L'economia e la cibernazione

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L’ECONOMIA E LA CIBERNAZIONE DI P.MATTICK 1966 I Il marxismo è stato spesso inteso come una “teoria del sotto-consumo”, e come tale facilmente confutato dall’evidenza empirica degli standard di vita crescenti nei paesi capitalisti. È stato anche letto come una teoria di crisi e depressioni. Le possibilità attuali di contrastare, o addirittura prevenire, le condizioni di crisi sembrano quindi doppiamente etichettarla come una teoria sbagliata. Tuttavia, pur avendo Marx effettivamente analizzato il limitato potere d’acquisto della popolazione lavoratrice, la sua teoria non è una teoria del sotto-consumo; e sebbene avesse visto il capitalismo come un sistema costellato di crisi, non ha mai sviluppato una definitiva teoria della crisi. L’assenza di cicli economici non avrebbe invalidato la sua teoria sull’accumulazione di capitale. Considerato il capitalismo che Marx ha vissuto di persona, la sua analisi economica appare strettamente accurata, e proprio a causa di ciò incontrò un consenso tanto diffuso. Questo fatto viene oggi ammesso senza problemi anche dai suoi critici, i quali affermano che il marxismo, pur descrivendo in maniera realistica il deplorevole capitalismo passato, oggi non sarebbe più valido per via dei recenti cambiamenti nel sistema capitalistico. Certi aspetti della teoria marxiana – per esempio la concentrazione e centralizzazione del capitale – sono stati incorporati nella moderna teoria economica, passando da avere una connotazione negativa ad una positiva. È spesso sottolineata anche la necessità di un “esercito industriale di riserva” al fine di impedire la compressione dei profitti da parte dei salari. Anche se Marx ha avuto esperienza della disoccupazione come di un fatto sociale e come di un arma nelle relazioni tra capitale e lavoro, credeva che la piena occupazione fosse possibile alla pari della disoccupazione. Tutto dipende dal saggio di formazione del capitale. L’industrializzazione capitalista è stata sostanzialmente la sostituzione del lavoro umano con le macchine, e il progresso stesso veniva misurato da questo processo. In realtà, Marx non criticava il capitalismo tanto per quello che era o per quello che avrebbe potuto fare, quanto per la sua strutturale incapacità di sviluppare la produzione sociale al di là della necessità di mantenere le relazioni sociali di classe. Per quanto riguarda il passato, il capitalismo era stato fonte di progresso; riguardo al futuro, era diventato un ostacolo al pieno sviluppo della produzione e di conseguenza al soddisfacimento dei bisogni economici. Marx si rivolgeva non ai capitalisti, ma ai lavoratori. Credeva che solo loro potessero avere la capacità di terminare le relazioni di classe tramite l’abolizione della loro stessa posizione


di classe, aprendo così la strada ad un’ulteriore fioritura delle forze sociali di produzione. Questo si sarebbe tradotto in un ulteriore sviluppo tecnologico che avrebbe portato all’abolizione del lavoro umano o, comunque, del lavoro umano sgradevole e non voluto. Il capitalismo, in quanto socialmente limitato da una specifica relazione di classe, veniva valutato da Marx come economicamente limitato, ed un ostacolo allo sviluppo tecnologico. Su quest’ultimo punto Marx sembra essere caduto in errore per via della cosiddetta seconda rivoluzione industriale, caratterizzata da energia atomica e “automazione”. Stranamente, tuttavia, questo nuovo trionfo sulle tetre previsioni di Marx viene raramente celebrato come una soluzione per gli attuali problemi sociali. Al contrario è visto come l’araldo di nuove e forse irrisolvibili difficoltà. Tutta la crescente letteratura sull’automazione è pervasa da sospetti su una possibile incompatibilità tra le nuove tecnologie e le relazioni socio-economiche oggi dominanti. Anche se la maggior parte delle difficoltà del sistema capitalista sono state apparentemente superate, il problema di cui Marx si è meno preoccupato, ovvero una disoccupazione permanente e di larga scala, sembra essere l’ultimo ma anche il più importante delle contraddizioni capitalistiche. II Non ci interessiamo qui delle estese ramificazioni della cibernetica, o la scienza del controllo, che influenzano processi naturali al pari di sistemi tecnologici e sociali, ma solo delle sue correnti applicazioni nel sistema di produzione e distribuzione capitalista. Anche se il tipo di economia definisce il tipo di società, non tratteremo tutte le implicazioni sociali della cibernetica ma solo quelle con la più stretta relazione tra cibernetica ed economia, ovvero, i possibili effetti della tecnologia emergente sulle esistenti relazioni economiche e politiche. Sin dai suoi inizi, il fondatore della cibernetica, Norbert Wiener, era incline a sottolineare i problemi sociali derivanti dalla sua applicazione al processo di produzione. La macchina automatica, ha scritto, “è il preciso equivalente economico del lavoro schiavile. Ogni lavoro in competizione col lavoro schiavile deve accettare le condizioni economiche del lavoro schiavile. È perfettamente chiaro che questo produrrà una situazione di disoccupazione in confronto alla quale l’attuale recessione o addirittura la depressione degli anni trenta sembrerà un simpatico scherzo”[1]. Dieci anni dopo, la preoccupazione riguardo al processo di automazione era abbastanza generalizzata. Certo, c’era qualcuno di sicuro che “guidato dall’elettronica, alimentato dall’energia atomica, equipaggiato con il liscio, facile lavoro


dell’automazione, il tappeto rosso della nostra economia libera conduceva verso distanti e inimmaginabili orizzonti” [2]. Nella realtà, tuttavia, “gli Stati Uniti stanno progredendo velocemente verso un’economia nazionale in cui non ci saranno abbastanza lavori di tipo tradizionale in giro”[3]. Il presidente Kennedy stesso ha dichiarato che trovare un lavoro per la gente deve essere considerato “la più grande sfida interna degli anni sessanta”[4]. I dati sull’automazione non scarseggiano. Le sue statistiche in continua evoluzione appaiono dappertutto, tanto nella stampa quotidiana quanto nelle pubblicazioni specifiche sul lavoro. Queste statistiche semplicemente indicano la crescente produttività, produzione e redditività attraverso la riduzione di forza lavoro. L’impatto dell’automazione è diverso nelle diverse industrie. È particolarmente percepibile nell’industria tessile, del carbone, del petrolio, dell’acciaio, chimica, ferroviaria e automobilistica, ma ormai influenza una crescente quantità di produzioni di qualsiasi scala, come anche alcune attività organizzative e addirittura a un certo livello agricole. Influenza il lavoro dei “colletti bianchi” e dei “colletti blu” - attualmente più gli ultimi dei primi. Ma non è detto sia sempre così. Ciononostante, l’automazione si trova ancora allo stadio infantile, e il numero attuale di disoccupati potrebbe non essere imputabile alla sostituzione di forza lavoro causata dall’automazione, anche se alcuni lavoratori chiaramente perdono i loro posti di lavoro a causa di ciò. Il fatto che non riescano a trovare un altro lavoro può essere il risultato del decrescente saggio di formazione del capitale piuttosto che dell’automazione. Dopotutto, c’erano sedici milioni di disoccupati in America durante la Grande Depressione. La sostituzione di lavoro con macchinari è stato un processo continuo, e ciò non ha impedito una progressiva crescita della forza lavoro. Si teme, tuttavia, che l’automazione possa essere uno sviluppo tecnologico così diverso da quelli che lo hanno preceduto da poter essere considerato un cambiamento sostanziale. Si pensa che il problema sociale che pone sia unico e non sia affrontabile in analogia con le condizioni passate. III Valutando l’impatto avuto finora dell’automazione sull’economia americana, Donald N. Michaels [5] ha recentemente tentato una prognosi delle sue possibili conseguenze sociali nelle prossime due decadi. Il suo studio è basato su una seria di assunti, ognuno dei quali implica che le tendenze rimarranno quelle che sono ora e quelle che sono state negli ultimi dieci anni. Michaels utilizza il temine “cibernazione” per intendere contemporaneamente “automazione” e “computer”, che di solito si accompagnano nell’applicazione della


cibernetica ai processi produttivi. Non ci occuperemo di tutte le esistenti o potenziali meravigliose capacità della cibernazione. Se ne occupa una vasta e crescente letteratura. Indichiamo semplicemente quelli che Michaels considera essere i vantaggi e i problemi della cibernazione. I vantaggi sia per le imprese che per i governi sono ovviamente l’aumento dell’output e il taglio dei costi allo scopo di risultare vittoriosi nella competizione privata e nazionale. Qualunque altro vantaggio che Michael menziona, come “riduzione dell’ammontare dei compiti di gestione di risorse umane; liberare l’amministrazione da distrazioni minori; maggiore libertà nella localizzazione delle strutture,” e così via, sono tutti aspetti, o diverse espressioni per intendere, un abbassamento dei costi di produzione. Espressa nei termini affettati di Michael: “se i criteri sono il controllo, la comprensione, e i profitti, ci sono forti ragioni per cui governi e

imprese dovrebbero volere, e anzi dovrebbero applicare,

un’espansione della cibernazione quanto più rapida possibile.”[6] I vantaggi della cibernazione potrebbero tuttavia essere compensati dal problema della disoccupazione che alla lunga colpirebbe ogni tipo di occupazione; i lavoratori non specializzati più di quelli specializzati – di conseguenza i lavoratori neri più di quelli bianchi. Il precedente trasferimento di forza lavoro dalla produzione all’industria dei servizi finirà. “se le persone costano più delle macchine – sia in termini monetari che per via degli sforza manageriali richiesti – ci saranno forti incentivi a rimpiazzarli in un modo o nell’altro nella maggior parte delle attività terziarie dove i compiti sono standardizzati e predefiniti.” [7]. Poiché la tecnologia permetterà a meno persone di fare più lavoro, molti lavori di intermediazione manageriale propri della classe media scompariranno. Tutto ciò mentre “gli USA avranno bisogno di 13,500,00 di lavori in più solo per tenere il passo della crescita prevista della forza lavoro [8]. Ci sarebbero ovviamente soluzioni a questo dilemma, come il riaddestramento e l’ammodernamento della forza lavoro e la riduzione delle ore di lavoro a parità di salario, oppure addirittura la riduzione dei prezzi per stimolare la domanda di consumi e così facendo incentivare la produzione e l’occupazione. Ma poiché tutti i lavoratori sono colpiti dalla cibernazione, Michael crede che queste proposte non risolverebbero il problema. Il suo suggerimento è un vasto programma di lavoro pubblico, in quanto “anche se la proporzione di lavoratori necessari per ogni specifico compito verrà ridotta attraverso l’uso della cibernazione, il numero totale di compiti che devono essere effettuati potrebbe uguagliare o superare il numero assoluto di persone disponibili a farlo”[9]. Ritiene, tuttavia, che una politica del genere sarebbe in contrasto con lo spirito capitalista. Incoraggiare la cibernazione potrebbe, quindi, risultare controproducente per le imprese.


Ma nonostante il fatto che le conseguenze della cibernazione rischierebbero di mettere in pericolo il sistema di libero mercato, per la continuazione stessa di questo sistema è necessaria una maggiore cibernazione. Michael vede chiaramente il dilemma: anche se le previsioni non sono favorevoli con la cibernazione, sono altrettanto negative senza di essa. Egli vede soltanto una soluzione parziale in un maggiore controllo statale e in una pianificazione nazionale. Le ideologie e gli obiettivi dovrebbero cambiare, e la necessaria centralizzazione

dell’autorità

“sembrerebbe

implicare

il

governo

di

un

elite

e

un’accettazione popolare di questa elite”. Se nuovi standard comportamentali non si integrano con il futuro cibernizzato, la frustrazione e la sensazione di perdita del senso “potrebbero provocare una guerra di disperazione – apparentemente verso qualche nemico esterno,

ma in realtà una guerra per rendere il mondo sicuro per gli esseri umani

attraverso la distruzione della maggior parte delle fondamenta tecnologicamente avanzate della società”[10]. Ovviamente, sarebbe una guerra nella quale la tecnologia avanzata verrebbe utilizzata per distruggere la maggior parte dell’umanità.

IV Come si dice “niente viene mangiato caldo come appena uscito dal forno”. Anche se ora sembra che la cibernazione potrebbe essere la nostra fine, rimangono alcune speranze esattamente per via della sua possibile incompatibilità col sistema capitalista. Se sarà necessario cambiare il sistema, la maledizione della cibernazione potrebbe tramutarsi in una benedizione. Anche Michael nota che il sistema sociale potrebbe venire alterato, ma solo per adattarsi all’evidenza della cibernazione. Poiché una risposta”deve essere trovata altrove che in una procrastinazione dei suoi sviluppi”, egli pensa che la cibernazione stessa determinerà quale sarà al risposta. E questo spiega il tono pessimistico del suo lavoro, che termina con la triste affermazione che la persistenza delle attitudini sociali prevalenti “ci porterà inesorabilmente verso un mondo contradditorio guidato da (e per?) schiavi sempre più intelligenti, sempre più versatili”[11]. Il feticistico mondo della produzione di capitale di Marx è qui ridotto al feticismo della tecnologia. Ma sia lo sviluppo tecnologico che la formazione di capitale corrispondono a sottostanti relazioni sociali. Inoltre, anche se la cibernazione potenzia lo sviluppo del capitale, viene anche limitata dalle relazioni capitale-lavoro. Questo è un fenomeno familiare; la monopolizzazione, per esempio, è sia uno strumento di espansione che di contrazione del capitale, e la ricerca del profitto riduce la redditività di ogni dato ammontare di capitale. Senza inoltrarci in questi argomenti complicati, dovrebbe essere chiaro che ogni prognosi riguardante il processo di cibernazione deve, prima di tutto, sollevare la questione se questo processo è sopportabile dall’economia esistente. Ciò che è fattibile


tecnicamente non necessariamente lo è economicamente; e ciò che può essere fattibile economicamente potrebbe non esserlo socialmente. Ma questa questione difficilmente viene sollevata, apparentemente secondo l’assunto che il capitalismo non ha limiti interni. Un assunto di questo tipo è giustificata dagli sviluppi passati. Anche Lenin ha detto che a meno che non venga sovvertito con mezzi politici, il capitalismo troverà sempre una strada. Ma ciò valeva prima della cibernazione e della bomba a idrogeno. Tra le varie ragioni per cui il capitalismo è stato dichiarato l’unica “società aperta” con un’illimitata gamma di possibilità c’è la mancanza di informazioni rilevanti. Questa mancanza permane, ma non più al livello della totale ignorante. Alcuni economisti iniziano a vedere la società e la sue economia in flussi e in termini reali, non simbolici. Nello stesso periodo del lavoro di Michael sulla cibernazione è stato pubblicato anche il capitale nell’economia americana di Simon Kuznet. Questo lavoro ci interessa in questa sede per via del tentativo di Kuznet di proporre delle prospettive per i prossimi 25 anni sulla base delle tendenze passate della popolazione, del prodotto nazionale e della formazione e finanziamento del capitale. Dove Michael pone l’enfasi sulla tecnologia, Kuznet insiste sull’economia. Quest’ultimo distingue tra cambiamento tecnologico effettivo e potenziale. Anche se “il concetto di potenziale tecnologico è difficile da definire precisamente, per non parlare del problema della misura” scrive Kuznet, “è un concetto estremamente utile, in quanto sottolinea il fatto che della grande quantità di nuove tecnologie che è stata effettivamente offerta, solo una parte viene incorporata nel sistema produttivo, sostanzialmente a causa i limiti del capitale e dell’abilità imprenditoriale” [13]. Kuznets pensa, tuttavia, che nelle prossime tre decadi assisteremo ad un’accelerazione del tasso di cambiamento tecnologico, sostanzialmente per via di una velocizzazione della ricerca scientifica. Sembra certo, dice, “che lo sviluppo delle applicazioni non militari della fisica nucleare, dell’elettronica nell’automazione e nelle comunicazioni avrà un immenso impatto sul sistema produttivo”[14]. Tutto ciò darà slancio alla domanda di finanziamenti per il capitale e Kuznets pensa che non sia inverosimile il fatto che la nuova tecnologia – ad ogni modo al’inizio- richiederà capitale in ammontare tale da poter essere reperito soltanto alle spese del prodotto nazionale. In altre parole, l’istallazione della nuova tecnologia potrebbe richiedere una fetta più grande della produzione totale per gli investimenti nelle nuove apparecchiature e lasciare conseguentemente una porzione minore per l’uso immediato e il consumo. Questo fenomeno è sempre avvenuto in passato in condizioni di rapida formazione di capitale. E anche se la seconda rivoluzione industriale potrebbe richiedere una quantità di materiali ancora più spaventosa di quanto non sia avvenuto per la prima, essi potrebbero ciononostante essere reperibili. Tanto più in quanto la nuova tecnologia potrebbe, alla fine,


richiedere una minor quantità di capitale per produrre un output più grande di quanto non sia avvenuto con la tecnologia “convenzionale”. Ma i nuovi investimenti di capitale devono essere finanziati. La questione diventa, quindi, “se le propensioni al risparmio nel settore privato [dell’economia] suggeriscono proporzioni di risparmi adeguati a soddisfare la domanda di capitale.” La preoccupazione è solamente sul settore privato, in quanto “il settore pubblico difficilmente avrà risparmi netti in prospettiva di lungo termine. Alla fine, potrebbe essere costretto ad attingere ai risparmi del settore privato”[15]. A causa dell’attuale calo della propensione al risparmio del settore privato, Kuznets ritiene che la già

sperimentata

“pressione della domanda di beni sull’offerta di risparmi persisterà”. Cautamente suggerisce che “durante la decade 1948-1957 una combinazione di forte domanda di beni di consumo e persistenti estrazioni da parte del governo dal consumo corrente potrebbero aver tenuto i risparmi privati e la formazione di capitale al di sotto della proporzione richiesta per aumentare al produttività a un livello sufficiente da superare le spinte inflazionistiche”[16]. In questo contesto, e in vista di un’attesa crescita della popolazione non produttiva, di crescenti spese pubbliche, e di alti livelli di consumo stabili, Kuznets teme che l’offerta volontaria di risparmi possa trovarsi a essere non adeguata alla domanda, per la quale ragione “le pressioni inflazionistiche potrebbero continuare, con il risultato che parte dei risparmi necessari per la formazione del capitale e il consumo dello stato verrebbero estratti attraverso questo particolare meccanismo”[17]. Questo “particolare meccanismo” riduce il potere d’acquisto sociale complessivo ad un livello inferiore a quello che sarebbe stato in assenza di esso, e questa differenza aumenta la redditività del capitale e conseguentemente il suo saggio di accumulazione. Questo tipo di “risparmi forzati” potrebbe, come non potrebbe, procurare il capitale richiesto per aumentare la produttività fino al punto in cui sia la domanda di beni che di capitali siano pienamente soddisfatte- terminando così le pressioni inflazionistiche. L’esistenza stessa dell’inflazione, tuttavia, mostra le reali difficoltà nell’incrementare il saggio di formazione di capitale, il che potrebbe, almeno in una certa misura, interrompere il processo di cibernazione. V Sebbene

un’insufficienza

di

investimenti

potrebbe

ostacolare

la

cibernazione,

l’insufficienza stessa è anche la sua “raison d’être”. Si suppone che il previsto aumento del saggio di redditività porti ad un’estensione della produzione sufficientemente grande da compensare la sostituzione tecnologica del lavoro. Questa è l’idea secondo la quale tutti gli


sviluppi tecnologici, prima o poi, creano nuove opportunità di lavoro. È di solito espressa in riferimento a specifiche imprese e situazioni particolari come, ad esempio, da parte di Ritchie Calder, che ha sottolineato il fatto che “in Francia la compagnia a controllo statale Renault era stata capace di intraprendere, dopo la guerra, un processo di automazione maggiore di qualsiasi altra azienda automobilistica europea”, in conseguenza del quale “oggi sono impiegati tre volte tanti lavoratori di quanto fossero prima dell’introduzione dell’automazione”. Calder pensa che questo sia un “buon esempio degli effetti delle nuove tecnologie”[18]. Per la Renault questo è senza dubbio stato vero, almeno per ora. E potrebbe essere vero anche per molte, o addirittura tutte le imprese, nella crescente economia occidentale che sta vivendo lo stesso processo di espansione che –per varie ragioni- si è verificato in America qualche decennio fa. Ma, mentre il saggio di formazione del capitale è oggi più alto in Europa occidentale che in America, non c’è alcuna garanzia che questa situazione perduri per sempre. Guardando alle esperienze passate, la prosperità crea lo spazio per la depressione, e guardando invece ad esperienze più recenti, periodi di espansione si alternano a periodi di stagnazione, in altre parole a periodi di insufficiente formazione di capitale. Ovviamente gli effetti dell’automazione saranno diversi in condizione di espansione o di stagnazione del capitale. L’attuale situazione americana potrebbe essere, quindi, un “buon esempio degli effetti delle nuove tecnologie” tanto quanto l’esperienza di Calder con la Renault, o addirittura con l’intera economia dell’Europa occidentale. Fino a che la produzione si espande e il mercato cresce, un aumento dell’automazione potrebbe essere accompagnato dalla piena occupazione. L’automazione potrebbe anche portare ad una maggiore produzione e a nuovi mercati nonostante la crescita della disoccupazione. L’applicazione dell’automazione potrebbe anche richiedere l’eliminazione della cosiddetta “domanda eccessiva”, ovvero i salari sostenuti dalla piena occupazione che comprimono la redditività del capitale. Dipende tutto dalle particolari condizioni in cui un’impresa, una nazione o un insieme di nazioni si trova. Questo in quanto parliamo di un mondo competitivo con opportunità mutevoli. Attualmente, il processo di automazione si manifesta accompagnata da una forza lavoro crescente in Europa, calante in America. In teoria, la situazione potrebbe capovolgersi quando l’America arriverà ad un saggio più alto di formazione di capitale e l’Europa raggiungerà i limiti della sua espansione di capitale redditizio. Oppure, più plausibilmente, l’Europa occidentale potrebbe arrivare ad emulare gli Stati Uniti e cibernizzarsi all’interno di una condizione di disoccupazione crescente. Ad ogni modo, possiamo concentrarci sullo scenario americano, poiché fino a quando l’economia europea occidentale non differirà in maniera sostanziale da quella americana, è destinata a condividerne le difficoltà per quanto riguarda la cibernazione e la formazione di capitale.


Questo discorso non è valido per il blocco dell’Europa dell’est o per in paesi sottosviluppati. Anche se è stato talora affermato che le nazioni meno sviluppate “hanno il vantaggio di potersi adattare alle più nuove attrezzature senza dover smantellare le attrezzature esistenti e senza essere rallentati dall’esistenza di edifici obsoleti “[19], tale vantaggio in realtà non esiste. La lenta industrializzazione dei paesi sottosviluppati anzi allarga il gap di produttività tra nazioni “ricche” e “povere”, proprio in virtù del fatto che le nazioni sviluppate godono dei vantaggi dell’automazione. È vero, ovviamente, che l’automazione viene utilizzata anche nelle nazioni sotto sviluppate- per esempio in qualche attività estrattiva- ma in questi casi supporta il capitale straniero piuttosto che lo sviluppo locale. Lo sviluppo tecnologico nelle nazioni sottosviluppate presuppone dei cambiamenti sociali alla base, cosa che solo ora inizia a determinare i loro movimenti politici. Nelle nazioni sviluppate del blocco dell’Europa dell’est, come in tutte le nazioni capitalistiche, l’automazione è limitata dalla disponibilità di capitale necessario per istallarla. A differenza delle economie occidentali in competizione tra loro, tuttavia, le economie centralizzate della Russia e dei suoi satelliti non sembrano temere le conseguenze della cibernazione. La loro produttività e produzione totale sono ancora molto inferiori a quelle delle nazioni occidentali, e l’automazione, per quanto possibile in queste condizioni, potrebbe non portare ad una disoccupazione di larga scale. Il loro problema è semmai come diminuire il lavoro umano attraverso una struttura del capitale più produttiva. Quasi la metà della popolazione russa, per fare un esempio, è ancora impiegata nell’agricoltura e considerando la dimensione del paese e della sua popolazione- esiste una generale scarsità di mezzi di produzione, per non parlare di beni di consumo durevole o addirittura semplici. A dire il vero, esistono anche industrie con un alto livello di automazione ma non tante da alzare la produttività media sociale al livello di quella occidentale. In linea di principio, ovviamente, la natura centralizzata del capitalismo russo permette una più vasta applicazione della cibernetica ai processi di produzione e sociali di quanto non sia possibile nelle economie occidentali. E questo a sua volta promette un’accelerazione dell’automazione contemporaneo ad un generale innalzamento della produttività. La pianificazione economica, per esempio, è una delle più importanti aree di applicazione delle cibernetica. Ma mente nelle economie in competizione “pianificazione” significa “contro-pianificazione”, nelle economie centralizzate

la pianificazione potrebbe essere

unitaria, nazionale e omnicomprensiva. Questo è il motivo per cui i sostenitori occidentali dell’abbondanza attraverso la cibernazione enfatizzano il bisogno di una pianificazione nazionale della produzione e della distribuzione. Ma in questo modo le economie occidentali smetterebbero di essere economie capitalistiche in senso tradizionale. VI


L'economia americana è cosiderata "ricca", in quanto i suoi standard di vita sono più elevati che in qualsiasi altra nazione. La ragione per cui sono più elevati è una maggiore produttività. Rispetto alle economie di scarsità, è una economia di "abbondanza", ma solo in senso relativo, non in senso assoluto, in quanto, in generale, anche in America non sono saziati i bisogni di nessuno. Tutti desiderano di più, se non per necessità, per beni di lusso. Tanto più è ricca una popolazione, tanto più grandi sono i loro desideri, in quanto la sicurezza esiste solo nell’accumulazione. L’unica vera difesa del benessere è un benessere più grande; per rimanere ricchi, la ricchezza deve essere costantemente aumentata. Ma qui stiamo parlando soltanto della classe capitalista; per la maggior parte della popolazione, lussi apparenti sono diventati necessità, e per una larga minoranza molte necessità sono ancora dei lussi. Che quest’economia dell’abbondanza sia allo stesso tempo un’economia della scarsità è indicato dagli sforzi convulsi di innalzare la redditività del capitale e di aumentare il tasso di crescita economica. Ma che cosa è scarso in vista di un prodotto nazionale sempre più grande? La risposta è ovvia quando si guarda l’economia per quello che è – uno strumento per la produzione di profitti. La produzione di beni è semplicemente il mezzo necessario per la produzione di profitti e la continuazione di questo processo richiede l’accumulazione di capitale. Successo o fallimento non possono esser misurati in termini di abbondanza o scarsità di beni; sono valutati dal saggio di formazione del capitale, il quale mostra il saggio di redditività. Molti critici e sostenitori della “società dell’abbondanza” tendono a chiudere gli occhi sulla natura del capitalismo, ovvero la produzione di capitale, anche quando ne riconoscono il profitto come forza motrice. Considerano l’incentivo al profitto uno strumento di produzione che non ha altro fine che il consumo. Dato che questo fine può essere raggiunto anche attraverso decisioni statali che influenzino il processo di produzione, pensano che entrambe questi strumenti siano complementari. E quindi sembra semplicemente stupido vivere in una società dell’abbondanza come se si fosse in un’economia di scarsità. È, ovviamente, insensato e quindi difficile da comprendere la ragione per cui bisognerebbe porre l’enfasi economica su una maggior produzione tramite la cibernazione, proprio mentre surplus di ogni tipo stanno marcendo per mancanza di uso. Sembra altrettanto irrazionale che il “corno dell’abbondanza” non sia utilizzato per liberare le persone dal troppo lavoro, o per rifornire coloro che non riescono più a trovare un lavoro che garantisca condizioni di vita decenti. In una economia capitalista di tipo russo, le decisioni dirette (che si suppone influenzino l’intera società) sono fatte considerando il tasso di espansione e il tipo di struttura del capitale materiale. Le decisioni sono basate sull’esperienza e se si dimostrano fallimentari sono rettificate alla luce delle nuova esperienze. Il ritmo e l’estensione dell’automazione


industriale sono determinate dai fondi di accumulazione disponibili e dalle richieste di riproduzione dell’apparato produttivo esistente. Questo fondo è definito in modo generale; può essere reso più grande o più piccolo a seconda delle decisioni prese sul fondo destinato al consumo. Anche se viene espresso in termini di moneta, dietro le quantità monetarie vi sono le programmate relazioni reali di produzione, accumulazione e consumo. In teoria, prescindendo da catastrofi naturali o politiche, l’introduzione e l’espansione della cibernazione potrebbe essere un processo ordinato. La produzione potrebbe essere aumentata fino al punto dell’abbondanza e il tempo di lavoro potrebbe essere diminuito, o entrambi i processi potrebbero essere portati avanti nello stesso tempo e così rallentati. In pratica, ciò non è possibile in quanto la Russia è parte dell’economia mondiale e compete con altre nazioni al fine della supremazia politica ed economica. Ma anche se la produzione e il consumo non possono essere determinati solamente rispetto ai bisogni sociali effettivi, ciononostante sono soggetti ad un controllo centralizzato omnicomprensivo che si estende anche oltre le modifiche necessarie per la competizione nazionale. In breve, anche se soggetta alle vicissitudini della politica internazionale che potrebbero alterare o mandare in frantumi tutti i piani, fino a che lo scenario interno non è influenzato da eventi esterni la Russia rimane sempre una nazione ad economia pianificata dallo stato. Questo principio è analogo alla stretta razionalità capitalista di una singola impresa all’interno di un anarchico sistema di laissez faire. È diverso dall’ “economia mista” degli Stati Uniti. La responsabilità delle condizioni della società è nelle mani dello stato; le imprese private sono responsabili solo per loro stesse, ovvero per la redditività del capitale investito in esse. C’è stato un tempo in cui le responsabilità dello stato erano in gran parte politiche ed economiche solo nel senso di supporto al capitale privato. Ma oggi la funzione principale dello stato è di garantire stabilità economica e sociale. Questo implica interventi nell’economia per contrastare i ciclici movimenti dalla prosperità alla depressione e per impedire disoccupazione di larga scala attraverso la spesa pubblica in welfare, lavori pubblici, sussidi, armamenti e l’espansione dello stato stesso. Il ruolo economico dello stato divide l’intera economia in un “settore privato” e un “settore pubblico”. Parlare dell’economia americana come di un’economia a due settori è parlare in termini astratti. In realtà, si tratta di un’unica economia nella quale lo stato interviene attraverso politiche fiscali e monetarie. Anche se lo stato possiede molto patrimonio reale, non compete con il capitale privato. Le sue attività potranno essere economiche, ma non sono legate al principio di redditività. Le sue aziende non finiscono in bancarotta, anche se possono

essere

chiuse

quando

superflue

o

inefficienti.

Non

importa

quanto

economicamente autonome, o al limite profittevoli, alcune imprese pubbliche possano essere, lo stato ha comunque bisogno di una porzione crescente del reddito nazionale


prodotto dal settore privato. Il settore privato si differenzia dal settore pubblico in quanto il primo è orientate al profitto e si espande autonomamente mentre il secondo non è orientato al profitto e si espande alle spese del settore privato. Quando il settore privato cresce più velocemente del settore pubblico, la redditività del capitale privato può non essere intaccata. È differente invece quando è il settore pubblico a crescere più rapidamente. Si può argomentare che lo stato entra nella sfera economica solo quando il capitale privato inizia a perdere colpi, e per questa ragione non influenza la sua redditività, in quanto gli affari non sarebbero andati meglio senza l’intervento del governo. Questo potrebbe anche essere vero. Tuttavia, poiché l’interferenza del governo consiste nell’attivare risorse inattive, i fondi per fare ciò finiscono comunque per essere estratti dal settore privato attraverso l’inflazione, la tassazione, i prestiti o il finanziamento in deficit che aumenta il debito pubblico. Il prodotto nazionale così aumentato non comporta profitti maggiori, ma minori, sul capitale privato già esistente, in quanto è questo capitale a dovere produrre le tasse necessarie per coprire la domanda creata dallo stato e a dover finanziare gli interessi sul debito pubblico. Negli ultimi decenni l’aumento della spesa pubblica in America ha comportato un aumento del rapporto tra tasse e prodotto nazionale, e un aumento del debito federale da $16 miliardi alla fine del 1930 a $297 miliardi all’inizio del 1962. Fino ad ora, tuttavia, il ruolo sempre più esteso dello stato, le cui tasse sono arrivate ad essere un quarto del prodotto nazionale, non ha portato a una decelerazione del tasso di crescita dell’economia nel suo insieme. Ma questo tasso non ha neanche accelerato, anche se l’accelerazione è una precondizione per il mantenimento di un dato saggio di profitto. La stagnazione e la persistenza dell’inflazione sottolineano la difficoltà di soddisfare sia la formazione di capitale redditizio che i crescenti bisogni dello stato. Sin dal 1955 non ci sono state significative espansioni di capitale, ma poiché anche la spesa pubblica è rimasta statica, si è potuto coprire il conseguente declino della redditività con falsi guadagni inflazionari. La mancanza di redditività può essere superata soltanto attraverso un aumento della produttività. Un semplice aumento della produzione non avrà effetto. L’industria americana nel suo complesso produce con una capacità ridotta di quasi il 20%. Potrebbe aumentare la produzione di quasi un quinto senza alcuna aggiunta di capitale e senza esaurire l’offerta di lavoro. In questo senso potrebbe anche diminuire la porzione statale sula totale del prodotto nazionale. Ma questa capacità inutilizzata è considerata obsoleta in quanto non competitiva e di conseguenza non redditizia. VII


Se le prognosi di Michael si dimostrano vere, l’automazione in un economia competitiva significa disoccupazione. Il processo può essere rallentato se la mancanza di risparmi in questo senso dovesse prevalere, come notato da Kuznets. C’è anche speranza che i nuovi mercati siano così larghi da aumentare il numero di lavoratori occupati nonostante l’automazione, come è successo per alcune industrie e addirittura per alcune nazioni. Ma con un industrializzazione sviluppata ad un certo grado praticamente ovunque, con il ritorno della competitività europea, e con il relativo isolamento del blocco orientale, non ci si può aspettare che l’accresciuta produttività dell’industria americana ottenuta attraverso l’automazione porterà a significative espansioni di mercato. L’automazione continuerà e la disoccupazione crescerà anche se forse ad un tasso inferiore del possibile tasso di cambio tecnologico. Le responsabilità del governo cresceranno conseguentemente. Nel 1961, la riscossione di imposte da parte di tutti i livelli statali –federali, statali e localiammontava a $143.6 miliardi, ovvero il 27.6% del prodotto nazionale complessivo. La spesa pubblica, lo stesso anno, ammontava a $149.8 miliardi, dei quali $41,2 miliardi utilizzati per sussidi di disoccupazione e spesa sociale in welfare. Un raddoppio della disoccupazione con la conseguente miseria generale potrebbero pressappoco raddoppiare questa cifra. In questo modo, la redditività derivata dalla maggiore produttività verrebbe diminuito. Lo stesso varrebbe se la spesa pubblica in armamenti, o per ogni altro scopo che sia politicamente fattibile, venisse raddoppiata. A dirla tutta, l’automazione renderebbe anche meno costosi i prodotti acquistati dallo stato e in questo modo alleggerirebbe la domanda pubblica sul settore privato. Ma questo avrebbe la tendenza ad accelerare piuttosto che a rallentare il processo di automazione. Come per tutte la passate occasioni di “emergenza nazionale”, il necessario aumento di produzione e produttività sarà portato dallo stato attraverso maggior inflazione, nuovi prestiti, tasse più alte e, forse, semplicemente imponendo i necessari miglioramenti e allargamenti dell’apparato produttivo. Gli unici limiti reali della produzione sono sempre le esistenti risorse produttive. Trascurando –temporaneamente- la redditività del capitale esistente è sempre possibile allargare la produzione al di la del livello preferito dal capitale privato, ovvero quello più redditizio in ogni dato momento. Tuttavia, di propria iniziativa, anche il capitale privato cercherà sempre di aumentare la produttività alla ricerca di extra profitti, o almeno di mantenere un dato livello di redditività. Non importa quali siano le conseguenza sociali della cibernazione, se aiuta la singola impresa o corporation, verrà utilizzata. Un tasso calante dei risparmi non bloccherà il processo di cibernazione delle corporation con riserve sufficienti a finanziare la loro innovazione tecnologica. Anche se il valore del loro capitale rimarrà stabile, la loro produttività verrà aumentata. Ma se questo a sua volta non porterà ad un allargamento di capitale, il processo non sarà stato produttivo in termini capitalistici, in quanto il capitale


deve portare, attraverso il processo produttivo, a un capitale maggiore. Ci deve essere un investimento netto per poter parlare di formazione di capitale. Senza investimenti netti, ovvero investimenti che eccedono la sostituzione del capitale attraverso l’uso e l’invecchiamento, la produzione è stata aumentati a spese dell’accumulazione. Profitti mai distribuiti non sono profitti e produzione senza accumulazione non ha prodotto capitale. L’assenza o il basso livello di un saggio di investimenti netti in capitale, anche se non necessariamente blocca l’aumento delle produzione e della produttività, implica la sostituzione di lavoro che sarebbe potuta essere evitata, almeno in parte, attraverso una rapida formazione di capitale contemporanea alla cibernazione. Si può dire, ovviamente, che profitti non distribuiti sono un segno di super profitti e lasciano intatti i redditi personali degli azionisti. Questo è in buona parte vero, come indicato dall’esistente prosperità nella sfera del consumo. Tuttavia, gli apparenti extra profitti esistono solo a causa dalla domanda creata dallo stato. Illustrano semplicemente il fatto che lo stato favorisce le grandi imprese. Sussidi attraverso contratti statali e una maggior produttività combinata con prezzi stabili o anche crescenti permettono la formazione di riserve che trovano la loro strada in maggiore automazione. Ciononostante il fatto che non esista un sufficiente tasso di investimenti netti mostra che ciò avviene alle spesi di imprese meno privilegiate e della società nel suo complesso. Tutte le imprese, che siano grandi o piccole, invocano abbassamenti delle tasse e quote di deprezzamento maggiori per aumentare la loro produttività e la loro capacità competitiva attraverso miglioramenti tecnologici. L’automazione riduce il tempo nel quale un macchinario diventa obsoleto e le imprese più piccole, incapaci di introdurre le macchine automatiche abbastanza rapidamente, non riescono a tenere il passo. Così la cibernazione è allo stesso tempo un processo di concentrazione di capitale o, piuttosto, accentua il processo di concentrazione proprio della competizione di capitali. La stessa concentrazione di capitale domanda, e tiene conto di, ulteriori estensioni dell’automazione. In mancanza di un continuo aumento del tasso di formazione di capitale, la disoccupazione deve crescere. Siccome la probabilità di una crescita del genere è estremamente bassa, l’incremento nella redditività per mezzo della cibernazione potrebbe venire annullato, o in ogni caso significativamente diminuito, a causa della simultanea e inevitabile crescita della spesa pubblica necessaria per affrontare le conseguenze sociali della cibernazione. Potrebbe non essere così, comunque, se le condizioni sociali del futuro prossimo scoraggiassero sia la crescita della cibernazione sia quella del “settore pubblico” – in altre parole, se la società, in linea di massima, “congelasse” le condizioni sociali esistenti. Ma per fare questo ci vorrebbe un controllo centralizzato dell’intera economia e di tutti i suoi vari aspetti che lo stato non possiede. Se avesse questo controllo, non presiederebbe più un’economia di libere imprese. A parte le difficoltà interne di una società statica, le sue


relazioni esterne impediscono il mantenimento dello status quo economico. Perciò l’automazione, si dice, deve neutralizzare i vantaggi salariali delle altre nazioni aumentando la produttività americana. Ma l’America non deve competere solo nella sfera economica, ma anche in quella militare, e qui la produzione di armi dipende già in larga parte dalle tecnologie d’automazione. Ancora, il processo e le conseguenze della cibernazione potrebbero non essere così drammatiche come nella raffigurazione di Michael. Molte imprese che vorrebbero automatizzare potrebbero non essere in grado di farlo senza per questo smettere necessariamente di esistere. Si potrebbero estendere dei sussidi a quei settori come sono stati garantiti a quelli agricoli. Questo non è meno plausibile, o diverso in principio, che sostenere la disoccupazione oltre la produzione corrente. In questo modo, una parte delle imprese private (nella loro forma tecnologicamente arretrata) potrebbe diventare una parte del “settore pubblico” dell’economia. Questo è stato vero a lungo per alcuni settori della grande impresa. A meno che i privilegi di quest’ultima, come i contratti statali, le esenzioni fiscali, e lo straordinario deprezzamento delle spese siano ridotte, il settore redditizio dell’economia, già in contrazione, dovrà rinunciare ad una sempre maggiore parte del suo profitto in favore del settore pubblico. Ciò raggiungerebbe la sua “logica” fine nel momento in cui la domanda dello stato eccedesse la capacità di divisione del profitto delle imprese private. Lo

sviluppo

reale

degli

avvenimenti,

comunque,

determinato

nella

sua

forma

dall’interazione di interessi diversi e contrastanti, è raramente, se non mai, “logico”. Potrebbe essere sia logicamente che economicamente possibile avere un’elevata industria cibernata con, diciamo, 20 milioni di disoccupati – in pratica ciò è già abbastanza improbabile. A meno di una soppressione con misure terroristiche, sorgerebbero movimenti sociali per cambiare la situazione, o alterando la natura della società, o variando la relazione tra produzione e occupazione. Similmente, l’accentuazione della concentrazione di capitale attraverso la cibernazione porterebbe plausibilmente delle forze politiche in gioco che potrebbero arrestare questo sviluppo. Contro le necessità reali, gli atteggiamenti feticistici verso il sistema di produzione e la sua tecnologia perderanno la loro influenza, e la gente cercherà di cambiare la struttura sociale piuttosto di accomodarsi ad essa indefinitamente. Alla fine, la questione della cibernazione nel suo grado di applicazione sarà risolto da azioni politiche senza tenere conto di ciò che da un punto di vista economico o tecnologico è “logico”. Ma perfino su basi puramente economiche, la cibernazione trova i suoi limiti lì dove inizia a contraddire la redditività del capitale. Il suo pieno sviluppo sarebbe un processo molto lungo, ad ogni modo, poichè esso richiede il mutamento dell’intero apparato produttivo esistente. Liberarsi dell’intero capitale basato su una vecchia tecnologia significa buttare


via il lavoro incorporato da generazioni che era stato necessario per la produzione corrente. La creazione di un capitale con una tecnologia radicalmente nuova richiede anch’essa il lavoro di generazioni. La cibernazione può essere applicata solo in modo frammentario senza curarsi della natura della società, ma nel capitalismo incontra un ostacolo doppio in quanto può essere applicata solo nella misura in cui salvaguardi e promuova la crescita del capitale esistente. In alcune industrie, per esempio quelle chimiche, l’automazione ha alzato il rapporto tra attrezzatura di capitale e lavoratore di cinque o addirittura dieci volte. Anche se non tutte le industrie sono capaci di automatizzare fino a questo livello, l’investimento di capitale per lavoratore è obbligato a salire a sarà su questo capitale allargato che si misureranno i profitti. Se non sono equivalenti alla nuova struttura del capitale, non c’è incentivo per ulteriore automazione. Questo non fermerà le singole industrie e le corporazioni dall’aumentare la loro produttività per guadagnare vantaggi competitivi, ma siccome anche la loro redditività è determinata alla fine da quella della società come intero, i loro vantaggi di competitività potrebbero comunque non assicurar loro la redditività. Prendendo in considerazione gli ultimi sviluppi, e giudicando realisticamente le condizioni presenti, il futuro della cibernazione non sembra per niente promettente eccetto, certamente, per specifiche industrie, in particolare quelle impegnate nella produzione di armamenti.

Dove sono richieste installazioni interamente nuove che coinvolgono

l’applicazione di nuove scienze di fisica nucleare, elettronica, e cibernetica, queste installazioni potrebbero fin dall’inizio, non dovendo considerare i costi, mostrare il pieno significato della cibernazione. Invero, è stato detto che “quelle macchine miracolose in cui la cibernetica potrebbe sviluppare tutte le sue risorse sembrano utilizzabili solo nell’ingegneria della morte.” [20] VIII Una maniera di reagire all’aumento di produttività ottenuto attraverso la cibernazione sarebbe di tagliare il numero di ore di lavoro e fornire quindi alle persone più tempo libero. Tuttavia,questa soluzione è stata quasi unanimemente messa in dubbio o completamente rifiutata non tanto per la sua contrapposizione al meccanismo capitalista, quanto perché “la società ha fallito nello sviluppare del tempo libero significativo”. La noia è considerata un problema molto serio e perfino pericoloso perchè “ rimane vero che l’uomo felice è spesso quello che non ha abbastanza tempo per preoccuparsi se sia felice o no.” [21] Tutti i tipi di crimini e di delitti sono attribuiti all’aumento del tempo libero il quale, dunque, deve essere “organizzato” da autorità competenti prima di essere garantito. Questo stupido e falso discorso può essere subito respinto. La classe abbiente ha sempre trovato il tempo libero delle classi inferiori riprovevole e pericoloso per la propria agiatezza.


Guardando le meraviglie della prima rivoluzione industriale, Delacroix ha riflettuto sulla “povera gente abusata, [che] non troverà felicità con la sparizione del lavoro. Guardate questi fannulloni condannati a trascinare il peso dei loro giorni senza sapere cosa fare del loro tempo, che le macchine ritagliano sempre di più.” [22] Ora, il tempo libero è precisamente ciò che la maggioranza della gente necessita di più e che detiene in maniera minore - cioè, il tempo libero senza necessità. Il tempo libero degli affamati, o dei bisognosi, non è per niente tempo libero, bensì un’ attività senza riposo mirata al rimanere vivi o al migliorare la propria situazione. Senza maggiore tempo libero non può esserci miglioramento della condizione umana. Quest’intera questione non può nemmeno sorgere nelle condizioni attuali. Come eccezione alla regola, e aiutato da speciali circostanze, qualche gruppo di lavoratori può riuscire a ridurre il proprio tempo di lavoro senza intaccare il reddito. Ma ridurre il tempo lavorativo e mantenere lo stesso salario trasformerebbe la cibernazione in un affare privo di senso fintanto che ne sono coinvolti i capitalisti. Il punto della cibernazione è precisamente di ridurre il costo del lavoro relativo al costo complessivo dei “fattori di produzione” e di fare rientrare l’alto costo del capitale con una maggiore produttività. Altrimenti non ci sarebbe alcuna formazione di capitale. Teoricamente, non c’è ragione perchè questo processo non dovrebbe continuare attraverso la cibernazione. Il fatto che questo non avvenga, in pratica, è osservabile dal basso tasso di formazione del capitale e dal fatto che il declino della forza lavoro non dipende solamente dalla massa di capitale, ma è anche un valore assoluto. Si può discutere, ovviamente, che non c’è più il bisogno di un’estensiva formazione del capitale e che la pura sostituzione e modernizzazione dell’apparato produttivo esistente è sufficiente a soddisfare tutte le necessità sociali. Ogni aumento nella produttività potrebbe essere quindi immediatamente tradotto in maggiori salari, oppure ore più brevi, o entrambe le cose. Anche se possibile, non è possibile invece all’interno del sistema capitalista, e coloro che propongono seriamente questa soluzione devono essere pronti a cambiare il sistema. La “soluzione” capitalista al problema della cibernazione è da ritrovare non nei maggiori salari e in una settimana lavorativa più breve per la popolazione lavoratrice, ma in una maggiore profittabilità espressa nell’aumento di capitale. Se tutte queste cose coincidono, tanto meglio; se no, il capitale proverà ad assicurarsi la propria redditività a spese del lavoro. Ogni imprenditore, o corporazione, impiega la minima forza lavoro possibile in relazione al capitale investito; ciascuno, ovviamente, prova a incrementare questo minimo attraverso

un

corrispondente

maggiore

investimento.

Essi

sono

interessati

economicamente parlando - non a una forza lavoro più grande o piccola ma a quella forza lavoro che consente maggiori profitti. Loro non sono, e non possono esserlo, interessati alla forza lavoro nazionale; i disoccupati sono responsabilità del governo, anche se esso


può sostenerli solo con fondi estratti dall’intera società. Contribuire in maniera minore possibile a questi fondi è di conseguenza un altro obiettivo dell’imprenditore o della corporazione. Poichè la società – considerando il settore produttivo - è composta da numerose imprese indipendenti che operano in competizione, ognuna seguendo i dettami della redditività, non c’è modo di dividere il lavoro disponibile tra tutta la forza lavoro. Ci sarà troppo lavoro per alcuni, disoccupazione per altri. Non solo i datori di lavoro ma anche i lavoratori più fortunati chiederanno ore di lavoro producendo salari adeguati al modo di vivere a cui si sono abituati. Invece di ore più brevi ci sarà disoccupazione crescente, e i costi della disoccupazione dovranno essere pagati dai lavoratori attivi. In “ultima analisi”, dal momento che il prodotto sociale complessivo è diviso tra i proprietari di capitale e la popolazione produttiva, non importa come i proprietari o i loro dirigenti, nella ridistribuzione del capitale, ridistribuiscano la loro parte per scopi di accumulazione e sostentamento della popolazione non produttiva. Ciò che spetta alla disoccupazione deve essere sottratto dalla parte totale che spetta al capitale, e ciò che spetta alla disoccupazione non può essere dato ai lavoratori attivi, limitando di conseguenza, fino a questo punto, ogni possibile aumento salariale. Anche se i salari non aumentano significativamente sotto le condizioni di crescente disoccupazione, la pressione sociale e la produttività in aumento potrebbero prevenirne il calo. Se i salari potessero essere diminuiti sotto le condizione della crescente produttività, la redditività del capitale potrebbe espandersi a un tasso più veloce – a patto che, ovviamente, i mercati crescano simultaneamente, il che non è necessariamente il caso. Tutto ciò implica - dal punto di vista della società come intero – che meno si consuma più si “risparmia”, ovvero si accumula capitale. Incanalare la produzione aumentata attraverso l’aumentata produttività all’interno della domanda creata dal governo - come per gli armamenti e i programmi spaziali - avrebbe un effetto opposto, siccome aumenterebbe il “consumo” a spese del “risparmio”. Non è consumo in senso ordinario, ovviamente, ma tuttavia ha lo stesso effetto. Il governo – essendo un governo di imprese private – per evitare di distruggere la commerciabilità della produzione privata più velocemente di quanto abbia già fatto, preferisce “consumare” l’incremento della produzione nella forma di spreco, razionalizzato come “difesa nazionale” o “esplorazione scientifica”. È difficile tornare indietro rispetto gli standard di vita già acquisiti. Tranne che in effettive situazioni di guerra, ogni generale tentativo di ridurre i redditi a un livello precedentemente esistito potrebbe condurre a un conflitto sociale che, a sua volta, potrebbe vanificare ogni passo fatto in questa direzione. Per di più, le sensibili condizioni economiche di oggi, la


dislocazione della produzione industriale associata ad un netto spostamento da beni di consumo a beni capitali potrebbe essere più dannoso per la stabilità sociale che la stagnazione del capitale. Questa è una ragione per cui si sceglie il più sottile metodo dell’inflazione graduale per ridurre i consumi nel senso ordinario al fine di “consumare” di più nel senso straordinario, e ancora assicurare la profittabilità del capitale privato. In sunto, si potrebbe dire che un’estensiva cibernazione della produzione sembrerebbe improbabile per la stessa ragione che la rende così attrattiva per il capitale, ovvero la diffusa insufficienza di redditività e il conseguente basso tasso di crescita economica. Ma anche un vasto incremento della cibernazione non porterebbe ad un incremento del consumo – a una generale abbondanza – ma a un incremento dello spreco produttivo, alla miseria della disoccupazione, e alla lenta ma inevitabile trasformazione dell’”economia mista” in un sistema di capitalismo statale. Nel frattempo, proprio come gli stati sottosviluppati vivono in ansia perchè non sono capaci né di gestirsi sotto le vecchie condizioni semi-feudali nè di entrare nell’industrializzazione capitalista, così anche le sviluppate nazioni capitaliste vivono nell’ansia, incapaci sia di gestirsi sotto il loro sistema di produzione che di cambiare le loro strutture sociali tanto da permettere un completo dispiegarsi delle forze sociali di produzione e la progressiva abolizione del lavoro. NOTE

1. Norbert Wiener, The Human Use of Human’ Beings, New York, 1954, p. 162. 2. Calling all Jobs, National Association of Manufacturers, New York, October, 1957, p. 21. 3. W. H. Ferry, Caught on the Horn of Plenty, Center for the Study of Democratic Institutions, January, 1962, p. 1. 4. The New York Times, February 16, 1962. 5. Cibernazione: The Silent Conquest, Center for the Study of Democratic Institutions, 1962. 6. Ibid., p. 13. 7. Ibid., p. 16. 8. The New York Times, April 6, 1961, p. 18. 9. D. N. Michael, Cibernazione, p. 26.


10. Ibid., p. 46. 11. Ibid. 12. National Bureau of Economic Research, Princeton, 1961. 13. S. Kuznets, Capital in the American Economy, p. 442. 14. Ibid., p. 443. 15. Ibid., p. 453. 16. Ibid., p. 457. 17. Ibid., p. 460. 18. Ritchie Calder, Technology: Europe’s Needs and Resources, New York, 1961, p. 789. 19. P. Einzig, The Economic Consequences of Automation, New York, 1957, p. 65. 20. P. de Latie, Thinking by Machine, Boston, 1957, p. 284. 21. R. Theobald, The Challenge of Abundance, New York, 1962, p. 86. 22. The Journal of Eugene Delacroix, New York, 1961, p. 512.


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