il potere del profitto

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POTENZA DEL PROFITTO Anwar Shaikh, 2004

Il mio primo incontro con l'opera di Robert Heilbroner avvenne nel 1967 mentre ero studente specializzando alla Columbia University. A quei tempi veniva ancora insegnata la storia del pensiero economico, e il “The Wordly Philosophers” costituiva il centro gravitazionale di questa impresa. Tuttavia si poteva già prevedere come sarebbero andate le cose per il fatto che questo corso venisse tenuto alla Business School piuttosto che al dipartimento di economia. Come innumerevoli altri, sono stato travolto dal testo classico di Heilbroner. La sua eleganza, la sua portata e la sua visione d'insieme ci ha spinti a guardare oltre quanto ci veniva insegnato, al mondo attorno a noi, alle altre scienze sociali e ai classici di queste discipline. Cambiò il modo in cui vedevamo il mondo. Fu il miglior genere di educazione che potessimo ricevere. Quando, successivamente, mi unii al dipartimento di economia della Graduate Facuty alla New School of Social Research ebbi modo di conoscere non solo Bob Heilbroner, ma anche il suo (e successivamente il mio stesso) mentore, Adolph Lowe. La mia educazione maturava rapidamente. Questo saggio è dedicato ad una questione centrale sulla quale Heilbroner ritorna continuamente: il capitalismo ha dei modelli di comportamento intrinseci, e se è così, in che misura possono essere modificati?

1. Il Profitto come forza motrice del capitalismo Il capitalismo è un'entità misteriosa. In apparenza indulgente e sotto la superficie manifesta comportamenti compulsivi. Cosa guida questo sistema? Questa è la domanda centrale che si pone l’ economia politica. Nel suo primo trattato sull'argomento, The Wordly Philosophers, Heilbroner si concentra sulle visioni generali dei grandi economisti ed i suoi temi principali erano la storia, la struttura e il futuro del capitalismo. Col tempo, egli si concentrò sullo sviluppo delle analisi su questi stessi temi (Heilbroner, 1976; 1978; 1993). Come in ogni indagine che si rispetti, questa scelta lo riportò indietro, almeno inizialmente, allontanandolo dalle risposte riguardanti queste problematiche. Così, più di 30 anni dopo, smise di concentrarsi sul passato e sul futuro del capitalismo e si impegnò a scrivere della sua natura e della sua logica (Heilbroner, 1985: 13-14). Heilbroner afferma che nei suoi primi scritti aveva cercato di evitare la difficoltà di definire il


termine “capitalismo” concentrandosi invece sui mercati, sul commercio, sulle imprese ma alla fine arrivò a credere che questo fosse insufficiente, infatti, mentre il commercio era “una parte indissociabile di qualunque cosa fosse il capitalismo, ” rappresenta soltanto “la sua realtà rivolta verso l'esterno”. Ciò che lo aveva interessarlo era una domanda più profonda, che riguardava “quell'inferno nella cui morsa venivano trattenute le attività delle imprese” (Heilbroner, 1985: 16), e la cui influenza spinge il sistema capitalista lungo il suo percorso frattale. Questo è, naturalmente, il concetto della Mano Invisibile di Adam Smith, la fonte degli schemi economici ricorrenti al centro dell'economia classica e marxiana. Cosa guida tutto questo? Smith sostiene che si tratti dell'innato interesse personale, quella famosa, naturale, “propensione alle relazioni e al baratto.” Cosa che venne messa in discussione da Marx. Primo, perché l'interesse personale, come caratteristica assoluta, non è per niente naturale. Deve essere socialmente costruito, nonché mantenuto, affinché possa essere elevato a tale stato superiore. Secondo, perché il capitalismo è governato dalla legge del profitto, non dal mero interesse personale. L'incentivo al profitto subordina l'interesse personale ai propri obiettivi, anche se questo viene rappresentato nelle vesti di interesse personale. Su questo argomento critico, Heilbroner scende in campo dalla parte di Marx. “Il profitto è la linfa vitale del capitalismo,” dice. É la raison d’être dei capitali individuali, così come la diretta misura della loro abilità. É anche il principio organizzativo dominante nella società capitalista nel suo complesso, la creazione di un imperativo che costringa ripetutamente capitalisti e lavoratori a tornare alla Hobbesiana “guerra di tutti contro tutti” (Heilbroner, 1985: 57, 76-77). Heilbroner è particolarmente attento ad affermare che il riconoscimento del ruolo dominante dell'incentivo del profitto non porta ad una lettura riduttiva degli altri attributi del capitalismo. Anche in questo, segue Marx.

Ripeto che la dominazione non è rigida determinazione. Ci sono stati momenti critici nella storia del capitalismo, come in quello di altre società, quando colpi decisivi sono stati inferti da inaspettati attori, idee, interessi o incidenti. Anche allora, l'ambiente in cui questi colpi sono calati, qualunque sia stata la loro potenza esplosiva, non è un dramma Pirandelliano dove i personaggi sono in cerca di identità e significati, ma è una società inserita e soggiogata alla natura, e alla conseguente logica, dei suoi principi di organizzazione Da questa prospettiva è ovvio che il capitale, come principio dominante della società


identificata dalla sua presenza, deve necessariamente influenzare e infiltrarsi nelle istituzioni e nelle credenze che giacciono oltre il suo immediato ambito di operazione. (Heilbroner, 1985: 84).

Lo stato capitalista è un esempio particolarmente importante di un’istituzione immersa nella luce soffusa dell’incentivo al profitto. Esso non è a completa disposizione del capitale, ma si trova all’interno della società capitalista e quindi non può sfuggire agli imperativi del sistema. Il capitale ha bisogno dello stato, ma lo stato ha bisogno della continuità economica, e questa a sua volta poggia sul corretto funzionamento del capitale. Mentre lo stato può modificare i risultati prodotti dall’incentivo al profitto, non può fare a meno dell’incentivo stesso (Heilbroner, 1985: 84, 93-95, 104). In realtà, non può neanche minare in maniera significativa la continuità del circuito del capitale, poiché quando quest'ultimo viene colpito, l'intero sistema vacilla. I limiti all'azione dello stato possono essere meno restrittivi nei periodi buoni piuttosto che in quelli cattivi, ma ciononostante rimangono operativi. Questa visione di una società capitalista gerarchicamente strutturata entra in forte contraddizione con quello che potrebbe essere definita la teoria “a mattoni” della società. Un esempio può essere la visione della “società contemporanea” di Daniel Bell come tre ambiti di pari importanza (tecnico-economico, politico e sociale), ciascuno con il proprio principio fondamentale (Bell, 1976). Heilbroner rimprovera Bell di non essere stato capace di vedere che i limiti dei principi fondamentali derivano proprio da “il loro rigido contenimento all'interno dell'insieme degli imperativi economici” che definiscono il capitalismo (Heilbroner, 1985: 83). A questo proposito, vale la pena notare che anche l’economia moderna rappresenta il capitalismo come un insieme di settori autonomi e sullo stesso piano (famiglia, imprese e stato), e che ognuno di questi “agenti” opera sulla base di un principio diverso (rispettivamente, profitti, utilità e gestione economica). La critica di Heilbroner è qui altrettanto valida.

2. La pacificazione dell’incentivo al profitto nell’economia moderna Nell’economia classica, e in particolare in Marx, l’incentivo al profitto dà luogo a modelli economici ricorrenti. L’incentivo al profitto è la fonte che spinge a resistere agli aumenti


salariali, a cercare manodopera a basso costo a livello nazionale ed estero nonché ad abbassare i salari, ogni qualvolta sia possibile farlo. È anche la fonte della spinta costante verso la meccanizzazione della produzione, al fine della riduzione dei costi. La rivoluzione industriale non ha creato il capitalismo; bensì è stato il capitalismo l’origine della rivoluzione industriale e di tutte quelle che l’hanno seguita. È un processo che non si ferma mai1. L’incentivo al profitto regola anche la concorrenza tra i capitali, una vera guerra totale. Le imprese lottano per ottenere profitti sottraendo, con le buone o le cattive, quote di mercato ai loro concorrenti. Il taglio dei costi gioca un ruolo centrale, perché consente un taglio dei prezzi, un mezzo particolarmente potente per battere i concorrenti. Il cambiamento tecnologico, auto-avviatosi e attualmente ancora in corso, è l’ancella di questo processo, ed il collante di tutto questo è il livellamento del profitto, in cui i singoli capitali si affannano per trarre vantaggio dalle aree con maggiore redditività, e così facendo le eliminano. I settori con tassi di profitto maggiori della norma vedono crescere la loro offerta più velocemente della loro domanda, il che porta all’abbassamento dei prezzi e quindi dei loro profitti. Questo processo di arbitraggio turbolento (Shaikh, 1998) regola non solo i prezzi industriali, ma anche i prezzi delle azioni e i tassi d’interesse2. L’arbitraggio del salario è più complesso. L’incentivo al profitto opera dalla parte degli acquirenti (i datori di lavoro), dal momento che i soldi che spendono per il lavoro fanno parte di un continuo investimento nelle operazioni aziendali. Di conseguenza, vanno in cerca della manodopera meno costosa, di qualsiasi qualità essa sia. Ma dal lato dei venditori (i lavoratori), il salario rappresenta una fonte di reddito personale. Da qui il fatto che la risposta del lavoro alle differenziazioni nelle offerte salariali sia tipicamente più attenuata, in quanto dipende da un mix di considerazioni monetarie e personali. Infine, il profitto regola anche i processi macroeconomici. La spesa per gli investimenti è denaro anticipato con l’obiettivo di ottenerne di più – ovvero, di produrre un profitto (Heilbroner, 1985: 33-35). Le aspettative di profitto a breve termine determinano anche il livello di occupazione che le imprese sono in grado di offrire. I salari pagati a questi lavoratori determinano a loro volta la maggior parte della spesa per consumi. Come la

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Il punto di vista espresso in questa sezione è sviluppato analiticamente in maniera molto più dettagliata nel mio prossimo libro “The Economic Analysis of Advanced Capitalism”

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I prezzi delle obbligazioni e i tassi di interesse sono semplicemente due facce della stessa medaglia finanziaria. Pertanto se l'arbitraggio del profitto regola il primo, regola anche il secondo.


mira di un buon tiratore, queste diverse aspettative di profitto vengono costantemente adeguate alla luce dei risultati effettivi. Tutte queste tendenze gravitazionali operano in modo molto turbolento. I prezzi e i profitti oltrepassano sempre i loro centri di gravità per poi invertire la loro rotta ed oltrepassarli di nuovo. Allo stesso modo, la crescita accelera e decelera costantemente, dando luogo a cicli caratteristici fatti di onde e collassi occasionali. Non esiste un momento di vero equilibrio, esiste soltanto un processo che porta all’equilibrio attraverso la compensazione costante di disequilibri, crescita attraverso fluttuazioni perpetue, ordine nel e attraverso il disordine. Ma se i processi organici connettono poli opposti, allora dare più peso ad uno qualunque dei poli rispetto agli altri andrebbe a viziare l’analisi. Questo, vorrei precisare, è quanto accade nelle due scuole dominanti dell’economia moderna e, di conseguenza, ciascuna delle loro interpretazioni offre una visione più addomesticata del capitalismo. L’economia Neoclassica si concentra sull'ordine del sistema, minimizzando ogni considerazione sui suoi disordini. Il concetto di concorrenza come fosse una guerra è sostituito da quello di “concorrenza perfetta”. Si ipotizza che le imprese accettino passivamente ogni prezzo di mercato e mantengano la convinzione di poter vendere qualsiasi quantità a qualsiasi prezzo. Secondo queste ipotesi, l'unica loro azione consiste nel decidere il livello di produzione più desiderabile (ovvero più redditizio) e lasciare il resto al mercato. Le imprese non decidono neanche i prezzi, figuriamoci impegnarsi nel taglio dei costi o rivaleggiare per fette di mercato. Questa è concorrenza solo di nome, ritualizzata e monca. L'azione si sposta quindi sul mercato, dove il prezzo si aggiusta automaticamente in modo da compensare domanda e offerta. Questo principio vale per tutti i mercati, compreso il mercato del lavoro, dove il salario reale si aggiusta costantemente per fare coincidere le offerte e le richieste di lavoro3. Conseguentemente la piena occupazione è la norma, a meno che qualcosa non si metta in mezzo per impedire il funzionamento normale del mercato del lavoro. L'informazione imperfetta rispetto alle offerte o alla disponibilità di lavoro possono rallentare il processo, ma non bloccano la tendenza verso la piena occupazione. Le restrizioni del mercato, tuttavia, sono una

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Il segreto della descrizione neoclassica del mercato del lavoro è che il salario reale viene descritto come se avesse una sola funzione sociale: quella di una variabile regolatrice del mercato. Una volta considerate tutte le altre funzioni, allora neanche quando i salari reali rispondono agli squilibri del mercato del lavoro questa flessibilità è più sufficiente ad assicurare piena occupazione


questione diversa. I sindacati, alzando i salari oltre i prezzi concorrenziali di mercato, fanno in modo che l'occupazione sia più bassa rispetto al livello concorrenziale. La stessa cosa si può dire sul salario minimo e sulle iniziative anti-povertà dello stato. (Korilas and Thorn, 1979: 285-287; Hargreaves-Heap, 1987). Secondo questo punto di vista, l'intervento dello Stato è giustificato solo in rare occasioni – per esempio quando l'inquinamento di una fabbrica danneggia la salute di persone che non hanno alcun rapporto con la fabbrica stessa (Hunt, 2002: 390-395). A parte questi casi di “esternalità” di mercato, lo stato non ha alcuna utilità economica. L'economia post-Keynesiana invece intraprende, parlando in termini generali, la strada opposta. Dove l'economia Neoclassica celebra l'ordine quasi perfetto del capitalismo, l'economia post-Keynesiana ne enfatizza il disordine, invece della concorrenza perfetta ipotizza una concorrenza imperfetta e sostituisce, come arbitro fondamentale dei risultati economici, la concorrenza con il potere: il potere oligopolistico, il potere sindacale e il potere dello stato. Gli oligopoli sono isolati dalla concorrenza, e, a differenza delle imprese in concorrenza perfetta, decidono i prezzi in maniera diretta, scegliendo un desiderato margine di profitto rispetto ai costi. Anche i lavoratori influenzano i prezzi, con l'aiuto dei sindacati e delle loro istituzioni. I risultati economici che ne derivano non sono necessariamente ottimali, efficienti né tantomeno desiderabili. La disoccupazione è altrettanto possibile che la piena occupazione. Data la gamma delle possibilità, l’indirizzo che prende il sistema dipende da forze specifiche e dagli equilibri di potere. (Dutt, 19911992: 221, 223). Di conseguenza esiste la possibilità e la necessità dell'intervento statale per regolare le imprese, il lavoro, l'ambiente, e, cosa più importante, la produzione aggregata e l'occupazione stessa. Se utilizzato propriamente, lo stato può esercitare una spinta che può indirizzare il capitalismo verso una condizione socialmente desiderabile. Ad una prima occhiata, le due scuole sembrano fornire concezioni diametralmente opposte. Concorrenza perfetta conto concorrenza imperfetta. “Price taking” contro prezzi determinati dalle imprese. Piena occupazione contro disoccupazione persistente. Stato non essenziale contro Stato fondamentale e leggi del movimento guidate dal mercato contro percorsi storici, contingenti, regolati dallo Stato. Ma un'ulteriore riflessione mostra alcuni fondamentali tratti in comune. Quello che colpisce di più è il fatto che entrambe le scuole promettono un risultato sostanzialmente identico: un capitalismo che sarà più o meno efficiente, equo, stabile e socialmente desiderabile. La differenza è che l'economia neoclassica si affida alla Mano Invisibile del mercato, mentre l'economia post- Keynesiona richiede la Mano Visibile dello stato. In pratica tutti i moderni dibattiti di economia, dagli


effetti del crescente disavanzo statale fino alle conseguenze della globalizzazione, sono riconducibili all'interno di questa cornice. Vi sono anche altri elementi in comune. Entrambe le scuole si basano molto sulla nozione di equilibrio come un effettivo stato di cose, come un successo, anche se non sono d'accordo se sia più importante quello di breve periodo o quello di lungo periodo. Entrambe si basano sulla concorrenza perfetta come descrizione essenziale della concorrenza, anche se non sono d'accordo sull’importanza che ha nella situazione attuale, così entrambe finiscono per considerare le imprese come un soggetto passivo: nell'economia neoclassica ogni impresa accetta il prezzo di vendita come dato e si concentra sulla scelta del livello di produzione più redditizio; nell'economia postKeynesiana le imprese scelgono un margine di profitto (markup) e si impegnano ad offrire la quantità che il mercato può assorbire. Le tattiche e la strategia della guerra competitiva scompaiono in entrambe le visioni. È possibile recuperare un quadro completo delle dinamiche capitalistiche unendo i due approcci, magari con la teoria post-Keynesiana come economia sul breve periodo (disordinato) e la teoria Neoclassica come economia sul lungo periodo (ordinato)? Keynes stesso ha suggerito questa possibilità. Nel suo Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1936) insisteva sul fatto che il capitalismo non possiede alcuna tendenza verso la piena occupazione. In seguito concedeva il fatto che una disoccupazione persistente avrebbe spinto i salari verso il basso, il che avrebbe reso più conveniente per le imprese assumere più lavoratori e così facendo realizzare alla fine la piena occupazione. Il problema era che ognuno di questi processi di aggiustamento sarebbe stato lungo e socialmente doloroso, per cui era meglio realizzare la piena occupazione

attraverso

l'aumento

della

spesa

statale

piuttosto

che

attraverso

l'impoverimento dei lavoratori. In questo modo Keynes ha potuto conservare la sua affermazione originale che per realizzare il mondo descritto dalla teoria neoclassica è necessario l'intervento statale: “se il controllo centrale riesce a stabilire un volume di prodotto corrispondente alla piena occupazione, la teoria Neoclassica si realizza da questo punto in avanti” (Keynes, 1936: The general theory: 378, citato in Kohn, 1986:1202). La maggioranza dei post- Keynesiani rifiuterebbero una tale sintesi adducendo il fatto che le due teorie rappresentano visioni opposte del capitalismo. Alla fine, se si sostiene che la concorrenza è stata soppiantata dagli oligopoli e le leggi del movimento da contingenze


storiche, allora i due approcci non possono essere combinati in maniera sensata. Veniamo quindi lasciati liberi di scegliere tra queste due scuole, o con la possibilità di optare per qualcosa di abbastanza diverso. Heilbroner e Milberg (1995) scelgono quest'ultima possibilità. Sostengono che nonostante il forte bisogno di una nuova visione del capitalismo, non è emerso niente di accettabile. L'economia Neoclassica si è rifugiata in “un'ossessione per la “precisione” tale da trascurare.. una spiegazione plausibile e persuasiva dei fenomeni economici”(101). Nel frattempo l'economia istituzionale non ha fatto passi in avanti e le scuole post-Keynesiane e Marxiste sono troppo divise al loro interno per essere influenti (97-100). Concludono che il capitalismo debba essere riconcettualizzato utilizzando due attori principali: “il settore privato visto come relativamente passivo, anche se pur sempre con un ruolo di vitale importanza, e un settore pubblico visto come strategico, anche se probabilmente di dimensioni inferiori”(122). Il loro esplicito orientamento dirigista nasce dalla convinzione che “il capitalismo sia oggi un ordine sociale sotto il controllo di forze che devono essere contenute o incanalate da forti politiche statali”(123), e mettendo in atto queste politiche “le leggi comportamentali sulle quali l'economia ha costruito il suo formidabile apparato analitico” perderanno molta della loro forza e l'economia diventerà “ una disciplina che segue la scia della sociologia e della poiltica”. Condivido la convinzione che ci sia bisogno di qualcosa di nuovo. Ma i miei argomenti mi conducono nella direzione opposta: il problema non è la mancanza di visione ma la mancanza di analisi. Come Heilbroner e Milberg sottolineano, la “visione” non può essere separata dall'analisi (124-126). Nella precedente visione di Heilbroner, il capitalismo era una società dominata dall'incentivo del profitto. Il settore privato aveva un ruolo dinamico e per quanto il settore pubblico potesse essere attivo, era contenuto da limiti specifici. Nella nuova visione, il settore privato è passivo e il settore pubblico assume un ruolo attivo così scompaiono I limiti descritti precedentemente. La difficoltà in entrambi i casi e che non si può attribuire un significato pratico ai poteri dello stato senza specificare i limiti di questi poteri e tale specificazione è un operazione analitica. Un punto di vista può guidare questa dinamica, ma non può sostituirsi ad essa. È necessario identificare come le attività dello Stato influenzino l'occupazione, la crescita, l'inflazione, il tasso di interesse, il tasso di cambio, e una serie di altre variabili economiche. Consideriamo la questione della disoccupazione. La teoria neoclassica ci dice che un


capitalismo senza restrizioni genererà automaticamente la piena occupazione della forza lavoro. La teoria post-Keynesiana contesta questo fatto, insistendo che solo l'intervento statale può garantire la piena occupazione. Entrambe le parti concordano sulla fattibilità di questo risultato ed entrambe le parti implicitamente trattano le imprese come un soggetto passivo in questo processo. La nuova visione delineata da Heilbroner e Milberg si allinea alla vasta tradizione della teoria Keynesiana, che considera lo Stato (e solo lo Stato) capace di realizzare e mantenere la piena occupazione. D'altra parte, la precedente visione di Heilbroner ricadeva nella tradizione classica, dalla quale si ottengono risultati completamente differenti. Qui le imprese sono attive, anzi giocano un ruolo estremamente aggressivo. Il loro immanente desiderio di profitto le porta a cpmbattere le une contro le altre e contro il lavoro e su quest' ultimo fronte, accelerano attivamente il cambiamento tecnologico in grado di risparmiare lavoro ogni volta che la forza lavoro scarseggia o diviene più costosa. In un clima di questo genere, se la crescita a livello macroeconomico riduce le riserve di disoccupati e restringe il mercato del lavoro, sorgono due forze contrastanti: un aumento dei salari reali, che riduce la redditività e conseguentemente l’aumento del prodotto e dell'occupazione; e una accelerazione della meccanizzazione che riduce un crescita ulteriore dell'occupazione. Entrambi questi effetti contrastano con l'originario restringimento del mercato del lavoro. Alla fine il risultato è che invece di raggiungere la piena occupazione, il sistema oscilla attorno a un certo tasso di disoccupazione persistente (Shaikh, 2003: 137-140)4. Inoltre, la risposta della politica Keynesiana tradizionale fondata sull’ espansione della spesa pubblica (o di taglio delle tasse) potrebbe provvedere solo ad una spinta temporanea. Così mentre il tasso di disoccupazione andrebbe a ridursi nel breve periodo, in seguito ritornerebbe al livello precedente o addirittura ad uno superiore. Nella migliore delle ipotesi il guadagno sarebbe transitorio, nella peggiore diventerebbe una perdita sul lungo periodo5. Esistono differenze analoghe tra le tradizioni Neoclassiche e post-Keynesiane su altri argomenti, come sugli effetti del disavanzo sulla crescita economica. In realtà differenze altrettanto grandi esistono anche all'interno della vasta tradizione Keynesiana, tra le branche post-Keynesiane e Harrodiane. Per esempio, la prima sostiene che una crescita della spesa pubblica come quota del prodotto porterà senza dubbio ad un aumento 4

Quest'ultima argomentazione è basata sulla teoria di Marx sull'esercito di riserva, come è stata sviluppata da molti autori. Vedere Shaikh (2003) per ulteriori dettagli.

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Questo punto può essere reso esplicito estendendo le sezioni 4 e 5 di Skaikh (2003) per comprendere la spesa pubblica e la pressione fiscale, come delineato nella sezione 3 dello stesso saggio.


dell'occupazione, mentre la seconda conclude che lo stimolo iniziale alla fine verrà dissipato ed eventualmente diventerà un fattore negativo in quanto ridurrà il tasso di crescita di lungo periodo. (Moudud, 2000). Quindi, come valutiamo le due visioni del capitalismo presenti nel lavoro di Heilbroner? Mi sembra ovvio che possiamo farlo solo alla luce dei rispettivi contenuti analitici. Infatti alla fine, mentre il punto di vista guida l'analisi, l'analisi disciplina il punto di vista. Le due non possono esistere indipendentemente.

Bibliografia Bell, Daniel. The Cultural Contradictions of Capitalism. New York: Basic Books, 1976. Bhattacharyea, Aditya. “Keynes and the Long-Period Theory of Employment: A Note.” Cambridge Journal of Economics 11:3 (May 1987): 275-284. Dutt, Amitava Krishna. Expectations and Equilibrium: Implications for Keynes, the NeoRicardian Keynesians, and the Post Keynesians. Journal of Post Keynesian Economics 14:2 (Winter 1991-1992): 206-224. Hargreaves-Heap, Shaun. Unemployment New Palgrave: A Dictionary of Economics. Eds. J.Eatwell, M. Milgate, and P. Newman. London: MacMillan Press Limited, 1987: 745-747. Heilbroner, Robert. Business Civilization in Decline. New York: Norton, 1976. ———. Beyond Boom and Crash. New York: Norton, 1978 ——— The Nature and Logic of Capitalism. New York: Norton, 1985. ———. 21st-Century Capitalism. New York: Norton, 1993. Heilbroner, Robert, and William Milberg. The Crisis of Vision in Modern Economic Thought. Cambridge: Cambridge University Press, 1995. Hunt, E. K. History of Economic Thought: A Critical Perspective. 2 ed., updated. Armonk, N.Y.: M. E. Sharpe, 2002. Koriliras, Panayotis G., and Richard S. Thorn. Modern Macroeconomics: Major Contributions to Contemporary Thought. New York: Harper and Row, 1979. Moudud, Jamee. Crowding In or Crowding Out? A Classical-Harrodian Perspective The Levy Economics Institute of Bard College. Working Paper no. 315 (October 2000) http://www.levy.org.


Shaikh, Anwar. The Stock Market and the Corporate Sector: A Profit-Based Approach Markets, Unemployment, and Economic Policy: Essays in Honour of Geoff Harcourt. Vol. II. Eds. Malcolm Sawyer, Philip Arestis, and Gabriel Palma. London: Routledge, 1998: 389-404. ———. “Labor Market Dynamics within Rival Macroeconomic

Frameworks.” Growth,

Distribution and Effective Demand: Alternatives to Economic Orthodoxy. Eds. George Argyrous, Gary Mongiovi, and Mathew Forstater. Armonk, N.Y.: M. E. Sharpe, 2003: 127143


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