante i tempi di guerra che sono molto spesso accompagnati da una massiccia spesa pubblica finanziata in deficit. Durante la Seconda Guerra Mondiale, per esempio nel periodo 1943-1945, gli Stati Uniti raggiunsero deficit di bilancio che erano in media del venticinque per cento. Per contrasto, oggi il deficit di bilancio, nel secondo trimestre del 2010, è meno dell'11%. In ogni caso, è importante notare che la guerra è una forma particolare di mobilità sociale utile per incrementare la produzione e l'occupazione. In tali momenti, una parte dell'occupazione risultante è derivata dalla domanda di armi e di altri beni e servizi di supporto e dalla domanda per altri fattori che la guerra a sua volta genera. Ma altra cosa è l’occupazione diretta nelle forze armate, nell’amministrazione statale, nella sicurezza, nel mantenimento e riparazione delle strutture pubbliche e private, etc. Perciò perfino durante una guerra dobbiamo distinguere fra due differenti forme di stimoli economici: domanda diretta statale che stimola l'occupazione purchè le imprese non trattengano per sé la maggior parte del denaro o lo usino per ripagare il debito; e 30

l'occupazione diretta statale che stimola la domanda a patto che le persone così impiegate non risparmino il reddito o lo usino per ripagare il debito. Gli stessi due modelli potrebbero egualmente essere applicati alle spese in tempo di pace in una mobilizzazione sociale per contrastare la crisi. Nel primo, le spese statali sono dirette verso le imprese e le banche, con la speranza che le imprese che ne beneficiano incrementino l'occupazione. Questo è il modello keynesiano tradizionale: stimolare gli affari e far sì che i benefici ricadano sull'occupazione. Nel secondo il governo fornisce direttamente occupazione per coloro che non possono trovarla nel settore privato, e poiché questi lavoratori nuovamente impiegati spendono il proprio reddito, i benefici ricadono sulle imprese e le banche. Il requisito che il denaro ricevuto sia ri-speso è cruciale. In ogni grande nazione del mondo sono state recentemente dirottate enormi somme di “salvataggio” verso banche e imprese non finanziarie, tuttavia tali fondi sono finiti molto spesso per essere bloccati lì: le banche ne hanno bisogno per puntellare i loro portafogli traballanti e le industrie per ripagare i debiti. Piuttosto correttamente, nessuno considera sensato riversare questo buon denaro in una situazione in cui vi è ben poca speranza per un utile adeguato. Perciò ben poche risorse di questi massicci salvataggi sono state reinvestite. Ma se fosse impiegato il secondo modello, la questione sarebbe probabilmente differente. Il reddito ricevuto da coloro che in precedenza erano disoccupati deve essere speso dato che devono pur vivere. Il secondo modello perciò ha due grandi vantaggi: creerebbe direttamente occupazione per coloro che più di tutti ne hanno bisogno; e genererebbe una ripresa considerevole per le imprese che li assumono. Che cosa impedisce allora ai governi di creare programmi per l'occupazione diretta? La risposta è sicuramente che l'incentivo all'impresa è la modalità preferita dal capitale. Certo, siccome l'occupazione diretta del lavoro subordina la motivazione del profitto per scopi sociali, è logicamente vista come una minaccia all'ordine capitalistico- e quindi come “socialista”. Inoltre, interferirebbe con il piano neoliberista di fare un uso sempre maggiore di lavoro globale a basso costo, la cui esistenza non solo permette una produzione più economica all'estero ma tiene anche i salari reali sotto controllo in patria. Perciò il problema del nostro tempo è quello di realizzare una mobilitazione sociale per combattere


le conseguenze di una Grande Depressione senza essere condotti a fare delle guerre. Questa è una questione globale, perchè la disoccupazione, la povertà e il degrado ambientale sono totalmente globali. Ma le mobilitazioni, per loro natura, cominciano localmente. L'obiettivo è fare in modo che si diffondano, contro la resistenza degli interessi dei potenti e degli stati vigliacchi. (Il testo originale sul sito di Anwar Shaikh http://homepage.newschool.edu/~AShaikh/ è stato pubblicato sulla rivista Socialist Register nel 2011, http://socialistregister.com. La traduzione è stata revisionata da Antonio Pagliarone.) Note 1) La crisi del 1825 è stata vista come la prima vera crisi industriale. La crisi del 1847 fu così dura che seminò rivoluzioni in tutta Europa. Maurice Flamant and Jeanne Singer-Kerel, Modern Economic Crises, London: Barrie & Jenkins, 1970, pp. 16-23. La definizione “La lunga depressione del 18731893” è da Forrest Capie and Geoffrey Wood, 'Great Depression of 1873- 1896', in D. Glasner and T_.; F. Cooley, eds., Business Cycles and Depressions: An Encyclopedia) New York: Garland Publishing, 1997. La Grande Depressione del 1929-1939 è ben nota. La collocazione temporale della Grande Stagflazione del 1967-1982 è da Shaikh,'The Falling Rate of Profit and the Economic Crisis in the U.S.', in R. Cherry et al., eds., The Imperiled Economy, New York: Union for Radical Political Economy, 1987. Sia la definizione che la collocazione temporale della crisi economica che è scoppiata nel 2008 rimangono da risolvere. 2) John Kenneth Galbraith, The Great Crash 1929, Boston: Houghton Miflin. 1955, chs. I-II, and pp. 182, 192. (Il grande crollo Traduzione di Amerigo Guadagnin e Debora Rancati, Milano: BUR Saggi, 2008) Galbraith era ambiguo circa la possibilità che potesse presentarsi nuovamente una Grande Depressione. Come storico, era fin troppo consapevole che “cicli finanziari di euforia e panico si accordano difficilmente con il tempo che ci volle alle persone per dimenticare l'ultimo disastro (John Kenneth Galbraith, Money: Whence It Came, Where It Went, Boston: Houghton Mifflin Company, 1975, p. 21). Egli notò che questi cicli erano essi stessi il “prodotto di

una libera scelta di centinaia di migliaia di individui”, che nonostante la speranza per una memoria immunizzante dell'ultimo evento “le possibilità per un ritorno dell'orgia speculativa erano piuttosto buone”, che “durante il prossimo boom verranno nuovamente enfatizzate alcune riscoperte virtuosità del sistema della libera impresa”, che fra “i primi ad accettare queste razionalizzazioni saranno coloro che chiederanno dei controlli...[che allora] diranno fermamente che i controlli non sono necessari” e che nel tempo “gli organi regolatori...diventano, con alcune eccezioni, o un braccio dell'industria che loro stessi stanno regolando od obsoleti” ( Galbraith, The Great Crash 1929, pp. 4-5, 171, 195-96). Tuttavia, come politico egli continuò a sperare che nessuno di questi eventi si avverasse. 3) Floyd Norris, 'Securitization Went Awry Once Before', New York Times, 29 January 2010. 4 ) David Smith, 'When Catastrophe Strikes Blame a Black Swan', The Sunday Times, 6 May 2007. 5 ) Shaikh, 'The Falling Rate of Profit'; J.J. van Duijn, The Long Wave in Economic Life, London: Allen and Unwin, 1983, chs. 12. 6 )E. Mandel, Late Capitalism, London: New Left Books, 1975, pp. 126-27. 7 )Shaikh, 'The Falling Rate ofProfit', p. 123. 8 )John Maynard Keynes, A Treatise on Money, New York: Harcourt, Brace and Company, 1976, p. 148. (Trattato della moneta: Edizioni Feltrinelli, 1979) 9 )Lewis Braham, 'The Business Week 50', Business Week, 23 March 2001. 10) Donald Rumsfeld, 'DoD News Briefing Secretary Rumsfeld and Gen. Myers', United States Department of Defense, 12 February 2002, disponibile su http://www.defense.gov. 11) Eckhard Hein, 'Money, Credit and the Interest Rate in Marx's Economics: On the Similarities of Marx's Monetary Analysis to Post-Keynesian Analysis', International Papers in Political Economy, 11(2), 2004, pp. 20-23; Karl Marx, Capital) Volume III, New York: International Publishers, 1967, ch. XXIII; Shaikh, 'The Falling Rate of Profit', p. 126n1. 12) Ho precedentemente affermato che lo stock al lordo dei costi correnti è la misura appropriata del capitale. Shaikh, 'Explaining the 31


Global Economic Crisis: A Critique of Brenner', Historical Materialism, 5, 1999, pp. 106-7. Tuttavia questa misura non viene più stimata dalla maggior parte delle contabilità nazionali, perchè recentemente sono passate all'assunzione che i beni capitali si deprezzano geometricamente per una durata infinita. Questa assunzione è “universalmente usata per la sua semplicità nelle esposizioni della teoria [neoclassica] del capitale”, nonostante il fatto che alcuni si riferiscano ad essa come “empiricamente implausibile”. Charles R. Hulten, 'The Measurement of Capital', in E. R. Berndt and E. Triplett, eds., Fifty Years of Economic Measurement: The Jubilee of the Conference of Research on Income and Wealth, Chicago: University of Chicago Press, 1990, p. 125. Anche La “coda infinita”, che si assume, causa molti problemi. Michael J. Harper, 'The Measurement of Productive Capital Stock, Capital Wealth, and Capital Services', BLS Working Paper No. 128, US Bureau of Labor Statistics, 1982, pp. 10, 30. L'assunzione di un periodo di vita infinito rende impossibile calcolare lo stock lordo perchè essa si basa sull'uso di uno specifica prospettiva di vita di beni capitali individuali. In un lavoro che verrà pubblicato prossimamente mostrerò come le grandi misurazioni dello stock possono essere rilevate combinando l'informazione precedentemente disponibile sul periodo di vita di particolari beni capitali con regole derivate in maniera nuova per il comportamento degli stock di capitale aggregati. Queste nuove misure dello stock di capitale cambiano l’andamento del saggio di profitto osservato nel periodo 1947-1982, tuttavia hanno soltanto un impatto limitato sull’andamento dal 1982 in avanti che sono all'attenzione di questo paper. 13) Il saggio di profitto è per definizione il rapporto di grandezze in denaro. Perciò possiamo scriverlo come r = P/K dove sia il profitto P che il capitale K sono misurati ai prezzi correnti. In alternativa, possiamo deflazionare il denominatore tramite l'indice dei prezzi del capitale Pk per volgere il capitale a costi-correnti K in Kr = K / Pk , lo stock di capitale reale (aggiustato per l'inflazione). Per preservare l'omogeneità dimensionale nel rapporto dobbiamo allora deflazionare anche il numeratore con Pk per volgere il profitto nominale P in Pr = P / Pk, la massa del profitto reale misurata in termini del suo potere di acquisto 32

sul capitale. Il rapporto fra due misure reali è ancora una volta r. 14) Nella misurazione del saggio del profittodi-impresa non stiamo facendo assunzioni circa la determinazione del tasso nominale di interesse. L'ipotesi neoclassica standard di Fisher è che il tasso reale di interesse (ir) è definito come la differenza tra il tasso di interesse nominale ed un certo tasso di inflazione atteso dall'investitore rappresentativo (Pe). Sulla base dell'ulteriore assunzione che il tasso di interesse reale sia determinato esogenamente, ciò implica che il tasso di interesse nominale segue il tasso (atteso) di inflazione, ma sulla base dell'ipotesi di aspettative razionali, il tasso atteso di inflazione seguirà il tasso corrente di inflazione. Perciò l'argomentazione si riduce all'ipotesi che il tasso nominale di interesse segua il tasso di inflazione- una proposizione che è stata così ampliamente smentita e che sopravvive solo nei libri di testo. Pierluigi Ciocca e Giangiacomo Nardozzi, The High Price of Money: An Interpretation of World Interest Rates, Oxford: Clarendon Press, 1996, p. 34. La scoperta opposta, conosciuta sin dai tempi di Tooke e Marx, riscoperta da Gibson e rimarcata poi da Keynes, è che il tasso di interesse perlopiù dipende dal livello dei prezzi piuttosto che dal suo tasso di cambiamento. Questa osservazione ha mostrato di essere così sconcertante per l'ortodossia che viene ora indicata con il termine “Paradosso di Gibson”. J. Huston McCulloch, Money & Inflation: A Monetarist Approach, New York: Academic Press, 1982, pp. 47-49. 15) Per valutare fino a che punto i movimenti sostenuti del tasso di interesse siano stati guidati dalle politiche, sarebbe necessario sviluppare una teoria adeguata dei fattori competitivi di questa variabile. Una tale teoria è possibile, ma va oltre l'estensione del presente saggio. È sufficiente dire che il tasso di interesse sarebbe collegato al livello dei prezzi e ai costi bancari. Dal lato dei prezzi, spiegherebbe la struttura che domina la fase 1947-1981, nella quale il tasso di interesse nominale sale insieme al livello dei prezzi (come nel “paradosso di Gibson”). Essa permetterebbe anche interventi politici, come il c.d. “Volcker Shock” che aumentò il tasso di interesse dal 10.4% al 14.03% nel 1981. Merita di essere ricordato che P. Volcker divenne presidente della FED americana soltanto nell'Agosto 1979, quando i tassi di interesse stavano crescendo insieme al livello dei prezzi per 3 decenni. Dal lato dei costi, una tale teoria spiegherebbe come il tasso di inte-


resse possa cadere in relazione al livello dei prezzi quando iniziano a diminuire i costi bancari, e potrebbe perfino cadere in termini assoluti nonostante un livello crescente dei prezzi - come è avvenuto dal 1981 in avanti. Soltanto allora potremmo giudicare le influenze relative delle forze di mercato e della politica sul movimento postbellico dei tassi di interesse. 16) E' stato aggiunto il corsivo alla citazione di Obama. Tutte le citazioni sono dal report : 'G20 Summit: An Economic Clash of Civilizations', The Christian Science Monitor, 25 June 2010. 17)“Roosvelt e i falchi dell'inflazione di quel tempo erano determinati a far scoppiare quella che essi vedevano come una bolla del mercato azionario e stroncare l'inflazione sul nascere. L'equilibrio di bilancio è stato un passo importante in tal senso, ma lo era anche la politica della Federal Reserve, che nel 1937 operò una durissima

stretta attraverso requisiti di riserva più elevati per le banche, Roosvelt continuò con la stretta fiscale nonostante l'ovvia flessione dell'attività economica. Il bilancio...raggiunse virtualmente il pareggio nell'anno fiscale 1938.. il risultato fu una pesante ricaduta economica, con il PIL che crollava e la disoccupazione che cresceva.”Bruce Bartlett, 'Is Obama Repeating the Mistake of 1937?', Capital Gains and Games Blog, 25 January 2010, disponibile su http:/ /www.capitalgainsandgames.com. 18) La Works Progress Administration era l’agenzia più importante del New Deal che occupava milioni di operai non specializzati indirizzati verso la realizzazione di opere pubbliche, come edifici pubblici, strade e nel settore culturale. Nel 1938 l’agenzia raggiunse il picco di tre milioni di lavoratori occupati. Tra il 1935 ed il 1941 garantì l’occupazione ad otto milioni di disoccupati. L’agenzia venne chiusa il 30 giugno 1943.(A.P.)

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La più Grande Depressione della storia? Antonio Pagliarone

antonio.pagliarone@fastwebnet.it

Noi sappiamo bene che occorrono condizioni assolutamente determinate perché sia possibile l'abbattimento del capitale. La volontà del proletariato non basta, giacché se non esistono queste condizioni determinate tale volontà non può svilupparsi affatto. Paul Mattick Crisi Mondiale e Movimento O peraio, 1933 Vedrai, vedrai… vedrai che cambierà…forse non sarà domani ma un bel giorno cambierà Luigi Tenco 1965

Gli economisti più disparati e gli osservatori di ogni genere insistono nel definire l’attuale corso economico come una delle tante recessioni che hanno caratterizzato l’ultimo secolo, ma ben pochi hanno il coraggio di descrivere quella che potremmo forse qualificare come la più grande Depressione della storia. Per poter sostenere tale affermazione occorre prendere in considerazione le stime relative alle diverse grandezze economiche utili per fotografare una sistema economico e sociale che non è più in grado di riprodursi, un organismo seriamente malato di fronte al quale non si riescono ad applicare le solite terapie che in passato lo hanno rigenerato. Un malato terminale in via di decomposizione. Uno dei protagonisti sorti alla ribalta dell’economia moderna è l’indebitamento. Il debito accumulato negli Stati Uniti nel 2011 ammontava a poco più di 15 trilioni di dollari superando di poco il PIL dello stesso anno mentre nel pieno della crisi finanziaria del 2008 era di 9,6 trilioni Il debito al consumo delle famiglie americane, pur essendo declinato dal 2008, che era pari a 14 trilioni, registra nel 2011 un ammontare di 11,66 trilioni. La Figura 1 riporta l’andamento del debito complessivo rispetto al PIL nel quale si nota che nel 2009 ha raggiunto il 369.7 % mentre il picco del 1933 era del 299,8%

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Figura 1. USA: Debito Totale rispetto al PIL dal 1870 al 2010 (Fonte: BEA, Federal Riserve, Census Bureau: Historical Statistics of United States, Colonial Time)

Condizioni di indebitamento ormai divenute inverosimili si rilevano anche negli altri paesi maggiormente industrializzati come il Giappone che nel 2009 ha registrato un rapporto debito/PIL del 571%, ma lo stesso anno nel Regno Unito era al 466%, in Spagna al 366%, nella Corea del Sud al 333%, in Francia 323%, in Italia al 315%, in Svizzera al 313%, in Germania al 285% ed in Canada al 259%. La figura 2, tratta da Global Finance, mostra il rapporto debito PIL in vari paesi ed è interessante notare la distinzione tra il debito del Governo, delle Imprese non finanziarie, del settore finanziario e delle famiglie(1). In Italia il debito delle famiglie nel 2011 ammontava a 503 miliardi di euro ed è aumentato del 36,4% rispetto al 2008.


Figura 2. Debito Totale, come percentuale del PIL, nei vari paesi suddiviso per settori

Possiamo rilevare una curiosità che mette in discussione molti luoghi comuni. Infatti spesso si imputa un aggravamento dell’ammontare del debito al numero elevato di impieghi statali che peserebbero sul bilancio dello stato. Ebbene dai dati forniti dall’ILO (International Labour Office) risulta che il rapporto tra lavoratori pubblici rispetto alla popolazione attiva totale nell’arco del periodo 2000-2009 è più elevato in Finlandia (23%), Francia (22%), Belgio 17%, mentre in Italia è poco meno del 15%, in Portogallo, Olanda, Spagna è al 13%, in Germania all’ 11% mentre il fanalino di coda è rappresentato dalla Grecia con il 7,5%. Se tra i dipendenti pubblici consideriamo anche quelli impiegati nelle imprese dello stato allora scopriamo che in Francia e in Finlandia il rapporto con la popolazione attiva è poco meno del 25%, in Belgio, Grecia ed Olanda siamo attorno al 20% mentre in Italia e in Germania non toccano il 15% con la Spagna al 14%. Questi dati mettono definitivamente in discussione che il risanamento del debito possa passare attraverso i tagli all’occupazione pubblica. La crescita economica che gli Stati Uniti hanno vantato nel passato è divenuta ormai un vago ricordo. Come sottolinea Paolo Giussani l’andamento crescente del PIL, dopo il crash del 2008, è stato un artefatto realizzato inserendo nei calcoli “il giro d’affari del settore finanziario che assieme ad altre voci viene aggiunto indebitamente al PIL che deprivato dell’ iniziale effetto del cosiddetto stimolo fiscale si trova ora a tendere verso un punto di pura e semplice stagnazione produttiva, a voler essere benevoli”. La Figura 3 (2), messa gentilmente a disposizione da Paolo Giussani, rivela il netto crollo della produzione negli ultimi quarant’anni rispetto all’epoca d’oro del secondo dopoguerra per gli Stati Uniti e per il resto del mondo.

Figura 3. Mondo e USA Tassi Medi di Crescita Annua del PIL

Il Giappone, la seconda potenza economica mondiale, ha registrato nel 2011 una crescita del PIL pari all’1,4% e se consideriamo il periodo che va dal 1980 al 2011 la crescita media è stata solo dello 0,52%, ma basta osservare il dato drammatico del 2009 con un record di – 4,9% per poter affermare che il termine stagnazione è a dir poco ottimista. La recessione giapponese nello stesso anno è stata accompagnata da un declino del PIL nell’area OCSE mediamente pari al 5,8%. In Europa dal 1995 al 2011 si è registrato un incremento medio del PIL pari allo 0.42% con un record negativo di -2,50% nel marzo 2009. La figura 4 mostra il declino del PIL in vari paesi europei (è presente anche il dato per la Corea del Sud) tra il 2007 ed il 2010.

Figura 4. Declino del PIL, espresso in miliardi di dollari (a prezzi e tassi di cambio correnti), tra il 2007 ed il 2010 in vari paesi

Il Regno Unito tra il 2007 ed il 2010 ha subito una diminuzione del PIL pari al 20%, mentre l’Irlanda del 18,4%, l’Italia del 3,1%, la Spagna del 2,4%, la Germania dell’1,3% e la Francia dello 0.9%. Nel suo complesso l’Unione Europea ha 35


registrato una diminuzione del PIL nello stesso periodo pari al 4,3%. Il tasso di disoccupazione ufficiale negli Stati Uniti è dell’8,5% ma in realtà se si tiene conto dei criteri piuttosto elastici nel calcolare l’occupazione, grazie all’Hedonic System, si raggiunge il valore dell’11,4% ma rilevazioni alternative, che inglobano nei senza lavoro gli scoraggiati, i lavori a breve termine e quelli part-time, fanno innalzare il tasso di disoccupazione al 22,7%(3). Tanto per intenderci durante il periodo della Grande Depressione il picco massimo di disoccupazione si è raggiunto nel 1933 con il 25%. La figura 5 mostra l’andamento del tasso di disoccupazione negli USA dal 1995 al 2012 secondo le stime ufficiali e quelle alternative dell’SGS (Shadows Government Statistics di John Williams).

al pagamento di parte del salario. Alcuni studiosi hanno ricavato dai dati della popolazione attiva rispetto a quella “in età da lavoro” che in Giappone porta il tasso di disoccupazione effettivo al 25,5%. Il tasso di disoccupazione ufficiale nel Regno Unito è attualmente dell’8% ma le stime alternative operate con gli stessi criteri dell’SGS mostrano un dato del tutto diverso che è pari al 21% della forza lavoro attiva, decisamente peggiore di quello degli anni 30. Nel resto della Europa il tasso di disoccupazione è mediamente del 10% ma se osserviamo i dati Eurostat, che si è decisa a tenere in considerazione tutti gli aspetti particolari evidenziati nelle rilevazioni alternative, riscontriamo valori piuttosto drammatici non solo per la Spagna, con la palma d’oro del 30%, ma anche per la tanto esaltata Germania con il suo 15% ma con il record di lavori part-time(4), da notare che il picco della disoccupazione durante la crisi di Weimar ha toccato il 25% nel 1932(5). Il valore invidiabile dell’Olanda è determinato esclusivamente da una flessibilità che dura da moltissimi anni. La Figura 6 mostra chiaramente la composizione della disoccupazione nei vari paesi dell’eurozona

Figura 5

Il Giappone ha registrato nel 2010 una disoccupazione ufficiale del 5,2%. Non esistono stime alternative ma possiamo sottolineare che il metodo utilizzato per la rilevazione è a dir poco sconcertante ed ha fatto da apripista ai criteri introdotti negli altri paesi OCSE. Infatti nel paese del Sol Levante chiunque lavori almeno 1 ora alla settimana od una settimana al mese viene considerato occupato a tutti gli effetti, senza considerare i lavori part-time o gli scoraggiati che porterebbero almeno a triplicare il tasso di occupazione ufficiale. Il gruppo di analisti di Nomura hanno stabilito che il tasso di disoccupazione reale è attualmente del 12,2%. Ma gli osservatori di Nomura ci riferiscono inoltre che in Giappone si è verificata una diminuzione generalizzata dell’orario di lavoro e quindi dei salari per poter mantenere basso il tasso di disoccupazione, evitando così alle Conglomerate di mandare sulla strada larghe masse di lavoratori, grazie ad una sorta di solidarietà “nazionale” sostenuta anche dal Governo che partecipa 36

Figura 6. Tasso di Disoccupazione nell’Area Europea (2010)

In realtà se poniamo a confronto il tasso di disoccupazione dei maggiori paesi europei esso supera il 15%, valore destinato a crescere nei prossimi mesi grazie alle ulteriori “riforme” che non interessano esclusivamente l’Italia. Un dato interessante da notare è il sottoutilizzo della forza lavoro che ha accompagnato la fase di crescita della disoccupazione. I lavoratori occupati in ogni senso raramente riescono ad essere collocati in mansioni adeguate alla loro professionalità per cui risultano sottooccupati. Se osserviamo il grafico di Figura 7 relativo all’andamento della quota dei salari sul reddito nazionale negli Stati Uniti notiamo chiaramente che la quota dei salari percepiti dai lavoratori del-


le Corporation e quelli dell’economia nel suo complesso stanno declinando dal 1980 (6).

Uniti dove risulta evidente che a partire dalla crisi degli anni 70, con un picco di massima del 18,7% nel 1979, assistiamo, nonostante le oscillazioni(8), ad un declino che prosegue sino al 2007 e che continua tutt’ora (nel 2010 è pari all’11,7%).

Figura7.USA,QuotaSalari sulRedditoNazionale1948-2009

Lo stesso fenomeno più o meno pronunciato si è verificato in tutti i paesi dell’Europa Unita a parte il picco del Regno Unito del 1991 seguito da una discesa più pronunciata come si nota dal grafico sottostante(7). Scopriamo così che il salario dei lavoratori italiani è il più basso del Continente Europeo.

Gli investimenti in capitale fisso delle imprese americane hanno iniziato a declinare dal 1977 ma occorre anche precisare che sin dagli anni 50 del secolo scorso non si riscontrano incrementi nella occupazione in relazione agli investimenti fissi operati dalle corporation americane; per cui i teorici dello “sviluppo” fordista hanno ben pochi elementi per sostenere una fase di trasformazione radicale nel modo di produzione nel “periodo d’oro” delle lotte operaie. Il grafico di figura 8 presenta l’andamento dell’ammontare degli investimenti in capitale fisso rispetto al PIL negli Stati

Figura 8. USA: Formazione di Capitale Fisso Lordo come percentuale del PIL a dollaro corrente (Calcolati a partire dai dati del BEA (Bureau of Economic Analysis) NIPA)

Un andamento analogo viene presentato dal grafico di Figura 9 relativo al rapporto tra investimenti fissi e Pil in Europa nel quale è evidente il declino a partire dai primi anni 70. Infatti si può verificare nel 1973 un picco del 25 %, nella fase finale del Golden Age postbellico, per raggiungere il 18,2% nel 2010.

Figura 9. Europa: Formazione di Capitale Fisso Lordo come percentuale del PIL (calcolati dai dati OCSE)

Persino la Germania, secondo i dati rielaborati dalla Banca Mondiale e dall’OCSE, ha conosciuto un declino del rapporto tra investimenti fissi e PIL a partire dal 1971 pari al 28%, mentre nel 2009 si è passati al 17,2% nonostante la crescita della bilancia commerciale sia superiore a tale valore; il che dimostra una notevole intensificazione del lavoro. Un andamento analogo si riscontra in Giappone che ha presentato un picco di massima nel 1973 con il 36,6% che è andato diminuendo 37


continuamente nonostante la ripresa del 1991 (31,8%) sino a raggiungere il 21,2% nel 2009. Un indicatore molto importante che rivela lo stato della produzione è rappresentato dal grado di utilizzo della capacità produttiva che per gli Stati Uniti ha subito, pur in presenza delle inevitabili fluttuazioni, un declino lineare sul lungo periodo che va dal 1967 al 2009. La Figura 10, fornito gentilmente da Paolo Giussani, ne mostra l’andamento nel periodo considerato.

no dovuti ad un maggiore sfruttamento della forza lavoro. Il grafico di Figura 11 mostra gli incrementi di produttività per i singoli paesi tra il 1991 ed il 2007

Figura 11. Andamento della produttività, calcolata come output per operaio, nei vari paesi dal 1991 al 2007 Figura 10. USA Tasso di Utilizzo della Capacità Produttiva (1967-2010)

Per misurare correttamente il grado di utilizzo della capacità bisogna tener conto delle variazioni dell’output in relazione all’andamento dello stock di capitale sul lungo periodo, ma Anwar Shaikh propone una rilevazione alternativa, basata sul consumo di energia elettrica destinata alle imprese, che dovrebbe fornire dati più realistici (9) Osservando i grafici proposti da Shaikh, messi a confronto con quelli del FMI, per i maggiori paesi industrializzati si nota un declino più o meno pronunciato dell’utilizzo della capacità con l’eccezione della Germania. Per gli Stati Uniti e per il Regno Unito la stessa indagine mostra i grafici del grado di utilizzo della capacità rapportata al capitale investito nell’intervallo dal 1970 al 2000 che rivelano una caduta molto più evidente. Ciò dimostra chiaramente che se la capacità produttiva è sottoutilizzata non vi è alcuna spinta verso investimenti orientati all’innovazione tecnologica. Secondo i dati del BLS negli Stati Uniti la produttività intesa come output per lavoratore è progressivamente aumentata dal 1987 al 2010, con una crescita del 3,6% tra il 2009 ed il 2010, ma se la confrontiamo con quella calcolata dal rapporto tra output per unità di capitale investito essa permane su valori negativi per tutto il periodo ad eccezione del 2009-2010 che vede un aumento del 3%(10). Queste rilevazioni mostrano chiaramente che gli incrementi di produttività so38

Si notano aumenti nel complesso sempre meno importanti specie a partire dal 2003. Fanno eccezione la Gran Bretagna che presenta incrementi superiori agli altri paesi ed il Giappone con una crescita più pronunciata a partire dal 1998 ma su valori inferiori alle altre nazioni economicamente sviluppate. Nel 2009 il paese del Sol Levante ha però subito un declino del 3% nel numero di ore medie lavorate, in linea coi paesi OCSE, che ha portato ad un decremento della produttività pari al 4,8%, il dato peggiore tra tutte le nazioni sviluppate. Nonostante i dati ufficiali mostrino una situazione di crescita moderata della inflazione, secondo rilevazioni alternative, che prevedono aggiustamenti sui consumi reali, negli Stati Uniti si è verificato tra il 2010 ed il 2011 un aumento dei prezzi pari al 5,8%, un valore molto vicino all’inflazione degli anni 70. Per l’Eurozona il tasso di inflazione varia da paese a paese infatti nel 2010 si passa dal 5,2% della Grecia e al 3,7% della Gran Bretagna, all’Irlanda che al contrario sta vivendo una fase deflattiva. L’inflazione ufficiale rilevata dall’Eurostat nei paesi dell’eurozona è pari al 2,7% in risalita dopo il crollo del 2009 che la vedeva su valori negativi. Secondo alcuni osservatori gli incrementi dei prezzi al consumo sono determinati esclusivamente dall’aumento dei prezzi delle materie prime ingaggiate nella produzione che a loro volta sono condizionati dalla speculazione operata sui mercati di Chicago e di Londra (11). Per avere un’idea degli aumenti


spropositati di alcune materie prime possiamo osservare che il prezzo del Cromo dal 2000 al 2008 è aumentato del 265%, del Rame 190%, del Ferro 132%, del Manganese 227%, Tungsteno 239% , Vanadio 547% ecc. Tra i non metalli lo zolfo ha fatto nello stesso periodo un balzo del 750%, il Potassio 230% per citarne alcuni. Il prezzo del Carbone tra il 2000 ed il 2008 è aumentato del 59%, quello del gas naturale del 156% mentre il petrolio nello stesso periodo è aumentato del 244%. Attualmente sono stati superati i 101 dollari al barile ma il prezzo è destinato a salire. Dati di questo genere mostrano chiaramente che le rilevazioni ufficiali sull’andamento dei prezzi al consumo sono totalmente artefatti (12). Il rapporto della Banca Mondiale del Febbraio 2011 riporta che “Nei paesi economicamente sviluppati l’aumento dei prezzi dei beni alimentari ha gettato nella povertà quasi 44 milioni di persone”. La recessione sta colpendo anche la Russia di Putin, paese che merita qualche considerazione a parte rispetto alle altre economie dato il carattere oligarchico di un sistema caratterizzato da una spaventosa concentrazione e monopolizzazione delle attività industriali dove continua a ristagnare il progresso tecnico rendendole non competitive sul mercato internazionale e con un settore bancario ancora molto arretrato . In realtà dopo la crisi finanziaria del 2008, durante la quale è tornato protagonista il prezzo del petrolio, è seguita una recessione nel 2009 con un crollo del PIL reale pari al 7,8% ( nel 2008 il PIL era a + 5,8%) ed un aumento della disoccupazione del 9,3% nel 2010. La produzione industriale nel 2008 ha subito una caduta del 19%; un record storico per la Russia, ma la ripresa del PIL al 4-4,5% negli ultimi due anni non ha certamente bilanciato il livello dell’8,5% del 2007 l’anno che precede la crisi. Occorre poi sottolineare che la produzione industriale opera attualmente utilizzando buona parte della capacità creata durante il “socialismo” (13). La produttività è andata crescendo sino al 2007 ma con la crisi del 2008 assistiamo ad una brusca inversione di tendenza toccando il valore negativo di -8,2% del 2009. L’inflazione ufficiale che ha raggiunto il 14% nel 2008 attualmente si è attestata al 9,3%. Tra il 2006 ed il 2010 nel settore agricolo è stato eliminato un lavoratore su cinque mentre nelle industrie russe, durante lo stesso periodo, vi sono stati tagli alla occupazione del 16,9% , nonostante ciò il tasso ufficiale di disoccupazione registrato

nel 2010 è del 7,5%. La NezavisimayaGazeta del marzo 2011 comunque riportava che il 20-25% della popolazione lavorativa era occupata “informalmente” il che comportava la mancanza di ogni diritto sociale e legale. In una condizione del genere si possono realizzare alti profitti per un pugno di oligarchi (14), impegnati nella speculazione, che hanno preso nelle loro mani il settore bancario e la produzione di materie prime e i cui privilegi vengono garantiti dallo stato. Ciò ha portano di conseguenza ad una estrema polarizzazione della società caratterizzata da una povertà di massa Vorrei concludere riportando una considerazione decisamente condivisibile “La crisi non ha risolto né cancellato nulla, l’indebitamento resta altissimo e l’associata probabilità di nuovi crack altrettanto elevata. In queste condizioni non solo è vieppiù una chimera una crescita economica di qualche rilevanza, ma men che meno può riprendere nessuna seria fase speculativa, o meglio lo può fare solo riproducendo molto presto condizioni peggiori di quelle esistenti alla fine della fase precedente. Non è insensato pensare che una seconda scossa del tipo e magnitudo di quella di due anni e mezzo fa possa produrre grandissime sorprese” (15) Note 1) Per quanto riguarda gli Stati Uniti non sono stati inseriti gli ABS (Asset Backed Securities), titoli simili alle obbligazioni derivanti da operazioni di cartolarizzazione, che porterebbero il debito complessivo ad un valore superiore del 360% nel 2009. 2) Questo come altri grafici sono stati presentati da P. Giussani alla Conferenza di Casa Piana del 2010. 3) ZeroHedge riporta che nell’ultimo mese hanno perso il lavoro 1 milione e duecentomila americani, un record storico che mette definitivamente in dubbio i dati forniti dal BLS (Bureau of Labor Statistics) che al contrario registra un aumento seppur modesto della occupazione. 4) Occorre notare poi che dal 2001 con l’introduzione della riforma Hartz sono aumentati vertiginosamente i lavoratori sottopagati e dequalificati secondo modalità paragonabili a quelle della Cina (vedi il Rapporto redatto da Thorsten Kalina e Claudia Weinkopf dell’ Institut Arbeit und Qualifikation) che attualmente ammontano al 20% della forza lavoro. Nel 2011 la popolazio39


ne tedesca al disotto della soglia di povertà ammontava a più del 15% e con il declino delle esportazioni si prevede un ulteriore taglio della occupazione e dei salari per i prossimi anni. Il governo Merkel –Schäuble ha preparato un documento di bilancio per il 2013 che prevede nuovi tagli alla sanità, alle pensioni ed allo stato sociale, attraverso una manovra di 10 miliardi di euro, giustificato dallo slogan “diamo l’esempio” indirizzato ai paesi “meno virtuosi” della Comunità Europea. 5) N. H. DIMSDALE, N. HORSEWOOD E A. VAN RIEL Unemploiment and Real Wages in Weimar Germany University of Oxford Discussion Papers in Economic and Social History Number 56, October 2004 6) P. Giussani alla Conferenza di Casa Piana, 2010 7) P. Giussani ibidem. 8) Tali oscillazioni possono facilmente essere imputate all’inserimento dei supporti informatici in quello che definiamo capitale fisso lordo. 9) Per un approfondimento sui criteri di rilevazione vedi il paper ANWAR M. SHAIKH, JAMEE K. MOUDUD Measuring Capacity Utilization in OECD Countries: A Cointegration Method November 2004

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10) Per una analisi dell’andamento della produttività e dei limiti relativi al suo calcolo vedi: Antonio Pagliarone Qualche riferimento al rapporto tra Information Technology e produttività 11) Sulla dinamica dei prezzi delle materie prime vedi Antonio Pagliarone “Dalla Fame di Speculazione alla Speculazione sulla fame. 12) Con buona pace dei keynesiani più rozzi che imputavano l’aumento dell’inflazione al pieno impiego mentre osserviamo attualmente un incremento dei prezzi in una fase di alta disoccupazione e declino generalizzato dei salari. 13) Khanin e Formin in un articolo del 2007 mostrano empiricamente una declino annuale del capitale fisso utilizzato per la produzione di beni pari al 2,6-2,7% a partire dal 2002.G.I Khanin , D.A. Fomin Accumulation and Consumption of Fixed Capital in Russia in Studies on Russian Economic Development Vol 18 n 1. (2007) 14) Le grandi compagnie petrolifere controllate da questa elite di delinquenti sono Gazprom, Lukoil Rosneft, TNK-BP, Surgutneftegas, il Complesso Industriale di Norilsk costituito dalle miniere di Nichel e di altri metalli, e la Sberbank costituita da una serie di banche regionali 15) Paolo Giussani Capitalism is Dead


Penuria artificiale in un mondo di sovrapproduzione Perspective internationaliste internationalist-perspective.org

Sia che si consideri la situazione di eccesso di capacità globale attuale come una causa o un effetto della crisi economica, una cosa è certa: non è facile fare profitti in un mondo immerso nella sovrapproduzione. Il capitalismo è nato nella penuria e non può funzionare senza di essa. Sembra quindi logico che la crisi crei una tendenza a ripristinarla artificialmente. Ma che impatto ha sulle possibilità dell’economia globale di trovare una via d’uscita ai suoi attuali tormenti? La maggior parte delle analisi su come sia nata la crisi attuale insiste nel sottolineare i meccanismi di formazione delle cosiddette bolle. I dibattiti sono furiosi sulle misure da prendere per evitare che si ripetano simili eventi in futuro, ma è come discutere su come trattare le lesioni cutanee in un malato di AIDS. Il problema è molto più profondo. Indipendentemente dalle loro specificità, le bolle sono sempre un fallimento del capitale di mantenere le sue promesse. Il denaro che ha alimentato queste bolle è stato investito a garanzia di futuri profitti. Quando diventa chiaro che questi profitti non si concretizzeranno mai, la bolla implode. Quando questo accade in un solo settore, si può incolpare la cattiva gestione, gli abusi e le malversazioni che si sono verificati in questo settore. Nella crisi del mercato immobiliare negli Stati Uniti, c’era certamente di che biasimare; anche nella crisi del credito che ne seguì. Così come nel caso automobilistico. Ma adesso ci sono intere economie che implodono nelle bolle. Ci sono molte ragioni specifiche per cui questo accade prima qui e non altrove, ma la catena di bolle che implodono diventa così lunga che le ragioni specifiche non possono più spiegare quello che sta diventando un fenomeno generalizzato. Il problema di fondo non è diverso in Grecia che nella crisi degli alloggi: i profitti non sono sufficienti a soddisfare le aspettative del capitale investito.

La crisi del debito continua a crescere, nonostante tutti i discorsi sulla ripresa del crescita. Naturalmente, la crisi non segue mai un percorso di discesa lineare, ma la speranza che una profonda recessione dovrebbe portare ad una forte ripresa, come l’inverno porta alla primavera, è soltanto un pensiero magico. Egualmente è un pensiero magico parlare di “economia impantanata”come se fosse un’automobile che potesse ripartire con i cavi e il caricabatterie. Dubito ci siano molti economisti che credono veramente a questa immagine. La maggior parte di loro si rende conto che le misure anti-crisi possono al massimo evitare il collasso per qualche tempo, tempo necessario per ristrutturare l'economia. Ma come? Le misure di austerità sono necessarie. Consumatori, lavoratori, le imprese, i governi devono spendere meno per poter far fronte ai pagamenti futuri al capitale perché, altrimenti, il valore del capitale esistente crollerà. Ma tutte queste misure di austerità, che non faranno che rafforzarsi col tempo, riducono la domanda. L’eccesso di capacità dell’economia aumenta; le opportunità d’investimento redditizie diminuiscono. La tendenza spinge i detentori di capitale verso l’investimento speculativo, verso la creazione di nuove bolle di falsa ricchezza le cui implosioni creeranno nuovi shock. I governi sono inevitabilmente spinti ad avere politiche contraddittorie. Ciò che creano con una mano, la distruggono con l’altra. Le loro politiche di austerità minano le loro politiche di ristabilimento, e queste ultime, creando nuovi debiti, nuovi pegni per futuri profitti, minano le prime. Come uscire da questo dilemma? Un nuovo paradigma per la crescita? Non c’è possibilità, per quanto ne so; almeno nessuna che possa impedire una rapida svalutazione 41


del capitale, con le sue conseguenze devastanti per la riproduzione della società. Ciò che possiamo aspettarci di positivo è che questa esperienza traumatica mostri chiaramente che il fondamento stesso dell’economia mondiale, la produzione per il profitto, è divenuto obsoleto. Ma se sei un politico o un economista che lavora per un think tank o un governo, ovviamente dobbiamo credere che “yes, we can”. Che gli shock possono essere assorbiti e che un nuovo paradigma della crescita può emergere. Tre priorità strategiche derivano da questa speranza. Nessuna è nuova, ma la situazione attuale dà loro una nuova urgenza. 1. Aumentare i profitti riducendo i salari. Nello specifico, per quanto possibile combinare la produzione fordista (produzione di massa basata sul lavoro in catena di montaggio) coi salari più bassi possibili. Questo significa intensificare la globalizzazione. Utilizzare l’eccedenza di manodopera del mercato mondiale, aumentata dalla crisi, per diminuire i salari, ovunque sia possibile, sotto il valore della forza lavoro, cioè al di sotto del costo necessario al salariato per riprodursi. Nessun limite a ciò, eccetto la resistenza della classe lavoratrice. Il fatto che pagare salari al di sotto del valore della forza lavoro distrugge la forza lavoro stessa non rappresenta un limite quando questa è abbondante. Come qualsiasi merce in sovrapproduzione, la forza lavoro dev’essere svalutata; è una tendenza irresistibile nella logica del capitale. Resistere diventa, in pratica, rifiutare di essere una merce, respingere la forma valore. 2. Aumentare i profitti tagliando le spese false, eliminando per quanto possibile il capitale costante o variabile superfluo. Ciò significa sbarazzarsi d’imprese, impianti industriali e lavoratori di cui non si ha bisogno e ridurre al minimo i costi di gestione della popolazione in eccesso. Non è un compito facile, naturalmente. L’aiuto dei sindacati – che, per la loro funzione di amministratori della forza lavoro, capiscono che ciò di cui si occupano è un bene che deve piegarsi alla logica del mercato – sarà indispensabile. 3. Aumentare i profitti creando artificialmente condizioni di penuria. Sviluppare un’economia parallela, globale, centrata sui Paesi più avanzati e quindi protetta dai suoi mercati esclusivi dalla tendenza deflazionistica che inevitabilmente inghiotte gran parte del mondo. Ciò implica spostare il centro di gravità dell’economia, quello che porta maggiori profitti, dalla produzione di merci alla produzione d’innovazione, di nuove tecniche per la produzione di merci; una presa di distanza 42

dalle economie di scala (il cui rendimento diventa negativo con l’aumento dell’eccesso di capacità) per mirare a un adattamento costante, una creazione costante di penuria. I primi due obiettivi strategici non conoscono limiti oggettivi e dipendono dalla possibilità di sconfiggere la volontà di sopravvivere degli esseri umani, di distruggere la loro capacità di non concepirsi come merci ma altro. Ma non è di ciò che questo articolo vuole trattare: nel prosieguo voglio affrontare lo sviluppo del terzo obiettivo e del limite che incontra. Il Tao degli approvvigionamenti scarsi Ritorniamo alla domanda: come fare profitti in un mondo immerso nella sovrapproduzione? Hugh MacLeod formula il problema nel suo sito web in questo modo: «Ogni posto di lavoro per la gestione del medio livello che si forma, trova masse di persone disponibili e capaci. Qualsiasi azienda che ha bisogno di acquistare servizi da un’agenzia pubblicitaria o da una società di progettazione, ne ha decine a sua disposizione, pronte ad assicurare il lavoro. Chiunque voglia acquistare una nuova auto, trova centinaia di case automobilistiche e concessionarie a portata di mano. Potrei continuare a lungo. Potrei anche proseguire sulla quantità di brave persone che conosco che sono bloccati dall’eccesso di offerta sui mercati, e come si svegliano ogni mattina, rabbrividiti, in preda all’ansia e al disagio. Così forse dovremmo rimetterci al “Tao degli approvvigionamenti scarsi”. Se soltanto 100 persone vogliono comprare i vostri widget, fabbricatene solo 90. Se ne vogliono soltanto 1000, fatene solo 900. Se solo 10 milioni, fatene 9 milioni. E non è scienza missilistica, ma ci vuole disciplina». (http://gapingvoid.com/2005/03/17 /the-tao-of-undersupply/) Pur tuttavia, ciò richiede più che disciplina e a volte anche la scienza infusa. Il problema con la strategia di Hugh è che quando vi è un foro nel mercato, il capitale lo riempie. Qualcun altro farà questi widget, a meno che non ci sia un mezzo per impedirlo; ma non esiste. Esiste l’arma spuntata del protezionismo, ma il gioco risulta generalmente controproducente. C’è anche il controllo del mercato tramite la concentrazione del capitale. Si tratta naturalmente di una tendenza costante nella storia del capitalismo, ma accelera in periodi che precedono convulsioni maggiori: a cavallo tra il XIX e XX secolo,


alla fine degli anni Venti e nell’ultimo decennio. Le condizioni di crisi attuali facilitano ulteriormente la concentrazione del capitale. Le società più forti comprano a basso prezzo le loro indebolite rivali e vi attaccano altre nelle cosiddette “alleanze strategiche” che afferrano quote di mercato attraverso reti piuttosto che con monopoli dichiarati o accordi di cartello espliciti. In molti settori il numero di attori chiave è stato così tanto ridotto che monopoli di fatto (diamanti) oppure oligopoli (petrolio, bauxite, aviazione) tengono in un pugno di ferro il mercato globale. Dove questa tendenza è forse più evidente è nella produzione delle materie prime finite, ma è presente in tutta l’economia, dai software e le operazioni bancarie fino all'alimentazione industriale e la vendita al dettaglio. Per questi conglomerati giganti non vi è alcuna necessità di complicità esplicita per esercitare la loro comune capacità di fissare i prezzi al di sopra del valore dei loro prodotti e per ridurre l’offerta congiuntamente all’approvvigionamento a tale scopo (come quando le principali società petrolifere hanno ridotto la loro capacità di raffinazione nell’ultimo decennio). Ma mentre il livello senza precedenti di concentrazione di capitale garantisce un futuro brillante al modo “tradizionale”di ottenere profitti supplementari,con il controllo monopolistico o oligopolistico dei mercati esistenti, esiste un altro modo di ottenerli, che è più sorprendente, più tipico del periodo attuale: la mercificazione del sapere. Un mondo di brevetti Una società che presenta una nuova merce (o un nuovo metodo per produrre merci, cosa che è anche una merce) sul mercato, ha per definizione il monopolio su di essa e, pertanto, la possibilità di fissare il suo prezzo al di sopra del suo valore, fin quando il mercato può sopportarlo. A questo proposito, non importa che la novità sia reale o creata artificialmente. Grazie ad una pubblicità massiccia, la Nike è riuscita a convincere i consumatori che “Air Jordan” fosse qualcosa di diverso e migliore delle altre scarpe da basket, e le fa pagare ad un prezzo indipendente dal valore creato dagli operai indonesiani che fabbricano queste scarpe (i cui salari, tra l’altro, rappresentano solo una piccola parte del denaro versato a Michael Jordan perché accettasse di fare la pubblicità). Naturalmente, i costi di queste campagne pubblicitarie sono incluse nel calcolo del prezzo, ma allo

stesso tempo servono a espellere dal mercato le società più piccole, che non possono spendere tali somme nel marketing. Di conseguenza, i costi di marketing assorbono una quota sempre più alta delle spese totali delle grandi società. Quando Apple ha recentemente presentato il suo iPad, la novità è stata più che un’impressione, ma si applica lo stesso meccanismo. Come rappresentante esclusivo di questo prodotto, Apple può chiedere un prezzo ben al di sopra di quanto gli costa produrli nei suo stabilimenti in Cina. Nessun altro può fare un iPad. La sua produzione è protetta da brevetti. La ricerca di penuria artificiale è una causa e un risultato della crescita vertiginosa della tecnologia dell’informazione, della biotecnologia e di altri sviluppi basati sulla conoscenza e la loro applicazione diffusa in tutti i settori industriali. Di conseguenza, l'aumento dei brevetti – dopo aver conosciuto un progresso lento ma molto costante dalla fine del XIX secolo –è esploso negli anni Ottanta. I diritti di proprietà intellettuale sono diventati una pietra miliare negli accordi commerciali internazionali sottoscritti in seguito, e le autorità statunitensi ed europee hanno più volte prolungato la durata dei brevetti e dei diritti d’autore. Ci sono brevetti su tutto. In totale ce ne sono più di 32 milioni, ed ogni anno se ne aggiungono quasi due milioni, che proibiscono il diritto di utilizzare, sviluppare e vendere tecnologie, programmi, prodotti, metodi di ricerca e di produzione, procedure, anche profumi e colori, a chiunque eccetto il proprietario del brevetto e quelli a cui l’autorizza. Anche gran parte dei nostri geni ora ricadono sotto brevetti e non possono essere studiati senza pagare una permesso al loro “proprietario”. Ovviamente, quest’ultimo ottiene grandi profitti. I brevetti durano in media 20 anni e possono essere rinnovati, mentre una società farmaceutica ci mette generalmente da uno a tre anni per recuperare i costi di R & S (ricerca e sviluppo) dei nuovi prodotti. La crescita selvaggia dei brevetti non si limita ai settori dove ci si potrebbe aspettare,quelli che si applicano allo sviluppo di nuovi beni di consumo come i prodotti farmaceutici. Ad esempio, tra il 2002 e il 2006 nel settore delle macchine elettriche, le aziende hanno registrato 92.082 nuove domande di brevetto negli Stati Uniti, 264.686 in Giappone, 49.477 in Germania, 24.514 in Cina e 8.757 nel Regno Unito. Nelle parole dell’economista britannico Arnold Plant: «Una particolarità dei diritti di proprietà 43


dei brevetti (e dei diritti d’autore) è che non provengono da una penuria di oggetti che diventano proprietà privata. Non sono una conseguenza della penuria. Sono una deliberata creazione del diritto scritto, e, mentre in generale l’istituto della proprietà privata cerca di mantenere dei beni rari, che tende a spingerci per farli “apprezzare al loro giusto valore”, i diritti di proprietà dei brevetti e dei diritti d'autore rendono possibile la creazione di una penuria dei prodotti privatizzati, che altrimenti non potrebbero essere mantenuti». La Microsoft ha dichiarato nel 2004 (in un modo che più spudorato non si può, visto che molti dei suoi prodotti come Word ed Excel sono derivati da altre invenzioni non brevettate) che il suo obiettivo era quello di registrare 3.000 nuovi brevetti all’anno, con un aumento del 50%. Toyota ha ricevuto oltre 2000 brevetti proprio per la sua Prius. Il suo obiettivo è quello di rendere impossibile agli altri di sviluppare ibridi senza pagare un prezzo pesante a Toyota. Questi esempi spiegano perché la velocità del cambiamento tecnologico è molto meno impressionante di quanto l’impennata dei brevetti potrebbe lasciare credere. Coprendo così tante cose, impediscono efficacemente lo sviluppo di nuovi prodotti da parte di concorrenti senza licenza. Molti brevetti non sono neppure applicati ai nuovi prodotti. I loro proprietari attendono semplicemente che altri sviluppino qualcosa di simile per estorcere degli onorari. Questa ricerca di sovraprofitti richiede eserciti di ricercatori ed ancor più di avvocati per imporre la penuria artificiale, che è costantemente minacciata, poiché la conoscenza è comunicativa per natura e comporta nuove conoscenze. Solo le grandi aziende possono pagarseli, creando un’ulteriore barriera per escludere potenziali concorrenti. Più in generale, tutto ciò richiede anche veri e propri eserciti, la potenza degli Stati, per mantenere un ordine mondiale nel quale la penuria artificiale è protetta. Senza uscita Al centro di questa tendenza verso un’economia basata sulla penuria artificiale si trova la tecnologia dell'informazione, che ha portato alla tenden-

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za del capitalismo a far precipitare il valore dei prodotti. Come non costa praticamente nulla riprodurre i beni digitali, il loro valore sociale, in termini marxisti, è pari a zero. Anzi, sono abbondanti e si può renderli proficui soltanto sabotando la legge del valore, limitando la concorrenza per impedire al mercato di stabilire i prezzi liberamente. Altre aziende che basano le loro strategie di profitto sulla penuria artificiale esprimono la stessa tendenza. I loro costi di produzione effettivi sono di solito molto bassi ma i loro profitti non lo sono. Ma qual è la fonte di questi profitti? Poiché il tempo di lavoro necessario per riprodurre le loro merci è sempre più ridotto (il costo di R & S può essere elevato ma non ha un’incidenza sul costo di riproduzione), la parte non pagata, il plusvalore, si riduce anch’essa e non può spiegare l’aumento dei profitti. Il profitto è il plusvalore ma viene da altrove: è pagato dai clienti. Questo è il motivo per cui è un errore pensare che l’economia globale avanzata, basata sulla penuria artificiale, potrebbe funzionare a un livello parallelo, al riparo dalla crisi generale: si nutre del valore prodotto altrove e quindi tassa effettivamente il resto dell’economia; più funziona, più tassa. Essa dipende dalla capacità del resto dell’economia di pagare quest’imposta, e quindi della sua capacità di creare del nuovo valore. Non è bello tutto ciò. Così, nonostante il desiderio dei capitali basati sulla penuria artificiale di uscire dal disastro (ben evidenziata dalla reazione della Germania di fronte alla crisi del debito in Grecia), non c’è via d’uscita. Al contrario, investire il capitale in una produzione che crea relativamente poco valore, non fa che aggravare il problema generale. Si può tuttavia prevedere che i capitali che mirano a creare questa penuria artificiale continueranno a raccogliere profitti più elevati rispetto alla media, anche se il tasso di profitto medio continua a diminuire. E quindi la produzione di queste merci continueranno ad attirare una quota maggiore di capitale. Ciò che ne fa un fattore di primordine per la formazione di nuove bolle (tutto come prima), annunciando nuovi shock per un sistema che si aggrappa disperatamente alla penuria.


Recensione: Beverly J. Silver “Le forze del lavoro, Movimenti operai e globalizzazione dal 1870”

Il testo della Silver (Le forze del lavoro, 2008, Mondadori, Torino) è il risultato di una lunga ricerca finalizzata a mappare i flussi delle agitazioni operaie su scala globale dal 1870 al 2000. Per condurre l'indagine l'autrice si è servita di un gruppo di ricerca, World Labour Serach Group (WLG), che ha catalogato, ordinato e rielaborato i dati al fine di studiare i modelli di agitazioni operaie a livello mondiale. Tali dati sono stati raccolti a partire da citazioni riportate nei quotidiani - vengono utilizzati il Times di Londra e il New York Times. L'idea di utilizzare giornali di potenze egemoniche, in periodi diversi, permette di riportare dati sulle agitazioni operaie di altre parti del mondo, su cui questi paesi hanno avuto un influenza diretta o continuano ad averla. Gli strumenti di ricerca non vogliono dare un quadro omnicomprensivo e attendibile, ma piuttosto fornire quello che viene definito un “termometro” delle agitazioni operaie su scala mondiale per poter distinguere tra fenomeni storicamente ricorrenti e fenomeni senza precedenti. Trattare un periodo così ampio di tempo e un'estensione spaziale a livello mondiale, ha lo scopo di far emergere come “singoli casi” a livello globale siano collegati tra loro e siano causati da processi determinati dal sistema capitalistico. Per ridurre la complessità e la specificità dei casi singoli ogni lotta viene così considerata all'interno di una più ampia concettualizzazione che mette in relazione la struttura dello sviluppo economico capitalista e l'azione collettiva in una cornice in cui “processi relazionali spaziali si spiegano sincronicamente e diacroniacamente”(p. 39) (1). Tale lavoro, estremamente macroscopico, non permette di porre l'accento sulle caratteristiche interne a ogni lotta, determinate da specifiche condizioni storiche, sociali, economiche e territoriali in cui quella data rivendicazione è stata esperita. Il carattere quantitativo della ricerca, per cui le varie lotte operaie a livello mondiale si sommano

per mostrare la propria potenza, pone il soggetto movimento operaio descrivibile in una cornice evoluzionistica della società per cui all'accrescersi del capitale, e delle forme di resistenza da esso escogitate per far fronte alla lotte della classe operaia, emergono altrettante lotte di resistenza o sovvertimento della realtà oggettiva. Tale quadro evoluzionistico, avvalorato da uno sguardo quantitativo e statistico, non permette di comprendere la reale efficacia della lotta intesa come occasione per sovvertire rapporti gerarchici e di sfruttamento insiti al sistema capitalistico e quindi come formulazione di inediti rapporti sociali che possano fungere da base imprescindibile al rovesciamento dell'ordine esistente. Il dato qualitativo emerge nella ricerca nella scelta della tipologia di atti di resistenza che possono essere inclusi nel database. Le lotte inserite tra i dati sono quelle esperite in maniera collettiva e diffusa: divise in “uscite clamorose” cioè rivolte collettive e diserzioni volte alla fuga del meccanismo di proletarizzazione, e “uscite silenziose” come l'uso sistematico del turnover. Vengono quindi esclusi atteggiamenti quali l'assenteismo, l'uso di droghe, la malattia, e altre forme di resistenza interstiziali e invisibili. La qualità della lotta è quindi dovuta all'organizzazione e alla volontà di trasformazione dell'ordine esistente attraverso specifiche modalità ben visibili dal sistema capitalista, ma che non necessariamente assumono, se non in maniera ideologica, una posizione anticapitalista. Piuttosto essendo parte generale della società in cui sono inserite operano in maniera strumentale alle proprie esigenze all'interno di tale sistema. Le lotte secondo l'interpretazione del testo sono inscindibilmente legate a specifiche trasformazioni che il capitale attua nel sistema capitalistico e che si dispiegano anche a causa delle lotte operaie stesse. L'approccio della Silver, per cui capitale e lotte operaie si riformano e mutano l'u45


no in seguito all'altro vuole porre l'accento sulle potenzialità della classe operaia in quanto segmento sociale fondamentale al fine di mettere in discussione il sistema capitalistico o di creare spazio per il riformismo. Si avverte quindi una lettura “operaista” dove è il capitale che insegue la classe, modificandosi continuamente. Non si coglie l’interrelazione tra classe e capitale, e quindi il portato della rottura anti-economica che la classe produce in determinati contesti, anticipati e vissuti dentro lo sviluppo dei nuovi rapporti sociali, che un tempo si sarebbero definiti rapporti sociali comunisti o sviluppo dell’autonomia proletaria. Si annulla quindi la dinamica di integrazione e deintegrazione che produce il Capitale nei confronti della classe stessa. Il riformismo operaio (che si attua sia con azioni violente o pacifiche) presuppone un capitalismo riformabile. Finché il capitalismo ha mantenuto questo carattere, la natura rivoluzionaria della classe proletaria è esista soltanto in forma latente. Essa cessa persino di essere cosciente della sua posizione di classe o identificherà le proprie aspirazioni con quelle delle classi dominanti, quando si innesta un meccanismo di de-integrazione la stessa lotta assume un significato e un portato differente. La stessa distinzione tra classe operaia industriale classica, indipendentemente dal dato merceologico, e classe lavoratrice (che solo in piccola parte è occupata nella produzione) è artificiosa, perché ciò che differenzia il proletariato dalla borghesia non è una serie determinata di occupazioni, ma la mancanza di controllo del proletariato sui propri mezzi di sussistenza, condizione dovuta all'impossibilità di controllo sui mezzi di produzione, che non si può dare dentro il modello di produzione capitalista. Sopravvive nel testo il mito dell’equazione stato socialeemancipazione di classe, cosi come l’affannosa ricerca del presunto “soggetto” che ricompone la classe. Condividiamo le considerazioni di Paul Mattick che scrisse sul libro di Karl Heinz Roth del 1974, L’altro movimento operaio, in cui scorgiamo similitudini di impostazione con il libro della Silver: “E’ errato ritenere che il futuro più immediato delle lotte di classe si svolga sotto la direzione dell’operaio massa. Lo sviluppo della situazione va in un’altra direzione. La produttività del lavoro è giunta a un punto in cui gli operai effettivamente attivi nella produzione costituiscono soltanto una minoranza dell’intera classe operaia, mentre quelli occupati nella circolazione o altrove rappresentano la maggioranza. Ma anche i 46

lavoratori attivi fuori dalla produzione diretta appartengono alla classe operaia. L’impoverimento conseguenza della crisi, riguarda i lavoratori e il obbliga a difendersi. La divisione in classi è determinata dai rapporti di produzione, non dalle trasformazioni della tecnica e dalla divisione del lavoro che ne deriva. Il futuro, se mai ve ne uno, appartiene alla classe operaia, non all’operaio massa”, http://connessioniconnessioni.blogspot.it/2012/03/recensioneallaltro-movimento-operaio.html Le trasformazioni del capitale, per la Silver, sono identificate in quattro tipologie: 1) la riorganizzazione spaziale, per cui i capitali industriali si spostano verso aree in cui c'è la possibilità di sfruttare manodopera a basso costo. Per l'autrice la riorganizzazione spaziale più che rappresentare una “gara al ribasso” è un'occasione per l'emergere e il rafforzarsi di lotte operaie nei paesi in cui il capitale viene spostato, ma che inevitabilmente indebolisce il potere contrattuale della classe operaia dei paesi da cui il capitale è emigrato. L'esempio più esplicativo riportato nel libro riguardo alla riorganizzazione spaziale è rappresentato dalla mobilità dell'industria automobilistica confrontato con il precedente ciclo produttivo dell'industria tessile, con il quale emergono elementi di uniformità. Se è vera questa dinamica è altresì vero che il meccanismo di concorrenza è insito dentro il modello di produzione capitalista e quindi dentro la classe stessa (2). 2) L'innovazione tecnologica/organizzativa dei processi produttivi, che comporta una trasformazione radicale nei rapporti tra capitale e lavoro. In questo quadro emergono le discrepanze tra industria tessile e industria automobilistica, la prima caratterizzata dall'assenza di una catena di montaggio per cui le lotte devono essere organizzate sul potere associativo, mentre per il settore automobilistico la lotta è caratterizzata da un maggior potere sul luogo di lavoro per cui è possibile con l'azione di un numero esiguo di operai interrompere la produzione grazie alla struttura stessa dell'organizzazione del lavoro su catena di montaggio. Vi è anche in questo caso la sopravvalutazione e assolutizzazione di alcune dinamiche. Fino a trent’anni fa la classe operaia industriale propriamente detta, in occidente, veniva vista come capace di assumere in sé tutta la classe, e questo era già forse allora deficitario rispetto al rapporto che esisteva tra classe operaia ed esercito


industriale di riserva. Cosi come esisteva una stratificazione sociale all’interno della stessa classe operaia industriale. Una tale impostazione non si basava su un dato quantitativo, la classe operaia industriale propriamente detta è sempre stata minoranza rispetto all’insieme del proletariato, ma su un dato qualitativo, poiché si riteneva che ricopriva un ruolo d’avanguardia sommando elementi oggettivi, la parte più avanzata del ciclo produttivo, con elementi soggettivi, il settore di classe che si concepiva da un punto di vista politico. In questo caso andrebbe letta l’epopea operaia dentro il binomio integrazione – de-integrazione tale da indicare effettivamente il contenuto e il ruolo che ha avuto la lotta di classe portata avanti da questi settori. 3) L'innovazione tecnologica di prodotto che consiste nel trasferire gli investimenti verso nuovi settori meno competitivi e caratterizzati dall'innovazione del prodotto e quindi da maggiore redditività. Secondo l'autrice non è facile identificare un unico prodotto che svolga il ruolo giocato dall'industria tessile nell'Ottocento o dall'industria automobilistica nel Novecento. L'industria dei semiconduttori, con un alta concentrazione di occupazione in paesi a basso reddito, viene identificata come possibile settore trainante delle future agitazioni operaie. Un altro settore trainante delle nuove lotte potrebbe essere identificato nei servizi all'impresa, che hanno generato una forte polarizzazione della forza lavoro divisa tra professionisti ad alto reddito e forza lavoro a basso reddito, per cui è necessario che le lotte passino da un modello sindacale fondato sul luogo di lavoro a un nuovo modello che si sviluppi sulla base della creazione di nuovi legami interni alla comunità. I settori caratterizzati da processi di disintegrazione verticale del lavoro devono dunque scommettere sulla creatività e puntare sul potere associativo. Una simile disquisizione è vecchia quanto la storia del movimento operaio, volendola assolutizzare: azienda o territorio. In realtà è sempre esistita una commistione tra questi due momenti, ma rimaniamo convinti che dentro i processi di rottura (la generalizzazione di nuovi rapporti sociali) vi sia il superamento di questa dicotomia. Inoltre ambedue, se prese nella loro unicità, presentano medesime contraddizioni. Le stesse lotte descritte dalla Silver, ad esempio la lotta degli addetti alle pulizie in California, presentano una commistione di elementi, che la stessa autrice sottovaluta. È vero che la comunità e l’organizzazione sindacale

hanno avuto un ruolo, ma è esistita comunque una dimensione di classe legata all’esperienza proletaria di queste lavoratrici/lavoratori che ha permesso durante la lotta di creare una vera e propria comunità d’intenti (3). 4) La riorganizzazione finanziaria presenta analogie con l'innovazione del prodotto per cui il capitale viene trasferito su nuove linee produttive meno competitive. Allo stesso modo i capitali vengono spostati dalla produzione e dal commercio verso il prestito, l'intermediazione finanziaria e la speculazione. Crediamo che la dinamica finanziaria sia l’emblema delle difficoltà di accumulazione del capitale, e che i processi di crisi, con la relativa spirale finanziaria, siano stati ben più importanti delle modificazioni tecniche a cui è andata in contro l’organizzazione del lavoro, pur non misconoscendone l’importanza: “la rivoluzione microelettronica ha toccato pochi settori e non in profondità. Nessun mutamento tecnico radicale può essere di natura puramente elettronica. Indem in peggio con le biotecnologie che resta un business piuttosto marginale. Il sorgere di nuovi settori informatici-eletronici-telecomunicativibiotecnologici, con il relativo boom di investimenti, non ha compensato il declino generale ovvero dei restanti (e tradizionali settori). Il presunto boom degli anni 80 non ha radici nello sviluppo della elettronica bensì nella finanza e nell’espansione creditizia. L’enfasi posta sulla presente rivoluzione microelettronica dimentica precisamente le grandi ondate di crescita e trasformazione tecnico-produttiva del passato. Gran parte dell’apparato produttivo infrastrutturale e scientifico-culturale che il mondo ha oggi a disposizione è stata creata nel periodo di boom della fine della guerra alla metà degli anni 70” (Paolo Giussani, Punti provvisori, doc. ciclostilato) Un altro aspetto del testo che riteniamo vada considerato è l’utilizzazione da parte della Silver delle categorie di Polanyi, teorico della lotta contro la mercificazione della società, all'interno del capitalismo. Secondo Polanyi ogni passo nel processo di mercificazione della società ha stimolato una reazione anti-mercificazione, dove quindi le lotte vanno lette come forma di resistenza. L’autrice porta come contrapposizione le “lotte marxiste”, che non resistono ma chiedono, in una continua evoluzione tra resistere e chiedere. Esiste quindi nel suo modello apparentemente dinamico una fissità legata alla ricerca di un equilibrio 47


che i lavoratori richiedono o difendono al capitale. Quanto il “patto” di cui parla Beverly Silver sia stato esplicito e consapevole da parte dei lavoratori è difficile dirlo (mentre è molto più semplice affermarlo per i loro rappresentanti politici e sindacali). La cosa, in fondo, ha un'importanza relativa anche perché, invece che di patto, sarebbe meglio parlare di un particolare equilibrio di rapporti di forza venutosi a determinare in un particolare contesto macro-economico e dentro un particolare quadro geo-politico, un equilibrio che ha permesso l'estensione del salario sociale in tutte le sue voci (diretto, indiretto, differito) e la creazione di forme di protezione sociale contro l'aleatorietà del mercato (la presunta “demercificazione” polanyiana). Equilibrio che rappresentava una nuova e più potente fase di integrazione della classe al capitale. Che tali “conquiste” si siano realizzate in cambio di una sostanziale rinuncia a qualsiasi aspirazione di trasformazione rivoluzionaria (più apparente che reale) è poco, ma sicuro (4). In realtà le lotte di resistenza o di richiesta vanno lette dentro al meccanismo integratore o de-integratore del capitale stesso, la lotta di classe quando sviluppa forme di nuovi rapporti sociali assume connotati nuovi, ma questi stessi connotati sono comunque legati alle fasi di accumulazione, e cosa più importante i rapporti sociali non sono equivalenti ai rapporti di produzione, il vero punto di non ritorno del capitale. In questo senso non vogliamo ridurre e sminuire l’invarianza della lotta di classe, e la sua estrema ricchezza legata all’esperienza proletaria, ma va visto in che contesto questa si sviluppa se si considera la lotta di classe nel suo significato di critica dell’economia politica: “Finchè la lotta di classe viene combattuta sul terreno dell’economia politica, essa si muove all’interno dei rapporti di produzione capitalistici. Per eliminare anche questi, si deve distruggere la relazione capitale-operai e perciò anche l’economia politica” P.Mattik (5). Infine riteniamo che se si considera la classe lavoratrice come ente universale e non un prodotto storico materiale, di un determinato modo di produzione, e solo per questo dotata di una immanente tendenza rivoluzionaria, si arriva inevitabilmente a determinare tale carattere di volta in volta in parti-

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colari empirici e sociologici, quali lo sciopero, l’opposizione all’autorità dispotica dei singoli capitalisti, ma questo porta come conseguenza ad una accettazione astorica del capitalismo negando i limiti dell’accumulazione capitalista stessa. Il potenziale rivoluzionario della classe lavoratrice, produttrice di tutta la ricchezza sociale senza esserne proprietaria, si manifesta quando comincia ad essere abolita la sua caratteristica di produttrice di valore, quindi quando il proletariato inizia la propria estinzione. Non è quindi l’antagonismo (rapporto empirico che si manifesta periodicamente tra lavoratori e capitalisti), ma la rottura della sua stessa natura, che fa della classe in lotta la materializzazione della tendenza oggettiva al superamento del capitalismo per l’impossibilità di continuare all’infinito l’accumulazione del capitale stesso. Quindi solo quando comincia ad adeguare il proprio comportamento a questa tendenza profonda e immanente, cioè a rivoluzionare il capitale e insieme se stessa in quanto capitale variabile, si può scorgere quel processo di rottura, va in questo senso il nostro interesse per la dinamica di de-integrazione del capitale stesso. Note 1) Beverly J. Silver, Le forze del lavoro, 2008, Mondadori, Torino 2) Piermaria Davoli, Due miliardi di salariati, Edizioni Lotta Comunista, 2012, Milano 3)Un datato ma interessante testo che analizza il rapporto tra organizzazione volontaria associativa e organizzazione spontanea è stato scritto da Henri Simon nel 1979, Alcune considerazioni sull’organizzazione: http://connessioniconnessioni.blogspot.it/2012/02/alcuneconsiderazioni.html 4) Antiper, osservazioni sulla crisi, 2012 http://www.sinistrainrete.info/component/conten t/article/79-analisi-di-classe/1952-antipersullintervento-di-giulio-palermo-sulla-crisi.html 5) P.Mattick, Capitalismo di stato ed economia mista, 1977, http://connessioniconnessioni.blogspot.it/2012/03/capitalismo-distato-e-economia-mista.html



p r i m a v e r a 2 0 1 2

01. Interpretazione della crisi 02. Lavoro improduttivo e crisi del capitalismo, di Visconte Grisi 03. La più grande depressione del XXI secolo, di Anwar Shaikh 04. La più grande depressione della storia?, di Antonio Pagliarone 05. <PY`]TL L]_T NTLWP in un mondo di sovrapproduzione, di Perspective Internationaliste 06. Recensione Beverly J. Silver “Le forze del lavoro”

CONNESSIONI per la lotta di classe


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