Sono le bidonvilles un pianeta a parte? Bruno Astarian Febbraio 2010 hicsalta-communisation.com
Presentazione al testo: Sono le bidonvilles un pianeta a parte? alcuni compagni/e di Connessioni primavera 2012 Abbiamo voluto pubblicare e tradurre il testo di Bruno Astarian, Sono le bidonvilles un pianeta a parte?, uscito sul sito hicsalta-communisation.com nel 2010, perché rappresenta un interessante tentativo, di andare al di là della semplice fotografia del presente, e prova a dare contenuto alla dinamica della lotta di classe che si sviluppa all’interno degli agglomerati urbani (slum) delle metropoli. Supera la generica definizione e la dicotomia tra dominanti-dominati, e non considera questi soggetti come massa amorfa avulsa dai meccanismi di accumulazione capitalista, ma come parte del proletariato. Mette al centro la definizione di classe partendo dall’attuale modo di produzione capitalista, quest’ultimo elemento fondante dello sviluppo delle baraccopoli cosi come le conosciamo. Le baraccopoli sono qui lette non come retaggio del passato ma come dimensione propria del capitalismo, cosi come lo è il gran numero dei suoi abitanti: l’esercito industriale di riserva, inteso non come massa uniforme di disoccupati, ma come un insieme che raccoglie dissoccupati, working poor, lavoratori migranti/stagionali, ecc... E’ fondamentale capire che l’esercito industriale di riserva è endemico al capitalismo (e non indica semplicemente i disoccupati in quanto tali), e non un suo squilibrio. Già nel testo, La situazione della classe operaia in Inghilterra, di F. Engles del 1845, nel capitolo, Le grandi città, si possono scorgere i tratti delle moderne metropoli. Il miglioramento (relativo) delle stesse periferie urbane, ad esempio in Gran Bretagna, corrispondevano ad uno spostamento spaziale di tale dimensione (le vere e proprie baracche) nelle nuove megalopoli costruite e implementate dall’imperialismo britannico nel mondo. Dove interagiscono i medesimi fattori, i flussi migratori di massa prodotti dal passaggio dalla campagna verso la città, lo sviluppo industriale, la necessità endemica dell’esercito industriale di riserva, ma non più visto dentro un confine nazionale ma come dimensione mondiale generale. E’ evidente che le attuali metropoli europee presentano tratti diversi da quelli descritti da Engels, ma è indubbio che vi sia stata a livello planetario una loro diffusione con ambienti urbani che farebbero impallidire le già fosche descrizioni di Engels. Inoltre gli attuali processi di crisi, fanno si che questa dimensione torni ad essere propria anche delle “moderne democrazie industriali o post-industriali”, vedi ad esempio lo sviluppo repentino delle città delle tende (e non stiamo parlando dei movimenti politici dichiarati) che sta attraversando gli USA dopo l’esplosione della bolla immobiliare del 2007-2008.
Il testo inoltre rifiuta la semplicistica definizione di massa amorfa, ma indica la capacità di reazione e le diverse forme che questa porzione sociale/urbana (di proletariato vero e proprio) si dà nel conflitto. L’attuale accumulazione capitalista si lega ancor più al ruolo dei concentramenti metropolitani, come immagazzinamento di forza lavoro precaria. La precarietà non è più elemento secondario (se visto rispetto agli standard comuni delle economie miste), ma diventa elemento centrale dentro il rapporto sociale e di produzione capitalista, la dimensione metropolitana propriamente intesa è il paradigma del presente. Il mondo è sempre più piccolo, le zone rurali sono sempre più spopolate, le metropoli sono sempre più estese e connesse fra loro con reti di trasporto e comunicazione. Si può parlare di una accumulazione flessibile binomio di flessibilità/precarietà, in un processo di de-integrazione sociale provocata dagli stessi meccanismi di crisi del modo di produzione capitalista, che provoca una ulteriore polarizzazione sociale, con la costituzione di nuovi dannati della metropoli, estremamente mobili, accorpando settori di classe operaia “tradizionale”, vari comparti dell’esercito industriale di riserva, in cui confluiscono i working poors, studenti senza prospettive, e fasce di sotto-proletariato dentro meccanismi di lavoro criminale. Utilizziamo la categoria di dannati della metropoli perché coglie due elementi sostanziali: la dimensione della precarietà sociale diffusa e il luogo dove si materializza in modo estensivo, la metropoli. La produzione dell’ ”urbano”, dove vive oggi la maggior parte della crescente popolazione mondiale, è sempre più strettamente intrecciata all’accumulazione del capitale, al punto che è difficile dividere l’una dall’altra. Intendiamo quindi la metropoli non come nuovo rapporto sociale capitalista, ma come luogo dove questo rapporto acquisisce nuova importanza. Non siamo alla ricerca di nuovi soggetti, rimaniamo convinti che il tratto che rende rivoluzionaria la classe proletaria sia il suo prodotto storico materiale, di un determinato modo di produzione, e solo per questo dotata di una immanente tendenza rivoluzionaria. Se si rifiuta tale approccio si arriva inevitabilmente a determinare tale carattere di volta in volta in particolari empirici e sociologici, quali le ribellioni, l’opposizione all’autorità dispotica dei singoli capitalisti, ma questo porta come conseguenza ad una accettazione astorica del capitalismo negando i limiti dell’accumulazione capitalista stessa. Il potenziale rivoluzionario della classe lavoratrice, produttrice di tutta la ricchezza sociale senza esserne proprietaria, si manifesta quando comincia ad essere abolita la sua caratteristica di produttrice di valore, quindi quando il proletariato inizia la propria estinzione. Non è quindi l’antagonismo (rapporto empirico che si manifesta periodicamente tra proletari e capitalisti), ma la rottura della sua stessa natura, che fa della classe in lotta la materializzazione della tendenza oggettiva al superamento del capitalismo per l’impossibilità di continuare all’infinito l’accumulazione del capitale stesso. Quindi solo quando comincia ad adeguare il proprio comportamento a questa tendenza profonda e immanente, cioè a rivoluzionare il capitale e insieme se stessa in quanto capitale variabile, si può scorgere quel processo di rottura. E’ in questo senso che riteniamo interessante e fondamentale la dinamica di de-integrazione del capitale stesso che modifica la stessa lotta di classe. Ma è evidente che all’interno di determinati contesti dove l’elemento de-integratore agisce in modo evidente si forma inevitabilmente una componente sociale più reattiva che ha la possibilità di sviluppare nuovi rapporti sociali, subendo in modo meno asfissiante i meccanismi integratori del capitale stesso. Riprendiamo ancora una volta il testo di Engles, nella seconda prefazione del 1892, quando parla dei lavoratori dell’East End di
Londra, ”Essi possiedono quest’unico, incommensurabile vantaggio: i loro spiriti sono ancora terreno vergine, completamente liberi dai –rispettabili- pregiudizi borghesi tradizionali, che confondono la mente dei –vecchi unionisti- meglio sistemati”. Non vogliamo assolutizzare nulla, lo stesso soggetto sopra indicato, era comunque legato ad un meccanismo di concorrenza tra le classi, in cui tale concorrenza agisce in modo ancor più brutale, visto la dimensione sociale di sopravvivenza in cui vive (1). La stessa classe dell’East End descritta da Engles, miserabile, e su cui fondava le speranze rivoluzionarie, divenne in pochi decenni una classe operaia che rifiutava ogni movimento rivoluzionario, e la stessa dimensione urbana dell’East End mutava con essa. L’integrazione di tale porzione, tuttavia non era semplicemente legata alla corruzione degli operai attraverso la lo partecipazione e il loro consenso allo sfruttamento imperialistico britannico sul mondo, tale tesi permetterà a Lenin di parlare di aristocrazie operaie, ma avveniva, se vista nel sua dimensione profonda, nell’aumento della produttività, che determinava una crescita dello sfruttamento sugli operai inglesi ma con un contemporaneo aumento dei salari e dei profitti, che rimodellava la stessa geografia urbana delle periferie londinesi. Ciò che riteniamo importante, così come puntualizza Astarian, è criticare il concetto di massa amorfa, esclusa, dove rovesciamo lo stesso concetto di de-integrato focalizzandone gli aspetti positivi e non solamente quelli negativi come invece riporta Mike Davis. Fourier e Marx definivano le fabbriche ergastoli, ma l'ergastolo si estende all'intero territorio metropolitano, questa è la condizione perché l'industria flessibile cresca in termini di produzione di valore riducendosi in termini di occupazione. Anche una cantina di 50 mq. diventa idonea a produrre cavi elettrici per l’industria elettronica, ammassandovi qualche decina di lavoratori, svincolati da ogni tutela legale o contrattuale, da ogni vincolo di continuità del rapporto di lavoro, minimizzando i salari e massimizzando la produttività, cosi come un call center, una cooperativa di servizio, ecc... Queste forme di nuovo schiavismo industriale sono il motore della competizione capitalistica. La metropoli, e al suo interno le stesse aree slum, diventa elemento di immagazzinamento di forza lavoro. Il repentino sviluppo urbano indiano o cinese è figlio di questo meccanismo, e non di un mero processo di marginalizzazione sociale. Già Marx vedeva nella stessa morfologia urbana, attraverso l’agglomeramento degli operai, un presupposto essenziale per realizzare il risparmio che deriva dalla concentrazione dei mezzi di produzione e dalla loro utilizzazione di massa nelle metropoli. Il capitale, scrisse Marx, nei Lineamenti fondamentali, deve “tendere ad abbattere ogni ostacolo locale che si frappone al traffico, ossia allo scambio, e conquistare la terra intera come suo mercato” per arrivare “ad annullare lo spazio per mezzo del tempo”. Il risultato è che il mondo del capitale ha sviluppato la tendenza a produrre una compressione “spaziotemporale”, una realtà in cui il capitale si muove sempre più rapidamente e in cui le distanze di interazione vengono sempre più accorciate, dove la dimensione geografica metropolitana diventa paradigma e tendenza del capitale stesso, perché racchiude questa compressione. Oggi la corsa all'addensamento non è motivata dalla scarsezza di spazio, ma dalle esigenze stesse del modo capitalista di produzione, che inesorabilmente spinge avanti la sua scoperta del lavoro in masse di uomini attraverso un rinnovato rapporto tra spazio e tempo. Oggi, con la nuova organizzazione del lavoro basata su una produzione flessibile, adeguata alle oscillazioni del mercato, con le scorte ridotte al minimo, la metropoli
consente di sostituire agli stock di merci, gli stock di forza lavoro e questo processo potrebbe incrementarsi notevolmente di fronte a processi di crisi sempre più stridenti, che portano ad immagazzinare quote sempre maggiori di esercito industriale di riserva. Esistono comunque fenomeni di esclusione sociale accentuati dentro i tratti urbani delle metropoli attraverso la gentrificazione. I processi di gentrificazione riguardano le zone con un certo degrado da un punto di vista edilizio e con costi abitativi bassi. Nel momento in cui queste zone vengono sottoposte a “restauro” e “miglioramento urbano”, affluiscono nuovi abitanti a più alto reddito che espellono i vecchi abitanti a basso reddito, i quali non possono più permettersi di risiedervi. In alcuni casi limite si arriva a vere e proprie cittadelle per ricchi militarizzate dove è vietato l’attraversamento ai “poveri”, i soli che possono entrare, oltre ai residenti benestanti, sono i lavoratori di servizio e le guardie armate a protezione della cittadella, come racconta il film messicano La Zona, di Rodrigo Plà del 2007. Azzardando una previsione potremmo dire che con gli attuali processi di deintegrazione si rovescia il paradigma del film 1997 fuga da New York, del 1981 di John Carpenter, dove Manhattan era una prigione a cielo aperto, oggi la cittadella prigione è sempre più quella dei settori borghesi. Avviene qui un rovesciamento della dimensione quantitativa tra integrazione e de-integrazione. Le idee sovversive germogliano solo in condizioni di malcontento che ancora non esistono nelle condizioni di prosperità, sia pure falsa della società odierna. Gli strati più poveri, e se vogliamo i proletari delle slum, pur essendo cospicue minoranze, sono sempre state minoranze, per cui la loro opposizione rimaneva inespressa. Non possono quindi diventare una forza sociale abbastanza solida per opporsi agli interessi particolaristici rappresentati dall’ideologia dominante. Le sporadiche ribellioni dettate dalla disperazione erano facilmente dominate dalle autorità che rappresentano la maggioranza soddisfatta, la quale nel suo seno comprende anche la massa del proletariato (2). Per quanto esista la repressione, questa non può unicamente spiegare la dinamica dei conflitti fino ad oggi avuti. Provando a focalizzare l’attenzione sull’Italia, è evidente che fino ad oggi, le varie forme di lotta legate alla questione metropolitana, nello specifico quelle delle baraccopoli o dei senza-casa, tocca una porzione importante ma numericamente minoritaria per quanto riguarda la popolazione urbana complessiva e questo tratto quantitativo è ben più importante delle forme stesse della repressione. Il più delle volte gli appelli della politica di sinistra, che prova ad agire in questi contesti si rivolge al senso etico, alla solidarietà morale, visto che sul piano degli interessi materiali, una tale minoranza non può trovare in questo preciso contesto nessun alleato, e spesso questa apparente incomunicabilità, criticata moralmente dalla sinistra, è il segno di una attività reale di questa porzione proletaria quando lotta (per fare un esempio a tutt’oggi il numero delle case occupate è ben maggiore di quello che i movimenti sindacali organizzati rappresentano), ma la stessa valutazione si potrebbe fare per quanto riguarda le lotte salariali propriamente dette di questi soggetti, che sfociano in atti di violenza incapaci di essere compresi dai settori di sinistra che hanno sempre in bocca la parola precarietà e anti-razzismo (vedi in proposito le lotte/riot dei braccianti agricoli immigrati nel sud Italia). Questo non significa che le lotte portate avanti da questi settori siano inutili o marginali, anzi, ma va sempre tenuto conto del peso numerico che questi segmenti hanno sulla società, ritenendoli comunque a pieno titolo facenti parte del proletariato, indipendentemente dal livello contrattuale che hanno o dalla quantità di lavoro che svolgono. Tuttavia queste ribellioni-lotte indipendentemente dal loro esito, che in alcuni casi si formalizzano in vere e proprie forme organizzative (autoriduzioni di massa, occupazioni,
scioperi, ecc…) vanno comunque lette come dinamica della lotta di classe e sviluppo di nuovi rapporti sociali (rapporto qualitativo della lotta), che dentro alla lotta rompono i rapporti sociali capitalistici. Vi è uno sviluppo della contraddizione tra l’elemento affermativo (il soggetto sociale di classe che vive nelle slum e che vuole migliorare la sua condizione), e la sua negazione (tramite la lotta stessa). Non è quindi un problema di forme ma di dinamica della lotta di classe stessa. Cosi come quando si generalizzano i nuovi rapporti sociali in una lotta salariale, il problema anche se vissuto in modo indiretto non è la razionalizzazione o autogestione dell’organizzazione del lavoro ma la messa in discussione dello stesso modo di produzione capitalista cosi la dimensione del conflitto urbano sottintende alla lotta titanica tra spazio di vita contro cemento, contro i mastodontici formicai del capitalismo: la dimensione metropolitana. La loro capacità di generalizzazione e di rottura è legata al peso quantitativo e allo stesso meccanismo de de-integrazione che sviluppa l’accumulazione di capitale che fa si che gli stessi nuovi rapporti sociali dentro la lotta di classe arrivino a toccare gli stessi rapporti di produzione capitalista (dove la stessa entità Stato è all’interno degli stessi rapporti di produzione). Assistiamo, e l’articolo che riportiamo lo conferma, ad un impressionante aumento quantitativo di una tale porzione proletaria, sia per i suoi aspetti temporali, legati all’organizzazione del lavoro, sia quelli spaziali, la dimensione metropolitana diffusa, che fa presagire scenari inediti e pericolosi per la vita del capitalismo stesso. Il non veder questo ci riporterebbe a leggere lo scontro sociale dentro i vecchi canoni della politica, dove in assenza di partiti, sindacati, rappresentanza politica ufficiale, viene ridotto tutto ad una massa amorfa e zotica… che quindi ha bisogno dei nuovi Principi… di destra o sinistra che siano. Interrogarci oggi su cosa sono le slum, sulle lotte che attraversano questi contesti urbani, è imprescindibile per chi vuole porsi sul terreno della critica dell’economia politica e della politica stessa per dare un senso alla passione comunista che si sviluppa dentro la lotta di classe. Note 1) Rimaniamo convinti dell’importanza della necessità di classe contrapposta al culturalismo, ma questo non può tradursi in una retorica del buon selvaggio e ad una forma di neo-primitivismo, che guarda caso è propria delle società industriali o postindustriali, quasi come coscienza sporca del mondo occidentale. L’aumento del pauperismo è una dinamica del capitalismo, ma tale aumento della miseria non è dovuto alla crescita dello sfruttamento ma ai limiti stabiliti dal carattere della produzione capitalista. Il sistema del lavoro salariato è, in fondo, un sistema di schiavitù, e di una schiavitù che diventa sempre più dura man mano che le forze produttive sociali del lavoro si sviluppano, tanto se l’operaio è pagato meglio, quanto se è pagato peggio. 2) P.Mattick, Marx e Keynes i limiti dell’economia mista, connessioniconnessioni.blogspot.it/search/label/P.Mattick
Sono le bidonvilles un pianeta a parte? Bruno Astarian Febbraio 2010 hicsalta-communisation.com
Il seguente articolo è essenzialmente una critica al libro di Mike Davis, Il peggiore dei mondi possibili, dedicato alle bidonvilles. Ciò che esaspera Mike Davis e altri, è il non trovare nelle bidonvilles un proletariato che sia coerente con l'immagine che essi hanno: una massa salariata in modo formale, cosciente e organizzata in partiti e sindacati. E’ cosi che si possono comprendere le loro lamentale sulla sparizione del lavoro formale, predominante negli ultimi 30 anni, così come la sparizione di Marx (sostituito da Maometto!). Si tratta piuttosto di dimostrare che, lungi dal dover essere tirati fuori dalla loro merda, gli abitanti degli slum fanno pienamente parte della classe che sarà chiamata a comunizzare la società. I – PROBLEMI DI DEFINIZIONE I.1 - Le parole e le cifre In francese la parola "bidonville” evoca direttamente un tipo di alloggio realizzato con materiali riciclati, dagli abitanti stessi, su un terreno urbano periferico, più o meno salubre, con poche infrastrutture e senza acqua né elettricità. Tuttavia, questa definizione non copre l'intera popolazione delle bidonvillie (questo aggettivo sarà usato qui per indicare la frazione di popolazione urbana che vive in modo precario in alloggi miseri). Quota di popolazione che vive in baraccopoli o slums 2001 Milioni di abitanti Popolazione totale Europa 726 Altri paesi sviluppati 467 N Africa 146 Sub-sahariana 667 America Latina 527 Est asiatico (Cina esclusa) 79 Cina 1285 Asia centrale (Sud) 1507 Sud-Est asiatico è 530 Asia Occidentale 192 Oceania 8 CEI 283 Resto d'Europa 128 Totale Fonte: UN-Habitat, 2003
6545
urbane 534 367 76 231 399 61 472 452 203 125 2 181 77
bidonvillie 33 21 21 166 128 16 178 262 57 41 0,5 19 6
Popolazione% in slum urbani 6,2 5,7 27,6 71,9 32,1 26,2 37,7 58,0 28,1 32,8 25,0 10,5 7,8
3180
948,5
29,8
Le cifre di cui sopra si riferiscono al 2001. Esse rappresentano quindi una base, che è aumentata in 10 anni. Sulla base di queste cifre, il 30% della popolazione urbana mondiale vive in baraccopoli. La media copre grandi differenze, ad esempio tra Africa sub-sahariana (72%) ed Europa (6%). Queste cifre permettono anche di riflettere sulla definizione della parola bidonville (in realtà la parola inglese "slum" è utilizzata dalle Nazioni Unite). Notiamo ad esempio che, secondo queste cifre, il 38% della popolazione urbana della Cina vive in baraccopoli. E' probabile che una parte significativa di questa popolazione viva invece in “bassifondi”, spesso situati nei centri delle città. Nel caso della Cina, i dati delle Nazioni Unite probabilmente comprenderanno anche una parte di "villaggi urbani", in cui i lavoratori migranti vivono. Questi non sono baraccopoli nel senso francese del termine, anche se si tratta di alloggi di scarsa qualità. Senza entrare ulteriormente in questi problemi di definizione, si nota che oggi un miliardo di proletari vive in slum o in altri bassifondi, e questo rappresenta circa un terzo della popolazione urbana mondiale. Questo a sua volta rappresenta circa la metà della popolazione mondiale totale. La popolazione delle baraccopoli aumenta di 25 milioni all'anno. I.2 - Storia e Geografia Un altro modo di affrontare la definizione di baraccopoli è quello di esaminarne le variazioni nel tempo e nello spazio. Mike Davis insiste molto sulla responsabilità del FMI e della Banca Mondiale negli anni '80 per l'esplosione del numero e degli abitanti nelle slum. Ha riconosciuto che anche prima vi erano baraccopoli, ma trascura di fare una discussione veramente storica del problema. Sembra che la maggior parte degli autori che ho letto concordano sul fatto che ci sono almeno due fasi del fenomeno delle baraccopoli. La data non è sempre la stessa, ma c'è sempre una differenza tra i bassifondi attuali, massivi, in rapida crescita, e che hanno un rapporto distante con il mercato del lavoro, da un lato, e le baraccopoli di prima (prima della decolonizzazione, prima dei piani di adeguamento strutturale PAS...[politiche del fondo monetario e della banca mondiale ndt]) dove il rapporto degli abitanti delle baraccopoli con il mercato del lavoro era molto più diretto. Ad esempio: Loic Wacquant [1], per gli Stati Uniti, distingue tra "la comunità ghetto dell'immediato dopoguerra compatto, ben definito e che accoglieva tutte le classi nere" (p. 51) e l'iperghetto che lo ha sostituito negli anni '80 con un "aggravamento della logica di esclusione del ghetto” (p. 102), vale a dire il ritiro dei servizi pubblici e privati, la partenza delle classe media e della classe operaia che mantengono una occupazione stabile. Per inciso, i ghetti, vecchi o nuovi, non sono propriamente delle bidonville, ma sono probabilmente nelle statistiche indicate come "slums". Janice Perlman, studiando le favelas, distingue tra una "esclusione antica" sulla base di analfabetismo, basso reddito e l'origine rurale dei favelados e una "nuova esclusione" degli anni '80, per le nuove generazioni, più istruite, che consumano di più, ma che conoscono "un inserimento problematico sul mercato del lavoro".[2]. Le favelas che lei osserva oggi sono migliorate in termini di alloggi e servizi di qualità come acqua ed elettricità, e sono la scena di un mercato immobiliare attivo. Lei ritiene tuttavia che la vita delle persone sia peggiorata rispetto a prima, soprattutto a causa della violenza dei narco-trafficanti. E suppongo che questa evoluzione sia stata accompagnata dalla formazione altrove di vere e proprie baraccopoli. Gli autori indicano anche che la variazione in termini di accumulazione di capitale negli 80 anni ha determinato un cambiamento delle origini delle popolazioni delle bidonvilles. Dagli anni '80, un afflusso di persone provenienti dalle classi salariate alloggiate nel centro delle città è arrivato nelle baraccopoli a causa della crisi
occupazionale e degli alloggi combinate. In questa fase della globalizzazione, gli effetti della crisi agricola dei paesi in via di sviluppo, in parte dovuta alle sovvenzioni di cui beneficiavano gli agricoltori del Nord, sono stati rafforzati dalla crisi industriale, causata dal PAS, che liquidava le industrie messe in piedi al momento della decolonizzazione. La disoccupazione dei salariati formali gli impediva di rimanere nelle loro case poichè la speculazione edilizia diventata una via d’uscita massiccia per gli investimenti dei capitalisti locali. Le vecchie baraccopoli sono spesso state create in modo militante, su terreni occupati e difesi contro la polizia. Ci fu un'ondata di occupazioni di questo tipo negli anni '70. Ma da allora i terreni su cui è possibile costruire una baraccopoli furono oggetto di speculazione immobiliare. Queste terre sono più o meno legalmente di proprietà di investitori che li affittano, dopo aver pianificato o costruito delle baracche, o che li lasciano così come sono. Si può affittare una baracca in mille possibili modi informali, ma è sempre più la regola nei bassifondi. La gratuita è divenuta l'eccezione. Le occupazioni sono tollerate solo su terre che non interessano a nessuno (troppo umide, troppo ripide; inquinate ...)[3]. Il solo annuncio per un affitto che ho trovato riguarda una baraccopoli di Nairobi: una baracca si affitta per 6 dollari al mese. Questi elementi storici portano direttamente a intuizioni geografiche:
Ovviamente, quasi tutte le baraccopoli si trovano nei paesi in via di sviluppo. A poco a poco, come l'aumento della popolazione delle bidonville, le vecche baraccopoli, nelle vicinanze o nei centri delle città, sono diventate insufficienti. La terra che occupavano è spesso caduta preda di speculatori immobiliari, in modo che le baraccopoli sono state centrifugate in una periferia sempre più lontana, dove l'accesso ai servizi e al mercato del lavoro è estremamente difficile. Si potrebbe parlare di esacerbazione della logica di esclusione dei bassifondi. Questa regola ha le sue eccezioni importanti. Si stima che 1,5 milioni di abitanti del Cairo vivono sui tetti del centro della città. Anche al Cairo, centinaia di migliaia di persone vivono nel cimitero centrale. Ad Hong Kong, 250.000 persone vivono in appartamenti costruiti su estensioni di balconi. Più schiettamente ancora, 1 milione di persone vivono per le strade di Bombay. In questa stessa città, lo slum di Dharavi ha 600.000 abitanti ed è abbastanza centrale per essere oggetto di un piano di "riqualificazione". Riassumendo quindi alla fine del 20 ° secolo, le bidonville si sono fortemente sviluppate nei paesi in via di sviluppo, non sono spesso gratuite per coloro che ci vivono e la combinazione di forze tra la loro demografia e la speculazione edilizia le situa sempre più in periferie sempre più lontane che diventano aree di relegazione. II - Come sopravvivono gli abitanti degli slum? Lavoro, traffico, disoccupazione? Loic Wacquant osserva che i capricci della congiuntura economia non hanno effetti positivi sull'iperghetto. Ciò vale anche per le baraccopoli attuali. Una fase di crescita economica non crea posti di lavoro per gli abitanti, perché sono stati relagati troppo lontano dal mercato del lavoro, anche quello informale. Inoltre, indipendentemente dalla loro qualità e posizione, il numero totale di posti di lavoro creati durante una fase di crescita è insufficiente rispetto alla crescita più rapida della popolazione delle baraccopoli. E una fase di rallentamento gli è direttamente sfavorevole poichè sopprime gli impieghi che potrebbero avere e restringe gli eventuali aiuti sociali. Così la situazione sociale ed economica degli abitanti delle baraccopoli può solo peggiorare salvo immaginare una
crescita del capitale globale tale che i proletari del tipo cinesi immigrati diventino troppo cari o troppo pochi e che il capitale installi in massa le sue fabbriche in molti altri paesi in via di sviluppo, nei pressi delle immense baraccopoli che contengono. In Pianeta bidonville, Mike Davis non si pone la questione e dichiara "la potenza di lavoro di un miliardo di persone è stata esclusa dal sistema globale" (p. 39). Anche se fornisce informazioni andando nella direzione opposta, è questa la prospettiva che domina anche nel suo testo: il peggiore dei mondi possibili. La caratteristica di questo libro è che tratta in successione molte questioni importanti, ma senza trattarle a fondo. Mike Davis preferisce navigare sul sensazionale. E' anche probabile che non ha avuto il coraggio di sintetizzare migliaia di singoli studi da lui citati. In questo modo, domande quali:
Chi possiede i bassifondi? Come funziona il mercato immobiliare delle baraccopoli? Qual è l'economia di riproduzione delle baraccopoli? Chi lavora per chi? Dove sono i luoghi di lavoro dove gli abitanti trovano un impiego?, Ecc. Quali sono le ONG che lavorano nelle baraccopoli? Cosa fanno? ricevono degli elementi di risposta attraverso i capitoli, ma non è possibile identificare una visione globale. Dato che queste risposte sono sempre tratte da ricerche che riguardano un unico settore, una città o una baraccopoli in un determinato momento. Per quanto riguarda il libro, il peggiore dei mondi possibili, lascia una forte sensazione, alla fine, che gli abitanti degli slum siano puri esclusi. Come fanno a vivere? Gli uomini hanno perso la loro occupazione formale per effetto dei PAS. Sono spinti a emigrare. Mike Davis ripete spesso che la gente si arrangia, sfruttando micro-nicchie di commercio informale, facendo lavoretti, ecc. Si sottolinea il ruolo importante delle donne e dei bambini nelle attività di riproduzione immediata. Sono venditrici di alcool, venditrici di biglietti della lotteria, parrucchiere, sarte, cameriere, lavandaie, straccivendoli, bambinaie o prostitute. L'enumerazione è quella di Mike Davis (p. 164). Questa non può costituire una risposta soddisfacente alla questione di sapere come le baraccopoli si mantengono e si ingrandiscono se i suoi abitanti sono totalmente al di fuori del mercato del lavoro. In primo luogo perché il signor Davis non prende il tempo di guardare un po' la questione del rapporto tra migrazione e la sopravvivenza negli slum. Eppure sappiamo che i lavoratori migranti svolgono un ruolo importante per l'invio di una parte significativa del loro salario nel loro paese. Avremmo voluto che il signor Davis trattasse questo problema. Ma se gli uomini delle baraccopoli emigrano, lavorano e mandano soldi a casa, questo dimostra che - in una misura che non interessa a Mike Davis – le baraccopoli si riproducono attraverso il lavoro e il suo sfruttamento capitalistico normale. Questo punto di vista è particolarmente importante per i migranti che non lasciano il Pianeta bidonville quando vanno a lavorare al Nord. Le loro condizioni abitative sono appena migliori che nel loro paese d'origine. In secondo luogo perché l'enumerazione delle possibilità di arrangiarsi di donne e bambini che sono rimasti nel paese d’origine comporta degli elementi così diversi. Alcuni fanno lavori propriamente detti, anche al di fuori dello slum. Parrucchieri, lavandaie, cameriere lavorano per i loro vicini? Se è così, quello che guadagnano è una redistribuzione del reddito all'interno della baraccopoli. E non è una risorsa generalizzabile a tutti i cosiddetti esclusi. Esse lavorano anche al di fuori delle baraccopoli, e il loro salario è quindi un apporto dall’esterno all'economia dello slum. Al contrario, i molti piccoli commerci che si trovano all'interno dello slum tornare a ridistribuire i soldi tra i suoi membri che sono entrati attraverso l'attività al di fuori. Questo aspetto non ha interesse M. Davis. Lui vuole assolutamente difendere la sua immagine di una esclusione fatale.
Ovviamente, Mike Davis non lo dice così. Saltando da un continente all'altro e annegandoci in una valanga di esempi che mostrano la disoccupazione assoluta e l'occupazione, la miseria senza fondo, ma anche lo sfruttamento dei poveri da parte dei poveri, dice più di ciò che dice. Per esempio, parlando di Bangalore e citando altri ricercatori, scrive che c'è "un migliaio di squallide baraccopoli" che sono "la discarica dove vengono gettati i residenti urbani la cui forza lavoro è necessaria per la gestione del economia urbana, ma la cui presenza visiva deve essere ridotta al minimo"(p. 177). Ciò che conta in questo passo sono le parole "squallido", "discarica", e "gettati". Ma al tempo stesso, M. Davis ci informa che c'è lavoro in città per gli abitanti dei quartieri poveri. Che lavoro? Che salario? A quanto pare non interessa a M. Davis, che si immerge immediatamente in quell’ "oceano di miseria" che è Bangalore. Se non mi sbaglio, Mike Davis non concede alcuno sviluppo alla baraccopoli di Dharavi a Bombay. Ma la sua economia è sicuramente stata oggetto di molti studi. E' una città nella città, dove tutti lavorano, uomini, donne e bambini. I salari sono circa 40 euro al mese (2006). La produzione di Dharavi è stimata $ 1 miliardo all'anno, soprattutto nel settore del cuoio, ceramiche e gioielli. La produzione è venduta in città, in tutta l'India e esportata. È probabile che Dharavi sia un esempio estremo, ma è anche probabile che molti altri slum nel mondo ospitano laboratori più o meno artigiani, che lavorano per la "grande economia", almeno quella del centro città. Dobbiamo quindi capire che, almeno in parte, gli abitanti delle baraccopoli lavorano, compresi gli emigrati. Questo lavoro non esclude la miseria. Se ne nutre e la riproduce. Questo lavoro non è portatore di alcun avvenire di sviluppo e di accumulazione, perché i capitalisti che lo sfruttano sono essi stessi alla fine della catena di esternalizzazione e trasferimento ad una quota superiore importante del plusvalore che estorcono. I loro profitti sono quindi bassi. Che ne dicano gli apostoli dell’auto-impresa, il microimprenditore non è un futuro capitalista[4]. Questo lavoro non elimina la disoccupazione di massa. Consente solo di mantenerla. Essa non esonera gli abitanti degli slum di fare mille traffici per completare i salari che sono oggettivamente insufficienti. Come nota Loic Wacquant circa l'iperghetto, il lavoro è così frammentato, precario, occasionale e mal pagato che fa parte del problema da risolvere più di quanto sia la soluzione. Questo è solo un altro modo per dire che la produzione di plusvalore di questo lavoro è così bassa che esso è a mala pena socializzatore. Ma dà una base all’economia delle baraccopoli che consente di spiegare la permanenza e l'espansione delle baraccopoli che va al di là delle mietitrebbie, del traffico, dei mendicanti e degli aiuti internazionali. Per la capillarita dell’esternalizzazione degli scambi marginali, fanno parte del grande ciclo mondiale della riproduzione del capitale. III - Le lotte di classe negli slum Gli abitanti dei quartieri poveri non sono così esclusi come vuole farceli vedere Mike Davis. Qualunque sia il peso relativo che da agli esempi delle baraccopoli –immondezzaie a quelli delle baraccopoli –alveari-, tutto indica che opti per la tesi dell’esclusione a titolo definitivo. Così, conclude il suo libro sulle visioni apocalittiche di Kinshasa, afflitta dalla stregoneria dei bambini e al pentecostismo, accumulando dettagli barbari che dimostrano che gli abitanti degli slum sono stati ridotti ad una condizione infra-sociale. E bisogna aspettare la fine del peggiore dei mondi possibili per imparare che "le baraccopoli planetarie... è tuttavia un luogo con una miriade di atti di resistenza" (p. 208). Niente di più. Salvo
annunciarci un nuovo libro che esplora la "questione complessa" per sapere se "il proletariato informale [può] possedere il più potente dei talismani marxisti, l’efficacia storica." (P. 208). Richard Pithouse, accademico e giornalista di sinistra, vicino ai movimenti di protesta vicino sud africani di cui parleremo, e alcuni altri sono severi con Mike Davis, e lo accusano di riprodurre il discorso neoliberale e razzista di coloro che pretende di criticare[5]. Pithouse vede, giustamente, che se Mike Davis menziona a volte "tumulti e proteste varie, [egli] non cerca mai di sapere quali ciò che i rivoltosi e i manifestanti pensano. La rivolta appare come un fenomeno naturale ".[6]. Non è sicuro che "ciò che i rivoltosi pensano" delle rivolte che fanno sia molto illuminante sul significato storico dell’evento. Ma Richard Pithouse ha ragione nel sottolineare con forza che Mike Davis trascura completamente il fatto che le baraccopoli sono il luogo di una vita sociale a pieno diritto, non semplicemente un di un esilio passivo. Mike Davis ha accumulato "prove" di questa esclusione e il degrado degli esclusi a partire da centinaia di monografie. Ma, allo stesso modo, avrebbe potuto facilmente trovare migliaia di riferimenti alle lotte e agli atti di resistenza degli abitanti delle baraccopoli e farci rapporto. Avremo visto cosi gli abitanti degli slum lottare per ottenere un terreno, acqua ed elettricità, scuole e fognature, strade asfaltate e cliniche, ecc ... Avremmo anche visto che gli abitanti degli slum sanno organizzarsi quando è necessario, che hanno opzioni politiche (e religiose, è vero). Avremmo visto gli abitanti degli slum resistere alle intimidazioni da parte delle forze di polizia e dei bulldozer dei pianificatori urbani. Con la sua intelligenza così brillante e la sua documentazione prolifica, Mike Davis ci avrebbe dimostrato che queste resistenze e le lotte fanno parte dei rapporti interni alle baraccopoli, che vi sono gerarchie e classi, che ci sono padroni e proletari delle baraccopoli (forse solo in alcuni casi?), e che la resistenza e la lotta degli abitanti delle baraccopoli a volte deve essere intesa anche su questa base frontista. E, a differenza di qualsiasi tendenza frontista, avremmo visto il sollevamento delle baraccopoli in una moltitudine di rivolte. Né Mike Davis né Loic Wacquant si sono interessati da vicino a queste rivolte, anche se frequenti nella popolazione che studiano. Il motivo è che per loro sono stupide. Le rivolte, quasi per definizione, non portano un messaggio politico o, in altre parole, rifiutano il messaggio politico che gli si vuol far portare. Sono spesso auto-distruttive, che non vuol dire assurde. Sembrano sempre uguali e ripetitive al punto da apparire come un attributo "naturale" del proletariato dei ghetti e delle baraccopoli. Per tutti coloro che vorranno ascoltare, il loro messaggio è tuttavia chiaro, ed è recente evoluto uscendo dalla bidonville, come vedremo in Bangladesh. Ecco alcuni esempi derivanti da una navigazione in Internet, sulla vita sociale e le lotte all'interno e intorno alle baraccopoli. A Tangeri, il piccolo slum Haouma NCARA[7] ha subito alla fine del 20° secolo una operazione di "reinsediamento" per far posto ai costruttori poiché questa bidonville è vicino al centro della città. Il reinsediamento è una operazione di trasferimento degli abitanti delle baraccopoli in terre nuove, dove si suppone che la loro situazione sia migliore. L'operazione viene preparata con largo anticipo e negoziata con i residenti. L'operazione di Tangeri è stata presumibilmente utilizzata come modello per il trattamento democratico dei bassifondi. I residenti avevano, ancor prima dell'annuncio del trasferimento, una organizzazione rappresentativa con il suo presidente, che gestiva i rapporti della baraccopoli con il suo entourage e con il potere. Questa è servita naturalmente per organizzare il reinsediamento. Assemblee dei residenti hanno discusso le modalità (piuttosto complesse) deI reinsediamento. Infine, le lentezze burocratiche, le gerarchie interne allo slum e i giochi politici hanno fatto si che l'operazione non fu né democratica,
né esaustiva (nel senso che alcuni residenti non furono reinsediati) e deteriorò sensibilmente la vita dei residenti reinsediati, anche se i leader dei quartieri poveri si sono trovati sui migliori appezzamenti del nuovo terreno. Poco importa quali siano i dettagli di come e perché. Voglio solo mostrare un esempio di come gli abitanti delle baraccopoli hanno sviluppato una socialità al di là della mandria, dell'eccedenza umana, dell’ esclusione pura (e io non voglio difendere l’autogestione delle baraccopoli). Mike Davis scrive nella sua presentazione dell’aiuto di un suo amico che si trova su una barricata nelle Ande. Egli sa che lo slum è un luogo di lotta costante contro la sorte che gli è stata imposta dal capitale. Conosce certamente la storia dei quartieri poveri di Lima, e la loro fondazione molto politica, quando un sindaco di sinistra venne eletto. Non si può ignorare che Huaycan è stato considerato un esperimento pionieristico di autogestione nelle baraccopoli, ne che una piccola classe di micro-imprenditori è emersa contro la quale Sendero Luminoso ha combattuto per impedire qualsiasi "gentrification" della baraccopoli. Ancora una volta, non voglio entrare in uno studio critico di questo movimento, ma ho letto Pedro Arevola[8] con interesse dopo aver letto Mike Davis e la sua roboante disperazione piena di stronzi e di feti in sacchetti di plastica. La testimonianza di Arevola è piena di illusioni sulle virtù di autogestione, ma ciò che conta non è questo. Ciò che conta è come vede la nascita e lo sviluppo di una baraccopoli (alcuni esemplari, altri sostenuti politicamente) e le relazioni e le attività degli abitanti delle baraccopoli tra di loro e verso l’estrano. In Sud Africa, le townships (aree urbane limitrofe ad aree metropolitane nelle quali abitavano esclusivamente cittadini non-bianchi, ndt) includono un'ampia varietà di categorie di abitazioni e residenti. Soweto ha due milioni di abitanti, andando dalle baraccopoli propriamente dette ai quartieri piccolo-borghesi, con centro commerciale e campo da golf. Nelle township, alcuni quartieri molto poveri sono stati costruiti in muratura, con strade e ricevono acqua ed elettricità. Si tratta di quartieri operai, o ex operai, che a volte risalgono ai tempi dell'apartheid. Si tratta di quartieri che possono essere classificati appena sopra le bidonville. Nelle baraccopoli come in questi quartieri, le lotte sociali sono costanti. Esse sono strutturate intorno a campagne contro gli sgomberi, contro i tagli dei servizi. Alcuni dipendenti della società elettrica anche preso l'iniziativa di ricollegare essi stessi le case che la compagnia aveva staccato per il mancato pagamento. Analogamente per il servizio acqua. Mi sembra che questa è una prova evidente che gli abitanti degli slum non sono quindi esclusi dal resto della società capitalistica. Nel caso del Sud Africa, si deve sottolineare che la partecipazione degli abitanti delle baraccopoli alla società si fa sul modo della denuncia dell’impostura di Mandela e della ANC. Un esempio recente di sommossa negli slum: Siyathemba, nei pressi di Balfour (Sud Africa). Nel luglio 2009, si sono avute rivolte per alcuni giorni dentro e intorno alla bidonville per protestare contro le condizioni di vita. Zuma (il presidente della repubblica) si recò poco dopo sul posto per dimostrare il suo coinvolgimento. Fece delle promesse. Visto che nulla si concretizzò, scoppiarono nuovi disordini per tre giorni nel febbraio 2010. Le cause sono sempre le stesse: non ci sono posti di lavoro, e una delle poche aziende della zona non mantiene la promessa di assumere i locali, i servizi annunciati (acqua, elettricità, strade asfaltate, illuminazione pubblica) non arrivano, il comune (governato dall’ANC) è corrotto. I rivoltosi hanno attaccato un ufficio comunale, hanno dato fuoco alla biblioteca, combattendo con la polizia e bruciando pneumatici. Hanno anche dato fuoco a una fornitura di pali dell'elettricità messo lì dalla Eskom, l’impresa nazionale di produzione e
distribuzione di energia elettrica, in vista di lavori futuro. Attaccano e saccheggiano negozi di proprietà di stranieri. Questi manifestanti formulano delle rivendicazioni chiedendo posti di lavoro, servizi, le dimissioni del sindaco e la visita di Zuma per la seconda volta. Dicono che gli attacchi ai negozi non è xenofobia, ma gangsterismo. Hanno forse ragione, vista la miseria in giro. Ma non possiamo escludere la xenofobia. Le politiche che governano solitamente le baraccopoli dichiarano di non riuscire a fermare le rivolte, che sono a corto di argomenti. Poiché i rivoltosi non vogliono sentire ragiorni: bruciano i pochi servizi a loro disposizione (la biblioteca, pali della luce, che dovrebbe consentire l'estensione della rete). Può essere che alcuni dei rivoltosi abbiano una idea politica. Ma in questo caso, quello che fanno dice qualcosa di diverso da quello che dicono: è inutile farsi illusioni, non c'è altro modo che la presa sul mucchio e la distruzione della baraccopoli. Più di recente, 150 lavoratori assunti da una industria tipografica sono scesi in sciopero nei pressi di Durban [9], per protestare contro la riduzione delle loro ore di lavoro. Si scopre che il 70% di loro vive in baraccopoli, in particolare nelle baraccopoli dove le lotte contro gli sfratti sono state vittoriose. Questo caso probabilmente non è unico. Un'altra area di ricerca che è sfuggita a Mike Davis. Ma è molto importante: è qui che si possono vedere i baraccati fare uscire la lotta dal loro ghetto, partecipare alla vita sociale nel suo insieme come lotta contro il capitale (indipendentemente dal livello di questa lotta, la sua esistenza è sufficiente per ora al mio proposito). Avremmo anche voluto che Mike Davis utilizzasse la sua abilità formidabile per la ricerca e la documentazione per esplorare i legami che devono esserci tra le baraccopoli di Dhaka(Bangladesh) e le sommosse in serie che hanno scosso i distretti industriali di questo città. Tra i possibili posti di lavoro per le giovani donne nei quartieri poveri di Dhaka, l'industria tessile a 30 o 40 dollari al mese è il meglio di quello che si può trovare. Tuttavia, gli scioperi, i blocchi stradali, i tumulti, gli incendi delle fabbriche e dei veicoli segnano la storia recente del settore tessile di Dhaka. Dal 2006 ad oggi, non c’è stato un anno senza che sia esplosa, violentemente, e in un modo che porta l'anti-lavoro ad un grado di radicalità sconosciuta negli anni 70. Malgrado sia afflitti da una disoccupazione endemica, i rivoltosi con l’aiuto di altri uomini (portatori di risciò, piccoli trafficanti) hanno bruciato le fabbriche dove si trovano questi posti di lavoro così preziosi, contestando radicalmente che la soluzione del problema sia da ricercare nella crescita e nella creazione di posti di lavoro. Questo esempio ci dimostra che non solo gli abitanti dei quartieri poveri partecipano al ciclo globale del capitale (in Bangladesh, l'80% della produzione tessile viene esportata), ma soprattutto e più importante partecipano nel modo più radicale alla rimessa in discussione dell’ ordine attuale. Gli Slums non sono chiusi in se stessi e, a differenza di Mike Davis e degli altri, non sono spinti dalla nostalgia del boom economico. Se c'è lavoro, gli abitanti degli slum sono ben felici di prenderlo. Ma quando si ribellano, arrivano a dire che non lo vogliono per niente. E' alla fine molto banale. L'elenco degli esempi potrebbe continuare all'infinito. Abbiamo visto abbastanza per sapere che Mike Davis si sbaglia quando parla di un’ "immensità troppo piena di manodopera " derivante da "l'operazione di cernita dell'umanità da parte del tardo capitalismo [che] ha già avuto luogo"(p. 207-208). Resta inteso che la sottoccupazione di questa popolazione è fondamentale. Purché l'idea di una esclusione pura è fuorviante. Ma per Mike Davis, non è gratuita. Infatti, si chiede innocentemente, gli abitanti degli slum "relegati", "esclusi", "scartati", "sovrannumerari" possono e vogliono ribellarsi. Anche se dice tutto e il contrario di tutto, la sua sostanziale risposta è no, perché poco testo che dedica alla questione parla piuttosto di islamismo e pentecostalismo [10]. Anche se si esprime sotto forma di domanda, egli nega che il proletariato delle baraccopoli possieda "il
più potente dei talismani marxisti - l'efficacia storica"[11]. Infatti, egli osserva, "Marx ha ceduto la scena della storia a Maometto e allo Spirito Santo" (p. 44). Alla fine di Pianeta Bidonville, si domanda con finta innocenza (e sempre citando qualcun altro) se la religione è veramente "più radicale della partecipazione alla vita politica ufficiale e ai sindacati". C'è tutto: non vede ne partiti o sindacati, Mike Davis non vede neanche il proletariato, per non parlare della rivoluzione. Loïc Wacquant fa la stessa cosa. Con le loro descrizioni raccapriccianti, "dimostrano" che le baraccopoli sono incapaci di produrre un movimento rivoluzionario operaio, con le sue organizzazioni ecc. Hanno ragione! Nessun grande movimento di massa dei lavoratori uscirà dagli slum, ne da altrove. Lo stesso movimento del capitale che produce le baraccopoli distrugge anche posti di lavoro stabili, i sindacati, e tutte le sinistre di cui sognano ancora i nostri autori. E 'questo un motivo per buttare via il bambino con l'acqua sporca? IV - Discussione Ciò che dispera Mike Davis e soci, è non trovare nelle baraccopoli un proletariato che sia coerente con l'immagine che vogliono: un massa salariata in modo formale, cosciente e organizzata in partiti e sindacati. E’ cosi che si possono capire le lamentele sulla sparizione del lavoro formale, prevalentemente durante il boom economico, così come su quella di Marx, che è secondo loro la figura condensata della classe operaia organizzata. IV.1 classe operaia e proletariato La questione della baraccopoli offre la possibilità di rivedere la questione della definizione del proletariato. Penso che il punto centrale di una definizione del proletariato è quello di definire il soggetto della rivoluzione comunista. Gli altri punti di vista, economico o sociologico, in base a criteri di reddito, categorie socio-professionali, e anche la cultura e le opzioni politiche sono utili solo per coloro, politici e pubblicitari, che stanno cercando un pubblico che devono circoscrivere per sapere come parlargli. Dal punto di vista della soggettività rivoluzionaria, il proletariato è la classe di coloro che sono senza riserve contro i capitalisti, e che possono riprodursi solo vendendo la loro forza-lavoro. Il proletariato è la classe che comprende coloro che sono costretti a insorgere per garantire la loro riproduzione immediata quando il capitale è in crisi e smette di comprare la forza lavoro. Scrivere questo, significa sollevare la questione di coloro, appunto, che non lavorano. I parenti dei proletari che restano a casa sono proletari? Sono i disoccupati dei proletari? Etc.. La risposta è ovviamente che lo sono, perché dobbiamo considerare lo scambio tra capitale e lavoro come un blocco. Un capitalista acquista una giornata di lavoro a un abitante delle bidonville e lascia venti vicini a spasso. Questo crea un proletario e 20 esclusi scartati dall'umanità? No, perché bisogna prendere le cose in termini di rapporti di classe. Il capitale nel suo complesso ha una parte variabile che acquista la totalità dei senza riserve, anche coloro che, forse, non lavoreranno mai. In questo insieme, troviamo i lavoratori formali (quelli che hanno un contratto, assicurazione sanitaria, pensione, ecc ..) e dei lavoratori informali, i disoccupati formali (coloro che beneficiano di welfare) e i disoccupati informali (coloro che condividono la massa salariale globale sotto altre forme rispetto al sussidio di disoccupazione -. solidarietà familiare, traffico, ecc), i lavoratori che sono produttivi di plusvalore così come coloro che sono improduttivi. Non importa anche che parliamo di disoccupati occidentali a 1000 euro di indennità o di lavoratori cinesi a 100 euro. La cosa che conta in questo caso è quello di definire la classe che, quando il capitale cessa in maniera massiccia di acquistare forza-lavoro, è costretto a
l'insurrezione, perché tutte le condizioni della sua esistenza sono nelle mani della proprietà. Non è la povertà che definisce la classe proletaria, ma il rapporto al capitale. Da questo punto di vista, possiamo dire che la stragrande maggioranza degli abitanti delle baraccopoli appartengono al proletariato, anche se probabilmente c'è una piccola classe di datori di lavoro nelle baraccopoli. A causa della loro relazione con il capitale, questi proletari delle baraccopoli sono i possibili soggetti di una rivoluzione comunista, così come gli operai salariati formali delle industrie del Nord. Il fatto che la consapevolezza immediata degli abitanti delle baraccopoli si allontana sempre più dalla forma politica e sindacale inficia questa affermazione? IV.2 rivoluzionari per procura? Mike Davis cerca il loro talismano… nelle moschee e nelle chiese, e dubita di trovarlo. Non è solo in questo caso. Anche altri credono che gli abitanti degli slum non siano proletari a pieno diritto, nel senso che non ci si può aspettare che partecipino attivamente alla rivoluzione. Sugli abitanti delle baraccopoli in generale, Bruno Bachmann[12] è più o meno d'accordo con Mike Davis: "ormai, il capitalismo non può più… assorbire l'esodo rurale che produce ed è costretto a mandare questo umanità eccedente a marcire in ghetti esiliati dal business"(p. 53). Siamo in presenza di una popolazione che viene definito solo dalla esclusione. Ma in realtà no, perché, a Sao Paulo, per esempio, ci dice Bachmann, un milione di persone vivono in baraccopoli, di cui il 60% lavora nell'industria. Quindi ci sono abitanti degli slum che lavorano. Bachmann dà qui solo un esempio, ed ha la stessa abitudine di spostarsi da un esempio all'altro, come Mike Davis, prima di concludere come lui con la solita lezioncina. In questo caso, "il caos è un fiore che cresce spontaneamente sul terreno putrescente e sanguinante delle baraccopoli ". Ci si potrebbe aspettare che Bachmann ha concluso che nulla di rivoluzionario possa uscire da questo caos desocializzato. Ma no! Alla fine del suo testo, ha cambiato tono. Scopre la varietà sociale delle bidonville, le loro lotte e la loro partecipazione nelle lotte generali della società. Ci parla ora di una "grande esperienza boliviana [che] ci insegna, se ce ne fosse bisogno, che lo slum è socialmente eterogeneo, ma la sua base operaia, anche se fragile - molti minatori sono disoccupati - resta l'elemento chiave delle messa a fuoco " della rivoluzione (p. 110). Dopo un passaggio po’ approssimativo sui piquetereos, conclude: Gli esempi in Bolivia e Argentina ci insegnano che gli abitanti delle baraccopoli formano una classe pericolosa “nel momento in cui un certo numero di loro sono direttamente sottomessi ai rapporti di sfruttamento del lavoro e coinvolgono nella loro lotta per la sopravvivenza il resto della comunità” (p. 114). Eccoci. Dopo aver detto che gli abitanti delle baraccopoli sono puramente esclusi e al di fuori di ogni rapporto sociale, Bachmann corregge le sue affermazioni per rimetterli nel rapporto proletariato/capitale. Se la comunità degli abitanti delle baraccopoli contiene un numero sufficiente di operai veri, si potrebbe pensare di avere il talismano della missione storica, con partiti e sindacati. In altre parole, gli altri abitanti degli slum sono proletari per procura. Senza la mediazione di questi lavoratori, sono solo lumpen. Leo Zeilig e Claire Cerruti[13] dicono quasi la stessa cosa quando, in risposta al successo del libro di Mike Davis, se ne fanno un obbligo di affermare e di dimostrare che esiste ancora una classe operaia in Africa, e che, pertanto, non dobbiamo disperare per la rivoluzione:
Nei casi in cui la classe operaia esiste, essa svolge un ruolo di coesione in relazione alle 'miriadi' che lottano contro il neoliberismo. Quelli che hanno un posto di lavoro formale non sono tagliati fuori dal loro privilegio rispetto a coloro che sono impiegati in modo informale, e non vivono in alloggi formali lontani dalla massa degli abitanti delle baraccopoli. La loro tesi è che la classe operaia reale non è lontana dagli abitanti delle baraccopoli e dai lavoratori occasionali. Essi cercano di illustrarlo con vari esempi presi da Soweto. La loro preoccupazione principale è se: La disoccupazione di massa ha creato una sottoclasse di poveri, senza retribuzione, esclusi dal mondo del lavoro, mentre la classe operaia è oggi un piccolo gruppo di privilegiati che vive al di fuori delle townships-bidonville, e i cui interessi sono distinti da quelli della maggioranza dei poveri delle città? Siate certi, la risposta è no. Poiché non vi è alcuna soluzione di continuità tra il salariato formale e il miserabile abitante delle bidonville, come Z e C mostrano a partire da studi sociologici. Ma anche, paradossalmente, perché gli abitanti degli slum lavorano di tanto in tanto, e questo gli da un’esperienza di che cosa è il lavoro. "Questo contatto con il lavoro salariato influenzerà la loro comprensione di ciò che è la solidarietà e la lotta di classe.". Per fortuna, perché altrimenti sarebbero solo dei lumpen, la parola gli sfugge a proposito dell'Egitto. In breve, come per Bachmann, l’abitante della bidonville di International Socialism non è niente dal punto di vista della rivoluzione se non è collegata con la classe operaia, i suoi partiti ei suoi sindacati. IV.3 – La comunizzazione rispetto ai divari dello sviluppo Nessun gruppo sociale si riproduce nella pura de-socializzazione. E finora, tutte le socializzazioni si definiscono in rapporto con il capitale. Utilizzo qui il termine nella sua forte accezione di rapporto dell’uomo a se stesso nella sua auto-produzione. In questo senso, la socializzazione degli uomini è passata fino ad oggi solo attraverso il rapporto tra le classi. Le altre forme di socialità sono subordinate a questa relazione fondamentale[14]. Ho già detto che, a mio parere, gli abitanti degli slum fanno parte del proletariato a pieno diritto. Il fatto che vendano la loro forza-lavoro di tanto in tanto non significa che siano altrove rispetto al rapporto della classe con il capitale. Ora voglio sviluppare questo punto mostrando che gli abitanti degli slum non hanno bisogno di essere trasformati in lavoratori salariati formali per essere ammessi nei ranghi della rivoluzione. Mike Davis segnala nel Il peggiore dei mondi possibili lo strano incontro tra un architetto anarchico John Turner[15], e la Banca Mondiale. Accade negli anni 70, in un momento in cui la Banca Mondiale constatava i suoi fallimenti nelle sue prime esperienze nei settori delle abitazioni per i poveri che affluivano verso le città. Da parte sua, Turner scopre l'inventiva dei costruttori degli slums, i miracoli del sistema D e conclude che la baraccopoli è più una soluzione che un problema. Basta migliorare il margine, lasciando per lo più gli abitanti delle baraccopoli fare come vogliono. Nella loro pratica quotidiana di auto-costruzione di alloggi, questi sono infatti nella posizione migliore per adattare le risorse (deboli) e i bisogni (molto vari) e per ottenere forme abitative che bilanciano le esigenze dei residenti e i vincoli tecnici e finanziari molto meglio di quanto avrebbe potuto fare uno studio di un architetto. Sostituire le baraccopoli con filari di alloggi sociali è inutilmente costoso. I residenti non ci si troverebbero bene, non considerando queste
come le proprie case e lasciandole degradarsi molto velocemente. Ai costi già elevati di costruzione si aggiungerebbero quelli di manutenzione. Pertanto, bisogna lasciarli fare aiutandoli un minimo (costruzione strade per es.), senza imporre alcuna norma, senza bisogno di permesso per costruire. Un micro-credito (ante litteram) sarà sufficiente per comprare eventualmente alcuni materiali. La Banca Mondiale si è ispirata a queste idee, che gli permettevano di risparmiare denaro. Ma i prestiti che proponevano sono stati offerti sul mercato ad un costo troppo alto per i reali abitanti degli slum, e tali programmi finirono invece alla costruzione di abitazioni per gruppi sociali più avvantaggiati. Non importa che Turner ha idealizzato la vita nello slum (descrive famiglie felice in baracche che si sono fatte da sole). Ecco cosa mi sembra interessante in questa storia: rifiutando l'uniformità e il costo dei normali alloggi sociali, rifiutando il rispetto delle norme architettoniche e urbanistiche, ha in qualche modo inventato il mercato dell’alloggio della crisi avanzata, il mercato delle abitazioni ad uno stadio avanzato di de-valorizzazione. O meglio, ha mostrato che, quando il valore di scambio non presuppone il valore d'uso, l’utilità dell’oggetto fabbricato deriva direttamente dai bisogni dall’attività dell’utilizzatore. Egli oppone continuamente la rigidità e l'inadeguatezza dei programmi di edilizia sociale, malgrado siano confortevoli, alla capacità di evoluzione, alla flessibilità e alla rispondenza dell’abitazione delle bidonville rispetto alle esigenze dei residenti. Per lui, un debole aiuto è sufficiente a rendere questi alloggi dignitosi, e quindi a rendere felici i residenti. Non è sorprendente che Turner fosse un anarchico. Forse questo a contribuito a fargli vedere nella miseria più della miseria - non si può dire altrettanto di Davis. Peccato che si è conclusa con la Banca Mondiale. Turner non pensava alla rivoluzione (in ogni caso non in Housing by People). Ha semplicemente evidenziato le enormi riserve di inventiva che l'attività più povera contiene, quando non è direttamente al servizio della valorizzazione. Se non altro, alcuni dei baraccati che osservò quando costruivano le loro baracche, erano lavoratori da qualche parte e stringevano dei bulloni senza cercare più lontano l’interesse e il significato del loro lavoro. Turner capisce che è il fatto di lavorare se stessi che li rende attivi, curiosi e inventivi. Direi piuttosto che questa libertà (di tempo, materiale, norme, piano) deriva dal fatto che l’abitazione delle bidonville non è una merce prodotta per un capitale da valorizzare. Gli stessi abitanti delle bidonville non provano di certo alcun sentimento di libertà ed euforia, anzi. Sono schiacciati dalla povertà e dalla penuria, e se il loro riparo è il risultato degli sforzi personali e della loro inventiva, probabilmente hanno poca soddisfazione e orgoglio. Turner idealizza la miseria in modo quasi scandaloso[16], ma mette in evidenza il modo in cui proletariato sa inventare quando lo costringe. Inventare forme sociali insospettabili, ma anche oggetti, nuovi usi. Non fatemi dire che la costruzione degli slums è un'attività rivoluzionaria. Ma dobbiamo capire che, l’allontanamento dalla dittatura del valore (distanza e non scomparsa) produce potenziale di invenzione per una vita nuova, forse migliore di quella routine metropolitana-lavoro-sonno dei lavoratori formali chiusi in partiti e sindacati. Nella valorizzazione del capitale, tutti gli oggetti che sono prodotti sono merci. La loro utilità -ossia la loro capacità di soddisfare una particolare esigenza- è espressa come valore d'uso. Il valore d'uso è una forma diversa dal semplice utilizzo: è la forma propria della merce e del rapporto sociale capitalista. Ci sono, astrattamente parlando, mille modi per soddisfare la fame e la sete. Ma se parliamo di fame e sete del proletariato, allora il
numero di modi possibili si riduce: aziende come McDonald, Coca Cola, settori quali l'agricoltura dei paesi del Nord propongono ed impongono prodotti che hanno il doppio scopo di essere nutrienti e a buon mercato da un lato, e permettono di realizzare un profitto dalla loro vendita contro i salari (diretti o indiretti) dei proletari. Il passaggio del cibo attraverso la forma valore gli dà un valore d'uso generale nel senso in cui McDonald ha inventato un prodotto che contiene al suo interno la soddisfazione della fame del maggior numero possibile senza tener conto delle particolarità dalle aree geografiche, dell’età e della fantasia di coloro che lo mangiano, ecc .. Chi dice che l'utilità del cibo è quella di nutrire, e di nutrire solamente? Questi sono gli stessi che dicono che i proletari sono lì solo per lavorare. Allo stesso modo, gli alloggi dei lavoratori che si sono riversati in milioni nelle città e verso le industrie fordiste nel dopoguerra hanno svolto la funzione di alloggio nel modo più universale e brutale possibile, di cui Turner analizza bene i difetti. In entrambi i casi, il valore d'uso di tali merci è strettamente presupposto dal loro valore di scambio e dal ritorno sul capitale che producono. Il tempo e il denaro hanno impedito di produrre altre cose, che sarebbero state adatte alla varietà degli individui o alla loro fantasia. Inoltre i consumatori ne hanno a malapena di varietà e di fatansia, poiché sono anch’essi per la maggior parte senza tempo e senza soldi. Essi sono schiacciati dalla routine del lavoro e della famiglia - quando tutto va bene. Quando tutto va male, come nelle bidonville, la miseria costringe l'invenzione perché il capitale se non compre la vostra forza lavoro non vi propone una casa popolare e il McDonalds dietro l'angolo. L’inventiva è là, le baraccopoli lo dimostrano. L'invenzione è ancora molto limitata dalla mancanza di risorse. Ma è sufficiente immaginare che abitanti delle baraccopoli escano dalle loro baracche e prendano possesso della città circostante per raffigurarsi ciò che sarebbe la città del terzo mondo nella generale sollevazione del proletariato. L’agricoltura urbana è un altro esempio della stessa cosa. Anche in questo caso, la Banca Mondiale con altre numerose istituzioni. Si tratta in generale, di occupare in modo agricolo gli spazi vuoti del tessuto urbano (parchi pubblici, i terreni incolti, giardini d’ospedale...). Quasi per definizione, non c'è spazio libero nelle baraccopoli. E tuttavia, si è sviluppata nei bassifondi una agricoltura urbana, interstiziale potremmo dire. A Kinshasa, dice Mike Davis (p.199), lgli abitanti coltivano la terra anche tra le corsie dell’autostrada. A Dhaka, alcuni residente degli slum hanno la possibilità di coltivare un piccolo appezzamento che dà il riso per due mesi alla famiglia. A Kibera (un grande slum a Nairobi) si è sviluppata una agricoltura verticale a partire da terra messa in sacchetti posti di fronte alla capanna. Questa attività consente di migliorare il reddito di $ 5 al mese. (In questo slum, l'affitto di una casa è di $ 6 al mese). Non sostengono che questa è la fine della separazione tra città e campagna, ma io sostengo che è il segno di questo potenziale. Si deve anche indicare che l'agricoltura in sacchetti non è stata inventata da residenti - almeno se si crede che all'ONG francese (Solidarietes), che trasmette questo metodo. Credo che questi pochi esempi siano sufficienti a dimostrare che la popolazione delle baraccopoli non è semplicemente un avanzo dell’umanità che traspare dalle descrizioni e dalle analisi di Mike Davis. Come i piqueteros argentini detti autonomi, sono costretti a l’inventiva dalla situazione di crisi in cui, in qualche modo, sono permanentemente. Questo si tratta solo di sopravvivenza, non di rivoluzione. Ma la capacità di questi proletari di partecipare alla trasformazione comunista della società è incarnata nelle loro condizioni di vita così come se fossero dipendenti regolari in una grande azienda. Una situazione
rivoluzionaria generale libera il confinamento spaziale che è una continua repressione, così come libera la loro capacità di invenzione moltiplicando le risorse di cui impossessarsi. (Nell’agricoltura dei sacchetti, tutto si paga: sacchetto, terra, acqua). Il problema dei divari dello sviluppo Il fatto di mettere la popolazione delle baraccopoli a pieno diritto nel proletariato significa che gli abitanti degli slum non sono solo considerati come molto poveri, ma anche come portatori in sé stessi dello stesso potenziale rivoluzionario rispetto ad altri. La questione dei divari dello sviluppo economico tra le regioni del mondo è qui in gioco. Inquina molto spesso la discussione sulle condizioni di una rivoluzione mondiale. In termini generali, la povertà del Terzo Mondo viene invocata dagli attivisti del Nord, come una ragione per continuare lo sviluppo delle forze produttive come obiettivo della rivoluzione, in quanto bisognerà pur sfamare i poveri. Come se la fame nel mondo è dovuta principalmente alla scarsa produttività delle industrie agro-alimentari, e non alla natura stessa dei rapporti sociali capitalisti. Non bisogna fare un discorso anti-produttivista, e soprattutto non bisogna dire che l’attuale frugalità forzata è un modello da seguire (per lavorare meno?, Per proteggere le risorse naturali?). Bisogna dire che una rivoluzione mondiale che cominciasse nei paesi industrializzati non nutrirebbe il Terzo Mondo, riprendendo l’attuale rapporto di aiuto che di cui è vittima, perché i proletari del Terzo Mondo troverebbero nella loro insurrezione i mezzi e le risorse per uscire rapidamente da un mondo di fame e di alloggi inadeguati. Ciò non esclude la solidarietà, ma di certo esclude il fare della rivoluzione in queste aree un problema di sviluppo economico per metterle a livello dei paesi industrializzati. Un altro modo di affrontare la questione è considerare l’ampiezza dei bisogni. Possiamo dire che i bisogni insoddisfatti sono così grandi, nel terzo mondo, che sarà necessario che la rivoluzione (che sottintende: la rivoluzione operaia nei paesi industrializzati) faccia qualche cosa perche il terzo mondo ci "raggiunga". L’ampiezza dei bisogni è innegabile, la si può misurare in calorie mancanti, in mortalità infantile, ecc ... Ma d’altra parte chi dice che dobbiamo soddisfarli come a casa nostra? Chi ha detto che la fame deve essere superata mediante l'importazione di pollo congelato e farina di grano americano? Chi ha detto che la fame è una mancanza di risorse nei paesi in cui vi è la fame? Chi dice che ci vogliono gli ospedali di lusso perché i bambini sopravvivano? In tanti, oltre alla Banca mondiale e soci, e forse qualche rivoluzionario che non vuole vedere che la globalizzazione del capitale è anche la globalizzazione della rivoluzione. Coloro che parlano ad alta voce dell’ampiezza dei bisogni da soddisfare dimenticano spesso di discutere la loro natura e la forma sociale specifica per il loro eventuale soddisfacimento nel mondo di oggi. Per quanto riguarda gli abitanti degli slum, l'insurrezione che faranno, darà la priorità alla questione delle abitazioni, senza attendere aiuti esterni. Quello che si sa circa le loro pratiche e il modo in cui utilizzare il sistema D (l’arrangiarsi ndt) prefigura la presa di possesso della città che sarà subito in festa, un incontro della città e della campagna, e soprattutto un miglioramento radicale della loro situazione materiale, senza dover attendere architetti, progettisti e cementificatori sociali. La velocità e l'efficienza della soddisfazione di tali esigenze in modo non convenzionale sarà una condizione di allargamento e di successo del processo rivoluzionario.
Note [1] Loïc Wacquant, Parias Urbains, La Decouverte, 2006.
[2] Janice Perlman: Il mito di marginalità rivisto, il caso delle favelas di Rio de Janeiro, 1969-2003. [3] Mike Davis: Il peggiore dei mondi possibili, p.42 [4] Hernando de Soto è uno dei teorici più famosi di questa tesi. Ha sviluppato negli anni 80-90 l’idea che sarebbe sufficiente dare agli abitanti delle bidonville un titolo di proprietà negoziabile, garantito dallo Stato, sul loro pezzo di slum perché diventino dei capitalisti attivi sul mercato. Questi titoli, infatti, servirebbero come garanzia per i prestiti finanziando degli investimenti. Non importa quale tipo di attività: de Soto ritiene che gli abitanti delle baraccopoli sono così maneggioni che possono trarre del profitto praticamente dal nulla. [5] http://libcom.org/library/mike-daviss-planet-slums [6] Si può fare la stessa osservazione su Loic Wacquant e sulla sua analisi dei ghetti in Parias Urbains.Per tutta la conoscenza che ne ha (dall'interno, non come Mike Davis), può solo menzionare i disordini senza far parlare i rivoltosi. [7] Françoise Navez-Boucharien: Le vie tortuose di progetti di democratizzazione in baraccopoli, [8] Pedro Arevola: Huaycan, Huaycan self-managing community : may hope be realized, in Environment and Urbanization, vol. 9, No. 1, p. 59sq. [9] http://libcom.org/news/wildcat-strike-pinetown-south-africa-25012010, 25 gennaio 2010 [10] Ma vi è anche una bella frase che annuncia che "il futuro della solidarietà umana dipende oggi dal rifiuto militante che oppone i poveri urbani alla loro marginalità mortale nel capitalismo globale" (p. 208). [11] M.Davis: Planet of Slums, p. 42. [12] Bruno Bachmann:I figli della stessa agonia, Ab irato, 2005 [13] Leo Zeilig, Claire Cerruti: Slums, la resistenza e la classe operaia africana, nel International Socialism No. 117, December Nel corso del 2007. [14] Bruno Astarian: lavoro e il suo superamento, Senonevero 2001, p. Mq 74 [15] John FC Turner, Housing by people, towards autonomy in building environments , Londra 1976. [16] In particolare la situazione delle baraccopoli è certamente peggiorata fin dagli anni '70.