CortocircuitO n°8 - DIETRO LE QUINTE DELLA CITTA'

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APERIODICO DI IN FORM AZ ION E, AN ALISI, RIFLESSION I

L A V O R O I l t i r oc i ni oi nf i ni t o

Par t el ’ i nc hi e s t as ul l ec ondi z i oni di l avor oaFi r e nz e

C O N F L I T T I I l movi me nt oNoTav egl i i nt e r e s s i ac ui s i oppone

P O L I T I C A M at r i moni oal l ’ i t al i ana

M ont i el ar i f or made l l ’ ar t i c ol o1 8

C A L C I OMO D E R N O Pr e s s i ngs ul l ac i t t à I De l l aVal l eei l br andFi or e nt i na

d i e t r ol e q u i n t e d e l l ac i t t a

“ A mede l l ’ ar t i c ol o1 8, us andount e c ni c i s mo gi ur i di c o, nonmenepo’ f r e gade ’ me no” M at t e oRe nz i


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EDITORIALE Viviamo in una città di botteghe, di turismo e di servizi, dove si presta molta attenzione all’apparenza e al decoro; città in cui, parallelamente, si vogliono nascondere contraddizioni, conflitti e malesseri latenti. Firenze viene considerata dai più come città tutto sommato “rossa”, in cui inspiegabilmente si sarebbe trovato un equilibrio tra il volere dei ricchi benestanti e le rivendicazioni ed esigenze dei meno abbienti. Non tutto ciò che all’apparenza può sembrare in equilibrio, però, è reale fino in fondo: Firenze è anche e soprattutto la città degli sfratti (seconda città in Italia rispetto agli sfratti quotidiani per morosità) e della continua “emergenza abitativa”, dello sfruttamento sui posti di lavoro nelle botteghe dei tanti piccoli e medi padroncini, del precariato diffuso, specie tra i giovani, dove non si riesce a trovare niente di meglio che fare il cameriere a nero per cinque euro l’ora, del palese razzismo istituzionale e del più velato razzismo dei suoi abitanti, dei continui cantieri in costruzione, così come della repressione in salsa democratica di ogni voce, pensiero o spazio che si pone come antagonista all’ordine cittadino ed al pensiero unico dominante. Firenze è anche e soprattutto la città degli sfratti e della continua “emergenza abitativa”, dello sfruttamento sui posti di lavoro nelle botteghe dei tanti piccoli e medi padroncini, del precariato diffuso, specie tra i giovani.

Le politiche conservatrici, e la retorica “democratica”, rappresentano in città un pilastro del mantenimento dell’ordine, una linea di condotta che consente di far cambiare tutto affinché niente cambi secondo le reali esigenze della collettività: il laboratorio fiorentino (ma si dovrebbe parlare, più correttamente, di laboratorio toscano) riesce in modo davvero unico a mantenere al potere forze che ufficialmente vogliono mostrarsi come “di sinistra”, ma che in realtà di “sinistra” hanno ben poco. Si pensi al Partito Democratico e alla sua egemonia istituzionale e non, alle cooperative, su tutte proprio la Coop, fino a quei centri aggregativi e critici che un tempo erano le case del popolo, diventate in maggior parte delle vere e proprie

sezioni del Pd con su scritto “ARCI”. Questi soggetti hanno stretto alleanze sia con l’impresa (come non citare Baldassini-Tognozzi-Pontello), per ottenere facilmente gli appalti di ogni cosa venga costruito in città, che con gruppi di interesse, banche o assicurazioni, come Confesercenti, Fondiaria Sai e Cassa di Risparmio, passando per un altro organismo egemone, la CGIL, a Firenze molto più a destra che altrove. Sembra proprio che la città dei guelfi e dei ghibellini sia riuscita a mediare davvero con tutti, cittadini compresi, fino a rendere plausibile l’inimmaginabile: dalle politiche securitarie e razziste di Graziano Cioni alla cementificazione del territorio, fino alla vera e propria svendita e privatizzazione, su preciso volere del sindaco Matteo Renzi, dei beni collettivi come il trasporto pubblico, ATAF in particolare, gli asili nido, i palazzi del centro storico o la gestione dell’acqua attraverso una S.p.a. come Publiacqua, che impone bollette da capogiro proprio quando di acqua se ne consuma meno. Questa gestione privatistica della città viene dai più ritenuta “normale”, tanto da generare l’indifferenza più totale rispetto a queste dinamiche, l’omertà diffusa e l’accanimento nel perseguitare chi si oppone. Da qui si è arrivati all’attuale situazione, dove non ci si rende conto del significato e dei perché delle piazze militarizzate, dell’esclusione sociale, dei problemi reali per migliaia di persone a Firenze, così come non si riesce più a comprendere la differenza tra un posto occupato o autogestito, frutto di anni di lotte e rivendicazioni, ed un qualunque altro locale del centro, preferendo, magari, riciclarsi in gruppi o associazioni culturali che operano dentro la cornice per loro predisposta. Infatti il cittadino di Firenze è abituato al benessere, ad essere servito e riverito con pochi sforzi: poco importa che si trovi alle Giubbe Rosse, all’Hard Rock Cafè, o alla “Festa de L’Unità”(pardon, “Festa Democratica”). Questi aspetti particolari vanno saputi cogliere, devono essere studiati a fondo, evitando di cadere nel provincialismo, poiché la risposta da dare non può limitarsi al particolare, ma deve necessariamente estendersi e trovare un orizzonte: dobbiamo ricondurre ciò che accade in questa città a dinamiche che vanno oltre i confini della stessa, ripartendo dai bisogni reali della quotidia-

nità delle persone. Dobbiamo essere in grado di capire, e riuscire a far capire, ad esempio, che il tunnel di sette chilometri che verrà scavato sotto Firenze, il TAV, è sì una particolarità fiorentina per come verrà fatto qui, ma al tempo stesso rientra in dinamiche generali che si presentano con sfaccettature diverse in tutto il territorio nazionale, come in Val di Susa e in Mugello, e nel mondo. La difficoltà sta nel ricondurre il particolare al generale ed il generale al particolare, riuscendo ad essere il più dinamici possibile nei nostri ragionamenti. Perché combattere un sistema basato sulla mercificazione, sul profitto e sullo sfruttamento, non è e non deve essere cosa slegata dal contesto nel quale si vive, nel suo insieme. Sembra proprio che la città dei guelfi e dei ghibellini sia riuscita a mediare davvero con tutti, cittadini compresi, fino a rendere plausibile l’inimmaginabile: dalle politiche securitarie e razziste di Graziano Cioni alla cementificazione del territorio, fino alla vera e propria svendita e privatizzazione, su preciso volere del sindaco Matteo Renzi, dei beni collettivi.

E questo richiede attenzione, la stessa che serve per analizzare quanto accade nel macro: infatti Monti, Napolitano, la BCE, le politiche reazionarie europee e le dinamiche internazionali, non sono slegati dal resto. La necessità è quella di saper leggere, politicamente e concretamente, quali sono e quali ancora saranno gli effetti dell’ultima delle tante crisi strutturali di questo sistema chiamato Capitalismo (ovvero un rapporto sociale determinato storicamente, che riproduce se stesso), sempre dal generale al particolare, capendo come qui ed altrove è possibile attivarsi ed intervenire contro le ingiustizie che sono all’ordine del giorno; tutto ciò, naturalmente, senza illudersi che solo il sistema economico attuale sia l’unica causa delle presenti strutture e sovrastrutture responsabili dei problemi che ci attanagliano. Serve un lavoro organico, strutturato, che crei dei saldi legami politici e di solida-


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rietà, un filo-rosso che vada dagli Stati Uniti, col movimento Occupy, alle lotte del nord Africa dell’ultimo anno, a quelle in Cina contro le disuguaglianze sociali e lo sfruttamento, fino a quelle europee, a noi più vicine ed analoghe. Nel contesto europeo, infatti, si sta giocando una partita interessante, in una fase che vede una forte speculazione sui debiti dei singoli Stati utilizzata come strumento per agevolare gli interessi della classe dominante, secondo la più antica delle leggi: quella del più forte. I fatti ci dimostrano che, con la scusa della “crisi” (da sempre, ma in particolare oggi e non solo a livello locale, ma globale) ci stanno facendo pagare con gli interessi, sottraendoci diritti e ricchezza a suon di leggi, quanto ci avevano concesso anni fa a fronte di anni di lotte veramente dure e concrete. In Europa, inoltre, si sono effettuati dei veri e propri colpi di Stato con annessa sospensione di quel velo di democrazia presente in precedenza, uniti al coordinamento col quale vengono attuate le politiche di lacrime e sangue. Dalla Grecia al Portogallo, dall’Irlanda alla Spagna, dalla Francia all’Italia, compresa la Germania, l’iter è lo stesso: una maggiore erosione dei diritti, precarizzazione delle vite, quindi delle nostre condizioni umane, con conseguente abbassamento del tenore di vita di tutti attraverso vere e proprie rapine, palese saccheggio di quelle poche briciole con le

quali noi tutti tiravamo a campare. La cosa peggiore, però, è come questo sta accadendo: incolpandoci di tutto, a partire dalla “crisi” stessa, bollandoci come maiali (PIIGS), spendaccioni che hanno vissuto “al di sopra delle proprie possibilità”, provando a metterci gli uni contro gli altri in ogni modo, sia mettendola sul conflitto generazionale, che su quello etnico o culturale.

La risposta da dare non può limitarsi al particolare, ma deve necessariamente estendersi e trovare un orizzonte: dobbiamo ricondurre ciò che accade in questa città a dinamiche che vanno oltre i confini della stessa. La retorica che viene messa in campo per giustificare un tale massacro è quanto di più diabolico e, a suo modo, geniale si possa concepire. In tutto questo, noi, dobbiamo però rispondere colpo su colpo, smascherando le mistificazioni create ad arte ed implementate dalle figure istituzionali (in primis dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano), come i “sacrifici per il bene del paese”, la “crescita”, l’”equità”e la “pace sociale”. Ricorrono a questi mezzi perché sanno che funzionano bene. Noi

tutti, invece, abbiamo il compito di rispondere in modo tattico ed organico. Capire e far capire che paghiamo e ci sacrifichiamo da sempre, che non è solo questione di non pagare il debito, la posta in gioco è più alta, e lo vediamo infatti da quanto, a livello di battaglia ideologica e non solo, i governi di tutta Europa stanno attaccando i diritti di tutti: lavoratori, studenti, pensionati, disoccupati. Salire sui tetti o sulle gru, farsi riprendere in televisione o fare lo sciopero della fame, non serve di per sé, senza l’interconnessione con altre lotte. Bisogna, invece, capire perché vale la pena lottare OGGI contro le contraddizioni di questo sistema, nella propria città e altrove, creando solidi legami che facciano uscire dal proprio orticello o dal proprio interesse particolare sia gli individui che le realtà, prendendo esempio da chi ci è riuscito e ci riesce tutt’ora, come i NO TAV, attuale punto di riferimento delle lotte italiane. È necessario, quindi, tornare ad interessarsi personalmente e collettivamente a certi temi, prima di essere sorpresi, in futuro, dall’emergenza del momento. Sarà importante adattarsi il più possibile alle situazioni che ci troveremo davanti, senza illuderci di ottenere risultati dall’oggi al domani, ma comprendendo che, lottando, si vince sempre.

-REDAZIONE-


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E c o n o m i a & L avo ro

M at r i m o n i o a l l ’ Entrato nella primavera, il formichino governo Monti non si mette certo a cantare, ma continua nella sua assidua opera di riforme. Dopo aver “corretto” le pensioni, in modo talmente tecnico e raffinato da creare 350.000 esuberati che non percepiscono né salario né pensione, il nodo centrale da affrontare è quello del mercato del lavoro. Il programma di governo è chiaro: l’articolo 18 così com’è va abbattuto, perché, se non si abbatte il costo del lavoro (si può anche leggere “se non si sfruttano di più i lavoratori”), l’economia italiana non cresce, e, se non cresce, la credibilità ottenuta rischia di svanire in tempi brevi, con aumento dello spread e quant’altro. Gli investimenti esteri e la crescita sono due termini abusati negli ultimi mesi. Un valido articolo di Rizzo, scritto sul Corriere della Sera, dice tutt’altro: se gli stranieri non vengono ad investire in Italia, “il tabù” che circonda l’articolo 18 è uno degli ultimi problemi; vengono prima fattori socio-culturali, contro cui Monti, a parte dichiarare che “gli italiani devono cambiare stile di vita”, e sguinzagliare i finanzieri da un lato all’altro dello stivale, può poco. La complessità dei rapporti di parentela, familiaristici, rende opaco e incerto il contesto economico. La certezza del diritto che Smith, nel ‘700, aveva individuato come una precondizione per lo sviluppo dell’economia capitalistica, non è una delle caratteristiche proprie dell’Italia. E quindi? Visto che è impossibile affermare che il problema dell’Italia sono gli italiani, il governo punta su obiettivi più raggiungibili: eliminare le tutele sul lavoro. Una norma si può abrogare, una società no. Ma chi impedisce al salvatore della patria di portare a termine il suo progetto? Il temibile, irresponsabile e massimalista sindacato della CGIL. Lungi dall’essere un sindacato che rappresenta gli interessi dei lavoratori, il principale sindacato italiano fa sempre più fatica a gestire le chiaccihere nei palazzi con Confindustria, governo, Cisl e Uil e la sua base. Mentre i vertici sguazzano in strette di mano e acccordi, la base è sempre più contraria alla concertazione. Già, perché l’articolo 18 (che impedisce i licenziamenti ingiustificati per le aziende sopra i 15 dipendenti) non è qualcosa che può essere toccato così facil-

mente. Quando il governo Berlusconi ci provò nel 2003 si scontrò con un corteo nazionale di 3 milioni di persone, e capì che stava rischiando troppo. Ma questo è un governo diverso, creato ad arte per fare ciò che gli altri non sono stati capaci di fare. Si potrebbero elencare numerosi fattori che rallentano l’attuazione di questa riforma: quel che è certo è che, se l’articolo 18 fosse semplicemente cancellato, l’idea stessa di sindacato verrebbe messa in discussione. Il tanto declamato modello tedesco funziona, a suo modo, sullo sfruttamento dei lavoratori. Chi lavora in Germania non naviga nell’oro, visto che il potere d’acquisto reale è calato del 36% in 20 anni, ma vive una condizione simile a quella presente in altri stati. Detto banalmente, se la CGIL intende sopravvivere, sapendo che già oggi è composta in maggioranza da pensionati, deve riuscire a convincere una parte dei giovani che entrano nel mercato del lavoro della sua utilità. L’allargamento delle tutele è proprio il diversivo usato per convincere i più. Nei fatti, l’articolo 18 smetterà di avere il significato

di centralità che ha fin qui assunto. Nei calcoli della Camusso c’è quindi un approccio pragmatico: qualsiasi posto voglia occupare la CGIL nello scenario politico dei prossimi anni, se il numero dei suoi iscritti non fa che diminuire, la sua importanza declinerà. Ad oggi, la bozza di riforma firmata Fornero, che aveva preventivamente informato che “non è qui per distribuire caramelle”, prevede il mantenimento dell’obbligo di riassunzione in caso di licenziamento discriminatorio, ma con la clausola che, per ragioni economiche, i licenziamenti possono avvenire. È un gran bel gioco di parole, ma, in fondo, in un periodo di crisi economica, affermare che le aziende possano licenziare se la situazione economica non è rosea equivale ad annullare l’effetto dell’articolo 18. Si apre uno spiraglio giuridico che sposta quindi il discorso da un ambito politico e collettivo a uno giudiziario e privato. Non si può escludere che alcune cause saranno vinte dai lavoratori, ma da che mondo è mondo il padrone si è sempre trovato in una posizione di superiorità nei confronti del lavoratore. I lavoratori possono vedere avanzare i loro diritti e vincere delle battaglie solo quando sono uniti. Questo ci racconta la storia degli ultimi due secoli. La volontà di analizzare caso per caso e dividere i lavoratori rientra in un preciso scenario di indebolimento e ricatto del mondo lavora-


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Italiana

tivo. In una forma divide et impera. E il PD? Già, perché quando si parla di CGIL indirettamente la testa va sempre a chi, all’interno del Parlamento, si trova con posizioni vicine a quelle della Camusso, semplicemente perché le due basi, pur non essendo coincidenti, hanno una consistente intersezione.

In un periodo di crisi economica, affermare che le aziende possano licenziare se la situazione economica non è rosea equivale ad annullare l’effetto dell’articolo 18.

Agli osservatori più attenti non sarà scappato che il governo di Super Mario non ha più la brillantezza dei primi mesi. La stramba coabitazione Pd-terzo polo-Pdl, impensabile un annetto fa, sta diventando, con l’avvicinarsi delle scadenze elettorali, sempre più complessa. Difficile dare del mafioso e del corrotto al partito di maggioranza per 20 anni e poi governare allegramente con lui. Il tragicomico personaggio di Bersani afferma: "Non voglio piantare bandierine, cerco una soluzione equilibrata. Avete visto le cose che ha detto il Cardinal Bagnasco? Mica anche lui sarà al seguito della Cgil...".

Segue, liturgico, l’elogio del modello tedesco, che consente al giudice di scegliere tra reintegro e indennizzo, permettenendo così al sistema di mantenere una parvenza di umanità. È interessante notare come, anche in questo caso, la parola centrale di un discorso perda di senso: il tanto declamato modello tedesco funziona, a suo modo, sullo sfruttamento dei lavoratori. Chi lavora in Germania non naviga nell’oro, visto che il potere d’acquisto reale è calato del 36% in 20 anni, ma vive una condizione simile a quella presente in altri stati. La differenza fondamentale è che, con una disoccupazione al 4% contro una media europea del 10%, e una bilancia commerciale in attivo, la paga media può arrivare a 1600 euro senza intaccare i profitti. La necessità di “rassicurare i mercati” ha portato Monti a fare un tour delle principali presidenze economiche mondiali, dichiarando in ogni luogo che l’Italia ha la possibilità di rilanciarsi e non farà la fine della Grecia. Non casualmente, proprio la “riforma” del mercato del lavoro è stata uno dei primi provvedimenti organici messi in atto da Rajoi in Spagna. Il ragionamento del neo eletto governo conservatore è semplice: per competere sul mercato globale, il lavoro deve essere o più produttivo, o meno costoso. Le due ipotesi non sono totalmente alternative, ma per ora i governi stanno puntando su una riduzione

del costo del lavoro e delle sue tutele. In Spagna una prima reazione c’è stata, e ha portato allo sciopero generale di 24 ore nella giornata del 29 marzo. A confronto, l’Italia appare un paese semplice da domare. Lo sciopero generale lanciato dalla Camusso per il mese di maggio, dopo la tornata di amministrative, non è che un modo per mettere il cappello su una mobilitazione. Le pressioni della base hanno obbligato i vertici ad uscire dal totale immobilismo. Ecco, quindi, che l’abolizione dell’articolo 18 è stata la carta messa sul tavolo per rassicurare chi dovrà comprare 400 milardi di titoli pubblici che scadono tra aprile e maggio. Dalla CGIL è bene non aspettarsi nulla di che, e la sua capacità di oscillare tra la concertazione pura e semplice e lo sbandierare lo spettro dello sciopero generale è ben nota. Di per sé la CGIL non fa paura al governo, ma questo sta procedendo con calma, sapendo che, se la lotta sull’articolo 18 si legasse a quella NoTav, alcune difficoltà potrebbero manifestarsi all’orizzonte. Sarà fondamentale capire se, in vista della fine della luna di miele tra il professore e gli italiani, la CGIL monopolizzerà in funzione elettorale lo scontento, o se si apriranno spazi e percorsi realmente volti ad una contestazione che si sleghi da queste regole. Sapendo che oggi una mobilitazione a livello nazionale è impensabile senza il sindacato, è importante avere chiaro lo scenario nel quale agiamo, senza dimenticare il ruolo di forza dell’ordine che ha storicamente assunto la CGIL. Un carozzone che si ponga a difesa dell’articolo 18, in mancanza di un’analisi condivisa sul ruolo del sindacato e dei partiti della c.d. sinistra, si dividerà strumentalmente tra buoni e cattivi, tra pacifici e violenti, perdendo di vista i reali obiettivi politici.

Fonti : >> “Tuto quello che avreste voluto sapere sull’aricolo 18 (e che nessuno vi ha deto perché non gli conveniva)”, Clash City Workers >> Il Manifesto >> Il Sole 24 Ore

-Victor Serge-


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R u b ri ca s u l l avo ro

Fuori i nomi!

Come si lavora a Firenze e chi ci guadagna

“Il tirocinio infinito” Ogni mese vengono aggiornati i dati dell’Istat sulla situazione dell’occupazione in Italia, e le cifre pur tremende che vi appaiono non riescono a rappresentare la profondità della condizione di marginalità, ricattabilità e sfruttamento che una consistente quota di popolazione vive quotidianamente. In Italia ci sono due milioni e mezzo di disoccupati, mezzo milione di cassaintegrati e un numero sterminato di lavoratori con contratti irregolari, precari o con una partita Iva che camuffa un rapporto di lavoro subordinato e in monocommittenza. Le cifre più gravi riguardano i giovani fino a 24 anni: uno su tre è disoccupato e, tra questi, più di un milione né studiano né cercano lavoro. Firenze non fa eccezione. La questione che si pone è come rovesciare questa situazione che comporta sofferenze materiali, psicologiche e sociali intollerabili. Ma organizzare una risposta necessita un’accurata opera preliminare di indagine della situazione reale e di circolazione estesa dei dati raccolti. Obbliga a catalogare le più svariate condizioni di lavoro e di inattività che vengono imposte sul territorio che ci troviamo ad abitare e a rintracciare le radici comuni da cui originano. A questo scopo, la redazione di Cortocircuito inaugura con questo numero un’inchiesta sul lavoro a Firenze, ripromettendosi di non glissare, quando è possibile farlo senza esporre a rischi il lavoratore, sulle generalità dei responsabili (privati e pubblici) delle situazioni di sfruttamento rinvenute, di modo che le cifre dell’Istat possano essere ricondotte a persone, imprese e rappresentanti istituzionali che incrociamo ogni giorno in città. C. (studente di Lettere): ho iniziato a lavorare quando è chiuso il negozio dove mia madre era commessa. Studiavo da giornalista, quindi precedentemente avevo iniziato a collaborare con varie testate: La Nazione, Calciopiù, Il Tirreno. Ero sempre a disposizione e non ho guadagnato mai una lira. Ma si sa che col giornalismo è così, la gavetta va messa in conto. Quando c’è stato bisogno a casa, ho trovato un posto alla GLS, facevo il corriere espresso. Non ti dico quanto il lavoro fosse snervante e la miseria che mi pagavano, ma in quel periodo non ho trovato altro che mi permettesse di lavorare con continuità senza dover garantire la disponibilità dopo le 19h30. Gioco a calcio in una squadra di promozione, cosa che mi permette di ottenere 350 euro in più al mese, ma che mi impegna 3 sere la settimana. Ho dovuto così smettere di farmi vedere in redazione, perdendo ogni possibilità di andare avanti nel giornalismo. Le cose si sono messe davvero male quando ho finito gli esami e per laurearmi era obbligatorio fare un tirocinio. All’Università non hanno voluto riconoscere come tirocinio gli anni passati a fare il giornalista, perché le certificazioni che i giornali mi hanno rilasciato parlavano di “collaborazioni occasionali”, senza specificare niente. Per svolgere lo stage ho chiesto un part-time alla GLS, ma non me l’hanno concesso. Ho litigato col capo e dopo un mese non mi ha rinnovato il contratto. Ho chiesto ad altri corrieri, ma col part-time non mi ha assunto nessuno,

come se la voce del litigio fosse girata. Il problema è che avevo assoluto bisogno di lavorare, ma sarebbe stato stupido non laurearsi. A quel punto, per poter svolgere un tirocinio e lavorare insieme, sono dovuto andare a fare il cameriere la sera, e ho smesso di giocare a calcio, rinunciando a una parte del reddito. F. (studentessa di Psicologia): l’ultimo anno di Università ho iniziato a lavorare in Cooperativa, anzi in due. Lavoravo per Agorà, ma anche per la Di Vittorio. Cioè, la mattina alle 7h30 tenevo per un’ora dei bambini che i genitori hanno necessità di portare a scuola prima che arrivino le insegnanti. Alle 8h30 tornavo a casa e, se riuscivo a non riaddormentarmi, studiavo. Poi alle 16, per l’altra Cooperativa, facevo l’educatrice di bambini disabili, recandomi nelle case. Mi pagavano da schifo, 6 euro l’ora, considerando la qualificazione e la dedizione che il lavoro richiederebbe e considerando anche che ben presto mi sono laureata e ho fatto l’esame di Stato, quindi avrei dovuto essere considerata una lavoratrice specializzata. Soprattutto era molto faticoso, perché alzarsi al mattino presto per lavorare un’ora e basta è assurdo. Ma le regole erano chiare: se non lavoravo la mattina non avrei lavorato nemmeno le ore del pomeriggio. La cosa strana è che erano due cooperative differenti, con chissà che accordo tra loro. C. (studente di Architettura): lavoro la sera da Vinandro, un ristorante in piazza a Fiesole. Due sere la settimana. I giorni li stabiliamo a inizio settimana, ma a volte me li cambiano all’improvviso. Lavoro a nero, a 6 euro e 50 l’ora. Con me c’è un ragazzo fisso che lavora con una specie di contratto, prende 700 euro per 5 sere la settimana. E’ un contratto di merda, ma lui ha la necessità di avere un lavoro stabile, non può permettersi nessuna brutta sorpresa. Mi dà fastidio lavorare a nero, però in fondo me lo devo far andar bene, perché almeno ho una certa flessibilità anch’io che mi permette di studiare durante le sessioni d’esame. O. (studentessa di Economia): ci sono due soci che possiedono vari locali e ristoranti: Joyce, J.J. Cathedral, J.J. Hill, Le Lance, Il Povero Pesce e Il Pallaio. Prima si era tutti integralmente al nero, ora fanno a tutti i contratti a chiamata, per paura dei controlli. Funziona così: tu lavori circa 35 ore a settimana e prendi 700 euro, ma solo 5 ore sono in busta, il resto è al nero. Se arriva un controllo, formalmente è tutto in regola, il capo dice di avermi appena chiamata. Devo lavorare per forza, la mia famiglia non è più in condizione di aiutarmi. Lavoro qui perché non è che da altre parti è meglio. I brani riportati sono esempi delle condizioni di lavoro che un numero consistente di giovani svolge a Firenze per pagarsi un affitto, gli studi, le vacanze e i consumi, appena smette di dipendere completamente dalla famiglia. Abbiamo raccolto, tra gli studenti - o tra chi ha terminato gli studi da non più di tre anni - di Lettere, Architettura, Psicologia e del Polo di Novoli, un consistente numero


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di testimonianze, di cui forniamo una prima sintesi. La legge Treu del centrosinistra (1997), la legge Biagi del centrodestra (2003) e la riforma che il governo Monti sta operando in queste settimane, sono accomunate dalla volontà di ristrutturare il mercato del lavoro, favorendo la flessibilità in entrata (precarietà) e in uscita (licenziamenti) dei lavoratori. Si liquidano così il maggior numero di lavoratori in possesso di qualche diritto alla “rigidità” per investire su forza-lavoro destrutturata, a tempo determinato o a progetto, dove gran parte degli oneri fiscali sono affidati alla collettività. Il contratto di apprendistato, la proliferazione di agenzie interinali, l’appalto di commesse a cooperative che rimpiazzano le pratiche svolte un tempo da dipendenti pubblici, i contratti a progetto, sono gli strumenti di questa trasformazione. In questo quadro, nonostante le statistiche dell’Istat, che non tengono conto delle situazioni sommerse e destrutturate, assistiamo ad un numero crescente di lavoro destinato a studenti universitari o a giovani appena laureati. M. (ex studente di Lettere): per pagarmi un affitto e le altre cose, durante l’Università ho fatto ogni genere di lavoro. Ne ho cambiati almeno 7. Spesso in nero, ma anche col contratto a progetto e a tempo determinato. Era frustrante, nel lungo periodo, dividere in due la mia attenzione: le ore di studio e le ore di lavoro. Ne ho cambiati così tanti perché studiando non mettevo mai tutto me stesso nel lavoro, nel migliorare le mie condizioni e nel trovare un certo appagamento, perché dove mi impegnavo davvero era lo studio. Quando mi sono laureato ho iniziato a lavorare nel campo che mi interessa, l’editoria. La cosa sorprendente è che, nonostante avessi una certa qualifica e investissi molto in quella carriera, dal punto di vista delle condizioni di lavoro non cambiava niente rispetto ai lavoretti precedenti: tutto un’alternarsi di stages, contratti a progetto, mancato rinnovo, trasferimento in una nuova azienda e via tutto da capo, tirocinio, contratto a chiamata... Che siano cooperative sociali, ristoranti, esercizi commerciali, callcenter, supermercati, giornali, case editrici, impieghi comunali, studi di architettura; che si parli di tirocinii, di contratti di formazione, di part-time, di lavori saltuari, a nero o con partita iva, di lavori fatti per necessità, per arrotondare e accompagnare gli studi o, al contrario, per avviare una carriera professionale, poco cambia: ovunque si destina una quota consistente di lavoro ai giovani in formazione. M. ci spiega bene il perché: M: oggi ci richiedono un percorso di formazione pressoché infinito, dove non c’è una vera soluzione di continuità tra Università, stages, corsi di aggiornamento, master, dottorato di ricerca, impieghi precari, praticantato e impieghi un minimo più stabili. Non c’è nemmeno bisogno di pensare a una strategia particolare organizzata intorno alle riforme dell’Università. E’ sicuramente vero che l’Università è stata dequalificata, per dequalificare il lavoro. Ma il meccanismo è molto più semplice: gli anni di formazione sono sempre più lunghi, e mentre si studia è naturale cercare dei lavori flessibili. E i datori di lavoro non cercano altro che questo. Possono sfruttarti il doppio perché sei tu che sei costretto a chie-

dergli un trattamento del tutto destrutturato. Il tempo passa e sei nei fatti sempre un tirocinante. Il sistema si regge sull’incontro di due domande di flessibilità: la flessibilità che richiede lo studente-lavoratore, impegnato in un frustrante percorso di formazione tanto ossessiva quanto dequalificata, e la flessibilità che l’impresa richiede per abbattere il costo del lavoro. Quando il percorso di studi finisce, al lavoratore viene imposta, anche per mezzo di una continua richiesta di aggiornamento, la stessa identica flessibilità che adesso difficilmente gradisce. Pescare tra i giovani vuol dire, per il datore di lavoro, risparmiare denaro. Poco cambia se l’impresa in questione è il Comune di Firenze stesso: R. (studentessa di Psicologia): avevo saputo che ai Nidiaci, un centro giovani del Comune, c’era bisogno di una sostituzione come educatrice. Un amico che già ci lavorava ha fatto il mio nome e mi hanno preso. Mi chiamavano quando avevano bisogno e dovevo presentarmi immediatamente. Pagavano bene, 20 euro lorde l’ora. Ma ero un tappabuchi, di fatto non facevo niente, perché non mi hanno fatto formazione e andando sporadicamente non era possibile programmare nessun lavoro coi ragazzi. Era tempo perso per tutti e il mio lavoro era dequalificato. Tutto questo per non aggiungere un altro lavoratore con un regolare contratto, che invece sarebbe servito. Mi pagavano e tappavano il buco, poi ciao ciao. Mi hanno addirittura pagata subito, per chiudere il rapporto più velocemente possibile. G. (studente di Lettere): da 9 anni faccio l’operatore servizi educativi per il Comune di Firenze. Cioè, fo il bidello negli asili nidi. Ho fatto il concorso per fare le supplenze. Ci chiamano per periodi di 2 settimane, ogni due-tre mesi circa. Con questo reddito da solo non ce la faccio, quindi devo prendere altri lavori. E’ successo spesso che i lavori si accavallassero, perché dal Comune ti chiamano all’ultimo e magari hai già preso impegni per i giorni seguenti. Una volta potevi rifiutare senza problemi, oggi non più. Devi avere un giustificato motivo, che non può essere né lo studio per un esame universitario né un altro lavoro. In pratica, quando ti chiamano, deve essere la priorità. Dopo due rifiuti “ingiustificati” sei fuori dalle graduatorie. Questo è assurdo, perché è chiaro che si tratta di un lavoro che può essere svolto solo da chi lo usa per allungare. Che pensano, che si possa campare con 15 giorni di lavoro ogni tanto? Le riforme dell’istruzione hanno, da una parte, sempre più gerarchizzato, parcellizzato, dequalificato e tecnicizzato il sapere, per sottrarre al lavoratore ogni visione organica sui processi produttivi; dall’altra, creato le condizioni affinché la domanda di forza-lavoro potesse contare su una schiera sempre più numerosa di lavoratori, costretti dal percorso formativo stesso a ricercare lavori flessibili. Le riforme del sistema scolastico e le riforme del mondo del lavoro marciano dunque di pari passo, con effetti capillari e drammatici anche sul nostro territorio.

-Rui Cola-


8 Il movimento NoTav e gli Politica

Di questi tempi è impossibile non parlare di TAV e del movimento che vi si oppone, soprattutto grazie alla lotta in Val di Susa. Anche Firenze, però, è attraversata dai cantieri Alta Velocità, con tutte le loro caratteristiche: disastro ambientale, spreco di denaro pubblico, ed enormi profitti per imprese e banche coinvolte nei cantieri. Nello specifico, i lavori a Firenze prevedono la realizzazione di due tunnel sotterranei lunghi 7km, che partono dalla zona di Castello fino a Campo di Marte, passando per la Fortezza da Basso e Piazza della Libertà. L’appalto se l’è aggiudicato Coopsette, un’azienda di Reggio Emilia già partecipante al sistema tangentizio per la metro milanese negli anni Novanta, per 700 milioni. Ma Moretti, l’amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, già parla di 3 miliardi di costi, che sicuramente aumenteranno anche a causa dei possibili danni strutturali agli edifici sovrastanti i tunnel. Nel ‘98 il Ministero dell’Ambiente, a proposito del nodo Alta Velocità di Firenze, si pronuncia così: “Da un punto di vista funzionale [l’opera] si presta a diversi ordini di perplessità, in particolare per quanto concerne il bilancio fra risorse e tempi necessari alla realizzazione da un lato, e l’esiguità degli effetti attesi in termini di capacità ed efficienza dell’intero sistema ferroviario dall’altro”. Capire e comprendere le logiche dietro alla linea Alta Velocità significa scoprire come ragiona e si relaziona il capitale rispetto allo spazio e ai movimenti di opposizione. Nonostante i dubbi del Ministero, a quel tempo guidato da Edoardo Ronchi, ministro del primo governo Prodi, e le alternative messe sul tavolo, l’idea di realizzare la linea in superficie, risparmiando soldi ed evitando danni e contestazioni, non è stata mai presa in considerazione. La banda del buco ha necessità di scavare e riempire, mentre i danni ambientali, nonostante siano di notevole entità, sono considerati del tutto secondari. La stazione internazionale, infatti,

verrà costruita perpendicolarmente ad una grossa falda acquifera, con effetti imprevedibili, senza contare l’inquinamento acustico ed atmosferico dovuto, oltre ai lavori in sé, al continuo via vai di camion da e per il cantiere. Traffico destinato ad aumentare quando si dovrà trasportare l’enorme mole di materiale di scavo (3.200.000mc) nelle discariche. Materiale che dovrà essere trattato come rifiuto speciale, con relativo aumento dei costi. Il progetto finale è di una superficialità imbarazzante, neanche le valutazioni tecniche dell’Arpat (Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana), che esprimono preoccupazione sulla questione ambientale, fermano la volontà politica di scavare: l’importante è che il cantiere parta, il resto si vedrà. Il responsabile dei lavori del nodo fiorentino, tale Francesco Bocchimuzzo, ha dichiarato che i lavori per la realizzazione dei tunnel inizieranno a metà maggio e proseguiranno per tre anni (stima fin troppo ottimistica). Il disastro del Mugello, con 57km di fiumi inariditi, 24km di ridotta portata, 67 sorgenti scomparse, insieme a 37 pozzi e 5 acquedotti privati, è un altro esempio della connaturata devastazione che portano le cosiddette grandi opere. Perché il capitale ha bisogno di distruggere per poter costruire,

per questo non si impegna in piccole opere di manutenzione, perché non ne trarrebbe nessun guadagno. Da questo assunto si ricava il mantra delle grandi opere: “è accettabile qualunque disastro economico purché le perdite siano addossate all’intera comunità, e i guadagni rimangano nelle mani di chi gestisce l’operazione” [Cancelli]. È il cosiddetto “project financing”. In sostanza, un grande spreco di denaro pubblico e grandi profitti per i privati.

In quest’ultima fase, il movimento NoTav è riuscito a generalizzarsi ed a radicalizzarsi, diventando un punto di riferimento per le mobilitazioni dentro la crisi e contro l’austerity.

Il TAV può apparire come un progetto inutile, ma questo è vero solo in parte. Il TAV è utilissimo come valvola di sfogo di capitali, che altrimenti rimarrebbero fermi, consentendo quindi un giro di denaro tra ditte appaltatrici e subappaltatrici che si operano nella distruzione, nella costruzione e in uno


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interessi a cui si oppone

smaltimento dei rifiuti non indifferente. Quindi il profitto come codice sovrano, e la valorizzazione del capitale attraverso l’accelerazione dello spostamento delle merci (che, peraltro, sulla tratta Torino-Lione latitano), come un must da raggiungere anche a costo di militarizzare una valle, distruggere il territorio e compromettere la salute di un’intera comunità. E se nel frattempo muore fulminato qualche contadino ribelle, tanto meglio! Da questa parte della barricata sta il movimento NoTav, che da oltre vent’anni si oppone alla realizzazione di quest’opera. Un movimento dalla composizione intergenerazionale, di cui fanno parte studenti, lavoratori e pensionati. In quest’ultima

fase, il movimento NoTav è riuscito a generalizzarsi ed a radicalizzarsi, diventando un punto di riferimento per le mobilitazioni dentro la crisi e contro l’austerity. I suoi temi centrali sono la lotta ai tagli, al debito, contro l’abbattimento delle politiche di welfare e dei diritti dei lavoratori, proponendo un modo diverso di fare ed intendere la politica ed i rapporti sociali, condannati alla frammentazione. Sono contro lo sviluppo capitalistico (cioè il profitto delle aziende) che vuole imbrigliare e distruggere una delle realtà tra le più floride in Italia.

Perché il TAV è un treno e molto

economica, la cultura, il diritto, la politica. Perdere questa battaglia significa lasciare campo libero ad azioni e comportamenti simili in tutti i campi della vita associata. Anche per chi sta dall’altra parte della barricata è una battaglia importante. Per il governo Monti, cedere sulla questione TAV significherebbe fare una grossa retromarcia sulle manovre politiche effettuate sinora, oltre che mettere in discussione la presunta oggettività del sapere di certi tecnici. Ma sono soprattutto il Pd (che si è rovinato sostenendo il TAV), e il “Partito de La Repubblica”, a svolgere il ruolo di ciechi sostenitori della supposta oggettività dello sviluppo capitalistico e del cosiddetto “interesse generale”, nella questione TAV come in altre (vedi le politiche lacrime e sangue). Capire e comprendere le logiche dietro alla linea Alta Velocità significa scoprire come ragiona e si relaziona il capitale rispetto allo spazio e ai movimenti di opposizione. Se per il primo vale la formula costrusci-distruggicostruisci, per il secondo lo Stato gendarme ha un’unica ricetta: la repressione. È qui che si inseriscono le decine di arresti firmati dal procuratore di Torino Caselli, così solerte ad accanirsi contro gli esponenti del movimento NoTav, ma molto meno disposto a muoversi sugli abusi delle forze dell’ordine e sulle infiltrazione della ‘ndrangheta nei cantieri. La lotta contro il TAV è un’opportunità di unificazione delle lotte e un’occasione per riequilibrare i rapporti di forza. Se quest’occasione verrà sfruttata, non ci saranno bastoni o carote capaci di fermare il movimento.

di più. È un paradigma di pensiero, un modo di concepire i rapporti sociali, le relazioni con il territorio, l’attività economica, la cultura, il diritto, la politica.

È dunque un movimento centrale e ricompositivo, che affronta una battaglia importantissima, vitale, da vincere. Perchè il TAV è un treno e molto di più. È un paradigma di pensiero, un modo di concepire i rapporti sociali, le relazioni con il territorio, l’attività

Fonti : >> uninomade.org >> notavfirenze.blogspot.it >> infoaut.org >> militant-blog.org >> altracita.org

-Supertramp-


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Politica

Appunti ateniesi Dietro le quinte del movimento Lontano da ciò che vediamo attraverso i media, lontano dagli indici finanziari, lontano dalle sigle e siglette di partiti e sindacati, c'è una metropoli di persone, e in questa metropoli un quartiere fatto di partecipazione, autogestione, dibattito politico, che sfida l'alienazione e le conseguenze tremende che la crisi greca impone ai suoi abitanti. Il quartiere in questione è Exarchia. Quartiere storico di resistenza e di costruzione di un'alternativa al sistema capitalista e a tutte le sue espressioni autoritarie, racchiude in sé un impegno politico e sociale che abbraccia tutte le generazioni.

luogo dove sono stati installati giochi per bambini ed un cinema all'aperto, dove le piante verdi e fiorite irrompono nell'architettura grigia dell'alienazione metropolitana. All’occupazione è seguita l’autogestione: gli abitanti del quartiere e chiunque voglia partecipare si riuniscono in assemblea tutte le settimane, per organizzarne la gestione, il servizio d’ordine, la cura e l’utilizzo. La composizione dell’assemblea è estremamente eterogenea e alla cura del parco partecipano gomito a gomito giovani e anziani, accomunati dalla lotta sociale per il quartiere.

Dalla lotta politica all'emancipazione del-

La coscenza di classe si è imposta

l'uomo dal capitale, attraverso lo sviluppo dei veri beni comuni, nel 2008, nella stessa strada in cui fu assassinato il sedicenne Alexis, è stato occupato uno squallido parcheggio privato. Strappato alle leggi del capitale, ora è un punto di ritrovo per il quartiere. Nel momento in cui lo spazio doveva essere venduto all'Ordine degli ingegneri perché ci costruissero i loro uffici, i cittadini del quartiere si sono mobilitati per occuparlo. Studenti, militanti, lavoratori e pensionati se ne sono riappropriati, trasformandolo in un parco, punto verde di utilità per tutti, un

con tutta la forza della storia.

Un racconto a sé merita la facoltà di architettura, vecchia sede del Politecnico, passato alla storia come centro nevralgico del movimento di resistenza contro i Colonnelli, fino al 1974, e punto di partenza delle lotte studentesche degli ultimi anni. Data la sua importanza politica e la sua posizione strategica, il Politecnico è stato recentemente spostato in periferia per evitare “problemi di

ordine pubblico”, ossia per cercare di indebolirne l’influenza sul tessuto sociale della città. Ciononostante, gli studenti di architettura, rimasti nella vecchia sede, hanno dato continuità alla lotta, occupando l'enorme vuoto lasciato dallo spostamento strategico del Politecnico. Nei fatiscenti capannoni hanno dato vita ad un’esperienza di autogestione e collettivizzazione della vita universitaria. Entrando nel capannone da una piccola porta, si rimane colpiti dall’organizzazione che gli occupanti sono riusciti a darsi, mettendo a disposizione degli studenti ciò che l’università della riforma europea ha sottratto: spazi di studio dove ognuno può costruire il proprio percorso di formazione, socializzare le conoscenze acquisite ed elaborare progetti comuni in maniera completamente libera ed autonoma. Uno dei due capannoni è stato suddiviso in aule in cui gli studenti che preparano il progetto di tesi possono avere a loro disposizione uno spazio adeguato, con tavoli di lavoro, computer, connessione internet libera, strumenti tecnici a disposizione di tutti e una cucina collettiva. Il secondo capannone è stato adibito a esposizioni d’arte, iniziative politiche e dibattiti. Cosa ancor più importante, viene utilizzato come aula magna per la discussione delle tesi di laurea, avvicinando così anche i professori a questa esperienza. Gli occupanti, in questo modo, riescono ad imporsi nei rapporti di potere tra l’istituzione universitaria e coloro che l’università la vivono e la animano tutti i giorni. Le opere d’arte che colorano le mura esterne sono il volto artistico di una battaglia politica, quella per essere riconosciuti come attori fondamentali della vita universitaria.

I legami tra le varie anime del movimento

Concerto di solidarietà - Fabbrica occupata ad Aspropyrgos

ateniese arrivano a portare linfa vitale ai nodi periferici della lotta metropolitana: un filo di solidarietà politica unisce il quartiere di Exarchia alla fabbrica siderurgica nella zona industriale di Aspropyrgos. Lì, dal 12 ottobre 2011, 380 lavoratori sono in sciopero permanente. Le condizioni di lavoro


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Giardino occupato - quartiere di Exarchia, Atene sono sempre state disumane: in estate la temperatura interna dello stabilimento raggiunge i 75°C, in inverno 45°C. I macchinari fatiscenti, le pedane mangiate dalla ruggine e le alte temperature sono costati 75 arti amputati e la morte di un lavoratore in un solo anno. Dal 12 ottobre, alla decisione di ridurre il salario del 40% e di effettuare alcuni licenziamenti, i lavoratori hanno dato inizio alla lotta. Sono subito nati comitati autogestiti, primo tra tutti quello delle mogli degli operai, che si sono mobilitate per non pagare gli asili e le scuole ai figli, visto che i soldi in famiglia si erano dimezzati. Tutta la Grecia ha dimostrato solidarietà attiva: casse di ortaggi portate dalle campagne riempiono quelli che una volta erano gli uffici della dirigenza; giovani e studenti hanno organizzato iniziative, tra cui un concerto nel cortile della fabbrica, riportando l’umanità nel luogo archetipo dell’alienazione capitalista. Nello sciopero, inizialmente indetto dai lavoratori, si sono rispecchiate le varie realtà del movimento greco, con una preponderanza del sindacato PAME (legato al KKE, partito comunista greco), che in quella fabbrica conta 4 iscritti. Allo sciopero hanno collaborato lavoratori indipendenti e alcuni gruppi anarchici; ad oggi, sesto mese di sciopero, tutti e 380 i lavoratori della fabbrica partecipano

attivamente. Nonostante i legami tra il PAME e il KKE e le divergenze ideologiche tra i partecipanti, il sostegno reciproco dei lavoratori dello stabilimento è nato sulla base dei rapporti di fiducia, maturati in anni di condivisione della stessa condizione di logorante sfruttamento. La coscienza di classe si è imposta con tutta la forza della storia.

In un periodo economicamente favorevole le categorie politiche sono dettate da ideologie, divisioni e microfazioni. Qui, queste sono state sbaragliate dalle condizioni materiali, risvegliando una diffusa coscienza critica.

“La realtà è molto più complessa di quanto le nostre categorizzazioni cerchino di descrivere”. Queste parole, pronunciate da una compagna greca, fanno riflettere su quanto detto fin qui. Quello descritto è solo uno degli aspetti della complessa realtà greca, quello della rete sociale venutasi a creare in anni di lavoro continuo tra le varie realtà del movimento,

ma che mantiene le sue divisioni e contraddizioni a livello politico. In un periodo economicamente favorevole le categorie politiche sono dettate da ideologie, divisioni e microfazioni. Qui, queste sono state sbaragliate dalle condizioni materiali, risvegliando una diffusa coscienza critica. Questo non è nato dal niente, ma è il risultato di un lavoro durato anni: dietro alla conflittualità che viene riversata nelle piazze (l’unico aspetto che riportano i media mainstream), c’è un capillare lavoro di controinformazione, un’alternativa sociale costruita a partire dagli angoli dei quartieri, un importante fermento culturale. In Italia, un paragone necessario, per continuità e perseveranza, è sicuramente il lavoro ventennale in Val di Susa, dove un’intera comunità si è ritrovata attorno ad una battaglia politica comune, creando una coscienza critica che ne legittima l’azione. Il movimento greco, concepito in primis come movimento dal carattere sociale, riesce ad includere diverse concezioni di lotta trovando nella reciproca solidarietà il comune denominatore. Dimostrandosi duri, senza perdere l’umanità.

-Cecchino-Ines-Philip Liguori-


12 Pressing sulla città F i re n z e

I Della Valle nel calcio moderno "Basta con questi scarpari marchigiani, Firenze merita di più!", "Dieci anni fa eravamo in C2 a giocare col Gubbio, se non fosse per i Della Valle saremmo ancora lì, per questo bisogna essergli grati!", "Macché, a quelli ormai non importa più nulla della Fiorentina. Della Valle fuori dalle palle!", "Sì, sì, bravi e se loro vendono chi compra? Cacciateli fuori voi i soldi che criticate tanto!" Commenti del genere si accavallano continuamente nello spazio di comunicazione virtuale di Fiorentina.it (il bar sport ai tempi di Facebook): c'è chi si indigna per i risultati indecorosi della propria squadra e, non vedendo impegno e investimenti, chiede a gran voce la cacciata dei fratelli marchigiani, e c'è chi, nonostante non possa negare la crisi della Fiorentina, invoca a loro difesa l'assenza di alternative credibili. Chi ha ragione? Tutti, o meglio, nessuno. Hanno ragione gli indignati ad indignarsi, ci mancherebbe, la squadra è una vergogna... Hanno ragione i realisti a non vedere sceicchi carichi di petrodollari (i famosi investimenti esteri...), decisi ad investire sulla maglia viola per riportarla in Champions. Lo “stile Fiorentina”, la retorica del fairplay o la scelta di “Save the children” come sponsor, lungi dall'essere iniziative di promozione dei tanto sbandierati valori sportivi, altro non sono che frutti di strategie di marketing volte ad aumentare l'“appeal” del giglio rosso, ridotto a logo pubblicitario. Eppure, i due cori contrapposti non colgono il nocciolo della questione: non si contestualizza la "questione Della Valle" in quello che è il "sistema calcio", a sua volta inserito ed integrato come parte attiva e propulsiva del "sistema" economico e politico vigente. Il calcio, negli anni, è divenuto la sesta industria nazionale, un processo che ha avuto un'accelerazione all'inizio degli anni '90 con

l'ingresso in campo di Tele+, la prima pay tv in Italia, antenata dell'odierna Sky. Da allora la vendita dei diritti televisivi è diventata rapidamente la prima fonte di finanziamento dei club, con un'immissione di capitali mai vista prima nel calcio. Il 1990 è anche, guarda caso, l'anno delle "notti magiche" dei mondiali italiani, accompagnati a un giro mostruoso di appalti per la ristrutturazione degli impianti sportivi. Gli industriali marchigiani sfruttano il "marchio Fiorentina" a scopi

pubblicitari,

implemen-

tando i profitti delle loro aziende. Contemporaneamente alla crescita esponenziale del giro di soldi attorno al calcio, vengono presi i primi provvedimenti speciali per la sicurezza negli stadi. Il 13 dicembre 1989 viene inaugurata l'era del DASPO (divieto di accesso alle manifestazioni sportive), ovvero il divieto temporaneo (ad oggi per un massimo di 5 anni) di assistere a qualsiasi evento sportivo ufficiale, in seguito ad un comportamento "non congruo" tenuto negli stadi. Vera e propria legge speciale in deroga allo stato di diritto: trattasi, infatti, di una limitazione della libertà personale che può essere comminata direttamente dagli organi di polizia, senza la possibilità di una difesa legale adeguata. È un tipo di legislazione speciale che si è cercato recentemente di esportare fuori dagli stadi: è stata infatti discussa tra le forze politiche l'introduzione del DASPO ai cortei dopo gli scontri del 15 ottobre 2011 e del 14 dicembre 2010 a Roma; gli stadi sono da anni un laboratorio di repressione. Il delirio securitario all'interno degli stadi vedrà poi il suo apice nel 2007, dopo la morte dell'ispettore di polizia Filippo Raciti in occasione degli scontri tra tifosi catanesi e palermitani, a cui seguirà il decreto dell'allora ministro degli interni Giuliano Amato (governo Prodi): prefiltraggio e tornelli all'ingresso, tamburi, fumogeni e megafoni vietati e censura preventiva sugli striscioni (obbligo di dichiarare preliminar-

mente alla questura il testo dello striscione, che potrà essere esposto solo previa autorizzazione). Sulla scia dei provvedimenti di Amato, il suo successore Roberto Maroni (governo Berlusconi) impone la tanto dibattuta Tessera del tifoso, che non è una schedatura di massa (per quello ci sono già i biglietti nominali, introdotti invece da Giuseppe Pisanu, ministro dell'Interno di centrodestra nel 2005), come è stato spesso erroneamente detto. Il suo ruolo, più che repressivo, è selettivo e produttivo. Un documento, approvato il 23 aprile 2008 dall'Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive, parla chiaro a proposito: «L'esigenza che le società calcistiche possano contare su una tifoseria/clientela sempre più numerosa passa, anche, attraverso l'introduzione della Tessera del tifoso. Si incentiva la formazione di una “comunità privilegiata” […] di sostenitori ufficiali» . Così la priorità del profitto viene imposta tramite la repressione dei soggetti più restii ad accettare le logiche del cosiddetto "calcio moderno", ed attraverso dispositivi atti alla creazione del nuovo tifoso-cliente. L'operato dei fratelli Della Valle va ad inscriversi in questo quadro. Arrivati a Firenze nel 2002, acquistando la Fiorentina a prezzo stracciato dopo il fallimento di Cecchi Gori e la discesa della squadra in C2, gli industriali marchigiani sfruttano il "marchio Fiorentina" a scopi pubblicitari, implementando i profitti delle loro aziende: lo “stile Fiorentina”, la retorica del fairplay o la scelta di “Save the children” come sponsor, lungi dall'essere iniziative di promozione dei tanto sbandierati valori sportivi, altro non sono che frutti di strategie di marketing volte ad aumentare l'“appeal” del giglio rosso, ridotto a logo pubblicitario. Oltre al ritorno economico occorre ricordare quello politico: Diego Della Valle (che, è bene rammentare, è azionista di aziende come Assicurazioni Generali, Rcs Media Group e Ferrari), pur non essendo mai entrato direttamente in politica, è stato prima finanziatore di Forza Italia, poi supporter di Mastella e antiberlusconiano, infine sponsor del governo tecnico: il 1 Ottobre del 2011, comprando gli spazi pubblicitari dei quotidiani italiani,


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Diego e Andrea Della Valle pubblica una lettera di denuncia contro i partiti ormai incapaci di guidare il paese, guarda caso appena un mese e mezzo prima della nomina di Monti al governo. A Firenze, nel frattempo, i Della Valle collaborano alla sperimentazione di un nuovo modello di gestione dell'ordine pubblico: una sorta di concertazione tra Questura, società ACF Fiorentina e una parte della tifoseria presa come referente (che come naturale conseguenza ha la dura repressione di quella parte di tifosi “dissidenti”). Il tutto

«L'esigenza che le società calcisti-

che possano contare su una tifoseria/clientela

sempre

più

numerosa passa, anche, attraverso l'introduzione della Tessera del tifoso.» Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive

volto a creare un ambiente disciplinato e produttivo, in cui però non spariscano il calore ed il colore garantiti dai tifosi, funzionali alla riuscita dello spettacolo televisivo. Dopo i primi risultati positivi della squadra,

propongono, per colmare il gap di entrate con le grandi del campionato, la costruzione della Cittadella Viola nella zona di Castello: un'area di 80 ettari su cui costruire un nuovo stadio circondato da un parco giochi a tema calcistico (una sorta di "Disneyland del calcio"), centri commerciali, cinema, parcheggi e palazzine. Una cascata di cemento e una pioggia di appalti e speculazioni, finalizzate ad autofinanziare il "Progetto Fiorentina" tramite un consumo idiota, in un contesto "per famiglie" completamente disciplinato. Sarà poi un'inchiesta della magistratura a fermare tutto: nell'autunno del 2008 l'area verrà posta sotto sequestro preventivo a causa di un losco giro di soldi e favori tra il palazzinaro Ligresti ed elementi di spicco della giunta Domenici, tra cui il paladino della legalità, lo “sceriffo” Graziano Cioni. Fallito il progetto Cittadella, e con esso naufragato quello sportivo, per l'immediato e polemico passo indietro dei Della Valle nella gestione e nell'investimento societario, in città è iniziato a serpeggiare del malumore. Renzi si inventa così una nuova idea per rilanciare la Fiorentina, strombazzando il progetto di un nuovo stadio nell'area Mercafir a Novoli; nel frattempo i Della Valle tentennano di fronte alla proposta del sindaco, in-

certi sulle potenzialità di profitto di un'operazione che ridisegnerebbe il tessuto urbanistico fiorentino, con annesse speculazioni. L'alternativa è quella della dismissione: abbattere il prezzo dell'ACF Fiorentina, renderla più appetibile sul mercato e cercare un nuovo acquirente. In questo contesto si capisce come le chiacchiere pro e contro i Delle Valle risultino vuote, sterili e fuorvianti. La scelta non è tra un padrone e l'altro, ma tra la passiva accettazione e l'opposizione attiva alla mercificazione e alla repressione, creando spazi di conflitto dentro e ancor di più fuori dagli stadi, e promuovendo altrove iniziative sportive fuori dalla logica di mercato.

Fonti : >> “Stadio Italia, i conflii del calcio moderno”, AA.VV. >> “Il derby del bambino morto”, Valerio Marchi >> “Allenamento di fair play”, YouTube >> letera di Della Valle contro i parii, corriere.it

-Sonic Death-


14 Backstages fiorentini S o c i et à & C u lt u ra

Dal problema abitativo al razzismo di strada e istituzionale Qualche anno fa si appendeva alla finestra la bella bandiera della Pace, ora anche quella poca fatica si è risolta in un click e in poche ore la bandiera senegalese compare nei profili facebook di tutti. La “solidarietà” si esprime quasi solo attraverso schermo e tastiera: due muri sempre più alti che ci separano dai personaggi in carne ed ossa che vivono la strada. Allo stesso tempo è impensabile credere che il problema del razzismo non sia sotto gli occhi di tutti, soprattutto in seguito ai fatti dello scorso 13 dicembre (vedi articolo nel numero 7), così come quello dell’emergenza abitativa, di cui Firenze in particolare si è resa attrice principale con i suoi oltre 500 sfratti (di cui il 90% per morosità) e le sue 8.300 famiglie in attesa di essere sfrattate.

L’ emergenza abitativa “Duemila famiglie sotto sfratto. Diecimila case senza famiglia”. A metà del mese scorso, tre famiglie morose, bambini compresi, hanno deciso di occupare uno stabile sfitto da anni in via Baracca 25 con l’aiuto degli attivisti del Movimento di Lotta per la Casa. Una vera e propria necessità, come tante altre, di fronte all’avanzamento della crisi e allo spaventoso aumento del costo degli affitti, tra l’altro molti dei quali a nero, per cui Firenze spicca nello scenario italiano. Per un numero sempre maggiore di famiglie, sia straniere che italiane, la minaccia dello sfratto sta diventando un incubo: per dare alcuni numeri, solo per il mese di aprile ne sono previsti ben 80. Lontano da giudizi morali, spesso molto distaccati e generalisti, la scelta di queste famiglie è praticamente costretta, così come la resistenza fisica al momento dello sgombero: l’alternativa è la strada e, come se non bastasse, l’azzeramento del punteggio per l’assegnazione della casa. Vi è infatti un sistema per il quale a ogni famiglia vengono assegnati tot punti nell’attesa per un’abitazione propria, ma anche nel caso in cui una di esse arrivasse ai primi posti della graduatoria, una volta sfrattata e scesa in strada si troverebbe senza un tetto e senza punteggio. E quindi senza la speranza

di ricevere una casa dal Comune attraverso vie “legali”. Così come avverrà per i rifugiati politici e non somali, eritrei ed etiopi (arrivati a circa 140 persone) che da mesi occupano lo stabile di via Slataper 6, per cui lo sgombero è già stato più volte tentato, e di nuovo lo sarà in tempi molto brevi. Si vedrà per via Aldini, il cui progetto di autorecupero, sempre alla ricerca di una soluzione al problema abitativo, sembra per il momento non essere a rischio. “Chiediamo requisizioni, recuperi e la dichiarazione dello stato di emergenza” sostiene Lorenzo Bargellini del Movimento, l’organizzazione grazie alla quale di fatto molte persone, uomini, donne e bambini indistintamente, sono riusciti a fuggire dalla strada e a trovare uno stile di vita più o meno dignitoso sotto la protezione di un tetto e quattro mura. Ma la situazione è un’emergenza in divenire: l’acuirsi della crisi permetterà a un numero sempre minore di nuclei familiari di pagare affitti sempre più impossibili, la cui speculazione è apertamente legalizzata dalla legge 431, fino al punto in cui sfratti, tasse ed esclusione sociale diventeranno parole di uso corrente per tutti.

Nuovi episodi di razzismo Capita spesso che gli occupanti abusivi degli stabili di cui trattato sopra siano stranieri, non tutti, ma molti. Difficile negare che il trattamento loro riservato non sia proprio lo stesso del “puro” cittadino italiano e che l’accento diverso, la pelle, gli occhi, la condizione sociale non interferiscano nella loro interazione in città. Il problema si pone su due piani distinti: quello del buon cittadino, o dei singoli individui più in generale, e quello istituzionale. Informandosi molti unicamente attraverso i canali d’informazione ufficiali, l’immaginario comune riflette perfettamente quello proposto dai media: accade così che a una manifestazione di solidarietà indetta da partiti e sindacati della “sinistra” opportunista partecipino 40mila persone, mentre in seguito agli episodi successivi ne scendano in piazza appena mille. Come in altri paesi, ma in particolare in Italia, la criminalizzazione razzista è estremizzata, rafforzata da leggi che conferiscono molto potere alla polizia e alle autorità e palesata dalle norme e le infinite pratiche per l’accesso al visto, la domanda di asilo, l’ottenimento del permesso di soggiorno e il suo rinnovo. Tutti elementi atti a proteggere gli italiani dai “delinquenti nati”. Anche le sta-


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tistiche parlano chiaro, smentendo il fatto che gli immigrati abbiano contribuito all’aumento dei reati: dal 1990 al 2009, per esempio, il totale dei reati è diminuito mentre gli immigrati (regolari e irregolari) sono aumentati del 420%. A Firenze, negli ultimi anni, si respira un’aria più pesante, si pensi all’ordinanza contro i lavavetri per cui la pena può arrivare fino a tre mesi d’arresto o a multe da 200 euro, ma dopo i fatti del dicembre scorso il clima sta cambiando ulteriormente. L’eco della strage di Casseri sembra risuonare ancora: la notte del 3 marzo due uomini e una donna aggrediscono quattro ragazzi somali davanti al centro autogestito Kulanka di via Luca Giordano e all’episodio viene subito attribuito il movente del regolamento di conti, pubblicamente smentito dal centro. Tutto ciò a distanza di una settimana da un'altra aggressione, sempre nei confronti di rifugiati politici somali, avvenuta nella notte del 25 febbraio al centro PACI. Seguita direttamente dal Ministero degli Interni (con Giuseppe Quattrocchi), qui la questione si complica e la scusa del regolamento di conti non è pensabile: attori dell’aggressione sono infatti due poliziotti, uno dei quali con precedenti simili e implicato nella vicenda del G8 di Genova, che in seguito alla richiesta di spiegazioni da parte dei ragazzi somali per

cui avrebbero dovuto mostrare i propri documenti alle forze dell’ordine - “non si è trattato di un rifiuto” precisa il Movimento - li hanno violentemente aggrediti, inseguendoli addirittura all’interno dell’edificio. I ragazzi, terrorizzati, all’inizio non hanno raccontato niente. Solo dopo molte domande e sollecitazioni da parte di alcuni attivisti del Movimento si sono convinti a sporgere denuncia (il che fa riflettere su quanti episodi del genere potrebbero svolgersi nel silenzio). Due fatti slegati tra loro, ma senza dubbio riconducibili al problema del razzismo dilagante, che si è così reso manifesto anche all’interno delle istituzioni tanto care al buon cittadino. Il piano istituzionale

Perché le istituzioni intervengono così raramente e solo in funzione repressiva? Mettere al muro il problema è meno complicato e costoso, e a Firenze, anche in questo caso, piace mettersi in gioco come pedina vincente: dall’inizio dell’anno infatti vi sono state ben quattro vittime delle camere di sicurezza della Questura di Firenze. Il Movimento di Lotta per la Casa ne richiede già da tempo l’abolizione, col consenso del garante dei diritti dei detenuti Alessandro Margara, ma ancora si vede solo tanto fumo. Nel mentre, si espandono sul territorio fio-

rentino Casaggì, CasaPound e la Fenice: la parte più visibile del problema, e in quanto tale quella estirpabile. La definizione di Pape Diaw su CasaPound in seguito alla strage di Casseri chiarisce il concetto: “Un luogo dove si insegna l’odio verso l’altro, questi luoghi andrebbero chiusi. Perché una ferita non curata incancrenisce”. Ma permettendone la presenza sul territorio e finanziandoli, le istituzioni fiorentine si rendono complici di questo clima. I bandi per gli alloggi popolari si presentano una volta ogni sei anni, e su fasce di reddito ben più alte di quelle di cui le famiglie in questione dispongono, gli iter per la regolamentazione non vengono avviati neppure a livello burocratico: questa è la linea che segue Claudio Fantoni, assessore fiorentino alla casa. Tutto questo non si nota all’apparenza, basta che il volto della città sia sempre più invogliante allo sguardo dei turisti stranieri. Un doppio flusso di forestieri inonda il capoluogo fiorentino, e delle bellezze della città uno ne gode, l’altro ne muore. I palazzi si vendono all’asta e gli alloggi popolari offerti non sono mai abbastanza. Con la giunta Renzi i percorsi di controllo delle famiglie sotto minaccia di sfratto sono sempre più disciplinari, il centro si svuota ma è sempre più bello, la periferia chiama. Ed è li che si trovano gran parte dei 200mila alloggi sotto sfratto della Toscana, dove la risposta delle istituzioni mantiene linee piuttosto ostili. “Se a Firenze un minimo di dialogo con le istituzioni è stato trovato, nella periferia è totalmente assente” spiega Lorenzo Bargellini. Le dinamiche sembrano portare Firenze a una situazione molto simile a quella romana prima di Veltroni, ora di Alemanno. Che Renzi stia prendendo spunto per una nuova Firenze capitale?

Fonti : >> Razzismo democraico, Salvatore Palidda >> Movimento di Lota per la Casa, lotaperlacasafirenze.noblogs.org

-Bet-


16 Esperienze in comune S o c i et à & C u lt u ra

Né arrivo, né partenza, ma continuità Sta nel normale ordine delle cose, oggi, il considerare lo spazio comune come un luogo di passaggio che non ci appartiene. Sfrecciamo per le strade per spostarci da un posto a un altro in una “simultaneità senza scambio”, camminiamo veloci senza guardarci intorno, sfruttiamo i luoghi a seconda del bisogno momentaneo, senza dare un valore a niente, se non a ciò che in questi luoghi consumiamo. Ci troviamo perciò alla costante ricerca di spazi dove il consumo ci consumi di meno, dove una birra che accompagna quattro chiacchiere non costi più di due euro, con lo sguardo che si sposta da un marciapiede all’altro nell’affannosa ricerca di un minimarket, i cui proprietari nemmeno guardiamo negli occhi. Ci sono poi quei giorni in cui il portafoglio è un po’ più pieno, e possiamo permetterci di consumare di più, perché quella stessa birra quando la paghi cinque euro è sicuramente più buona, e sedersi al tavolino di legno di un pub crea tutta un’altra atmosfera. Abbiamo smesso di domandarci che cos’è che ci appartiene. Abbiamo smesso di dare valore alle persone che abbiamo di fronte, alle loro storie. Non ricerchiamo più spazi di espressione, dando per scontato che l’immensa vastità delle scelte che ci sono proposte, dal grande magazzino al mercato, dal negozietto dell’usato all’outlet, dai blog ai social networks, ci permetta di definire noi stessi nel modo che più è nostro.

Ma se prendiamo in mano la cartina di Firenze - grigia e marroncina, pochi parchi, giardini, piazze vissute - e facciamo attenzione, non è difficile scorgere delle scintille; è facile, però, non farci caso, e classificarle come qualcosa che non ci riguarda direttamente. Si tratta degli spazi sociali, luoghi in cui finalmente lo spazio torna a significare possibilità e opportunità, e il sociale non si concretizza più in corpi associati, ma diventa realtà collettiva. C’è bisogno di rifiutare il consumo dei luoghi, delle persone; c’è bisogno di crearsi spazi vissuti liberamente, senza che essi siano per noi predisposti da chi ne ricava interessi. Uno spazio sociale - sia esso un centro popolare, uno squat, una stanza liberata - contiene in sé il valore di un’esperienza in comune. Nonostante non basti recarsi in un centro sociale per sottrarsi all’ideologia dominante, questo potrebbe essere un punto di partenza per dare un senso diverso al nostro tempo. Anni, mesi, talvolta solo poche settimane fa, alcune persone hanno avuto la volontà di organizzarsi insieme, per restituire alla comunità luoghi di libera espressione. Ed è attraverso il contributo di ciascuno, attraverso le relazioni sociali che in questi

spazi vengono tessute, attraverso la costruzione collettiva che vi si opera, che è possibile smuovere l’indifferenza che permea le nostre vite. Si tratta di farsi spazio, di guadagnare terreno sul campo di battaglia che è stato costruito contro la nostra umanità. Il valore di uno spazio sociale oggi è di fatto incommensurabile: fondamentale viverlo, parteciparlo, liberarlo. È innegabile che i valori proposti dalla società in cui viviamo siano innanzitutto l’individualismo, la concorrenza, la meritocrazia e il consumismo; in questo senso, determinati luoghi rappresentano uno spazio di resistenza da valorizzare e costruire quotidianamente. Le dinamiche di organizzazione e socialità che è possibile vivere all’interno di situazioni di questo tipo sono uno dei pochi barlumi di libertà che ci rimangono. Lo spazio diventa al contempo fine e mezzo per avanzare: nella misura in cui l’occupazione, quindi liberazione, di uno spazio privatizzato a favore dell’interesse collettivo diventa la posta in gioco, e le possibilità che si vengono a creare al suo interno strumento e forza contro il pensiero unico e la passività, verso cui siamo quotidianamente spinti. Siamo abituati a considerarli, spesso, come meri luoghi di aggregazione, in cui i corpi associati diventano niente di più che corpi aggregati, che si muovono al ritmo di qualche canzone reggae, ska, drum’n’bass. Ma la differenza tra uno spazio sociale ed un locale c’è, ed è abissale. E questa differenza si nasconde proprio dietro a qualche tizio sul palco, enormi impianti e un bar, a cui, bevendo birra a un euro e gioendo del permesso di fumare al chiuso, nemmeno facciamo caso. Partecipiamo a serate nei centri sociali senza chiederci come questa possibilità di cui stiamo godendo sia stata costruita. Il valore di un concerto all’interno di uno spazio sociale sta nel fatto che l’organizzazione dietro ad esso è autogestita ed orizzontale: chiunque decida di partecipare ai momenti assembleari ha la piena opportunità di mettere in gioco se stesso e le proprie idee, di collettivizzarle, di proporre e costruire quello che vorrebbe trovare, di farsi protagonista in un teatro dove tutti sono protagonisti. Ci sono degli artisti che, nel


c o rt o c i rc u it o @ d i st r u z i o n e . o r g

regno dell’indifferenza, scelgono di essere gli ultimi romantici: l’arte smette di essere al soldo degli interessi privati per tornare ad essere creata da e per le persone. Non è una scelta facile, ma, dal momento in cui tutto ciò che produciamo viene mercificato, è la scelta più coraggiosa e umana. Uno spazio sociale si trova al di fuori delle logiche del profitto che orchestrano la nostra vita e che subiamo costantemente in maniera passiva, senza farci neanche più caso: quando un abbonamento in palestra costa 50€, palestre gratuite con corsi di tango, di boxe, di arti marziali sono aperte gratuitamente a tutti; quando un concerto in un locale costa 15€ se va bene, i palchi vengono riempiti di valorosi artisti che diffondono cultura e passione spontanea; quando una cena in un ristorante costa 30€, antipasti, primi, secondi, contorni sono messi a disposizione di chi ha voglia di socializzare in tavolate collettive. Quando si paga un’entrata o qualcosa da bere, quando si partecipa a una cena popolare, dovremmo ricordarci che non si tratta solo del famoso consumo che ci consuma di meno, bensì dell’essere in prima persona solidali e attivi a sostegno di spazi di libertà collettiva.Tutto ciò che entra nella cassa di uno spazio sociale viene utilizzato per offrire ancora più possibilità di creazione all’interno dello spazio, per ristrutturazioni, volantinaggi, difesa legale di chi lotta per co-

struirlo. Ed è per questo che passare il sabato sera in uno spazio sociale è già di per sé il primo passo per incentivare e costruire un mondo differente e migliore: né arrivo, né partenza, ma continuità. Non cadiamo nel comune errore di rapportarci a certi luoghi come fossero anch’essi locali: più alternativi, più divertenti, meno costosi, ma pur sempre spazi di consumo di cui ci è permesso approfittare. Perché la scelta di dare il proprio contributo all’interno di un percorso collettivo, che nasce dalle persone, è il modo migliore di spezzare le tendenze individualiste che continuamente siamo stimolati a fare nostre. C’è bisogno di rifiutare il consumo dei luoghi, delle persone; c’è bisogno di crearsi spazi vissuti liberamente, senza che essi siano per noi predisposti da chi ne ricava interessi. Soprattutto a Firenze, con una giunta comunale che, in particolare da qualche anno, specula selvaggiamente su ogni centimetro quadrato della città, allo scopo di trasformarla definitivamente in vetrina e museo per battere cassa, è fondamentale valorizzare ed incentivare la partecipazione attiva a situazioni di autogestione. Firenze si espande ogni giorno colando cemento, creando un tessuto urbanistico disumano e spersonalizzante: basti pensare ad aree come Firenze Nova, zona dormitorio piena di condomini a schiera che spezzano ogni tipo di socialità,

portando le famiglie a rinchiudersi nei pochi metri quadrati a loro disposizione. Stessa cosa vale per il Polo Universitario di Novoli, presentato ai cittadini come “luogo di aggregazione giovanile”, in realtà nient’altro che una serie di mastodontici edifici tutti uguali tra cui gli studenti si muovono correndo da una lezione all’altra, controllati e costretti. Evidente la volontà di rendere Firenze una città dove i mattoncini sono posti l’uno sull’altro a vantaggio del profitto. In questo senso è necessario difendere la scelta di percorsi collettivi, spazi a favore delle comunità che si contrappongono agli interessi privati, che vengono puntualmente attaccati e delegittimati dai politici e dalla stampa ufficiale, fino ad arrivare agli sgomberi (basti pensare a ciò che è successo al Progetto Conciatori questo gennaio). Lo sgombero di uno spazio sociale, in generale quanto nel particolare, è - e non, badiamo bene, rappresenta - un attacco diretto contro libertà, solidarietà e beni comuni. Si toglie agibilità a persone che lottano quotidianamente per costruire la possibilità di esprimersi senza freni e al di fuori dagli schemi, si impedisce che le suddette persone si possano organizzare per uscire dallo spazio sociale e socializzare lo spazio cittadino, renderlo comune e di proprietà di tutti, abolendo così il concetto stesso di proprietà. Miguel Amoròs, storico spagnolo, scrive: “La città deve generare un’aria che renda liberi gli abitanti che la respirano”; in questo senso, ogni spazio sociale chiuso è un po’ di ossigeno in meno dentro di noi, e ogni gesto quotidiano che tutti noi possiamo - e dobbiamo - fare in difesa di certi luoghi è invece un respiro a pieni polmoni.

Fonti : >> La cità totalitaria, Miguel Amoròs; >> pagina facebook Rivolta Ovunque

-Marlene-


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S o c i et à & C u lt u ra

un estratto da “La

persuasione e la rettorica” di Carlo Michelstaedter

“Vede”, mi diceva dopo un pranzo abbondante in conclusione d’un lungo discorso un grosso signore “vede? La vita ha pure i suoi lati belli. Conviene saperla prendere – non pretender rigidamente ciò che già ha fatto il suo tempo, ma adattarsi ragionevolmente – e godere di ciò che il nostro tempo ci offre che nessun tempo ha mai offerto ancora ai propri figli. Fruire di questa maravigliosa comodità della vita, e cogliere fra la varietà aumentata dei piaceri, di questo e di quello con saggia misura; habere – non haberi, come dicono”. “Lei è un artista!”. “Sì, infatti, credo che sono un artista; non che io scriva o dipinga ma – lei m’intende: artista, artista nell’anima; io ho un buon cuore, pieno di sentimenti gentili coi quali mi rendo poetica ogni situazione e mi faccio bella la vita, mi creo i piaceri...”. “Secondo la sua fantasia...” “Ma badiamo! Non da eccentrico! Ma nella via e nel modo come il nostro provvido tempo facili e leciti ce li offre”. “Gaudente, ma uomo di mondo”. “Certo, ma gaudente... intendiamoci. Bisogna concedere un po’ al corpo e un po’ allo spirito. – Oh la poesia e la letteratura sono state sempre la mia passione. Anche la storia! C’è un compiacimento a pensare: «Ecco, tutto questo abbiamo fatto noi» e d’altronde constatare la via che s’è fatta per cui la nostra vita s’è evoluta al presente grado di civiltà. È una bella cosa, la storia. – Chissà, se non fossi stato preso nell’ingranaggio amministrativo... – Mah. – Del resto io credo che nel tempo che corre ogni uomo, che voglia camminare col progresso, debba possedere una varia ed eletta coltura umana. Né debba esser del tutto ignaro delle scienze esatte, per le quali siamo i veri signori del creato e nessun mistero sfugge ormai al nostro occhio”. “Ma lei è multilatere!”. “Oh, un dilettante...“. “Lei trova tempo per tutto!”. “Certo! Ma... bisogna aver la coscienza d’aver fatto il proprio dovere. Oh questo sì, sul dovere non si transige. Altro è compiacersi di letteratura, di scienza, d’arte, di filosofia nelle piacevoli conversazioni – altro è la vita seria. Come si direbbe: altro la teoria, altro la pratica! Io, come vede, mi compiaccio di queste discussioni teoriche, mi diletto degli eleganti problemi etici e mi concedo anche il lusso di scambiare delle proposizioni paradossali. – Ma badiamo bene – ogni cosa a suo tempo e

luogo. Quando indosso l’uniforme vesto anche un’altra persona. Io credo che nell’esercizio delle sue funzioni l’uomo debba esser assolutamente libero. Libero di mente e di spirito. Nell’anticamera del mio ufficio io depongo tutte le mie opinioni personali, i sentimenti, le debolezze umane. Ed entro nel tempio della civiltà a compiere la mia opera col cuore temprato all’oggettività! Allora io sento di portare il mio contributo alla grande opera di civiltà in pro dell’umanità. E in me parlano le sante istituzioni. Dico bene eh?”. “Io ammiro la sua fermezza. – E – lei non pensa ai suoi interessi?”. “Lo stipendio... corre ed è sicuro. E poi, lei sa, gli incerti...”. “Già, già – ma... e poi quando – Dio lo tenga lontano – questa sua mirabile fibra sarà affievolita?”. “C’è la pensione: – lo Stato non abbandona i suoi fedeli, – che?”. “Ma – scusi se Le suscito brutte imagini – ma siamo uomini deboli – nel caso di una malattia – sa, ce ne sono tante ora in giro...”. “Niente, niente – appartengo a una cassa per ammalati, come tutti i miei colleghi. Il nostro ospedale ha tutti i comodi moderni e si vien curati secondo le più moderne conquiste della medicina. – Vede?”. “Ah, – vedo! ma – non saprei, i casi son tanti – capisco che siamo difesi dalle leggi – pure – i furti sono all’ordine del giorno”. “Sono assicurato contro il furto”. “Ah! Ma... e... metta il caso d’un incendio”. “Assicurato contro il fuoco”. “Perbacco! Ma – un cavallo – scusi, volevo dire: «un’automobile» che c’investe; un tegolo...”. “Assicurato contro gli accidenti”. “Ma infine morire – moriamo tutti”. “Fa niente, sono assicurato pel caso di morte”. “Come vede”, aggiunse poi trionfante, sorridendo del mio marrimento, “sono in una botte di ferro, come si suol dire”. Io rimasi senza parole, ma nello smarrimento mi lampeggiò l’idea che il vino prima d’entrar nella botte passò sotto torchio.

al riparo delle forze della natura ma in mezzo alla cupidigia degli altri uomini – sarei in breve privato di tutto e perirei miseramente. La società mi prende, m'insegna a muover le mani secondo regole stabilite e per questo povero lavoro della mia povera macchina mi adula dicendo che sono una persona, che ho diritti acquisiti pel solo fatto che sono nato, mi dà tutto ciò che m’è necessario e non solo il puro sostentamento ma tutti i raffinati prodotti del lavoro altrui; mi dà la sicurezza di fronte a tutti gli altri. Gli uomini hanno trovato nella società un padrone migliore dei singoli padroni, perché non chiede loro una varietà di lavori, una potenza bastante alla sicurezza di fronte alla natura – ma solo quel piccolo e facile lavoro famigliare ed oscuro – purché lo si faccia così come a lei è utile, purché non si urti in nessun modo cogli interessi del padrone. La sicurezza è facile ma è tanto più dura: la società ha modi ben determinati, essa lega, limita, minaccia: la sua forza diffusa è concreta in quel capolavoro di persuasione che è il codice penale. La cura di questa sicurezza asservisce l’uomo in ogni atto. Dal momento che l’uomo vuol poter dire «questo è legalmente mio”, egli s’è reso schiavo attraverso il proprio futuro del futuro di tutti gli altri: egli è materia (la proprietà mobile). Ma in cambio, la società fa quello che nessun padrone farebbe; essa rende partecipi i suoi schiavi della sua autorità – in ciò che il loro lavoro essa trasforma in danaro, e al danaro dà forza di legge. [...] Così dunque nella società organizzata ognuno violenta l’altro attraverso l’onnipotenza dell’organizzazione, ognuno è materia e forma, chiavo e padrone ad un tempo per ciò che la comune convenienza a tutti comuni diritti conceda ed imponga comuni doveri. L’organizzazione è onnipotente ed è incorruttibile poiché consiste per la deficienza del singolo e per la sua paura. E non c’è maggior potenza di quella che si fa una forza della propria debolezza. “La persuasione e la rettorica”, Carlo Michelstastaedter, Firenze 1910

Carlo Michelstaedter (Gorizia, 3 giugno 1887 – Gorizia, 17 ottobre 1910) è stato uno scrittore, filosofo e letterato italiano. Muore suicida a 23 anni, forse perché aveva capito che, se fossero nati oggi, sog* * * getti come Cristo, Socrate o il Buddha saIo sono debole di corpo e d’anima – messo rebbero stati rinchiusi in un ospedale in mezzo alla natura sarei presto vittima psichiatrico. “La persuasione e la rettodella fame, delle intemperie, delle fiere – rica” doveva essere la sua tesi di laurea. messo in possesso di ciò che mi è necessario,

-Living Tao-


c o rt o c i rc u it o @ d i st r u z i o n e . o r g un estratto da “Memorie di un Rivoluzionario” di Victor Serge

“L’intelligencija russa mi aveva di buon’ora insegnato che il senso stesso della vita consiste nella partecipazione cosciente del compimento della storia. Più ci penso e più questo mi pare profondamente vero. Questo vuol dire pronunciarsi attivamente contro tutto ciò che sminuisce gli uomini e partecipare a tutte le lotte che tendono a liberarli e farli più grandi. Che questa partecipazione sia inevitabilmente intaccata da errori non ne diminuisce l’imperativo categorico; peggiore è l’errore di vivere solo per sé, secondo tradizioni tutte intaccate di inumanità. Questa convinzione ha creato per me, come per un certo numero di altri, un destino abbastanza eccezionale; ma eravamo, siamo, nella linea dello sviluppo teorico; lo si vede ora che, per un’epoca intera, milioni di destini seguiranno le strade su cui abbiamo camminato per primi. In Europa, in Asia, in America, generazioni intere si sradicano, si impegnano a fondo in lotte collettive, fanno l’apprendistato della violenza e del gran rischio, l’esperienza delle prigionie, constatando che l’egoismo del ‘ciascuno per sé’ è ben sorpassato, che l’arricchimento personale non è il fine della vita, che i conservatorismi di ieri non conducono altro che a catastrofi, sentono il bisogno di una nuova presa di coscienza per la riorganizzazione del mondo. (…) Uno dei più gravi problemi che a ciascuno di noi tocca risolvere praticamente è certo quello dell’accordo da realizzare tra l’intransigenza che risulta da convinzioni ferme, la conservazione dello spirito critico nei riguardi di quelle stesse convinzioni e il rispetto della convinzione diversa.”

Victor Serge (1890-1947) nasce a Bruxelles da esuli russi, trascorrendo un’infanzia ed un’adolescenza vagabonde in ambienti fortemente poveri. Suo fratello morirà infatti a nove anni per tubercolosi e fame, segnando indelebilmente la sua vita: da quel momento sentirà grande avversione verso ogni tipo di ingiustizia e di oppressione, il disprezzo per l'ipocrisia mascherata dei benpensanti borghesi, la profonda umana attrazione verso gli oppressi di tutto il mondo. Anarchico, amico d'infanzia di Raymond Callemin, un anarchico ‘illegalista’ della Francia di inizio ‘900, sarà condannato a cinque anni proprio per i suoi legami personali con la Banda Bonnot, di cui tuttavia condannerà le scelte suicide e disperate (la storia della Banda Bonnot è ispiratrice del libro “In ogni caso nessun rimorso” di Pino Cacucci, dove appare infatti lo stesso Serge). Uscito dal carcere, fu militante pacifista nella prima guerra mondiale, ma più che altro fece parte dell’insurrezione anarcosindacalista di Barcellona. Nuovamente incarcerato per le sue idee filo-sovietiche nel febbraio del 1919, riuscirà a giungere a Pietrogrado mentre divampava la guerra civile fra i controrivoluzionari Bianchi e i rivoluzionari comunisti e sovietici Rossi. Così afferma nella postfazione del libro Goffredo Fofi: “cosciente della fragilità della rivolta anarchica e delle compromissioni della politica socialista, e dunque del bisogno di organizzazioni più motivate e più salde, egli scelse subito in Russia una posizione tra le più delicate e difficili, se non fosse stata sorretta da una individuale chiarezza di giudizio e di intenti, quella del doppio dovere”. Così afferma Serge: “Il socialismo non si deve solo difendere contro i suoi nemici, contro il vecchio mondo a cui si oppone: deve essere anche difeso nel suo proprio seno, contro i suoi fermenti di reazione”. Nell’immediato della Rivoluzione Russa affermò: “Noi volevamo una rivoluzione libertaria, democratica - meno l’ipocrisia e la debolezza delle democrazie borghesi - egualitaria, tollerante per le idee e gli uomini, che usasse il Terrore ove fosse necessario, ma che abolisse la pena di morte. Da un punto di vista teorico, impostavamo malissimo questi problemi, il bolscevico li impostava certamente meglio di noi; dal punto di vista umano, eravamo nella verità infinitamente più di lui”. “Non sarei stato né contro i bolscevichi né neutrale, sarei stato con loro, ma liberamente senza abdicare al pensiero né al senso critico”. Pagò a caro prezzo tale scelta, poiché, nonostante ammirasse la determinazione e la lucidità dei bolscevichi, criticò l’autoritarismo e il rifiuto del libero pensiero, e fu deportato da Stalin. Infine esiliato in Messico, morirà il 17 novembre 1947. Secondo alcune versioni, Serge sarebbe stato assassinato da Vittorio Vidali, uno dei fondatori del PCI, fedelissimo a Stalin.

-Jules-


mo e d “ i n o i z u st ei l l e ad s r amo l l e e an r t as n du oa st i s s moa a i b b oa z z oeme n n lmoa u ’ l l Ne o s i i s a c i a ad r t i ns No . o s s e c o r op t s e u q i i mad av t a t eès t n e ag t l emo l a u aq l r e p , ” e h ac r c

e c s i g ea i d e i p o oi os n e r r e t l ei r oa c os d n e t n e os n g u p l ei g n i r t es l a t a t os n a g r o ’ a l f n i a, l a l l aa l i u q A ’ aL d , mo r e l a oaP n a l DaMi . e n o i s s e r p e ar nl o c : e l i b i s s o op s s re e op d omo c i n u ’ l l e n , a r u a eep r mo e or n eme r mp e ns o c , e z r o ef u es el i n a g r o i o u s u i nt o c , a i z i l o ap l , a s u S i d l a V e r a c n o r t s , o r a i h oèc e v i b o ’ l , e n o i z a g e r g g a i àd t i l i b i s s o p r e s s ee v e d i nc No . e c s i p l o eec c s i g a à t i l a u t n e v e ’ L . e n o i z i s o p p o i ad l nl i c s i s a i s l a u eq r e c s a n l u es r i n e v e r ep l i b i s s o op t n a u rq e ep e r mp e os d n a u a u oq r p o s , a r u a ap f i l o v e p a s n o ec n o s r e p i ed t e ar n eu r ma r o af s s o p i es h c o n o es l a n o i z a on l l e v i l al o v s i r I . e n o i z a u t i as l l e ea od r e d n e r e eap r t s o oc n o es n o s r e ùp i p o t i c r e s e ’ el r a t u fi i r i ed g n fi i es t r a ap n au ed v o ed z n e r i aF r t s o an l l a ed r a i c n mi o ac n, e s e r p i n n o o i g a s i mod e r t s e i d i n o i z a u t i es ol n a r o n g i i as r t l a ’ l l a d , ià ec r t l a oa of n n a meh o ec d a r t es l l e n a n au e r c i as r iu r i d d ea , a av t i b aa z n e g r me ne ei n o s r e ap r mo e ar n u c l aa z n e as r e mb o g s i es i id d o s i p .E o r e mb o g a oes r f is id n o i z a u t i es el sr e rg e ip n a b r iu l i g i iv ed c r o kf s a at v o u n i p l o ma ec r e f i n g a mp o c , i ic l o ap i g u f i or n a i c c a n oemi n a t s e ep h oc i z i v r e s i r o u o f i z i l o p ” e s o i r e t s mi lme“ eu l l u s i nn a l o v i e od t i u b i r t s i d r e v a r e ap r mo i d i d i h g i l b b aeo i v i d i l g o nf o c

e g e ad l l e d i mp e s e i r a ev t n nme oi n o g n e ev l a n o i z a on l l e v i Al . a r u t s e u aq l l e ed l l e ec l l e rn mo r 6a n2 o ac t i d n o Vc A oNOT t n me i v mo l oi r t n o ec n o i z a r e p o i x ama l l a d : a v i s s e r p e er n o i z a r e n o t n me i v nmo eu r a d e aas s e t a, r e c r a c i e nd o r f n o c i e nn me i n a c c eea c n u n e ed s r e v i d s, e r e h c i r a ec l l a , i s r a g e i p i ed n o i z n e t n ai n u s s e n r e v aa r mb e ns o on t a t oS l i u eac n o i z i s o p p eo t r o f i d i eed r a t n e v a p rs e p , e r o t i r e n e c n di ae c i r a c s i od r t n o ec n o i z a t s e f i n ama el t n a r u od n a b l dA a

e r i r amo t a i c s a iàl ac n u , a l i u q A ’ eL d i l a d n a c s i l g a ; i n i d ia c i e ad z z e l o v e p a s n o ac el r e g g u r t s i d i av t n e t mi i r p si i ov n o s i es v o d , a i d me i e ad z n e r ffe i d n i ’ l l oa z z nme ni a t i b a i o u s i mea e i s u n i od t s e r r a ’ l l A . e r a t i l ami r u t ia ad t r e p na ai z n e g r me e i ed n o i z a u t i as n u i ed n o i z ma r o f s a r t a n i d r o o C l e od r mb nme nu o mac o meaR o c , i n o i z a z z i n a g r do a e t mi o c i d i r mb me i s o r me z i l a t n me u r t as l l oa n a ;fi z z i n a g r a o p u c c o s i d ni o c i l o p aeaNa s a aC rl e o ap L i od t n me i ed n o i z u r t s i ad l l o oa d i or t a t u oès t l ei v o d , e r b 5o o 1 l e ed n o i z a t s e f i n ama l l e ed n o i z a z e t n o r if ”d k c o l cb e l b l“ aa i c c a ac el r i ma g e rl e ,p a n i n n o d ama n iu aed n i h c c ema h c l a u q àe t e i r a d i l o as r t s o an el r i d a b i er t n a t r o mp ai r mb e s i c , o t s e u u oq nt I . a c i l b b u ep n o i n i p o ’ l l a s e r p e ar el t n a t s o n o on n oa oel n a z z i n a g r o i s , a t s e at ol n a z l a i l a u q oi r o l o u c aat z n a n i c i v a l l e od n n a g n i ’ l l da mae e t s i os t s e u aaq n n a d n o mac r e af r t s o an ,l i d n i u q , mo a i d a b i R . e n o i s . ” a i z a r c mo e d “ e n o i z a d e aR L

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