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7 J. Huizinga, L’autunno del Medioevo (1924), tr. it., Firenze, 1966, pag
si pensi alla politica per Machiavelli e per Schmitt, o all‟estetica per Kant e per Croce. Ma tutti questi distinti momenti di coscienza critica, che caratterizzano nel loro insieme la tendenza di pensiero “moderna”, trovano in Niccolò Cusano il punto focale a quo dal quale si dirama lo spettro dell‟intero epocale orizzonte di sapere, che troverà il suo punto corrispettivo di unità di fuoco in Hegel, che rappresenta l‟approdo ad quem della conclusiva traiettoria del moderno, che segna anche la parabola dello stesso pensiero filosofico come “cultura di sapere”. Dopo Hegel, il sapere che non sia scientifico e voglia continuare ad essere “filosofico”, è un sapere di ritorno, un pensiero “nostico” (da nostos, ritorno) che torna a ripensare i classici così come la ratio medievale ripensava l‟antica fides, rielaborando così in termini nuovi e a volte originali il Mito pagano dell‟Essere come Idea. In altri termini, Cusano e Hegel rappresentano i due estremi dell‟epoca moderna e del suo tentativo di ricostituire l‟orizzonte di senso teologico costruito e puntellato nei secoli dal pensiero cristiano, in termini filosofici, ribaltandone la gerarchia dei livelli di coscienza e facendo pertanto della ragione il fondamento della fede. Ma ciò che era riuscito per tempo ad Agostino e a Tommaso, non riuscì, in termini inversi, agli ultimi grandi filosofi cristiani dell‟età moderna, Cusano, appunto, e Hegel. Il punto di partenza della dottrina della docta ignorantia è “l‟insufficienza d‟ogni processo conoscitivo”,30 cioè una posizione negativa che presuppone la sapienza per escluderla, per cui l‟asserzione dei limiti della conoscenza va a coincidere con la negazione della possibilità di stabilire un ordine gerarchico anche sapienziale, tale che, non riuscendo all‟uomo di conoscere – e di essere – Dio, la sua posizione nel mondo deve prescindere dalla divina presenza e il posto riservato all‟uomo nel mondo va definito non tenendo conto di Dio, rispetto al quale ogni verità ed essenze relative sono comunque simili e ugualmente irrilevanti. Questa teologia negativa porta con sé un fondamento nichilistico anche in ambito teoretico, dove la impossibile “verità” ripiega nella “certezza” delle cose sensibili e della loro possibile commisurazione empiricomatematica.
30 Ivi, pag. 111.
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Di fronte a Dio ogni essere è eguale e ugualmente finito, ma nessun essere, per quanto simile, è uguale, cioè è sempre mancante di qualcosa che lo condanna a un‟eterna singolarità. Questo “fattore anarchico d‟individuazione assoluta” è “un residuo ineliminabile, che si oppone alla conoscenza in quanto differenza che non si lascia uguagliare a niente”, e che Cusano indica con l‟espressione socratica di “ignorantia”, intesa come insufficienza nella conoscenza del finito, che vale soprattutto per la conoscenza dell‟infinito, tanto che lo stesso concetto di verità include un elemento irrazionale ineliminabile, un numero, che è incalcolabile quanto la possibilità di definire “la circonferenza di un cerchio con grandezze finite”. Di conseguenza,
questa proprietà costitutiva dell‟essenza del finito riduce tutte le affermazioni umane a semplici presunzioni ed approssimazioni, che nei confronti della verità stanno nello stesso rapporto in cui il più grande dei numeri sta nei confronti di un numero infinito. Il concetto di congettura non va inteso nel senso moderno di finzione [e] non ha il compito di fondare una filosofia del come-se, ma intende fondare una critica della ragione, senza sollevare il dubbio sul carattere generale e necessario di questa conoscenza.31
Ciò significa che è la stessa assolutezza della verità che, costituita come concetto-limite della conoscenza, conduce alla relatività delle cognizioni umane, condizionate dalla finitezza insuperabile della condizione ontologica dell‟uomo. Sicché, per un razionalismo che non intenda sollevare alcun dubbio sulla veridicità della fede, ma soltanto esprimere la consapevolezza della indimostrabilità dei suoi asserti dogmatici, non resta altro che misurare la sua credibilità sul piano delle relazioni finite, l‟unico in cui la ragione umana può ambire a una autonoma costituzione gnoseologica. La stessa sussistenza della fede, la sua possibilità d‟essere e di costituirsi come orizzonte di senso morale ed esistenziale, riserva alla ragione un livello di coscienza che, per non essere interferente, deve poter riguardare l‟ altro rispetto alla infinitezza di Dio, e cioè la dimensione finita, la cui natura diversa giustifica un approccio extra-teologico e iuxta propria principia, ossia razionale. La ragione, in questa prospettiva della finitezza ontologica, diventa l‟orizzonte di senso valido nell‟ambito della sua
31 Ivi, pag. 113.
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determinazione gnoseologica, la quale non è direttamente fondata sulla fede, ma neppure, non escludendola, contro la fede, e quindi vi si riferisce indirettamente, attraverso l‟accettazione del carattere finito della conoscenza umana, e quindi della condizione meramente ipotetica della ragione. Nell‟affermazione, apparentemente paradossale, dei limiti della ragione, il razionalismo progetta un cosmo autonomo regolato da un principio di validità che, al suo interno, e sia pure soltanto all‟ interno del suo orizzonte, si costituisce come “regola”, anziché come “verità”, ma che ha la stessa sua funzione discriminante che la dialettica platonica svolge nel campo ideale. Solo che, in questo caso, il diverso piano di realtà entro il quale tale regola agisce in senso discriminante, non volendo interferire con quello delle verità di fede, si ritaglia un orizzonte autonomo e non conflittuale con quello fideistico, entro il quale, però, la ragione è sovrana. Ecco che si delinea per la “regola” di ragione la possibilità di invalidare ogni altra costituzione di senso includendo nel suo “gioco” metodico l‟intera realtà umana e l‟intero processo esistenziale dell‟uomo. Stabilito così il suo orizzonte di validità relativa e ininterferente col piano di realtà assoluta, diventa inutile all‟interno della dimensione finita “sollevare il dubbio sul carattere generale e necessario” della capacità di “conoscenza” della realtà da parte della ragione. La conoscenza razionale stessa diventa un esercizio ludico sublimato in senso della serietà dalla sua antropologica utilità, la cui validità metodica empiricamente accertabile previene possibili commistioni col piano della verità di fede.
Questa teoria, considerata all‟interno della situazione del tardo medioevo […], è uno sconvolgimento notevole delle certezze filosofiche. La diversità di ogni contenuto del pensiero in rapporto all‟originale, la deformazione del vero ad opera di organi conoscitivi insufficienti, mai, prima, era stata portata in maniera così inquietante alla coscienza come nel libro sul carattere ausiliario del sapere. Sulla linea di questi pensieri l‟Assoluto, Dio nel suo essere in sé, diviene un ignotum inespugnabile, che impone la rinuncia alla verità.32
Non bisogna perdere di vista la prospettiva unitariamente religiosa della teoria della conoscenza medievale, per cui la ragione era
32 Ivi, pag. 113.
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considerata ancilla theologiae. Elitticamente, il discredito che si getta sullo strumento conoscitivo, inficia anche il suo fine metafisico, ossia la conoscenza di Dio, così che, se la fede nella sua esistenza non può essere intaccata dalla ragione, neppure può essere avvalorata dalla sua razionale conoscenza. A questo punto, fatta salva la verità intuitiva di Dio, la ragione dev‟essere destinata ad altri fini, più alla portata dell‟uomo. Emancipata dalla fede, la ragione resta orfana di Dio e serva dei fini dell‟uomo, strumento del suo potere. Il ratto neoprometeico del fuoco viene commesso questa volta in nome dell‟inutilità teoretica del suo servizio teologico. Le stesse rappresentazioni filosofiche di Dio che avanzano una pretesa di verità, non solo altro per Cusano che “proiezioni dello spirito conoscente”, inficiate dall‟insuperabile carattere individualistico della conoscenza, tale che “ogni singolo [uomo] ha un‟immagine particolare dell‟eterno”. La natura relativa di questa conoscenza è consustanziale alla condizione umana finita, per cui “non c‟è nulla che possa valere per tutti, che tutti siano in grado di vedere”, così come niente può impedire a ognuno di avere una sua immagine del mondo. La conseguenza è che “questo relativismo illimitato, minaccia di fare dell‟immagine religiosa del mondo una semplice „prospettiva‟, e della verità un mito che ciascuno si costruisce” secondo la propria “possibilità di visione”. La stessa conoscenza di Dio diventa così una “opinione” che sottostà inevitabilmente a una “falsificazione soggettiva”.33 Il nulla che s‟intravvede sullo sfondo di questa teoria gnoseologica si accompagna alla stessa incerta presenza della verità, legata non più al sostegno esplicativo della ragione, ma al sentimento ineffabile della fede, che era stata la premessa della stessa validità della ragione e che ora invece, nel divorzio dalla ragione, appare come assegnata all‟alea della sola credibilità soggettiva. Cusano cerca di difendere la verità di fede dalle indebite incursioni della ragione umana, preservando i dogmi dalla soggettività del sapere mondano e facendo della fede un piano di realtà umanamente non disponibile. Ma proprio la rottura dell‟equilibrio fede-ragione segna il destino spirituale dell‟età moderna, la quale, dalla prospettiva organica del cosmo cristiano, appare un‟epoca di progressiva decadenza,
33 Ivi, pag. 114.
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mascherata dall‟esaltazione storicistica della relatività dei valori del tempo, ossia dalla loro sistematica neutralizzazione, coincidente con la metodica affermazione della logica scientifica che caratterizza il disincantamento razionalistico del mondo moderno. La progressiva universalizzazione del livello di coscienza razionalistico, ai fini dell‟affermazione globale della sua Weltanschauung, viene creduta essere la tendenza più significativa del processo storico moderno, alla quale ogni altra deve essere ragionevolmente subordinata per poter condividere il suo orizzonte di senso e così partecipare della sua idealità. Ma prefigurando la possibilità ideale di una storica società globale, il razionalismo ripropone il motivo classico della pòlis razionale, sia pure di dimensione universale, nel tentativo, anch‟esso platonico, di esautorare la funzione meramente contemplativa degli archetipi metafisici in favore di una loro conversione di senso a un orizzonte pragmatico dominato dalla logica della pòlis, cioè dalla “politica”. Nella prospettiva storica razionalistica, il processo spirituale dell‟età moderna si sviluppa nei termini di una rielaborazione del Mito idealistico platonico, il cui carattere mito-logico è assegnato ala luce del concetto di verità cristiano, incentrato sul sentimento del Mistero, e non sull‟intuizione dell‟Essere. Screditare la ragione del mondo, significava per un sapiente cristiano screditare le ragioni politiche del mondo. Ma a tal fine il servigio reso dalla filosofia classica si è col tempo rivelato “ambiguo”, sospesa tra la antica funzione di critica del Mito e la nuova funzione ermeneutica ad esegesi delle Sacre Scritture. Contro l‟insorgenza dell‟antica vocazione, la teologia del Mistero ha sempre opposto l‟inconoscibilità di Dio, e quindi la vanità della ragione umana, per cui ogni affermazione della verità di Dio doveva partire dalla negazione per giungere all‟Essere come creazione spirituale, anziché, idealisticamente, dall‟Essere per giungere alla sua negazione come trasformazione razionale. Ma proprio la conferma dell‟ontologia idealistica nell‟orizzonte di senso cristiano attraverso la sintesi patristica, ha generato la emancipazione della ragione dalla teologia come affermazione dell‟Essere sul Negativo, in termini di critica razionalistica del Mito della verità di Dio.
2. Anche Cusano imposta la sua relazione uomo-Dio sull‟analogia con la teoria platonica delle idee. L‟ exemplar sive idea è un modello, il fondamento razionale, della realtà, per cui Dio è in rapporto con la
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Natura in senso ideale, e non organico né meccanico, ma come Creatore e creatura. “Sono lo stesso essere sotto la forma della possibilità e sotto quella della realtà: Dio non va perduto del tutto, né scompare, né se ne distingue o vi si oppone in maniera dualistica”.34 A questo punto interviene Cusano per dare alla teoria platonica una svolta dualistica, superando il monismo originario; infatti egli “intende trovare Dio mediante sottrazione dell‟ente finito”, in modo che “l‟infinito” possa ricavarsi attraverso una sottrazione di “tutte le particelle che partecipano dell‟infinito”, lasciandolo nella sua “incontaminata purezza”: “Hoc nunc clare videmus quomodo deum per remotioem partecipationis entium invenimus” (De docta ignorantia, I, cap. 17).
Come l‟artista toglie dal blocco di legno tutto ciò che non rientra nella figura di sovrano che intende scolpire, così si deve rigettare ogni limite e determinazione concreta e la ragione stessa, per riconoscere semplicemente che Dio comincia dietro ogni cosa e sopra ogni cosa. Ma questo sopra-tutto è al tempo stesso un niente di tutto, una riduzione a zero.35
La teologia negativa elimina ogni pensiero e ogni possibilità di conoscenza, terrena o ultra-terrena, producendo il “vacuum” della fine di ogni vita. Infatti,
è vivo solo ciò che sta nella decisione in cui un sì e un no si affrontano. Ma queste alternative in Dio appunto sono tolte, e per questo è errato ed incompleto attribuirgli il predicato dell‟immortalità senza aggiungere quello di luce, di grazia, etc. Questi concetti sono condizionati dal loro contrario e per questo non esaustivi. Solo la coincidenza degli opposti è l‟ambito della verità.36
Rispetto al “concetto concreto” hegeliano, che è l‟unità degli opposti, in Cusano “la strada che parte dalla contraddizione non è la visione sintetica, ma la negazione. La speculazione è in grado di dire solo
34 Ivi, pag. 115. 35 Ibidem. 36 Ivi, pag. 116.
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quello che Dio non è”.37 Ma il processo gnoseologico negativo “non lascia in piedi alcuna formulazione, per quanto negativa essa sia”, per cui la stessa realtà di Dio è definibile per negazione sia del suo essere che del suo non-essere, e la stessa “affermazione dell‟impossibilità di dare un nome a Dio è altrettanto flsa di quella contraria e della sintesi dei due modi di vedere”, restando infine “solo il caos del vuoto” prodotto dalla “excellentia infinitatis”.38 “La ragione”, afferma Cusano a commento di Alberto Magno lettore della Theologia mystica di Dionigi, “sfugge questa notte [che è “l‟oscurità” provata dalla “ammissione dei contrari”] e non si arrischia ad entrarvi, non pervenendo così “alla visione dell‟invisibile”, cui si perviene attraverso un “processo di svuotamento che, partendo dal concetto di infinità, attraverso la coincidenza e la negazione, sale fino al semplicemente „incomprensibile‟ ”; il quale “non è più una proprietà dell‟oggetto (scomparso), bensì uno stato del conoscere, il nirvana del sapere. Con un‟aggravante: “il sovra-razionalismo occidentale non è un‟ebbrezza o un accecamento, ma l‟esperienza dell‟estremo annullamento dell‟intelletto”.39 Al posto di Dio, si pone il vuoto della sfiducia nella conoscenza, e l‟opera di Cusano non fa che procedere alla progressiva erosione di ogni certezza, tanto che, in seguito, da quelle premesse, si procedette alla inconoscibilità dell‟essenza (“quidditas”) delle cose e del modo in generale. Le molteplici ipotesi conoscitive sono portate a differenziarsi vieppiù a causa del carattere singolare del finito, che appunto moltiplica i punti di vista fino a rendere “impossibile la comprensione reciproca delle singolarità”, aprendo la strada a un “relativismo assoluto, che riconosce la differenza di infinite opinioni”, laddove “una conoscenza adeguata non si adatterebbe alle condizioni della comunicazione”.40 A seguito della sua “capacità sincretistica di nascondere le contraddizioni, che costituisce il suo forte legame col medioevo”, induce lo Stadelmann a escludere, contrariamente al parere di Cassirer, che si possa “parlare, a suo riguardo, di una disposizione d‟animo
37 Ibidem. 38 Ivi, pag. 117. 39 Ivi, pag. 117. 40 Ivi, pag. 119.
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moderna”, aggiungendo che lo stesso “bisogno di astrazione” avvertito da Cusano “trova soddisfazione”, ossia la possibilità di una mediazione logica con i fondamenti della fede, “all‟internodi un universo di immagini religiose di carattere estetico e ingenuo: i simboli”, i quali sono sia “raffigurazioni del divino destinate a promuovere la conoscenza”, e sia “paradigmi funzionali secondo cui rappresentare matematicamente […] i rapporti dell‟infinito”.41 Che è poi la via attraverso la quale Cusano riabilita la logica aristotelica, e quindi la “possibilità di accedere al principio originario” per via mistica positiva. La conoscenza di Dio può essere raggiunta dunque per via intuitiva, come visione appunto intuitiva, la quale, “come terzo grado di conoscenza alla maniera platonica, succede al conoscere sensibile e al pensiero razionale”.42 Si parla così di “estasi” e di “ascolto interno”, di “pienezza e di beatitudine”, quali metodi di tipo profetico estranei a una mistica del nulla e “concava”,43 la cui visione però non garantisce alcuna speculazione pura. Ciò nonostante
Nel suo fondo, quella di Cusano non è una natura mistica. Quello che egli ha posto è solo il grandioso inizio di un tentativo di dare un segno positivo alla negazione mediante la visio, di sottrarsi al criticismo per mezzo dei concetti mistici e di trovare un elemento di connessione tra ignoranza e conoscenza devota di Dio. E‟ questo il punto in cui la mistica si innesta sulle due tendenze fondamentali del pensiero di Cusano.44
Il suo concetto di “incomprehensibiliter” oscilla contraddittoriamente tra un senso agnostico e uno irrazionale, per cui l‟essere venga sia conosciuto che riconosciuto come inconoscibile. Vi è in Cusano un‟alternarsi di mistica e di scepsi, e il tratto del suo spirito tedesco all‟armonia sintetica anziché agli “urti radicali”. Da qui la sua attrazione verso la mistica, che “consente i nessi più flessibili”.45
41 Ivi, pag. 127. 42 Ibidem. 43 Nella storia dell‟arte, si parla di “plastica concava dove gli spazi vuoti hanno un valore espressivo pari o maggiore di quello delle masse corporee”. La filosofia di Cusano, per analogia, è stata definita come una “mistica concava”: Ivi, pag. 135. 44 Ivi, pagg. 128-129. 45 Ivi, pag. 131.
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Infatti, alla “scepsi mistica” si deve quel “mutamento del senso della vita” che ha provocato una rinnovata attenzione per l figura, anzi per il mito, di Socrate.46 Già Agostino aveva attribuito grande importanza religiosa alla “ignorantia” come premessa della filosofia morale socratica. Infatti la “vita beata” diventava l‟unico tema filosofico esperibile con certezza della sua riflessione. Ma Agostino “ritiene più corretta un‟altra interpretazione”, secondo la quale
Socrate non ha rinunciato per principio alla conoscenza del mondo esterno, ma ha soltanto voluto costruire una base più pura, liberando l‟animo dalle passioni che ostacolano la conoscenza di Dio e della natura. Per il grande Padre della chiesa, l‟essenza della filosofia socratica è un processo di purificazione, etico e mistico, che ha lo scopo di rendere l‟animo capace di “innalzarsi all‟eterno mediante le sue forze naturali”, di estendersi verso il divino e, con ciò, di “cogliere nella purezza della conoscenza” le cause di tutti i fatti naturali.
La rappresentazione agostiniana di Socrate risente della lettura cristiana della cultura pagana come un sapere di attesa dell‟evento illuminante e liberatorio della Rivelazione, per cui anche il filosofo ateniese viene “isolato dal suo contesto storico-religioso e purificato da ogni negatività, dall‟agnosticismo come dalla rassegnazione”, allo scopo di presentarlo come “un precursore del cristianesimo” che, aspirando alla vera sapienza “assetata di salvezza, […] incarna l‟insufficienza della saggezza pagana”, per cui la “confessione di ignoranza” di Socrate tradisce solo “il desiderio di un sapere più alto”, di cui “il suo dolore è un presentimento”.47 Per Cusano, invece, Socrate è una “figura indipendente, in posizione critica verso il passato, il solo che si liberi dalle forme del sapere positivo della tradizione e che abbia il coraggio di un sapere che proviene interamente da lui stesso”.48 La sua opposizione alla sofistica contesta il potere dell‟ortodossia, che credono di essere “filosofi” solo perché parlano la stessa lingua del potere. La novità della sua speculazione ridiede nella confessione di “ignoranza”, la quale stabilisce in negativo, sul piano del non-sapere, una condizione
46 Ivi, pag. 132. 47 [Ivi, pag. 133. 48 Ibidemi.
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paritetica tra gli interlocutori, che annulla le differenze sociali e politiche. Ma proprio questa posizione di insubordinazione al sapere convenzionale fa del suo atteggiamento uno scetticismo radicale che, caricato di un pathos nuovo, si pone al di sopra dell‟uomo comune abbisognevole di un‟ingenua sicurezza. Il non-sapere, come atteggiamento socializzato, diventa “l‟ultima parola nell‟interpretazione del mondo e nel rapporto col sovrasensibile”,49 cioè l‟espressione di una estrema saggezza che, sicura della sua predisposizione alla conoscenza della verità oggettiva, comune, e non alla semplice perorazione personale della causa soggettivamente utile, si offre alla verifica dialettica pubblicamente, fuori di un qualunque orizzonte di senso prestabilito, ossia dei pregiudizi comuni. L‟esposizione politica del processo del sapere lo rende verificabile, facendo della filosofia una scienza essoterica, accessibile a ogni uomo di buona volontà, disposto alla fatica del comprendere. La conversazione filosofica, consentendo alle singole coscienza di convergere in un comune risultato di ragione, svolge anch‟essa una funzione “mistica” in senso sociologico, poiché “trasforma in fede un non sapere”. Il momento politico di questa attività teoretica risiede nella sua indissolubilità con il piano esistenziale della vita, che si fonde misticamente con il piano intellettuale, poiché “la mistica vive di ciò che riceve dall‟intelletto”.50 La ripresa dell‟atteggiamento socratico come prototipo della docta ignorantia ha avuto lungo il sec. XV una funzione polemica antiscolastica, allorquando si registra una trasposizione “dello statico nel dinamico, del tattile nel visivo, del sostanziale nel funzionale” che anticipa “un‟inquietudine romantica del sentimento vitale” e che coinvolge anche la speculazione di Cusano nel senso di “un simile spostamento dall‟oggettivo e statico al soggettivo e in movimento, dall‟originale all‟immagine”, dovuto alla sua introduzione di “quello che, fino ad ora, era stato il concetto fondamentale della metafisica nella teoria della conoscenza, facendo „passare il carattere di infinità dall‟oggetto della conoscenza alla funzione della conoscenza‟
49 Ivi, pag. 133. 50 Ivi, pag. 135.
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(Cassirer)”. 51 Ciò che precede ogni conoscenza è anche quanto “sta al di là di ogni metafisica”, e perciò il suo contenuto è “absconditus” e inaccessibile alla ragione. La dottrina del deus absconditus di Cusano costituisce “il contributo tedesco all‟interno dissolvimento dell‟immagine medievale del mondo”, intaccando i fondamenti metafisici della scolastica appunto “dall‟interno”, e non invece “dall‟esterno, come gli umanisti spesso hanno fatto”.52 Ma, oltre alla idea di “ignorantia”, ha agito in senso demolitore anche un atteggiamento individualistico presente soprattutto nelle cerchie di “pietà moderna”, diffuse soprattutto nei Paesi Bassi. Esso spostò decisamente l‟accento della fede dal terreno della conoscenza a quello della interiore sensibilità morale. Campione di tale tendenza è il De imitazione Christi di Tommaso da Kempis, in cui la volontà di sapere (scrutari) si rappresenta come curiosità esteriore della natura sensibile e superficiale, lontana del tutto dal percorso della grazia, per cui “l‟indagare è incompatibile con la devotio”, in quanto “le profondità dei misteri di Dio e del mondo non rientrano nella fede e nella vita dell‟uomo devoto”, cui bastano “per il suo cammino semplice e diritto” i “comandamenti di Dio”.53 La fede sostituisce il bisogno di verità, in quanto le verità di fede costituiscono un ordine cosmico che la ricerca filosofica trascura per intraprendere un viaggio impossibile attraverso il mistero, destabilizzando le certezze orientative nella vita umana. Questo pragmatismo religioso, che riguarda le questioni di fede solo in termini di vita buona e pura, (beata simplicitas), stabilisce un implicito primato della dimensione pratica su quella teoretica, nel senso della completezza dell‟orizzonte della fede rispetto alla parzialità e astrattezza del livello di coscienza meramente razionale. L‟ideale della “simplicitas” sopravanza la fragile ragione, la quale, diversamente dalla vera fede, rimane pur sempre esposta all‟errore. E all‟interno dell‟orizzonte della fede la “ignorantia” è la virtù dell‟uomo devoto, e, in quanto merito morale, “sacra ignorantia”. Questa, intesa come
51 Ivi, pag. 136. 52 Ibidem. 53 Ivi, pag. 137. “Beata simplicitas quae difficiles quaestionum relinquit via set plana ac firma pergit semita mandato rum Dei”: De imitazione Christi, IV, 18.
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astensione dal sapere, è connessa al “dovere dell‟umiltà e del disprezzo di sé [che] esige non solo che ci si astenga da tutto ciò che è alto e grandioso, da ciò che è illimitato e misterioso, ma anche […] da coloro che hanno un sapere anche solo relativamente superiore”.54 Costoro, infatti, non aggiungono sapere a sapere, cioè non sono più sapienti degli ignoranti, ma sono le anime perdute nel labirinto illusorio di una impossibile conoscenza della verità, il cui vano cimento impegna la superbia dell‟uomo in direzione dello smarrimento delle “tracce” della tradizione, la “diritta via” smarrita da Dante. E proprio la consapevolezza superiore della impossibilità della conoscenza, lascia il posto alla modesta humilitas, che sa di non poter contare sul sapere per sortire dalla “selva oscura” del mistero del mondo e di Dio, facendone perciò solo un‟occasione morale.55 Il fine morale era il tenimento dei valori sociali, la affermazione della charitas come sentimento sociale di conservazione della comunità. Il pragmatismo sociale corregge – o riempie – il vuoto dottrinario. Emerge l‟inaccessibile singolarità della coscienza individuale come ostacolo a ogni sapere generale, che richiede mediazioni per la sua definizione. Il tono pessimistico accompagna questa consapevolezza della natura umana e della sua fragile condizione, che solo l‟umanesimo volgerà in valore positivo. Intanto l‟individualismo critico procede alla demolizione delle basi del Medioevo, fino alla scoperta della libertà dell‟uomo, la cui incomprensibilità di ciò che è esterno all‟io, libera dal‟obbligo verso ogni causa di verità, verso ogni sistema consolidato, insomma verso ogni autorità, fosse pure quella del Papa.56 Si produce un “capovolgimento” di atteggiamento morale “sulla base di una direzione e fondazione specifiche della teoria del non sapere” che sfocia in “un tipo di solipsismo di cui si vedrà ben presto il pericolo”, e che seguirà “una uova tappa nella storia dell‟ ignorantia”.57
54 Ivi, pag. 138. 55 “Il non sapere di Cusano, nonostante il suo agnosticismo, era pur sempre più vero del preteso sapere, mentre la ignorantia di Tommaso da Kempis è solo più avvertita e moralmente superiore alla volontà di sapere. Alla scepsi speculativa se n‟è aggiunta un‟altra quietistica, indice ancor più chiaro di un‟epoca che invecchia”: Ivi, pag. 139. 56 Ivi, pag. 140. 57 Ivi, pag. 141.
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3. Nella De docta ignorantia, Cusano riferisce che il principio sul quale si fonda la sua filosofia, e cioè l‟antitesi tra la “complicatio” e la “esplicatio”, gli apparve improvvisamente come una luminosa intuizione, “non mediata da conclusioni sillogistiche” ma come “un dono di Dio”.58 Ma per comprendere il senso innovatore della teoria della “docta ignorantia” e l‟annessa teoria della “coincidentia oppositorum”, occorre partir dalla sintesi medievale del pensiero scolastico offerta dallo Pseudo-Aeropagita, il quale elabora la “concezione fondamentale che il Medioevo ha di Dio e del mondo”.
Il significato [dei suoi] scritti consiste nel fatto che in essi, per la prima volta, si incontrano e concrescono, strettamente riuniti in unità, entrambe le forze ed entrambi i motivi fondamentali sui quali riposano la fede e la scienza del medioevo; nel fatto che qui si compie la vera e propria fusione della dottrina cristiana della salute con la speculazione ellenistica.59
A partire dall‟ordine gerarchico del cosmo, dei “gradi del cosmo”, che la speculazione neo-platonica offriva al cristianesimo, dividendo il mondo in una realtà superiore e intelligibile, e una inferiore e sensibile, le quali semi-mondi “non solo sono contrapposti gli uni agli altri, ma hanno la loro essenza proprio in questa negazione reciproca, nella loro opposta polarizzazione”. Tra le due realtà, nondimeno, si tende un “legame spirituale” attraverso “una via ininterrotta di mediazione” che include “l‟intero processo della redenzione” e che va dalla “forma assoluta fin giù alla materia”.60 L‟ordine cosmico procede da Dio e si concentra in Dio, che è “origine e meta di tutte le cose”, “sorgente originaria dell‟essere della vita”. Questa cosmologia riflette la perfetta riproduzione dell‟ordine spirituale e dell‟ordine ecclesiastico, di cui costituisce la giustificazione e la vera teodicea, per cui “la cosmologia e la fede medievali, l‟idea dell‟ordine universale e quella dell‟ordine salutare morale-religioso confluiscono qui in un‟unica visione fondamentale, in un quadro che è in sommo grado pregnante e
58 E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento (1927), tr. it., Firenze, 1935, pag. 20. 59 Ivi, pag. 22. 60 Ibidem.
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intimamente conseguente”.61 “Niccolò Cusano non ha mai contestato quello quadro” e anzi pare che “lo presupponga”. Ma nel contempo si affaccia nella nella De docta ignorantia “un pensiero che si richiama ad un orientamento spirituale totalitario completamente nuovo”, che, partendo dalla contrapposizione tra l‟essere assoluto e l‟essere empirico, tra l‟infinito e il finito, non l‟afferma dogmaticamente ma a partire dalle condizioni della conoscenza umana. Ed è “questo suo porsi di fronte al problema gnoseologico che fa del Cusano il primo pensatore moderno”.62 La tesi del Cassirer pare opposta a quella surriferita dello Stadelmann, ma in realtà le due prospettive sono complementari, in quanto l‟aspetto “moderno” si desume come conseguente all‟ammissione della inconoscibilità di Dio, la quale, nell‟orizzonte della fede medievale, costituiva una salvaguardia della legittimità della conoscenza teologica come l‟unica “vera”, e non già, come invece nel senso moderno, della praticabilità gnoseologica della sola ragione. L‟atteggiamento caratteristico dell‟uno è ciò che manca nell‟altro sapere, ossia la fede, la cui presenza fa, secondo la concezione medievale, della ratio un suo strumento di conoscenza, e la cui mancanza fa della stessa ratio un fine conoscitivo in senso moderno, metodicamente perseguibile. Cusano parte dalla constatazione che nessuna dottrina filosofica o teologica ha dato risposte soddisfacenti alla natura e conoscenza di Dio. Infatti ogni sapere presuppone una comparazione, e quindi un‟unità omogenea di misura, che non può investire un oggetto assoluto, che “per definizione, è posto fuori della sfera di ogni possibile paragone o misura e, quindi, d‟ogni possibile conoscenza”. Finiti et infiniti nulla proporzio.
L‟intervallo tra finito ed infinito rimane sempre lo stesso, per quanti termini noi possiamo intercalare tra i due. Non vi è nessun metodo razionale del pensiero, nessun procedimento discorsivo che, aggiungendo elemento ad elemento e trapassando di elemento in elemento, possa colmare l‟abisso che s‟apre tra i due estremi, che possa portare dall‟uno all‟altro.63
61 Ivi, pag. 23. 62 Ivi, pag. 24. 63 Ivi, pag. 25.
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Con questa teoria, si taglia di netto “il legame che aveva tenuto, fino ad ora, unite l‟una all‟altra la teologia e la logica scolastica”,64 che era stata “un organo della teologia speculativa”. 65 Secondo la prospettiva di Cusano, la logica aristotelica, fondata “sul principio del terzo escluso”, è una “logica del finito, tale quindi che deve, sempre e necessariamente, far atto di rinuncia là dove si tratti della visione dell‟infinito”, essendo “tutti i suoi concetti, concetti di paragone [che] poggiano sulla riunione dell‟uguale e del simile e sulla separazione del diverso e del dissimile”. [Ivi, pag. 27.] Attraverso la logica della distinzione e del paragone, “l‟essere empirico si smembra in determinati generi e specie, che stanno tra loro in uno stretto rapporto di subordinazione”. Ma l‟arte logica tesa a trovare “termini medi” di collegamento, spontaneo o sillogistico, “onde riunire in tal modo, in uno stretto e determinato ordine di pensiero, l‟astratto ed il concreto, l‟universale ed il particolare”, pur riuscendo a scoprire “le dissomiglianze e le diversità, le concordanze e le opposizioni del finito”, non può “mai prendere in questa rete di concetti logici di genere l‟assoluto, l‟incondizionato, che, come tale, è al di là di ogni paragone”, per cui una tale logica del finito non serve per “pensare l‟assoluto, l‟infinito”. Oltre la sfera del finito non può giungere alcuna teologia “razionale”, ma solo una “teologia mistica”, di tipo intellettuale, e non sentimentale.
Il vero amore di Dio è amor Dei intellectualis: include in sé la conoscenza quale momento necessario e quale necessaria condizione; [anche del bene. Infatti,] quello che viene sempre amato, vien, con ciò stesso, posto sotto l‟idea del bene, vien concepito “sub ratione boni”.66
L‟essere divino, incondizionato, si nega alla conoscenza discorsiva per puri concetti, e si può cogliere solo attraverso la “visio intellectualis”, che va oltre ogni opposizione empirica dell‟essere e delle sue
64 Ibidem. 65 Ivi, pag. 26. 66 Ivi, pag. 28.
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distinzioni concettuali, “nella sua origine semplice”.67
Ma cos‟è codesto “punto che sta al di là d‟ogni separazione e opposizione”?68 L‟orizzonte di senso totalizzante, inclusivo di ogni distinzione perché comprensivo di ogni opposizione, è quello del Mito, cioè della visione intuitiva dell‟Essere in cui questo si dà come Totalità indistinta.
69 Abbandonata la logica scolastica, Cusano cerca una nuova, e la trova nella matematica, dove l‟assolutamente grande e l‟assolutamente piccolo coincidono. Ma proprio tale coincidenza riporta il pensiero nell‟ambito di una concezione mitica dell‟Essere. Non a caso l‟umanesimo quattrocentesco, ponendosi il problema del primato filosofico, l‟attribuisce a Platone, anziché ad Aristotile. Ma Cusano fu “il primo pensatore occidentale al quale sia stato dato di giunger ad una interpretazione personale delle fonti essenziali della dottrina platonica”, capitanando egli la delegazione che si recò al Concilio di Basilea in Grecia. “A partire da questo momento i suoi scritti ce lo mostrano in continuo contatto con tali fonti ed in ininterrotto dialogo spirituale con esse”.70 In seguito alla sua critica sistematica del pensiero platonico e neo-platonico,
la speculazione del Cusano diventa il campo di battaglia sul quale elementi di pensiero, che si mescolano indistintamente nella filosofia medievale, si incontrano, si riconoscono, e si provano l‟un contro l‟altro. Da questa lotta […] nasce una nuova spiegazione metodica del senso originario del platonismo e
67 Ivi, pag. 29. 68 Ibidem. 69 La conoscenza intuitiva dell‟Essere è “indistinta” perché “totale”, e perciò non può riguardare, come credeva Croce, la cosa particolare, la cui determinazione esistentiva è già una qualificazione razionale. Infatti, la particolarità implica la distinzione, che è operazione logica. L‟intuizione, invece, coglie l‟Essere come Totalità indistinta, e quindi coincidente con lo stesso Essere ideale. il “come” sta a indicare la condizione di credenza in cui si porta in evidenza l‟Essere intuito: la credenza appunto che l‟Essere stesso coincida con la sua Idea, la quale pensa l‟Essere nella sua attualità priva di possibilità, cioè astrattamente positivo e senza la sua negazione che ne consente il divenire temporale. La distinzione logica interviene a determinate gli enti all‟interno del senso ideale dell‟Essere, cioè dell‟ontologia del monismo idealistico. Ciò che l‟intuizione coglie come Tutto e la logica come distinto è lo stesso Essere ideale, pensato come Idea. 70 Ivi, pag. 32
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ristabilisce una nuova linea che separa da un lato Platone da Aristotele, dall‟altro Platone dal neoplatonismo.71
Mondo “visibile” () versus mondo “invisibile” (), l‟uno opposto () dell‟altro. Apparenza () e idea (), mondo fenomenico e mondo noumenico, non si mescolano mai, né trapassano uno nell‟altro, poiché la separazione () fra i due non può essere tolta, sicché l‟, i , e gli , i , non possono unirsi. La partecipazione (), che è l‟opposto della separazione, può essere pensata solo in rapporto all‟altra. “Nella definizione del sapere empirico entrambi i momenti sono necessariamente inclusi e collegati l‟uno con l‟altro. Infatti non è possibile un sapere empirico che non si riferisca a un essere ideale e ad un ideale essere-così”, anche se nessun sapere empirico può contenere la verità di questo ideale comprendendola in sé come elemento. Il “carattere dell‟empirico” è la sua “illimitata determinabilità”, mentre il carattere dell‟ “ideale” è invece la “delimitazione e la determinatezza necessaria ed univoca. Ma la determinabilità è solo possibile in relazione alla determinatezza, che le conferisce forma e direzione stabili”.72 Da qui il loro rapporto la insuperabile alterità, ma anche l‟origine del sapere ignorante, ovvero la ignoranza cosciente. Infatti, tutto il sapere empirico, per quanto esatto, è destinato a essere superato, restando perciò una “supposizione”, una ipotesi, ovvero come dirà a suo tempo Popper mutuando la terminologia cusaniana, una “congettura” (conjectura). Ma proprio la coscienza dell‟insopprimibile alterità ontologica consente una dottrina positiva dell‟esperienza come “partecipazione” alla verità dello “altro”.
La verità una, inafferrabile nel suo essere assoluto, può, per noi, esprimersi solo nella sfera dell‟alterità, [rinunciando] ad ogni identità, ad ogni sconfinamento di una sfera nell‟altra, ad ogni attenuazione del dualismo, [possiamo conferire] al nostro conoscere il suo relativo diritto e la sua verità relativa. [Infatti] la separazione è ciò che, impedendo la coincidenza, insegnando a vedere l‟Uno nell‟altro e l‟altro nell‟Uno, garantisce la
71 Ivi, pag. 33 72 Ivi, pag. 43.
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possibilità della vera partecipazione del sensibile all‟ideale.73
Partendo da considerazioni di gnoseologia generale, Cusano giunge al principio della “relatività del movimento” e alla dottrina del “moto della terra”. Mentre la fisica medievale si basava sulla dottrina aristotelica dei quattro elementi collocati nel loro ordine stabilito, la concezione di Cusano non “ordina in una successione unica l‟elemento celeste e i quattro elementi terrestri, in una successione spaziale cioè che è, al tempo stesso, una successione di valori”, tale che “quanto più alto è posto un elemento sulla scala cosmica, tanto più prossimo esso è all‟immobile motore del mondo e, conseguentemente, tanto più pura e perfetta ne è la natura”, ma dispone una stessa distanza tra sensibile e sovrasensibile, per cui
quando l‟intervallo, come tale, è infinito, si annullano le differenze finite, relative [e] ogni elemento, ogni essere naturale, è perciò, se noi lo confrontiamo con l‟origine divina dell‟essere, ugualmente distante ed ugualmente vicino a questa origine. Non vi è più, ormai, nessun “sopra” e nessun “sotto”, ma solo un cosmo unico, omogeneo in se stesso che, in qunto cosmo empirico, si contrappone all‟essere assoluto.
partecipando della natura assoluta per quanto sia dato al sensibile dalla sua natura.74 ma ciò che per Cusano priva di ogni valore di verità il sistema cosmologico aristotelico e scolastico, è la sua composizione di due elementi inconciliabili, l‟empirico e l‟ideale.
Nel cosmo come non troviamo una sfera perfetta, così non troviamo neppure un‟orbita rigidamente esatta; esso rimane dunque, come tutto ciò che è sensibilmente percepibile, nel campo dell‟indeterminato, del semplice “più o meno”.
La mancanza di perfezione nulla toglie comunque al suo posto tra gli astri, ognuno dei quali ha un “valore impareggiabile”. Da qui si evince che “il nuovo orientamento astronomico, che porta al rifiuto della concezione geocentrica del mondo, pel Cusano non sia stato altro che
73 Ivi, pag. 44. 74 Ivi, pagg. 47-48.
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la conseguenza e l‟espressione di un mutato orientamento spirituale”.
75
La cosmologia sua ignora un centro fisico del mondo, nn avendo questo una forma geometrica definita, estendendosi spazialmente nell‟indeterminato, e perciò non può avere un centro localmente determinato. La sua centralità, pertanto, non può esser oggetto della fisica ma della metafisica.76 Essendo la centralità di Dio puramente spirituale, ne viene una nuova concezione della religione, per cui, così come, nell‟universo fisico, ogni ente è allo stesso modo collegato alla stessa legislazione universale, così vale per l‟essere spirituale, che ha il suo centro solo in se stesso. Però,
l‟individualità non costituisce un semplice limite, ma bensì un valore particolare, che non può essere né uguagliato agli altri né distrutto, perché solo per suo mezzo l‟Uno, che è “al di là dell‟essere”, diviene, per noi, concepibile.
E così, la diversità e la differenza tra le creature non può essere cagione di contrasto fra loro e con l‟unità e l‟universalità della religione, ma piuttosto la “espressione necessaria di tale universalità”.77 Nell‟opera De pace fidei (1454) si mostra l‟assurdità della lotta tra le religioni, dal momento che tutte tendono allo stesso fine e allo stesso Essere, che, in sé inconoscibile, si mostra nell‟aspetto sotto il quale può venir inteso. 78 Pertanto “una sola è la religione, pur nella varietà dei riti”.
Così viene mantenuta la pretesa di una religione universale, la pretesa di una “cattolicità” che si estenda a tutto il mondo; ma essa acquista, in confronto al modo medievale-ecclesiastico di intenderla, un senso affatto nuovo e una nuova base. Il contenuto stesso della fede, in quanto non può mai essere altro che contenuto di rappresentazioni umane, è divenuto “conjectura”; è sottoposto alla condizione di dover esprimere l‟essere uno e la verità una solo nella forma della “alterità”, [la quale] ha le sue radici nel modo e nell‟essenza del conoscere umano [e dalla quale] non può sottrarsi nessuna forma di fede.
75 Ivi, pag. 50. 76 Ibidem. 77 Ivi, pag. 152. 78 Ibidem.
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La verità inaccessibile può conoscersi solo come “alterità”, come , di cui l‟ è il suo “momento fondamentale”.79 Qui il rapporto non è più tra una “ortodossia” di valore universale e una molteplicità di versioni “eterodosse”, ma una molteplicità di fedi ognuna giustificata da una necessità metafisica e che ha un fondamento gnoseologico. Non sulla differenza empirica va vista la (impossibile a realizzarsi) necessità unitaria, perché le “opere” umane hanno sempre una loro particolarità insopprimibile, ma l‟unità va vista nella “fede”, per cui
La differenza dei riti non costituisce più un ostacolo, perché tutte le forme e tutti gli usi son solo segni sensibili della verità della fede e solo questi segni, e non già ciò che designano, è soggetto a cambiamento e a mutamento.80
Da qui il relativismo delle forme religiose, ognuna giustificata e valida, e l‟individualismo antropologico. “L‟individuo considerato dal punto di vista religioso, non costituisce un antitesi all‟universale, ma, piuttosto, il vero compimento di questo”.81 Non si può pertanto conceire l‟assoluto in sé al di fuori di una sua particolare determinazione individuale, la quale è una “totalità concreta” che ci rappresenta mediatamente “un‟immagine veridica del tutto”. Ogni prospettiva di Dio risente sia della natura dello “oggetto” che di quella del “soggetto”, e solo Dio può vedersi in se stesso, mentre ognuno può vedersi solo in Dio. “Non v‟è espressione quantitativa, non vi è espressione che sia legata all‟antitesi di „parte‟ e di „tutto‟ la quale sia adatta a caratterizzare questo puro essere l’un nell’altro”.82
Nel pensiero medievale il motivo della redenzione ha essenzialmente il significato della liberazione dal mondo: elevazione degli uomini al di sopra della bassa esistenza terrestre sensibile. Il Cusano non lascia più però sussistere tale divisine tra uomo e natura […]. Il “regnum gratiae” e il “regnum naturae” non stanno più estranei e nemici l‟uno di frone all‟altro, ed entrambi al loro divino termine comune, [ma la redenzione
79 Ivi, pag. 53. 80 Ivi, pagg. 54-55. 81 Ivi, pag. 55. 82 Ivi, pag. 57.
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dell‟uomo, che, quale microcosmo] comprende in sé la natura di tutte le cose, [deve coinvolgere anche] l‟elevarsi di tutte le cose, [sicché ogni cosa del mondo viene] compresa nel processo religioso della redenzione.
La conciliazione fra Dio e uomo si estende perciò “tra Dio e tutto il creato”, aventi in comune “lo spirito dell‟umanità”, quella “humanitas, che è a un tempo creatore e creatura”,83 ossia libertà.
Solo nella sua storia l‟uomo può dar prova della sua creatività e libertà. Essa mostra come, per tutto il cammino degli avvenimenti fortuiti e malgrado la costrizione delle circostanze esteriori, egli rimanga pur sempre il “Dio creato”. Rinserrato nel tempo, anzi nella particolarità del momento singolo, impigliato nelle condizioni dell‟attimo, mi mostra pur sempre, malgrado tutto, un “Deus occasionatus”. Riman chiuso nel suo proprio essere, non esce mai dai confini della sua natura specificamente umana, ma, proprio mentre la sviluppa e l‟esprime sotto tutti i suoi aspetti, esprime il divino nella forma ed entro i limiti umani.84
La libertà umana, attraverso la partecipazione dell‟essenza divina, acquista il suo valore ultra-rappresentativo, cioè trascendente, nell‟atto stesso di realizzarsi come esperienza storica, cioè come attualità occasionale e transeunte, la cui finitezza può riscattarsi attraverso la sua simbolica trascendenza. Per quanto non smentito, il dogma del peccato originale
Sembra aver perso l‟influenza che aveva esercitata sul pensiero e sulla vita del medioevo. Si desta ora nuovamente quello spirito pelagiano, contro il quale aveva lottato aspramente, ed in questa lotta si era formata, attraverso Agostino, la dottrina religiosa medievale. La dottrina della libertà umana viene affermata energicamente: solo mediante la libertà, infatti, l‟uomo può assimilarsi a Dio, può diventare il ricettacolo di Dio (“capax Dei”).85
L‟uomo non può risolvere la sua natura nei limiti della finitezza, ma, nonostante la sua dipendenza dall‟essere di Dio, egli può riscattarsi in una sfera autonoma che è quella morale o del “valore”, inesistente
83 Ivi, pag. 69 84 Ivi, pag. 73. 85 Ivi, pag. 74.
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senza l‟uomo. L‟attività razionale dell‟uomo consente l‟individuazione del valore, quale “principio per l‟apprezzamento delle cose”, distinte per la loro “maggiore o minore perfezione”.
Infatti, benché l‟intelletto non dia l‟essere al valore, pur tuttavia, senza l‟intelletto non si potrebbe distinguere il valore quale esso è. Se si sopprime dunque l‟intelletto non si può saper se vi sia valore. se non vi fosse la facoltà del giudizio e di stabilire paragoni, non sussisterebbe neppure l‟apprezzamento, non esistendo il quale, cessa di sussistere pure il valore. in questo appare chiaramente quanto prezioso sia l‟intelletto, senza il quale ogni cosa creata sarebbe senza valore.86
Qui si palesa e si teorizza “l‟umanesimo religioso” del Cusano, che confuta l‟idea della natura corrotta dell‟uomo propugnata da Agostino, e ne propone un‟immagine positiva che è fonte di ogni valore. Se la natura umana tramite Dio venne emendata delle sue limitazioni naturalistiche, sì che l‟umanità potesse arrivare sino al Creatore,
la natura umana ha ora avuto la sua vera teodicea. In essa si invera la libertà dello spirito umano, che è il suggello della sua divinità. Lo spirito ascetico è vinto; la sfiducia nel mondo è scomparsa. Infatti, solo in quanto si schiude senza prevenzione al mondo, in quanto ci si abbandona, lo spirito può conquistare se stesso e la misura delle proprie forze.87
La natura sensibile conquista il suo posto nella conoscenza quale occasione per lo spirito di destarsi attraverso la contemplazione del sensibile, che diventa pertanto il viatico di ogni attività spirituale, che eleva il mondo sensibile alla sua luce.
In tale riconciliazione dello spirito col mondo, dell‟intelletto con la sensibilità, è posto il carattere fondamentale di quella “teologia copulativa” alla quale si sforza di giungere il Cusano, e che egli contrappone, con piena coscienza metodologica, a tutte le altre teologie “disgiuntive”, che sanno solo negare e dividere.88
86 De ludo globi, II, pagg. 237 sgg., cit. in Ivi, pag. 75. 87 Ivi, pag. 75. 88 Ivi, pag. 77.
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Dalle ricerche di Duhem su Leonardo89 emerge che lo scienziato italiano discenda da Cusano, raccogliendone “l‟eredità” per via dell‟accordo “su quel che concerne il metodo”.
Cusano era per lui, non tanto il rappresentante di un determinato sistema filosofico, quanto il rappresentante di un nuovo indirizzo e di un nuovo modo di ricerca. E così si può anche comprendere, come il rapporto che si istituì superi i limiti puramente individuali. Il Cusano diventa, in certo modo, l‟esponente di quel mondo spirituale del quale fa parte anche Leonardo; di quel mondo, che nell‟Italia del XV secolo, accanto alla cultura scolastica, che volgeva al tramonto, ed alla nascente cultura umanistica, costituiva una terza forma, specificamente moderna, di sapere e di “volontà di conoscere”, [prendendo] spunto da compiti concreti tecnici ed artistici, per i quali si cerca una “teoria”.90
A fondamento della ricerca sia speculativo-matematica che esteticoartistica c‟è il concetto di “proporzione”, per cui
l‟idea della misura diviene il termine medio sul quale si incontrano l‟investigatore della natura e l‟artista, il creatore cioè di una seconda “natura” […] e questo compenetrarsi è ciò in grazia a cui il problema della forma diventa uno dei problemi centrali della cultura della rinascenza.91
I motiv religiosi medievali furono rivisitati alla luce del nuovo spirito laico e secolari stico, trasformando lo stesso concetto medievale di “devozione” mistica, che con S. Francesco supera la dogmatica separazione tra “natura” e “spirito”, rivolgendosi alla totalità del creato e superando i limiti particolaristici dell‟esistenza attraverso la “categoria mistica della fraternità”, per la quale
l‟amore non è più rivolto solo a Dio, come alla sorgente e all‟origine trascendente dell‟essere, e non rimane neppure limitato alle relazioni fra uomo e uomo, come rapporto morale immanente. Esso va a tutte le creature in quanto tali [che] non sono più “parti” indipendenti ed isolate dell‟essere, ma vengono fuse dall‟ardore del‟amore mistico in un tutto con l‟uomo e con Dio.
89 P. Duhem, Etudes sur Leonardo da Vinci, Paris, 1907. 90 Ivi, pag. 86. 91 Ivi, pag. 87.
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[…] In questa forma mistica francescana, lo spirito medievale inizia il grande processo di redenzione della natura e di liberazione di essa dalla macchia del peccato e del senso, [pur mancando ancora] una coscienza teoretica adeguata a questa specie di amore e che possa giustificarlo.92
Da qui l‟incontro della mistica, da cui era partito il Cusano, con la logica. Una logica non più aristotelica, sillogistica, ma matematica e dell‟intuizione intellettuale. “Solo qui l‟amore di Dio del mistico raggiunge il suo vero compimento ed il suo termine: perché non vi è, per il Cusano, nessun vero amore che non riposi su di un atto di conoscenza”. In tal senso, la “esattezza” matematica non serve per “fondare la conoscenza della natura, ma per basare ed approfondire la conoscenza di Dio”.93 Se il visibile è la riproduzione dell‟invisibile, e se questo rimane sconosciuto, almeno sia inequivocabile la conoscenza del mondo sensibile. “La novità sta nel pretendere che i simboli, mediante i quali noi possiamo concepire il divino, non abbiano solo concretezza sensibile e forza, ma, prima di tutto, determinatezza e certezza teoretica”. E da questa esigenza discende la “profonda trasformazione” subita dal rapporto del mondo con Dio e del finito con l‟infinito. Cusano riprende l‟idea mistica che qualsiasi essere possa costituire il tramite con Dio, ma “per lui la natura non è solo riflesso dell‟essere e della forza divini, ma il libro che Dio ha scritto con la propria mano”, e che va decrittato non più solo in senso mistico ma fatto oggetto di investigazione oggettiva e certa, cioè interpretato sistematicamente. Dalla natura come “libro di Dio” deriva una nuova metafisica e una nuova scienza esatta della natura. “La prima via è quella della filosofia della natura del Rinascimento”, sul quale Campanella costruisce la sua teoria della conoscenza e la sua metafisica. L‟altra via è quella che parte da Cusano e conduce, attraverso Leonardo, a Galileo e Keplero. L‟una sente la struttura spirituale dell‟universo in termini mistico-sensibili, l‟altra come sistema razionalmente ordinato attraverso la matematica. “Così, per Leonardo, la matematica diviene il limite tra scienza e sofistica”. [Ivi, pag. 92.] Dalla “certezza incorruttibile” (incorruptibilis certitudo) dei
92 Ivi, pagg. 88 e 89. 93 Ivi, pag. 89.
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segni matematici si giunge alla ricerca galileiana, in cui si compie il processo di secolarizzazione che contrappone la “rivelazione del „libro della natura‟ a quella biblica”. Se nasce disaccordo tra esse, la precedenza va accordata alla “opera” sulla “parola”, poiché questa “appartiene al passato e alla tradizione, mentre l‟opera, che ci sta di fronte, presente e duratura, si presta ad essere interrogata direttamente ed immediatamente”.94
4. Il De Deo abscondito (1440-1445) è un “dialogo tra un gentile e un cristiano”. Questi intende convincere il gentile della difficoltà di considerare Dio come un oggetto qualunque della riflessione filosofica, asserendo convintamente la tesi della “dotta ignoranza”. Ciò che l‟uomo può conoscere, egli sostiene, non è l‟essenza delle cose ma solo la loro apparenza, sulla cui certezza fonda ogni suo sapere. Dio gli resta precluso, in quanto i suoi caratteri non hanno riscontro nel mondo fenomenico conosciuto dalla sapienza umana, per cui la ragione, operando per congetture, non coglierebbe mai l‟essenza divina, trascendente ogni umana definizione. Facoltà della ragione è infatti quella di distinguere i fenomeni del mondo finito, attribuendo loro dei nomi. Ma quale nome potrebbe indicare Dio, che è “la verità”, come tale unica e “non comunicabile all‟alterità”? La verità assoluta di Dio non è confondibile con le cose del mondo, ma va colta in sé stessa: “quomodo igitur potest veritas apprehendi nisi per se ipsam?” Le cose del mondo, infatti, in quanto creature divine, lasciano trapelare barlumi di Dio, immagini parziali di Lui. Persino la teologia, quale “scienza di Dio”, non è in grado di definire il suo oggetto, neppure in modo negativo, fallendo pertanto nel suo intento teorico. Infatti la conoscenza razionale distingue le proprietà degli enti, e per esse gli enti stessi, avvalendosi del principio di non contraddizione. Ma in Dio gli opposti convergono nella sua infinita unità, per cui non si può fare alcuna distinzione tra le cose che coesistono in Lui, per cui o si dovrebbe “chiamare Dio con tutti i nomi, o chiamare tutte le cose con nome di Dio”. In ogni caso, muovendo dalla realtà finita e dalle qualità creaturali delle cose terrene, si resterebbe sempre al di qua della sua essenza infinita. Da qui
94 Ivi, pag. 93.
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l‟opportunità teoretica di indicarla negativamente anziché per affermazioni, essendo Egli indefinibile, e venendo prima di tutte le cose: “Dio sta a tutte le cose come la vista sta alle cose visibili”. Il tutto conosce ogni singola parte, ma resta precluso ad essa ciascuna. Il discorso de Deo di Cusano (e del suo tempo) si articola sull‟immagine o “figura” (Pascal) della divinità come potenza ineffabile inattingibile dalla ragione, e intuibile solo con l‟intelletto, l‟organo supremo della conoscenza umana. Si discorre di Dio attraverso metafore e rappresentazioni analogiche che ruotano intorno al Mistero con la curiosità e la riverenza di chi è cosciente di non poterlo penetrare. Dio resta al di là delle facoltà umane, ma avvertito come una presenza allocata ovunque, in ogni dove. Rispetto al razionalismo scolastico, il Dio di Cusano appare trasfigurato attraverso il sentimento, avvertendosi in questa trasfigurazione quasi poetica, i prodromi di un anti-razionalismo che marcheranno il fideismo luterano. Il luteranesimo è un ritorno al figuratismo biblico arcaico, in cui i fideismo del sentimento supplisce all‟impotenza della ragione. L‟impostazione fideistica di Pascal è posteriore, e non anteriore e preventiva, a quella razionalistica, per cui le sue tesi su Dio risentono di una posizione che, interna al cattolicesimo, non ha consumato l‟unità di fides et ratio, come quella invece protestante. Cusano non ha varcato la soglia dell‟eresia, ma ha schiuso la porta ad essa, prefigurando la debolezza della ragione come presupposto del‟immaginazione fideistica, ossia del volontarismo mistico. Per Cusano e la cultura tardo-medievale, Dio è ancora una certezza evidente; per Pascal Dio è un problema, sul quale la ragione non può ergersi a giudice, cioè “non può determinare nulla”.95 Non resta che il piano della volontà e dell‟interesse a decidere dell‟esistenza di Dio. Stabilita la necessità del “pari”, la posta in gioco comporta la perdita di “due cose, il vero e il bene, e due cose da impegnare nel gioco: la ragione e la volontà, la conoscenza e la beatitudine”, fuggendo “l‟errore e l‟infelicità”. Se la ragione “non patisce offesa” scegliendo l‟una o „altra possibilità, la beatitudine invece è del tutto compromessa; nel senso che la vittoria in caso di scommessa sull‟esistenza di Dio è totale guadagno, e nel caso negativo, perdita
95 B. Pascal, Pensieri, 164
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nulla. “Scommettete, dunque, senza esitare, che egli [Dio] esiste”.
Dovunque ci sia l‟infinito [cioè una “infinità di vita infinitamente beata” come guadagno “contro un numero finito di probabilità di perdita [di] qualcosa di finito”], e non ci sia un‟infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c‟è da esitare: bisogna dar tutto. E così, quando si è obbligati a giocare, bisogna rinunziare alla ragione per salvare la propria vita piuttosto che rischiarla per il guadagno infinito, che è altrettanto pronto a venire quanto la perdita del nulla.96
La posta in gioco non può porre sullo stesso piano la “certezza” del rischio e la “incertezza” della vincita, poiché l‟infinita salvezza non può valere un bene finito. L‟affermazione agostiniana: “non vos estis, qui scitis eis, qui in spiritu sciunt”,97 ripresa da Cusano: “non siamo noi che conosciamo, ma è piuttosto Dio che conosce in noi”,98 attribuisce alla conoscenza una facoltà meta-umana, tale, da un lato, da sollevarla dai limiti strumentali della ragione – che della conoscenza è l‟elemento che, per quanto prezioso per la sua capacità discretiva, è pure il più esposto alla fallacia della volontà, come sappiamo da Pascal -, e, dall‟altro lato, da costituirla come il tramite di partecipazione dell‟infinità di Dio. Ciò comporta che non ogni conoscenza sia atto partecipativo della gloria divina, ma solo quella guidata dalla “recta ratio” e ispirata dalla Grazia. Queste ultime condizioni finiscono per coincidere, sicché la verace conoscenza è solo quella ispirata da Dio, quella cioè che annulla i limiti della condizione umana e innalza alla sua gloria. La sapienza di Dio nell‟uomo che conosce, rappresenta la forma speculare e teoretica del segno mondano della grazia divina nell‟homo faber o oeconomicus dell‟etica infra-mondana di origine protestante. In altri termini, la conoscenza (recta, divinamente ispirata) è l‟ altro modo di partecipare della grazia e della gloria di Dio, proprio della cultura classica e della civiltà cattolica, rispetto al modo proprio della cultura moderna di origine protestante, incentrata sul riscontro del successo praticoeconomico. Nell‟ambito della cristianità, la scissione moderna è
96 Ibidem. 97 Agostino, Confessioni, XIII. 98 N. Cusano, La ricerca di Dio, tr. it. in Il Dio nascosto, Roma-Bari, 1995, pag. 24.
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consistita nello spostamento del luogo della presenza divina dall‟interiorità all‟esteriorità, mercé la transizione dello spiritualismo, prima agostiniano e poi idealistico e romantico. I paradosso. La cultura oggettivistica medievale genera il culto della conoscenza di Dio, mentre il soggettivismo moderno genera il culto delle opere mondane. II paradosso. La cultura comunitaria del corpo mistico ed ecclesiale, favorisce la dimensione teoretica della testimonianza divina, mentre la cultura intimistica e solipsistica del fideismo protestante favorisce la dimensione socialitaria e pratica del segno della grazia di Dio. Secondo G. Scoto Eriugena, l‟essenza di Dio non può essere colta dalla ragione umana se non in uno dei “modi” intellettuali propri della creatura razionale e secondo le sue capacità.99 Questa condizione morale può essere riferita a ogni manifestazione dello spirito umano, come pure di ogni creazione spirituale, oltre che di ogni conoscenza. Infatti, sia lo spirito divino che lo spirito propriamente storico giungono in essere secondo modi determinati che costituiscono le categorie culturali dell‟attività umana.
Poiché in questo mondo nulla, per quanto profondo ed elevato sia, può entrare nel cuore dell‟uomo, nella sua mente o nel suo intelletto, senza restare contratto entro un modo, nessuno dei nostri concetti di gioia, letizia. Verità, essenza, virtù, intuizione di sé, o qualunque altro concetto, può esser privo di un modo restrittivo: e tale modo, diverso a seconda della condizione nel mondo dei singoli individui, ci riporterà indietro ai fantasmi dell‟immaginazione [del mondo sensibile].100
Il modo è “restrittivo” nel senso che non coglie la totalità spirituale, l‟essenza dell‟Essere, ma solo appunto il suo modo d‟essere esistentivo. I “fantasmi dell‟immaginazione” sono le congetture derivate dalla conoscenza sensibile, ossia le “ombre” della caverna platonica, che non possono essere diradate completamente dalle umane possibilità cognitive. Lasciando da parte la questione se le categorie umane siano eterne o
99 G. Scoto Eriugena, De Divisione naturae, I, 7. 100 Cit. da L. Mannarino, Introduzione a N. Cusano, Il Dio nascosto, cit., pag. XXI.
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storiche, poche o infinite, la differenza essenziale tra lo Spirito divino creatore d‟essere, e lo spirito umano, trasformatore d‟enti, è che Dio crea dal Nulla, laddove l‟uomo trasforma la natura, compresi i prodotti umani. Ciò vuol dire che l‟azione divina non interviene sull‟Essere naturale come una potenza esterna modificatrice, ma trae quell‟Essere dal Nulla, cioè da sé stesso. In tal senso, Dio è pre-esistente rispetto all‟Essere da lui creato. Ma, essendo Dio, non è Nulla, ma pur sempre Essere, che non è attuale, cioè presente, bensì possibile, cioè potenziale. La inattualità dell‟Essere è la sua possibilità, la quale è un modo d‟essere diverso dalla attualità ma che concerne comunque l‟Essere stesso. La modalità dell‟Essere indicata come “possibilità” concerne la sua temporalità, e quindi è il modo proprio dell‟Essere storico. L‟Essere “storico” è l‟Essere “possibile”. E poiché “storica” è la possibilità “attuale”, la possibilità e l‟attualità sono i due modi dell‟Essere considerati ex ante (dal passato) ovvero ex post (dal futuro). Il collegamento diacronico dei diversi momenti della temporalità dell‟Essere ne costituisce il suo divenire, che è la sua concretezza. Considerati astrattamente, ossia fuori della concretezza del divenire, i singoli momenti modali e temporali dell‟Essere sono rispettivamente negativi, tali che uno sia l‟opposto dell‟altro. Ma come l‟antitesi è l‟opposto della tesi, così il modo presente è attuale rispetto al passato e al futuro, ossia la negazione presume sempre la sua antitesi positiva, e quindi il Nulla presume l‟Essere, come l‟uomo, che non-è Dio, presume l‟Essere di Dio, che dunque pre-esiste a ogni umana determinazione d‟essere. Diversa è la condizione umana. Prima del pensiero, c‟è l‟Essere della natura, l‟ altro indeterminato, non nominato e quindi sconosciuto: l‟enigma. La misteriosità dell‟enigma genera il thàuma, la meraviglia che richiede una risposta teoretica rassicurante, che dia un nome all‟incognita realtà naturale. Questa, non essendo prodotto dell‟uomo, è il prodotto divino della creazione. “Creato” è l‟Essere che non è prodotto umano, cioè trasformato, ma originario. E come il prodotto trasformato dall‟uomo è umano, così il prodotto della creazione di Dio è divino. In questo senso, la Natura creata è Dio stesso come Natura. Rispetto a Dio, creatore dal Nulla (nella prospettiva umana), cioè da Sé stesso (nella prospettiva divina), ogni creatura è parte divina del Molteplice, sicché anche l‟uomo è “fratello” della luna, del sole e del mare, oltre che degli altri esseri viventi, umani compresi. Ogni ente
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creato da Dio è creduto Dio, ma logicamente non lo è, ed è dunque Mito. Il Mito è la confusione della creatura col suo Creatore, della parte col Tutto. Quella mitica è conoscenza simbolica, ossia credenza. La conoscenza mitica consiste nella credenza che Dio sia dove non-è. Ed è a questa confusione che si oppone la conoscenza logica, la quale distingue il prodotto (l‟ente) dal Creatore (l‟Essere). Astratto dall‟Essere (di Dio), ogni ente appare all‟uomo creato dal Nulla, per cui la possibilità d‟essere di Dio, la sua creazione, deve presupporre l‟Essere di Dio. E poiché la possibilità d‟essere è tale in quanto l‟Essere non è attuale, ma appunto possibile, la presupposizione di Dio, cioè che Dio sia prima della creazione, prima della Natura, è una credenza di fede. Senza la fede ontologia che Dio sia, viene negata la possibilità come modalità dell‟Essere, e affermato il Nulla. In questo caso, ossia nel caso della negazione della possibilità che Dio sia l‟Essere non attuale, ogni ente, non essendo né Dio e neppure un suo prodotto, è niente. La condizione degli enti, in tal caso, non è la “fraternità” nella creazione, ma la “nientità” della oro assoluta finitezza. L‟idea che ogni ente sia niente è il presupposto, ossia la credenza, che la realtà sia solo nei termini in cui è per l‟uomo qualcosa. Essere-perl‟uomo qualcosa significa passare dal Nulla all‟Essere. Qualcosa significa, cioè ha un significato simbolico per l‟uomo, allorquando è passato dal Nulla all‟Essere, cioè quando sia stato trasformata la sua originaria natura in un prodotto di cultura. La natura umanizzata dal significato è, mentre quella non segnata dall‟uomo non è, cioè non ha significato. “Significare” vuol dire attribuire un nome agli enti, distinguerli da ciò che non ha significato, che non ha valore simbolico. I distinti nomi, quando indicano ciò che è ovvero non-è rispetto all‟Essere di Dio, distinguono il significato “sacro” da quello “profano”, credendo che Dio sia soltanto nella realtà che lo significa, quella appunto sacra. Quando invece la distinzione inerisce non già ciò che è ovvero non-è rispetto a Dio, ma solo ciò che è ovvero non-è rispetto al suo nome, ossia al suo essere-per-l‟uomo, in tal caso il pensiero distingue ciò che è o non-è reale rispetto alla sua definizione ideale. La prima distinzione, che fonda il suo giudizio sull‟Essere di Dio, ossia sulla credenza che Dio sia l‟Essere, è diversa dall‟altra distinzione, che fonda il suo giudizio di realtà sulla credenza che l‟Essere sia l‟Idea.
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Nel primo caso, infatti, la realtà degli enti partecipa della realtà dell‟Essere, mentre nel secondo caso, la realtà degli enti partecipa della realtà dell‟Idea, senza la quale la realtà non sarebbe, e cioè sarebbe Nulla. Nel primo caso, se la realtà non fosse, sarebbe in ogni caso Dio, e non il Nulla, per cui è impossibile uscire dalla possibilità dell‟Essere di Dio, perché Egli è Tutto. La credenza che Dio sia Tutto equivale a credere che ogni cosa equivalga ad ogni altra, abbia lo stesso valore divino. In tal caso, il “passaggio” dal sacro al profano è possibile soltanto negando il valore del sacro, e non attribuendolo, poiché ciò che è, è in quanto è già sacro. E all‟uomo spetta solo il riconoscerlo o il negarlo. Dio “è” prima di ogni pensiero umano che lo ri-conosca e lo nomini. Affermare, biblicamente, che “Dio è ciò che è”, significa che Dio è Tutto. Se invece l‟Essere “è” ciò che partecipa dell‟Idea, l‟Essere degli enti è l‟essere ideale, quello del pensiero umano, che significa distinguendo le cose attribuendo loro dei nomi. Solo rispetto all‟Idea qualcosa che “è” può distinguersi da qualcos‟altro, per cui l‟Essere di Parmenide, l‟Essere che è, è l‟ente quale essere determinato, significato idealmente, mentre l‟Essere che non-è, è quello indeterminato o naturale. E l‟Idea che distingue e oppone a seconda della partecipazione o non al suo essere ideale. e solo all‟interno della sua esclusiva determinazione d‟essere qualcosa può non-essere, mentre all‟interno dell‟Essere di Dio, che è Tutto, ogni cosa “è” e non può non essere, è cioè indistinta. La distinzione, se vuole sostituire alla negazione una determinazione positiva, deve presupporre il Nulla, anziché l‟Essere (di Dio), ossia l‟Idea al posto di Dio. L‟idealismo metafisico si fonda sul Nulla, anziché su Dio, per cui credere che prima di ogni essere determinato sia l‟Idea, significa che prima della realtà idealizzata, cioè umanizzata attraverso la nominazione degli enti da parte dell‟uomo, sia il Nulla. I paradosso. L‟affermazione idealistica dell‟Essere come Idea presuppone il non-Essere come Nulla. II paradosso. Il “passaggio” dal Nulla originario all‟Essere idealmente determinato è opera dell‟uomo, ossia è un prodotto artificiale della volontà umana, senza la quale la realtà potrebbe sussistere nel Nulla. III paradosso. La realtà nella caverna platonica è la vita mitica, il regno della confusione o indeterminazione naturalistica, nella quale è
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immersa la stessa vita sociale. IV paradosso. La realtà idealizzata è l‟unica razionalmente possibile, sicché la possibilità, idealisticamente, non è la condizione originaria ma quella finale. Da qui il progetto della umanizzazione del mondo come missione ideale dell‟uomo razionalmente emancipato. V paradosso. La distinzione tra l‟uomo ideale e la generica natura, passa anche attraverso la stessa umanità, il cui pensiero unitario manca ai Greci, sicché “naturale”, ossia non-essente è tutto ciò che non è idealmente distinto secondo il principio ideale, ovvero la stessa società mitico-tradizionale, che perciò va ri-formata idealisticamente. VI paradosso. L‟idealismo ontologico è, per sua costituzione metafisica, socialmente rivoluzionario e anti-naturalistico quanto antitradizionalistico. Negando il Mito, ossia che l‟Essere sia Dio, nega anche ogni storicità, ossia la concretezza del divenire, e quindi la realtà stessa. Il suo nichilismo segna pertanto anche il suo insuperabile irrazionalismo, che pensa l‟Essere di Dio come il Nulla e questo come l‟origine dell‟Essere. L‟Essere di cui Platone tratta nel Sofista non è il creato, la Natura, ma il prodotto umano, cioè la realtà nominata e logicamente distinta, la natura artificiale formata dall‟uomo, entro il cui cosmo ciò che è, è quanto l‟uomo vuole che sia. E quando Socrate scopre la co-esistenza del non-essere con l‟essere, appare nella sua evidenza la differenza moralizzata, nell‟ambito della stessa realtà abitata dall‟uomo, del “valore” ideale dal disvalore della mera esistenza. Tale differenza, socializzata, acquisterà l‟intera sua pregnanza ideo-logica nello sviluppo del processo storico-politico. Se l‟Essere “è” solo rispetto al Nulla da cui è idealmente tratto, e “nonè” rispetto a Dio, ossia “è” solo rispetto a se stesso, il suo Essere originario coincide con l‟affermazione della volontà d‟essere umana. E poiché l‟uomo afferma se stesso nella potenza del suo essere, ossia trasformando la natura (il non-essere umano) in cultura, (la realtà umanizzata), la vicenda umana si volge nel segno della trasformazione della creazione divina (sacra) in prodotto umano (profano), ossia nella rielaborazione logica della creazione (dell‟Essere) in realtà razionalizzata (dover-essere), ossia in una interpretazione di Dio. Politica e Verità sono i due poli dell‟intera vicenda antropologica dell‟uomo. Comunità sociale e comunità ideale sono le due forme di relazione unitaria stabilite dall‟uomo, costitutive ed espressive della
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sua essenza razionale. L‟idealismo platonico, assumendo l‟Essere come un‟Idea, distingue la realtà di fatto, mera espressione fenomenica di ciò che l‟uomo appare nel mondo, dalla realtà ideale, espressione della volontà cosciente di sé. Ciò comporta che, rispetto ai rapporti naturali, determinati dalla mera esistenza, i rapporti ideali configurano un cosmo razionale la cui costituzione misura il grado di coscienza della volontà umana circa la dimensione ultronea della vita altra da ciò che semplicemente è, ubicata altrove. Con il Cristianesimo, essendo ogni ente prodotto divino, l‟ altrove metafisico è quello dei morti, per cui la vita spirituale o interiore e la vita post-mortem vengono a coincidere, così come rappresentato simbolicamente dalla vicenda di Cristo, che muore per poter ri-vivere nell‟ altra vita eterna. La morte, come accesso all‟altra vita, quella dello Spirito, anziché come termine dell‟unica vita umana, trasvaluta lo stesso senso della vita naturale, privandola della sua sacertà originaria. Anche il Cristianesimo, come l‟idealismo platonico, fissa nell‟uomo, e non più nella natura, il punto di raccordo tra Dio e mondo, dando inizio alla rinascita della realtà mondano-profana attraverso la trasvalutazione spirituale del nuovo Adamo, il cui prototipo antropologico è il filosofo platonico, alla Socrate. In entrambi i casi, la condizione previa del processo di rinnovamento spirituale del mondo già naturale è il riconoscimento del profeta del nuovo modello antropologico di umanità: il filosofo e il Figlio. La nuova storia dell‟umanità inizia, per Platone, con la socializzazione delle verità di ragione, e per il cristianesimo con la fede in Cristo e nel suo Mistero divino. L‟ incipit non è l‟Essere naturale e in trascendibile del Mito delle antiche cosmogonie, ma l‟incarnazione del Lògos, ovvero, cristianamente, l‟avvento terreno del Verbo: Verbum caro factum est. L‟essenza del nuovo uomo cristiano non è la sola fede mitica, e neppure la sola ragione filosofica, ma la ragione fondata sulla fede nel Cristo, principio della Storia. Rispetto a questo rinnovato inizio, ogni ritorno al modello antropologico naturalistico e razionalistico rappresenterebbe un regresso spirituale, una decadenza. E rispetto alla storia “politica”, ossia alla forma antica di socialità, qual è la differenza della nuova Storia spirituale? Come costruire il regno interiore nel mondo fenomenico? E inoltre: era questa la missione di Cristo? In altri termini, come testimoniare lo Spirito nella realtà terrena? Rinuncia ad
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essa, oppure trasformarla? Per rispondere a queste domande, occorre partire dalla figura di Cristo, dal suo modello antropologico. Gesù sceglie di morire per il mondo al fine di vivere per lo Spirito. Vivere per lo Spirito, cioè morire per il mondo, significa convertirsi ai valori eterni, emancipandosi dall‟edacità del tempo e della finitezza. Ossia, trascegliere, come luogo dell‟incontro con Dio, già in questo mondo l‟interiorità della coscienza. Il concetto d‟ordine classico si articolava nei due momenti della cognizione del cosmo naturale e della formazione (paideia) umana a riprodurlo socialmente. Fisica naturale e fisica sociale erano strettamente collegate e interconnesse. La capacità razionale dell‟uomo era di riprodurre in scala sociale l‟ordine naturale, che era la fonte perenne e intrascendibile dell‟Essere. La ragione aveva quindi un significato di capacità mimetica di riprodurre l‟Essere naturale, nel cui ordine l‟esperienza umana era inscritta. Col cristianesimo il concetto d‟ordine cambia. La fonte non è più naturale ma normativa, legata alla volontà del Legislatore del mondo, Dio. Da questo momento, l‟ordine universale passa attraverso la conformità alla legislazione divina, sicché la coscienza umana si propone di instaurarlo nel segno della normativa morale prescritta dalla fede in Dio. L‟ordine mondano-naturale diventa un ordine altro da quello vero, ossia un ordine falso e precario, una realtà negativa rispetto alla positività dell‟ordine condendo.”Vero” non è ciò che si vede, ma ciò che dev‟essere e non “è”. La realtà mondana, agli occhi della fede, diventa una illusione, una “follia”, un disvalore negativo da correggere. Ma questo atteggiamento critico era lo stesso di quello filosofico dell‟idealismo platonico, consistente nel ritenere che la realtà naturale non sia l‟unica dimensione dell‟Essere. La differenza, rispetto alla visione idealistica, è che, nella visione cristiana, l‟Essere non è un‟Idea, ossia un astratto modello di ente la cui perfezione consiste nel non partecipare del divenire, ma è Dio, la ragione di tutte le cose da lui create. Il segno della alterità di Dio dagli uomini non è la sua perfezione ideale ma la sua possibilità d‟essere ciò che è, cioè la sua volontà assoluta, la sua potenza infinita. Il concetto di infinito abbinato a quello di potenza fa di Dio non il custode dell‟ordine del mondo, come era Pan per la natura e Cesare per l‟impero, ma il suo creatore, di cui può dunque disporre a piacere. L‟assoluta discrezionalità di Dio fa sì che la sua tolleranza delle nequizie umane
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sia un atto d‟amore, e non un segno della necessità legata a un imprescindibile ordinamento cosmico. Le due realtà, quella mondana dell‟uomo e quella spirituale di Dio, si fronteggiano ma restano distinte. L‟anello di congiunzione è costituito da Cristo, la cui duplice natura fissa anche la collocazione del mondo spirituale in interiore homine (Agostino), che è il luogo della verità. La coscienza, da luogo del riconoscimento ideale del mondo, diventa il luogo della verità dell‟altro mondo rispetto a quello naturale, vita sociale compresa. La vita naturale è segnata dalla necessità, e quindi dalle relazioni di forza, che contraddistinguono anche l‟esperienza sociale umana, informata al principio dell‟utile, cioè della sopravvivenza biologica. La vita spirituale è contrassegnata dal principio della carità, e cioè dalle relazioni di verità, consistente nella coscienza di essere creature di Dio. L‟incontro con Dio avviene già nell‟interiorità della coscienza, la cui scelta è alternativa a quella della socialità politica. l‟uomo di fede testimonia la via spirituale scegliendo il valore eterno a preferenza del merito terreno, la verità anziché l‟opportunità sociale. Ed è in questa scelta per l‟eterno, anziché per il tempo, lo “scandalo” della fede in Cristo. Ed è in questa stessa scelta il senso della testimonianza della realtà dell‟ “altro mondo”, preferito a quello di Cesare. Cristo non chiede altro. Egli non è venuto al mondo per trasformarlo, ma per testimoniare l‟amore del Creatore. L‟amore è l‟altro modo di conoscere il mondo e di renderlo simile a sé: non il modo cruento e polemico, ma caritatevole e pacifico. E proprio perché l‟altro mondo è in noi, la verità non può essere nella società, non può consistere nella città terrena. La socialità politica appartiene al modo pre-cristiano di convivenza umana, basato sulla forza fisica e sul potere economico. La Storia cristiana non è fatta di gesta eroiche e di vicende politiche, che rappresentino la potenza dell‟uomo sulla natura e sugli altri uomini, ma è fatta di gesti interiori, cioè di buoni propositi, di amore e di conoscenza, di “cuore” e di “ragione”, espressivi della verità di Dio. La verità che si realizza in noi, nella nostra coscienza, segna il luogo di Dio in questo mondo, il regno dello Spirito, cui si accede per conversione degli animi e non per rivoluzione dei corpi. La logica luterana della “sola fides” è la risposta speculare alla volontà politica della Chiesa di trasformare il mondo assoggettandolo al suo potere, anziché di convertire gli animi dei singoli col carisma dell‟amore. Ponendo la comunità di fede alla stregua di una potenza politica,
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sorretta dalle leggi della ragione mondana, la Chiesa è accusata di aver tradito lo spirito dell‟Evangelo. Il fideismo luterano e protestante fu una risposta mistica al razionalismo ecclesiastico e umanistico, una reazione dialettica alla decadenza romanistica (imperialistica) della Chiesa istituzionale. L‟idea di fondare uno Stato cristiano era in sé contraddittoria, in quanto lo Stato era la forma di organizzazione tipicamente politica e pre-cristiana della convivenza umana, che poteva sopravvivere solo tra coloro che non si erano convertiti alla fede spiritualistica. Lo Stato era infatti, per un cristiano, la non-realtà rispetto alla verità eterna. L‟errore romano era stato quello di confondere la realtà di fatto con la realtà possibile, assumendo la storia del tempo come la Storia dello Spirito. Voler sostituire alla spirito antico lo Spirito cristiano, mettendolo al servizio della pace sociale, ossia delle regole politiche dello Stato, significò snaturare l‟essenza del messaggio evangelico, facendo della lieta novella un messaggio ideologico, utile al reggimento dello Stato ma non alla conversione dei cuori, e trasformò la verità di Dio in un Mito. Gesù non volle sostituirsi a Cesare, ma testimoniare la realtà della morte, dell‟ altra vita. Accettare le regole del mondo significava accogliere la legislazione di Satana, la logica del Potere politico, della prevaricazione della forza nei rapporti umani e sociali, rigettando la legislazione di Cristo, la logica dell‟amore, della carità fraterna, che è l‟antitesi della rivalità dei rivali. La Chiesa volle tra svalutare l‟ordinamento imperiale romano assimilandosi alla sua logica di dominio, anziché lasciarlo deperire nella sua stessa auto consunzione di imperium diabolicus. Il “dare a Cesare” significava non interferire, ma costruire la città di Dio in ogni uomo di fede. La Chiesa ha tralignato, subendo periodiche allettive di “riforma”, fino a giungere allo scisma d‟Occidente, alla grande Riforma, che intese affermare Dio senza l‟ausilio della ragione, per “sola fides”. Ma ogni scissione della sintesi cristologica di fede e ragione è un travisamento della verità, un permanere al di qua di essa, nel Mito o nell‟Utopia, al di qua del Mistero della Croce, il grande thàuma che impegnò il pensiero europeo per oltre un millennio. La novità del Cristianesimo è proprio nella affermazione del Mistero come “verità”, e non come “enigma” che la ragione possa sciogliere. Il Mistero non poteva diventare “oggetto” della ragione senza assumerlo come suo fondamento, essendo il Mistero a fondare il pensiero,
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essendo, cioè, il principio (aitìa) di ragione, il senso stesso della ratio, la sua “rettitudine” rispetto ai traviamenti della volontà. Rispetto al Mistero cristiano, la ragione è una tecnica che, fuori della relazione con esso, si volge a inevitabili scacchi e contraddizioni. Ed è esattamente questa la posizione di Cusano, il quale intende affermare l‟incongruità di un sapere che cerchi di trasformare il Mistero cristiano in un enigma mitologico da interpretare alla luce della ragione umana e quindi da superare dialetticamente alla maniera platonica. L‟inconoscibilità razionale del Mistero (la “ignorantia”) lo salvaguardava da possibili attacchi dialettici, e perciò la consapevolezza della dell‟inanità di ogni tentativo razionalistico doveva destinare la ragione umana ad altri esiti cognitivi, quelli della conoscenza scientifica del mondo. La ragione che si emancipa dal Mistero, cioè dal suo fondamento di fede, equivale al servo che si ribella al padrone e ne vuole prendere il posto. Ma un servo potente, resta un usurpatore, perché la qualità di padrone non nasce dal riconoscimento del servo, ma dalla sua funzione direttiva, che il riconoscimento convalida. Il riconoscimento ha un valore gnoseologico, mentre al funzione ha un valore ontologico. La ragione emancipata dal Mistero, si comporta come il servo ribelle che voglia fondare la sua autorità sulla sola fede in sé stesso, prendendo il posto del Mistero e usurpando il suo ruolo fondativo di verità. Il servo senza padrone non ha servi, e finisce per comandare a se stesso. Un mondo senza padroni è un mondo di servi che lottano per diventare padroni, cioè per affermarsi al posto di colui che hanno negato per liberarsi dal suo rapporto. Parimenti, una verità senza fede nella verità, è una opinione ragionevole ma senza fondamenti di realtà, che cerca di affermare la sua fondatezza relativa su altre tesi relativamente ragionevoli. L‟egalitarismo sociale e il relativismo razionalistico sono aspetti di una stessa condizione antropologica derivata dalla dissoluzione metafisica dell‟ontologia cristiana, alla quale la dottrina della “docta ignorantia”di Cusano dà il suo contributo involontario asserendo la percorribilità della ragione umana nella sola direzione della finitezza, schiudendo così la strada alla trasformazione della filosofia in gnoseologia e in epistemologia, serva quindi non più della scienza di Dio ma dell‟uomo e della natura.
5. L‟ispirazione esplicita o indotta del “nihilismo intellettuale” e del
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congiunto “isolamento dell‟io” di Cusano, è Agostino, da cui si dipartono i due tratti unitari dell‟epoca tardo-medievale, lo stoicismo e lo scetticismo cristiani, che paiono incarnarsi nel “più gran ribelle del suo secolo dopo Lutero”: Agrippa di Nettesheim, scrittore di una Declamatio de incertitudine et vanitate scientiarum atque artium, tanto sarcastica e dotta quanto disperata e orgogliosa. La stessa intonazione della “declamatio” contro i suoi detrattori domenicani, cui dedica una Apologia ad versus theologistas lovanienses, sottolinea la sua distanza da ogni “assertio” di natura scientifica, e l‟impostazione saggistica di tesi paradossali. “Ma si trattava solo dell‟ansia di difendersi di un fuggiasco spaventato, che appunto in quel momento aveva di che essere molto preoccupato per la sua esistenza”.101 Non solo la sua figura di mago e veggente viene liquidata cinicamente, ma “anche il suo ideale di cultura umanistico” appare a lui stesso “come un gioco vuoto e presuntuoso”, per cui sia l‟arte sillogistica che la retorica nuova da lui frequentate sono considerate “scienze ed arti incerte e vane” cui non è più da credere, e a fronte delle quali la semplicità del Vangelo, giudicata da esse “scripturae rusticae et idiotae”, appare una risorsa morale inestimabile, per quanto ingenua. Quella di Agrippa non è una scepsi meramente negatrice e demolitoria, ma un abbozzo di sistema che, per quanto ancora indisciplinato, denuncia il “fallimento tragico” e il “profondo pessimismo intellettuale e morale” che risultano dalla gnoseologia socratica e cusaniana dell‟ideale di ignoranza, dell‟arte di non sapere. Ma Agrippa, “per sua stessa ammissione, non ne sviluppa l‟aspetto di speculazione sul nulla, bensì la direzione scettica”, secondo un suo personale percorso teorico,102.]che pone al centro “quella visione disperata che per Cusano restava nello sfondo del campo come un malinteso forse non del tutto sgradito: il pensiero dell‟uomo è solo finzione, né vero né falso, ma solo utile o dannoso a seconda dell‟uso che se ne fa”. Come egli scrive, la funzione di certezza della scienza non è giustificabile, “poiché la sua presunta libertà da presupposti non regge ad un esame critico ed i suoi presupposti riposano su un tacito accordo non dovuto a dimostrazioni,
101 R. Stadelmann, Op. cit., pag. 142. 102 Ivi, pag. 143
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ma accettato per fedeltà e per fede”.
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Il che è verissimo, in quanto ogni livello di coscienza deve presupporre un orizzonte ontologico fondamentale non dimostrabile ma intuitivamente asserito, ma il discredito della ragione in nome della fede non poteva non coinvolge la stessa fede quale fondamento della ragione. Il problema era di conservare alla ragione la sua funzione ancillare, criticando la sua emancipazione, non la sua possibilità teoretica. Infatti, il livello di coscienza razionale, rispetto a quello fideistico, tendeva a tradurre le verità di fede, tradizionali e dogmatiche, accettate d‟autorità, in verità di ragione, accertate dialetticamente. Le stesse verità, interpretate cum simplicitate, ovvero cum grano salis. Screditare il metodo della ragione significava screditare lo stesso servigio prestato alla fede, la quale così restava sospesa sul sentimento di “sacra simplicitas” che non poteva fungere da alternativa alle esigenze gnoseologiche avanzate dalla scienza moderna, poiché la “simplicitas” era una qualità della fede, che dunque la presupponeva. Ma la stessa fede, non era riducibile a un “sentimento”, essendo la condizione fondativa della conoscenza razionale, il suo presupposto ontologico, costituito appunto dalla fede nell‟Essere (anziché nel Nulla). L‟Essere della fede coincideva con l‟Essere della ragione, che era il linguaggio umano di Dio. Nel momento in cui Dio non viene più intuito come Essere, ma come Nulla, anche la ragione diventava inservibile alla conoscenza teologica, e quindi disponibile ad altra funzione cognitiva. Fu dunque la teologia negativa a destinare la ragione ad altri scopi teoretici, definiti come gli unici alla sua portata: la conoscenza dell‟uomo storico e della natura fisica. Lo scetticismo anti-razionalistico, non più trattenuto dalla fede autentica di Cusano, trabocca in ipotetismo, coinvolgendo nella critica delle posizioni umane, “non solo i princìpi scientifici, ma anche quelli morali e religiosi”, rendendoli “indeterminati”, per cui “la fides si abbassa a credulitas”, mentre le storiche posizioni religiose non sono più rette dalla “ragione” della fede, ma da “una vaga disposizione della volontà a credere, che garantisce la permanenza dei sistemi”.
103 Ivi, pag. 144.
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Il concetto di ipotesi di lavoro, che ha preso il posto della convinzione diretta originaria, non è una saggezza che provenga dall‟umanesimo italiano, [ma] è un‟eredità nominalistica, [ossia] una eredità di pensiero tardo-medievale che si trova già in Wessel, con in più un netto orientamento sociologico, [dove la] necessitas fidei [viene presentata pericolosamente come la] maledizione [di una] fede che ci condanna ad un non sapere eterno e a sostituire al sapere una credulità vana.
A questa condizione negativa non c‟è rimedio, poiché all‟antitesi assoluta manca la tesi, la quale deve essere ricostituita dalla decisione a credere che l’Essere sia, “perché senza questo patto tacito non ci sarebbe niente che si potesse chiamare società umana”.104 Il punto di vista originario, che poneva il livello di coscienza razionale interno all‟orizzonte di fede ontologico, viene rovesciato, per cui è la ragione a dover fondare la realtà, assumendo al posto della volontà di fede la volontà di ragione, intesa come convenzione pattizia, solo ipoteticamente vera ma certamente utile ai fini della socialità. In queste posizioni intellettuali sono il terreno di coltura delle future piante dell‟empirismo e del nichilismo, che rappresentano le due versioni dialettiche dello stesso “cesarismo spirituale” che induce all‟obbedienza in omaggio alla convenzione e all‟opportunità, che sono risorse di una cultura che ha perduto ogni certezza di verità e che è sorretta solo da un‟etica relativistica, consapevole dell‟infinita varietà di forme e di credenze che nel tempo e nello spazio articolano le molteplici espressioni culturali della storia umana. Nell‟orizzonte della pura convenzionalità e volontarietà, la stessa ricerca della verità diventa inutile, esistendo già una tradizione che per caso ci si offre come valore orientativo da seguire, e che è non meno arbitrario del‟obbedienza che si deve allo specialista, conformemente al detto che “inicuique perito in arte sua credendum est”. 105 Lo scopo di questo approccio agnostico era di dissuadere dall‟intraprendere una ricerca individuale, destinata al fallimento delle ambizioni superbiose del furor rationalis dell‟uomo di scienza, ma l‟esito mancato di conseguire una “certezza assoluta” determinò “il fallimento della scienza”. La critica scettica, pirronistica, si intreccia qui all‟esigenza
104 Ivi, pag. 145. 105 Ivi, pag. 146.
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devozionale di tener fede al dogma del peccato originale e al precetto di diffidare di ogni deificatio scientiarum, consigliando
la via del non sapere come quella di gran lunga più sicura, finendo col venerare quella intatta semplicità del cuore ignara di conflitti di opinioni e di ricerca della verità coi mezzi del pensiero, [ossia in un] “encomium asini” che contrappone al “gigantesco elefante” della scienza l‟asino, come simbolo dell‟atteggiamento cristiano, e giunge a prendere le difese dei tanto condannati preti ed abati contro gli “orgogliosi sofisti”.106
La ignorantia è per Agrippa – come lo sarà per Rousseau – la risposta sapiente al alessere spirituale provocato dalla perdita della originaria innocenza e non compensata dal sapere, irraggiungibile e perciò vano. Una forma di oblio dopo tanto peregrinare sapiente tra dottrine e credenze, la ricerca del riposo dal sapere (e non la consolazione del sapere), la “quiete d‟una atarassia spirituale” dove “il non sapere di Cusano è diventato un non voler sapere, l‟aspirazione ad una tranquillità idillica”, per cui la “devotio moderna” ha acquistato i toni di una “rassegnata semplicità cristiana”, dove la docta ignorantia, “al contatto con „eudemonismo del tardo-medioevo, rischia di diventare un‟occasione di estetismo”, una “ars ignorandi”. 107 Ma l‟agnosticismo tedesco seppe rifuggire da questa deriva sentimentalistica da dandy opponendo allo “idillio piagnucoloso” un pessimismo morale, distruttivo quanto sofferto. Erede diretto di Agrippa fu Sebastian Franck, il quale accentua ancora di più la separazione tra l‟essere di Dio, l‟essere in generale e l‟intelletto umano che Cusano era servito a rendere definitiva. La conoscenza del finito, divenuta problematica, lascia il posto a uno scetticismo che dalla realtà concreta si estende a quella metafisica. Ora la parola di Dio contenuta nella Bibbia è inizio e fine di ogni sapienza, anche se “vale per ciascuno nella misura dei suoi poteri”. Franck va oltre l‟atteggiamento quietistico,
pone cioè l‟insufficienza delle espressioni umane, che egli sente più vivamente, al servizio di una tolleranza che non ammette alcun partito. La
106 Ivi, pag. 147. 107 Ivi, pag. 148.
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dottrina del nn sapere diviene un arsenale per gli attacchi contro i vincoli delle ortodossie vecchie e nuove, in ossequio al soggettivismo di quest‟epoca di transizione che non ha più radici.108 L‟insufficienza umana si trasforma in spirito di tolleranza. Non potendo l‟uomo conoscere l‟assoluto, non è in grado di parlarne, né per sminuirlo né per elogiarlo, per cui, di fronte al problema della vita, al thàuma, la filosofia resta muta, avendo perduto il linguaggio della ragione. Questa, emancipata dalla fede, prende una sua strada teoretica, quella della scienza naturalistica, mentre la fede resta sospesa al sentimento.
E‟ questa una delle vie per le quali l‟epoca moderna è divenuta areligiosa, per questa ragione ha posto accanto alla religione positiva, sentita come presunzione, una filosofia critica ed una formazione interiore umana.109 Ciò che non si è compreso è il ruolo della ragione all‟interno dell‟orizzonte della fede, fuori del quale essa non è più “filosofia”, cioè strumento della conoscenza razionale di Dio, ma “scienza”, cioè tecnica di costruzione metodica delle opinioni umane e delle ipotesi di conoscenza della natura, razionalismo. Franck sfugge all‟ateismo e al criticismo opponendo all‟ars ignorandi, la “arte di Dio”, “secondo la quale non si può fare Dio „tanto ingannatore‟ da non essersi dato a conoscere a ciascuno „nella misura della sua necessità‟ ”.110 Venuta meno la parola per trasmettere e conoscere la esperienza di Dio, resta solo l‟immediatezza diretta. Anche la Bibbia non fa eccezione, con le sue oscurità e contraddizioni. A ciò deve aggiungersi la “molteplicità dei libri santi”, che costituisce la prova ulteriore “contro la possibilità di una manifestazione di Dio in scritti canonici”, per cui “Franck non ammette, in senso stretto, né una rivelazione storica né una dogmatica, ma solo un sentire del tutto individuale nel silenzio dell‟animo”.
Il rapporto mistico dell‟infinito con l‟anima che lo accoglie, nelle mani di Franck, diventa una marcata relativizzazione del concetto di Dio […]. L‟eterno, nella sua indefinita “mobilità”, ha la sua esistenza (non solo la sua
108 Ivi, pag. 150. 109 Ivi, pag. 151. 110 Ivi, pagg. 150-151.
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forma di rappresentazione) nel comporsi e scomporsi delle rappresentazioni, mentre l‟essenza resta totalmente trascendente, oscura, indifferente. L‟essere in sé e la manifestazione sono separati da un abisso insuperabile, il metodo della ricerca e le proprietà di colui che cerca determinano la figura ed il carattere di ciò che è cercato. Con ciò si rinuncia ad ogni criterio di esattezza dell‟immagine di Dio.111
La “inconoscibilità di Dio” è il presupposto della relatività di ogni ricerca, e non l‟esito, poiché “condiziona la relatività della sua manifestazione e viceversa”.112 L‟incognito non è l‟oggetto del sapere, ma il Soggetto, la cui negatività trascina nell‟ineffabile ogni relazione con esso. solo dando realtà al soggetto si riafferma la positività del sapere. Il soggettivismo è anzitutto una gnoseologia del possibile, cioè della possibile conoscenza. Conoscenza relativa a condizioni, tempi e cultura.
Poiché niente è certo e ogni conoscenza è ugualmente valida e priva di valore, la verità e l‟errore si ripartiscono senza differenze fra cristiani e non cristiani, ortodossi ed eretici. Ciascuno ha in sé un minimo di presentimento della verità. così l‟idea di questa inevitabile ignoranza ha in sé le radici di una illimitata tolleranza.113
Dio è “absconditus”, e come tale conoscibile solo per negazioni. Finché era Dio il Soggetto, era la sua parola misteriosa, ma vera. Ora che il soggetto è l‟uomo, Dio viene conosciuto come negatività dell‟Essere sconosciuto, di cui si può dire solo che non si può dire. Il dire e il non dire perciò coincidono nel Niente, per cui “Dio si lascia cogliere quale „essenzialmente non è‟ ”. 114 Il livello di coscienza razionale, emancipatosi dal suo orizzonte di senso teologico, concepisce il Mistero di Dio come non-Essere, essendo l‟Essere legato alla determinazione razionale del giudizio. Ma proprio questa rappresentazione assurda di Dio, che capovolge l‟Essere nel suo opposto logico, anziché essere la prova dell‟incongruità
111 Ivi, pag. 153. 112 Ibidem. 113 Ivi, pag. 154. 114 Ibidem.
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teoretica della assoluta ragione, così come voleva Cusano, diventa, nella dimensione di senso razionalistica, un negativo ontologico, per cui, nella prospettiva gnoseologica soggettivistica, l‟Essere diventa il Niente, e l‟inconoscibile per sussunzione logica diventa il non-Essere parmenideo. Pertanto il sapere razionalistico, anziché assumere tale inconoscibilità di Dio come il limite insuperabile della ragione umana, lo assume a giustificazione della inesistenza di Dio come problema razionale, relegandolo alla dimensione del privato sentimento religioso. La contraddizione insuperabile della scepsi tardo-medievale è che, a fronte del rigetto della tradizione biblica e neo-testamentaria, si sviluppa un‟altra tradizione scritturale, di tipo più o meno mistico, e che in Cusano trova un campione primario, giungendo fino all‟estremo dell‟autodistruzione di ogni sapere e di ogni fede. Infatti, l‟agognata “rivelazione di Dio” cui anela la docta ignorantia, è preclusa dalla definizione di Dio come Essere-che-non-c‟è. Ma è esattamente questo non-essere a essere superato dall‟incarnazione di Cristo, per cui il ritorno alla Bibbia dopo Cristo è un passaggio dall‟Essere al nonEssere, che costituisce esattamente l‟involuzione di un pensiero (religioso) che nega il suo fondamento d‟essere ontologico, portandosi alla condizione teoretica pre-platonica e pre-dialettica, mitica. Partire dal non-Essere significa affermare per opposizione l‟Essere come, a sua volta, non-essere del non-essere, ossia ricadere nell‟ontologia negativa di Parmenide criticata nel Sofista da Platone. Infatti, l‟umanesimo non farà che rovesciare i termini dell‟alterità tra non-essere ed essere, ponendo l‟essere come termine di paragone e come altro-diverso. In tal modo, al posto della soggettività negativa di Dio si pone la soggettività positiva del‟uomo, che diviene pertanto la “misura di tutte le cose”, quelle che sono (diverse) e quelle che nonsono (l‟Altro, Dio). Ma rimuovere l‟Essere di Dio dal campo della conoscenza razionale, significa circoscrivere questa nel campo del solo Molteplice, degli enti fenomenici, assegnando alla scienza un primato legato alla credenza, cioè al mito, della sua esclusività teoretica. Solo a condizione che il pensiero rinunci alla verità è dunque possibile affermare il primato della conoscenza ipotetica, del sapere scientifico, ma appena si affaccia l‟esigenza di pensare l‟Uno, cioè l‟unità dell‟Essere ontologico e non meramente ideale o naturale, ecco che riaffiora il problema di Dio. E
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infatti, poiché Dio è l‟Altro di tutte le cose che sono, comprese le idee, Egli è la vera unità e infinità a cui tutto e ogni cosa si rapporta. Se le idee, in quanto universali, non possono contenere le idee diverse, e quindi superare la loro molteplicità e finitezza, solo Dio può rappresentare la vera unità che tutto comprende in sé, sia pure a contrario, per negazione di tutto ciò che è, e che appartiene al Molteplice. Se tutto ciò che “è”, appartiene al Molteplice, solo Dio, che è Uno come sé e Molteplice come opposto a ogni cosa che è, è Uno. Il vero Uno, Dio, è Negativo. E se il positivo è la vita naturale, il Negativo è la vita spirituale, la Morte; e se la vita è solo se oggetto di conoscenza, la Morte è il Mistero, ciò che la ragione non può conoscere. Questo è il pensiero di Cusano. La dissoluzione cristologica è consistita, storicamente, nella sostituzione della logica della rivoluzione sociale a quella della conversione dei cuori, innestando la logica politica nelle relazioni spirituali, ossia nel guidare imperativamente la volontà di fede, trattandola alla stregua di una verità di ragione, che solo come tale è riformabile e conculcabile. Secondo la logica del Mistero, invece, la volontà di fede non può che essere suscitata carismaticamente, dipendendo essa dalla grazia, e non dal potere umano, cioè dall‟interesse politico. la volontà di fede, la verità interiore del “cuore”, è l‟atto di libertà che libera l‟uomo dalla necessità dei rapporti mondani. Voler tradurre la libertà interiore in necessità, cioè in volontà sociale, è non solo blasfemo ma assurdo quanto voler fare di una persona spirituale un individuo d‟ordine sociale: quanto il Cristianesimo ha esplicitamente ricusato della logica antica, e che l‟umanesimo razionalistico ha recuperato in chiave ideologica totalitaria. Lo Stato antico giustificava il Potere con la sua efficacia, per cui la logica societaria aveva la sola ambizione di renderlo coerente, sistematico, razionale. L‟umanesimo moderno, dissolta la sintesi cristologica, ha ripreso questo disegno esasperando l‟aspetto tecnico del Potere, esautorando la politica di ogni finalismo ideologico e riducendola a economica, a volontà razionalizzata fine a se stessa. La ragione dialettica socratico-platonica ha giustificato l‟appartenenza logica eleggendo la scelta razionale a realtà ontologica, trasformando il negativo in altro, sia nel senso teoretico del deuteragonista che in quello politico del nemico. La logica dialettica è strutturalmente
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dicotomica, oppositiva. Essa non prevede mediazioni ma solo l‟affermazione esclusiva del sé contro l‟altro. Essa è intimamente contraddittoria, in quanto non può giungere alla verità senza sopprimere l‟antitesi, ma non può affermarla senza presupporla. E‟ una falsa verità come è una falsa unità l‟affermazione esclusiva di sé. L‟unità vera si ottiene non già negando l‟altro-da-sé – poiché l‟affermazione solipsistica del sé non lo trasforma in altro-dall‟enteche-è -, ma solo affermando un sé arricchito della potenza negata dell‟altro. L‟unità vera si ottiene riconoscendo l‟altro come sé, e negando pertanto la molteplicità dei rispettivi esseri per affermare l‟unità del loro reciproco non-essere. Il non-essere, non è il Molteplice, ossia il diverso come ente opposto, ma il non-Molteplice, e cioè l‟Uno. E l‟affermazione dell‟Uno non può avvenire nei odi proprii al Molteplice, ma nel modo proprio all‟Uno, ossia appunto negando la realtà molteplice e la sua logica oppositiva e affermando l‟unità della realtà unitaria, che è Spirito, quel non-Essere che sfugge a ogni determinazione oggettiva della conoscenza razionale, in quanto fondativa di ogni determinazione d‟essere, rispetto alla quale è Possibilità, così come, rispetto alla conoscenza fattuale, è Mistero, in quanto “è” già prima di “diventare”, cioè di determinarsi come ente nel tempo, storicizzandosi. L‟inizio significativo trascende la storia fenomenica, non esaurendosi mai nel suo divenire e perciò restando sempre sé stesso, e quindi Uno, e quindi è posto non in rapporto logico alla sua incidenza temporale, ma al suo significato ontologico. ed è in virtù di questo significato che l‟evento misterioso della Croce stia sempre all‟inizio di ogni senso storico degli eventi, quale fondamento trascendente. Ed essendo il Mistero eternamente all‟inizio di ogni senso ideale degli eventi storici, esso non può risolversi in oggetto problematico ed essere superato palla razionalità dialettica, ossia distinto come altro polemico rispetto al lògos apofantico. La ragione del Mistero non è la ragione del mondo. La ragione del Mistero lascia intatto il Mistero, il suo fondamento essenziale e inattingibile in sé, perché non oggettivabile, mentre la ragione del mondo è il mondo stesso, la ragione finita del finito. La ragione può dominare il suo oggetto, il mondo, ma non può trascenderlo, anche quando suo prodotto. L‟ammissione kantiana della “cosa in sé” conserva questa consapevolezza, che viene già adombrata dalla teoria di Cusano, che intende per “ignorantia” la intrascendibilità dell‟Essere
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totale, della sua possibilità infinita. La ragione che si pone come fondamento del mondo razionale, cioè umanamente conosciuto, il mondo della Storia, si fonda per atto di auto-posizione, che è atto di volontà. All‟inizio della Storia razionalmente conosciuta si pone un atto supremo di volontà, che afferma la realtà del mondo nei termini della sua esclusiva posizione razionalistica, esclusiva di ogni altro senso. Scegliere l‟Essere, anziché il non-Essere, significa optare per la verità conosciuta dalla ragione che pensa l‟Essere, per cui l‟atto fondativo dell‟Essere diventa lo stesso atto di pensiero: cogito ergo sum. L‟universalizzazione dell‟atto posizionale fonda l‟Essere. E‟ per questa via fondativa che l‟idealismo rinuncia alla realtà del mondo per la realtà del pensiero che lo pone in essere, considerata la realtà “vera”. Affermare che l‟Essere “è” e pensarlo, si equivalgono. Da qui la necessità della coscienza per l‟esistenza dell‟Essere, ossia l‟umanesimo razionalistico. “Trarre il mondo” col pensiero, alla maniera platonica, significa razionalizzarlo, trasfigurarlo idealmente, espungendo dall‟esistente molteplice ciò che non-è oggetto di ragione, l‟indeterminato. Ciò che non è determinato non è ente molteplice, e quindi è Uno. Il razionalismo, volendo dominare il Molteplice, ma non potendo trascenderlo, elimina dalla Storia il Mistero, l‟Uno, e cioè la realtà di Dio. Il pensiero classico non conosceva la Storia perché si limitava a organizzare il mondo sociale, mantenendolo nell‟ambito delle leggi “fisiche”, naturali. L‟unità era costituita dalla società. Il cosmo cristiano è un mondo spiritualizzato nel segno dell‟umanesimo, ponendo l‟uomo-Dio al fondamento unitario della Storia della salvezza. Il Mistero della Storia consiste nella contraddizione di porre la Morte a fondamento della vita. Questa aporia è la “follia” al cospetto della sapienza profana e mondana, che la sola logica dialettica non può sciogliere. Da qui la sacra inviolabilità del Mistero da parte della ragione, che Cusano chiama “ignorantia”, cioè inconoscibilità. Ma da qui inoltre la differenza radicale rispetto al Mito, alla risposta confusa al thàuma che la ragione elaborava dialetticamente. Di fronte al Mistero cristiano, la ragione non interviene in modo correttivo, ma solo esplicativo. Essa non soppianta il Mito nella risposta al thàuma, perché la sua funzione ancillare è quella di renderlo comprensibile all‟uomo. Questo servizio ermeneutico comporta che l‟approccio della ragione al Mistero non possa essere affidato alla sola tecnica logica, ma
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dev‟essere assistito dalla fede nel fondamento, cioè dalla Grazia, che è il principio di verità che, sin dal‟inizio, media il rapporto della conoscenza razionale col Mistero stesso. Diversamente che nel processo maieutico socratico, la verità della ragione non è alla fine del discorso dialettico, ma all‟inizio, sicché tutto il discorso della ragione, ossia il processo ermeneutico, conduce all‟inizio, chiarendosi come rivelazione infinita dell‟Essere, fino all‟apocalisse conclusiva, quando la fine coinciderà con l‟inizio. Questo il senso platonico dell‟accordo ermeneutico del pre-giudizio col giudizio, da cui discende l‟importanza dell‟esercizio caritatevole della ragione rettamente ispirata, cioè guidata dalla Grazia, che ispira le intuizioni del cuore. All‟interno dell‟orizzonte di senso del Mistero, la ragione ispirata dalla Grazia divina perde ogni carattere di libera ricerca, di significato antidogmatico, e il motivo autonomistico che aveva entro l‟unità idealistica del senso, se può conservare un valore di chiarificazione della rappresentazione simbolica della realtà proposta dal Mito, diventa istanza irrazionalistica di fronte alla verità del Mistero, perché contraddittoria rispetto al senso del suo fondamento ontologico. La “dialettica del razionalismo” consiste esattamente in tale esito contraddittorio della ragione che si emancipa dalla fede nel suo fondamento e si costituisce come fede auto-fondata, come credenza metodica e fantasia sistematica. Al Mistero la ragione infondata sostituisce l‟ipotesi, e il posto riservato dalla fede alla ratio è occupato dalla voluntas, che diventa lo strumento della ragione auto-noma. La religione del sistema razionalistico è la volontà, che, da distrazione della ragione diventa strumento della ragione. La volontà socializzata è il Potere, che si esplica attraverso la forma giuridico-normativa della legge. La confutazione idealistica del Mito (Eutifrone) ha lasciato la ragione dialettica senza fondamento veritativo. La verità è ora diventata mistero, esito incognito del processo logico-dialettico. Anziché all‟inizio, l‟Essere viene posto alla fine, tale da lasciare sospesa la ragione al suo esito. Ed è questa condizione di sospensione di senso a consentire l‟ipotesi socratico-platonica del Sofista per cui la ragione trae dal Nulla l‟Essere. Nell‟intervallo tra il Nulla e la Verità si esercita la funzione supplente dell‟Ipotesi, la quale vige al posto della verità. La rimozione del Mito ha lasciato quel vuoto metafisico di senso, dal quale la logica dialettica trae l‟Essere ideale, prodotto della sua attività
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di pensiero. Il primato della ragione si costituisce con la soppressione dell‟Essere e la sua sostituzione con l‟Idea. Il vuoto lasciato dal Mito, rispetto all‟Essere idealistico del pensiero dialettico, che si determina nel giudizio come suo esito finale, ignoto prima del dialogo, è un nonEssere, dal quale prende le mosse il pensiero per determinarsi positivamente. Con Socrate comincia il razionalismo classico, elaborato da Platone e quindi da Aristotile. L‟umanesimo moderno tenta la stessa operazione col Mistero cristiano, trasformandolo in Mito oggetto di demitizzazione razionalistica. Ma l‟operazione risulta impossibile, perché il Mistero non è un Mito ma la totalità del senso su cui si esercita la stessa ermeneutica razionalistica. Il Mistero è il Tutto, e non può essere trasformato in Niente, ma solo essere rimosso come inconoscibile. Il Mistero è il senso stesso dell‟esercizio della ragione critica, e non un occasionale enigma, cioè un evento insolito suscitatore di risposte ragionevoli. Abolito il Mistero, viene a cessare anche la funzione critica del pensiero filosofico. Non c‟è assenza di senso nel Mistero, ma pienezza di senso. Entro l‟orizzonte di senso del Mistero, la ragione non può definire ciò che la contiene, ma solo cercare di chiarificare, nelle modalità consentite dalla condizione finita dell‟intelligenza umana, la propria posizione critica in riferimento al suo principio totale, posto all‟inizio e non alla fine dell‟attività noetica. Infatti l‟Apocalisse finale non sarà che la rivelazione compiuta del senso iniziale, la coincidenza del Mistero con la Verità. In questo senso, la ragione strumentale classica non può fondare la conoscenza della Storia cristiana, in cui il Tutto è già stato posto in essere all‟inizio – e non alla fine – del processo razionale, dando il senso del processo stesso e costituendolo come la fenomenologia del Mistero divino. Il razionalismo moderno può trovare la sua legittimazione epistemologica solo ponendo il Tutto come Niente, ossia facendo di Dio un non-Essere ente, un ni-ente. E‟ questo il significato nel nichilismo moderno, che pone il Soggetto trascendentale come Tutto e l‟uomo come fonte di senso e centro poietico della Storia demisterizzata, cioè razionalizzata e scristianizzata. La ragione senza fondamento ontologico si regge sulla forza della volontà, sulla quale costruisce la stessa città dell‟uomo, legittimata da un‟etica convenzionale e da una politica ridotta ad economia delle forze sociali. E la ragione sospesa sul Nulla fonda una civiltà instabile
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e strutturalmente contraddittoria, cioè auto-dissolutoria, che fa della libertà individuale il fondamento del suo concetto d‟ordine sociale. La ragione del Nulla produce la logica del nichilismo, cioè la negazione del fondamento di realtà come Essere il cui divenire è la sua possibilità, non la sua generazione produttiva ex nihilo, ossia la sua riduzione a storicità, cioè ad attuale temporale. La ragion storica nega la possibilità della Verità dell‟Essere affermando l‟auto-fondazione, ossia l‟identità, del processo generativo della realtà con la sua conoscenza, ossia con sé stessa, concepita come Tutto, ossia “nient‟altro che storia”, ovvero Niente. Da qui l‟auto-confutazione dello storicismo razionalistico. L‟Essere razionalistico, infatti, identificato col divenire, ed emancipato dal suo fondamento ontologico, fa della Storia una sociologia, cioè una fenomenologia dei fenomeni sociali. Trasformato il divenire in Essere, cioè in realtà di pensiero, l‟oggetto della Storia razionalistica è il negativo dell‟Essere (= divenire) positivizzato: un Essere-non. Il negativo dialettico diventa positivo reale, e l‟opposizione logica inimicizia politica. Il conflitto dialettico, da logico che era entro l‟orizzonte di senso religioso, diventa ontologico entro l‟astratto orizzonte di coscienza razionalistico, e l‟alterità logica diventa opposizione reale, conflitto politico. E‟ questa la dialettica del razionalismo moderno: la conversione di ogni astratta tesi ideale nella sua antitesi reale. Entro l‟astratto orizzonte di senso razionalistico, la fede (posizione ontologica della credenza religiosa) diventa volontà d‟essere, posizione idealistica, la cui ratio diventa, da “valore-di-ragione” a “valore-dipotenza” (esercizio volontaristico della forza: politicismo ed economicismo).
6. Il sec. XV è “un‟epoca di epigoni”.115 L‟inesperienza dei mistici “non è quel generoso inclinarsi davanti alla tradizione, proprio dell‟uomo medievale che antepone la dottrina appresa al proprio pensiero, l‟autorità al proprio cercare”. Non essendoci più “un oggetto, come nella scolastica”, ma trattandosi “del processo personale unico dell‟esperienza mistica”,ciò che “era un tempo una esperienza diretta è diventato ora un‟esperienza mediata dalla cultura del trattatista”,
115 R. Stadelmann, Op. cit., pag. 165.
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spesso venata di stupore scettico e di ironia, come nel caso di Erasmo.
Quel che essi [i mistici tardo-medievali] presentano non sono più le loro stesse esperienze, ma le loro teorie [e] l‟espressione theologia mystica non significa più un sapere mistico su Dio, ma appunto teologia mistica. E‟ noto che in epoche prive di fede ciò che prima era una realtà vivente si presenta in forma letteraria, [per cui la mistica del XV secolo] divenne il centro di una visione riflessa, fondata su una profonda conoscenza dei fenomeni storici, in uomini ben diversi dai mistici autentici dell‟età precedente.116
La “visio Dei” era una posizione la meno vincolante dogmaticamente e la meno attaccabile razionalmente, per cui divenne un “aiuto e sostegno, quando tutto minacciava di frantumarsi”, sicché “non sarebbe inesatto definire come gnosticismo il carattere specifico di questa situazione spirituale: più che una filosofia mistica è una filosofia della mistica”.117 I “mysteria intellectualia” diventano il pensiero di ristrette cerchie esoteriche costituite di “pochi eletti”, riluttanti a divulgare le loro teorie presso un pubblico profano e incolto, esposto alla eresia.118 Il timore di provocare derive eterodosse presso un popolo ancora pregno di sentimenti religiosi tradizionali spingeva gli gnostici del XV secolo ad agire con una circospezione che rasentava la “cattiva coscienza”, per cui il dotto prende le distanze dal “sudicio mondo”, e seppure
egli tiene ferma l‟idea che c‟è una sola verità, ha però rinunciato al principio che tale verità sia la stessa per tutti. Il veleno della critica sprezzante e pessimistica ha reso insanabile la frattura apertasi con la rassegnata prudenza della mistica tardo-medievale. [Se per Meister Eckhart] la mistica è un vangelo, per Cusano diventa una filosofia; i successori poi ne hanno fatto una teologia ed una dottrina segreta, sì che dovette divenire sempre più un rifugio di naufraghi, la cui situazione minacciata era rivelata più che nascosta dal loro
116 Ivi, pagg. 169-170. 117 Ivi, pag. 170. 118 “E‟ indubbio che, in questa attenzione, gioca anche il timore che l‟attrattiva di tendenze extra-ecclesiastiche, sempre latenti nella mistica, non le porti ad un improvviso risveglio ed a una rapida diffusione”: Ivi, pag. 171.
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atteggiamento esclusivistico.119
A questa tendenza va aggiunto quel “complesso di idee che ha avuto la sua base sociologica e storico-culturale nella religiosità laica dei Paesi Bassi e ha trovato una formulazione letteraria […] nel libretto De imitazione Christi”, le cui radici non sono mistiche ma legate a un “movimento di riforma dei canonici regolari agostiniani” della congregazione di Windsheim, tendente ad affermare nuove forme di coscienza religiosa che includevano la “svalutazione delle prerogative ascetiche” a favore della “simplicitas”, quale virtù complementare a quelle cardinali della “paupertas” e della “humilitas”, alle quali si affiancava “il sentimento d‟indifferenza, di scetticismo e di superiorità nei confronti degli effetti salvifici dei sacramenti amministrati dalla chiesa”, così da configurare complessivamente un tentativo di “superamento dall‟iterno dell‟istituto sacerdotale e monastico”.120 La preminenza della “disposizione del sentire sul contenuto del sentire” oltrepassava i confini della ecclesia, coinvolgendo in un abbraccio unificante tutte le religioni e costituendo uno dei fattori di tolleranza tipica della cultura religiosa tardo-medievale, operando, attraverso l‟innesto nel‟idea della devotio moderna della corrente del moralismo del xv secolo, “come fermento cosmopolita anche nell‟atteggiamento degli umanisti di fronte alle questioni religiose”. 121 Rispetto alla “simplicitas cordis” di Eckhart, quale sentimento originario, il nuovo concetto era piuttosto una “simplificatio” del sentimento religioso, che le faceva assumere “un senso edificante, popolare e sminuito” in cui scompariva la personalità del fedele di fronte al ritorno a quello “stato essenziale in cui si produce la nascita di Dio nell‟anima” presso l‟originario Logos.122 Ma il concetto di “simplicitas” non era univoco, e se per Groote andava inteso come “la rinuncia lla volontà di sapere, il supermento della „curiosità‟ ”, per Cusano era tutt‟altro che un sentire ingenuo, ma bensì costituiva “il terzo ambito della ragione „pura‟, l‟armonia
119 Ivi, pagg. 172-173. 120 Ivi, pag. 174. 121 Ivi, pag. 175. 122 Ivi, pag. 176.
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dell‟intuizione che sta sopra la percezione sensibile e la sola ragione”. La filosofia, da metafisica è diventata psicologia, sicché “tra i due mondi c‟è il rapporto che vige tra una esperienza vissuta e un‟emozione, tra il possedere e l‟attendere, tra il sì e il no”. Ibidem.] Mutano i valori:
la disposizione morale di un‟anima sensibile, una passività incurante dei risultati effettivi e l‟atteggiamento negativo e limitante definiscono il carattere ristretto del De imitatio Christi [in cui] la visio si è mutata in visitatio, la pace della visione nella sensazione di essere visitati.123
Interviene una sorta di umanizzazione della rinuncia a sé, ossia di quella “personalità” che poi doveva costituire il paradigma e il fine educativo della tensione morale rinascimentale, ma attraverso quella “ariditas mentis” che è il tratto caratteristico della devotio moderna, la quale “non vive né fede né incredulità, non speranza né disperazione, non gioia dei sensi né ascesi”, e che si riflette “nella ostinazione legnosa e nello stanco malumore di vaste zone dell‟arte del XV secolo”.124 Si tratta di uno stato d‟animo che estende all‟epoca storica la posizione d‟impotenza che l‟intelligenza critica riscontra al contatto di una realtà sociale e religiosa ormai in via di esaurimento della fede ontologica che ha sostenuto l‟universo di senso medievale. L‟impotenza non è ancora distacco, poiché quel mite sentimento religioso di “semplicità” invocato malinconicamente produce ancora effetti sensibili nell‟animo del dotto, ma che sono “psicologici”, e non riescono più a soffocare le istanze critiche di una ragione in transizione verso posizioni demitizzanti. In questa zona “critica” di confine tra due livelli di coscienza, quello mitico e quello razionale, l‟intelligenza si accascia in un languore metafisico che coinvolge la stessa volontà, sì che l‟esistenza si conduce in un torpore flemmatico che non è solo gravità di una pensosa lenitas ma piuttosto rassegnata malinconia, molto prossima allo struggimento tipico del decadentismo.
La disposizione d‟animo della devotio presenta un‟affinità elettiva con l‟uomo
123 Ivi, pag. 177. 124 Ivi, pag. 178.
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post-romantico, soprattutto per il fatto che la radice di quel suo morire non è la lotta che il monaco conduce contro la vita sotto la bandiera del soprannaturale, bensì la fuga dal mondo per disgusto della vita. E‟ proprio quel motivo che la dottrina monastica medievale rigetta con tanto rigore, quella aspirazione alla morte per disperazione che il cattolicesimo tridentino vuol eliminare con ogni mezzo,
opponendosi all‟immagine dell‟homo desolatus, che non sente più alcun interesse e trasporto per la vita, ma solo “un tedio intollerabile e tale da dover essere abbreviato ad ogni costo”.125 E‟ l‟apologia dell‟amor mortis che anela alla “liberazione dalle paure e il riparo per chi è mortalmente ferito”, quel “tedium vitae, che mai era mancato nel medioevo, ma che nei suoi momenti salienti era ispirato dal rigoroso dualismo dell‟al di là o da un fervore escatologico”, e che ora “è entrato in una nuova fase” di “dolore cosmico”.126 Si sbaglierebbe riducendolo a uno stato d‟animo meramente psicologico e circoscritto all‟ambito sapienziale, essendo invece il motivo dominante di un‟epoca che avverte, sia pure a livelli di coscienza diversi, la dissoluzione metafisica del cosmo cristiano. Né è un caso che scrittori come Cicerone, Seneca, Virgilio, Petrarca e Platone siano gli autores prediletti di quei distaccati cultori della tranquillitas animae, il cui motivo ostile agli affari del mondo “va sempre più secolarizzandosi, cioè diffondendosi anche fuori del chiostro”, rappresentando la risposta del declinante cattolicesimo alla crisi metafisica, che potremmo chiamare di “ascesi extra-mondana”, per opporla significativamente “a quella inframondana del lavoro e della professione”,127 coltivata dallo spirito protestante come speculare risposta a quella crisi. Alla parola sapiente si sostituisce il silenzio, che lascia che il mondo vada per la sua strada. La rassegnazione è una delle matrici del soggettivismo di Sebastian Franck, che Stadelmann chiama “il curatore del fallimento del medioevo”. Franck esprime meglio di altri l‟interno rodìo di uno smarrimento senza luce di speranza, custodito con la gelosa cura di chi è consapevole che esso sia un sentimento elitario ed
125 Ivi, pag. 179. 126 Ivi, pag. 180. 127 Ivi, pag. 181.
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esclusivo.128 Questa consapevolezza fa del dolore un privilegio del rango intellettuale, ma costituisce anche il sintomo della crisi d‟identità che sta attraversando il chierico medievale in quell‟età di mezzo, dovuta non ancora a ragioni sociologiche di status quanto alla impotenza teoretica a rielaborare il senso della fede tradizionale in mancanza dello strumento della ragione, esautorata dalle sue funzioni ermeneutiche ancillari. Il passaggio dall‟oggettivismo al soggettivismo si consuma in una crisi interna all‟universo di senso religioso, determinandosi come dissociazione tra fede e ragione, ma attraverso un opposto processo di emancipazione che interessa tanto il livello di coscienza fideistico quanto quello razionalistico, condotto all‟insegna, rispettivamente, del misticismo e del naturalismo, i quali sono stati tanto i fattori almeno quanto i risultati della crisi religiosa epocale. Infatti, le opposte tendenze si manifestarono non a caso nelle stesse aree culturali che divideranno la cristianità in fideisti protestanti e razionalisti cattolici, evidenziando come la mediazione della Chiesa burocratica non riuscisse più a contenere nel proprio ambito istituzionale i fermenti spirituali che anelavano a una conforme rappresentanza ecclesiale. Così la Chiesa, per difendere la sua struttura istituzionale, dovette difendere la sua cultura di legittimazione, la sua teologia, trasferendo le questioni burocratiche in ambito teologico, allargando così il conflitto anziché contenerlo, e facendo implodere il sistema romano. In tal senso, la “simplicitas” evocata dagli gnostici cristiani del xv secolo, tradisce il rimpianto per l‟appartenenza perduta alla tradizione teologica da parte di chi stia già maturando nella propria coscienza quella separazione dall‟universo religioso cattolico che coinvolgerà anche i depositari dell‟ingenuo sentimento religioso originario, cioè il popolo dei fedeli, la cui partecipazione esistenziale alle dispute teologiche costituirà il paradigma storico della ideologizzazione totalitaria delle masse. E‟ all‟interno dell‟universo religioso che matura dunque il primato della mediazione politica su quella teoretica, che segna l‟inizio della modernità come ricupero e attualizzazione dei valori pagani della socialità. Il silenzio del chierico è l‟attesa dell‟evento “rivoluzionario”, così come il distacco dal mondo è la distanza dalla tradizione, nella quale
128 Ivi, pag. 182.
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era ancora avvolta la coscienza religiosa popolare.
Quando la concezione aristocratica, che divide il mondo in una maggioranza che domina ma e sprovvista di valore e in una piccola schiera eletta di outsiders, fu applicata alla storia delle religioni, ne risultò l‟idea paradossale di una cronaca dell‟eresia che trascura le chiese e i santi e dà tutto il rilievo a quei rari uomini d‟eccezione che hanno osato pensare e sentire “diversamente”, cioè “rettamente”. Questo amore fondamentalmente anarchico per l‟opposizione ad ogni costo alla massa è una delle matrici […] della tolleranza tardo-medievale [che] lasciava un ampio spazio alle opinioni individuali [e al] punto di vista soggettivistico, [in parallelo a quanto, con maggiore consapevolezza storica,] Erasmo sosteneva a proposito della funzione che nello sviluppo storico svolgono le correnti eretiche.129 Nondimeno, codesto elitismo includeva implicitamente un motivo tipicamente ecclesiale, anche se travisato in senso laico e sentimentale: la funzione mediatrice dei chierici votati alle arti noetiche. La crisi della Chiesa viene vista come incapacità istituzionale a comprendere nel proprio organismo burocratico non solo la devotio universale degli stessi cristiani, ma soprattutto il pensiero fedele. La nascita e l‟affermarsi di professioni diverse da quella ortodossa cattolica, testimonia del processo di incontenibilità del fenomeno religioso nei termini originari della missione evangelizzatrice e quindi movimentista. La stabilizzazione mondano-politica della cristianità riproduce all‟interno dell‟ordo religioso la tensione profetica che aveva animato la fede in un mondo ancora pagano, facendo quindi della Chiesa il termine dialettico e conservatore del nuovo movimento ideale e devozionale. Dopo la delusa attesa di Cristo, il fallimento del Cristianesimo storico, della tensione messianica neutralizzata in forma istituzionalizzata eretta a sistema teologico-politico, rappresenta il secondo trauma della fede, al quale la Riforma protestante intende dare una risposta fedele, interna all‟universo ecclesiale. L‟atteggiamento esclusivo e liquidatore di Roma, sembrerebbe dimostrare storicamente l‟intera incomprensione teologica del fenomeno spirituale contemporaneo, sia nel senso della crisi che in quello delle possibili risposte consequenziali. Ma, sia pure nelle
129 Ivi, pagg. 183-184.
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ristrettezze comunicative dei tempi, è difficile supporre che il variegato movimento culturale coevo potesse essere ignorato o passare inosservato, soprattutto trattandosi di moti riformatori interni alla struttura ecclesiastica, e quindi non pregiudizialmente viziati di prave intenzioni. E‟ piuttosto d ritenersi che la reazione ufficiale della Chiesa si inasprì, non tanto a ragione delle dottrine potenzialmente eretiche, quanto di fronte alla minaccia di una dissoluzione della struttura ecclesiastica, che avrebbe compromesso in modo forse irreparabile il ruolo politico della Chiesa in Europa. Anzi, la reazione epurativa della Chiesa, attivata a ridefinire i termini dell‟ortodossia cattolica in senso inevitabilmente settario e restrittivo, interno al solo universo cristiano politicamente controllato da Roma, palesò la piega secolaristica del cattolicesimo, che, sotto le spoglie del defensor fidei si preoccupava di fare la parte del defensor pacis, ossia di assicurare quell‟ordine mondano storicamente funzionale alla sua egemonia religiosa: la pax cattolica erede della pax romana. D‟altronde, la delusione sentimentale, divenuta morale prima che intellettuale, si attiva, ancor prima di esplodere, in termini e modi quietistici, paventando che l‟ordine tradizionale potesse essere messo in crisi dallo stesso genio umano, segnato dalla sua natura lapsa e quindi soggetto alla corruzione di una volontà non più contenibile entro il sistema tradizionale. Sfuggito al controllo della Chiesa, avrebbe potuto sfuggire anche a quello della stessa fede, per cui ogni segno di vitalità intellettuale – artistica, teologica, pratica, scientifica –veniva avvertito come potenzialmente eversivo e diabolicamente pericoloso, e perciò biasimevole e temibile. Una sorta di resistenza al declino della Chiesa sotto forma di resistenza al progresso della civilizzazione. In questo senso va inteso il favore ecclesiastico accordato non a qualsivoglia esperienza di fede o di dottrina soggettiva, ma esclusivamente verso le coscienze critiche nei confronti della civiltà. Lo spirito settario ed elitario aveva fondamento nella paura che la critica interna ai cenacoli devozionali potesse trasmodare all‟esterno come atteggiamento critico verso la stessa fede, che provocòla preventiva svalutazione morale e intellettuale di ogni conoscenza profana, intendendo per essa ogni sapere che non avesse a fondamento l‟intuizione (cattolica) di Dio. La paura della problematicità di una fede universale che esigeva una professione universale mostrava i limiti storico-culturali della gestione della pretesa
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paolina e agostiniana di una religiosità inclusiva di ogni sapere, anche profano, nel suo orizzonte di senso. Ma proprio la perdita della visione cristologica a favore di quella vetero-testamentaria e misticheggiante legittimò l‟opposta reazione che esaltò l‟altro termine della sintesi cristiana, quello sapienziale greco e latino, sicché la “protesta” mistica alla crisi cattolica ebbe come contrappasso dialettico la “emancipazione” razionalistica dell‟Umanesimo e del Rinascimento, antesignana della stagione illuministica e scientistica. La crisi spirituale si consumava ancora all‟interno della cultura religiosa, sia pure in declino, che aveva nella Chiesa la custode dei valori ormai perduti e perciò ancor più preziosi. Questa saggezza
Si fonda su quella che Scheler chiama “l‟idea del resto”, cioè l‟idea del sopravvivere di pochi buoni e pii che si isolano e si innalzano, come un‟isola nel mezzo di una cultura che si prepara a morire. Perciò questo fenomeno di apparente anacronismo […] è, al contrario, in pieno accordo col suo tempo come carattere di un‟epoca di declino di una cultura.130
Sono i prodromi di quella pietà laica che schiuderà il successivo risveglio della fede, ma è anche l‟estenuazione di una fede che cerca nuovi sbocchi laici, oltre le ristrettezze dei percorsi canonici tradizionali. Come nel caso paradigmatico dell‟Eutifrone platonico, è la perdita del senso della realtà, ossia della capacità di ordinare il divenire del mondo in un racconto cosmologico rassicurante, a incentivare la ricerca di quel senso perduto in un altro livello di coscienza in fieri. Lo stato di indecisione tra ritiro mistico e azione pragmatica, “non ha la forza di liberarsi del carattere esclusivo del suo ideale contemplativo”, suscitando le riserve di Lutero, e, pur animato da intenti pedagogici e caritatevoli, “questo invito alla santità, al pari della mistica speculativa di Cusano, non ha saputo pervenire alla vitalità morale della mistica tedesca classica”, ripiegando verso un malinconico congedo e una “rassegnata passività”,131 sicché “la voce del medioevo che si spegne resta la parola del contadino-poeta: fine del
130 R. Stadelmann, Op. cit., pag. 185.
131 Ivi, pag. 187.
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volere è il non volere”.132
La docta igorantia e la mistica, malgrado le loro radici scettiche e rinunciatarie, erano il tentativo di salvare per le coscienze la religione, mediante una psicologizzazione dei suoi valori. Ma nel far questo, erano già su una via che si avvicina a quell‟atteggiamento spirituale che mette in pericolo l‟esistenza stessa della religione.133
L‟accento si sposta dai rapporti oggettivi all‟esperienza soggettiva, facendo della religione l‟incontro della trascendenza con la coscienza del credente.
Questa nuova forma di pensiero, nel suo idealismo, fa dell‟individuo il creatore che riconosce la verità per il fatto che è in lui, e che vuole o ha il dovere di volere il bene in quanto è un‟idea (non in quanto è Dio). La ragione è diventata il principio unico che ha vanificato la realtà del signore del mondo e salvatore delle anime, facendone un‟astratta sostanza dello stesso genere di quelle che si trova nell‟uomo.134
L‟orizzonte di senso religioso, già inclusivo del piano di coscienza razionale, viene soppiantato dalla visione razionalistica, che pone l‟Idea al posto dell‟Essere di Dio,135 secondo un movimento classico di
132 Ivi, pag. 188. 133 Ivi, pag. 195. 134 Ibidem. 135 Il processo di razionalizzazione dell‟Essere consiste nell‟isolare gli enti determinati dal loro contesto in divenire, assumendoli come elementi assoluti, ossia nella loro mera attualità fenomenica, e irrelati ad alcuna determinazione di senso che non sia quella del giudizio di realtà. Se, all‟interno dell‟orizzonte di senso religioso, la realtà del giudizio è la stessa realtà intuita ontologicamente nella decisione di fede fondamentale nell‟Essere, per cui il livello di coscienza razionale si pone come il suo momento dialettico di inveramento del senso originario; la costituzione di senso razionalistica, invece, si determina a partire dal senso razionale, e non fondamentale, per cui l‟astratta realtà del giudizio razionale diventa l‟unica realtà valida ai fini di una sua determinazione di senso. E perciò, astratta dal divenire interno all‟orizzonte di senso ontologicamente fondato, la realtà dell‟oggetto del giudizio razionale è realtà “ideale”, non esistenziale. E poiché la realtà del mondo-della-vita non può mai essere trascesa, ossia diventare oggetto astratto del giudizio razionale, essa può soltanto essere rimossa
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sostituzione del piano ontologico con quello logico che già conosciamo e che determina una “autonomia del razionale [che] finisce col non aver più bisogno di alcuna religione e [che] culmina in un‟etica puramente umana”.136 Il razionalismo si lega alla religiosità della “sensibilità interiore” e della cura dell‟anima attraverso il comune individualismo ed eudemonismo, la cui “concomitanza di rassegnazione metafisica e di ottimismo razionalistico” confermerebbe la teoria fenomenologica di Hegel circa il rapporto necessario tra scetticismo e stoicismo. Senza contare che
lo spiritualismo religioso finisce necessariamente in una forma di assolutizzazione dell‟esperienza vissuta personale, in un totale soggettivismo dello “spirito” che non riconosce alcuna norma fuori di sé. Anche al concetto di ragione “idealistico” del tardo medioevo si apriva la via che conduce da Fichte al romanticismo, da un individualismo dell‟individuo generale a quello dell‟individuo particolare, dall‟autonomia all‟autarchia.137
Entrambe le forme di razionalismo, quello tardo-medievale e quello moderno, “hanno un lato costruttivo ed uno illuministico”, realizzando entrambi “un‟operazione di critica e di sostituzione”, attraverso lo sviluppo di un processo che
come indeterminato non-essere rispetto all‟essere ideale. Questa operazione di rimozione è tipica di ogni forma di idealismo, da quello platonico a quello kantiano e a quello husserliano, i quali “mettono tra parentesi” la realtà del divenire per considerare fenomeno logicamente soltanto la realtà razionalmente determinata, cioè quella appunto ideale e astratta dal suo senso originario, che è fondamentalmente religioso, cioè mitico. La rappresentazione mitica non determina la realtà nel suo valore ideale, come fa invece il giudizio razionale, ma la evoca rappresentandola simbolicamente, lasciando indistinto il suo senso razionale da quello meramente evocativo. La rappresentazione razionalistica, di contro, assume come reale soltanto il senso razionale della realtà, cioè quello sussumibile nel suo valore ideale sistemico, distinto da quello giudicato irrazionale e quindi invalido, privo di valore ideale. il razionalismo intendendo fondare la realtà sull‟astratto ideale razionale, destruttura l‟orizzonte di senso religioso e l‟intera cosmologia mitica, facendo violenza all‟Essere negandolo. 136 Ivi, pag. 196. 137 Ibidem.
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Porta la dottrina idealistica del potere creativo della ragione autonoma a costruire un‟etica relativamente irreligiosa, ad ampliarsi poi in una specie di panlogismo e ad orientarsi, nella sua applicazione alla religione, nel senso di un teismo universale cui fornisce inoltre il fondamento di una filosofia della storia, per sfociare infine in una ancor timida idea di tolleranza […]. Per altro verso, si fa luce un netto atteggiamento eudemonistico ed utilitaristico, che tende a fare della religione una morale e che avrà un esito radicale nella risoluzione democratica e naturale del concetto di chiesa.138
Già in Cusano la possibilità della conoscenza si offriva, oltre che nella “visione” e nel perseguire le tracce simboliche dell‟assoluto, anche attraverso il monismo della pura ragione, la cui conoscenza era in realtà “una autocoscienza della ragione che si sa come parte del tutto”, panteisticamente, che colloca il microcosmo umano nel macrocosmo, fino a Dio. Le tendenze mistiche contrastano quelle razionalistiche, che però sono prevalenti. Per Cusano il razionalismo non interviene sulla coscienza dall‟esterno per potenziarne la creatività mistica, ma dall‟interno, in quanto patrimonio insito nel microcosmo della coscienza umana.
7. Umanesimo e razionalismo sono espressioni culturali di una stessa tendenza filosofica che sposta l‟attenzione dalla metafisica alla questione antropologica. La conoscenza dell‟uomo viene strettamente legata alla verità e alle facoltà della conoscenza, a partire da quella “visiva” ossia “ideale” in senso etimologico, che si sviluppa “lungo le linee tracciate dalla teologia medievale e con l‟aiuto della psicologia agostiniana dei tre gradi di conoscenza”, i quali, per similitudine, “si appropriano delle forme dell‟essere loro corrispondenti in ragione della loro conformità alla verità”. La conoscenza razionale, come atto di illuminazione, è paragonabile all‟atto creativo divino, “il titolo della sua eguaglianza con Dio”.139 La condizione del dominio della ragione sulla realtà è di porsi come “misura e autrice” di tutte le cose, attraverso la negazione del suo fondamento ontologico originario, di cui ha usurpato il senso, cioè il suo valore significativo.
138 Ivi, pagg. 196-197. 139 Ivi, pag. 199.
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Lo spostamento ontologico dall‟oggetto al soggetto, se ha relativizzato il fondamento di certezza della conoscenza, ha potuto instaurare una relazione gnoseologica col reale attraverso un rapporto di conoscenza del soggetto col suo oggetto esaustivo di ogni senso teoretico, mercé la similitudine degli attributi metafisici del soggetto trascendentale con quelli divini, in modo da far convergere nell‟uomo “tutto il creato”.140 L‟attenzione si sposta dalla “quidditas rerum” alla “preciositas mentis”, senza la quale “ogni cosa creata è priva di valore”.141 Tale “preziosità” consiste nella capacità di discernimento del bene dal male, cioè individuazione di quel “valore” delle cose che non è attribuito loro dalla ragione filosofica – interna cioè all‟universo di senso religioso , e che consente di stabilire un ordine gerarchico da parte dell‟intelletto umano al mondo reale, ideale e divino, poiché “anche il valore di Dio è in suo potere”. La conoscenza non è più, come nel cosmo teologico, una funzione della fede nell‟Essere trascendente ogni possibile conoscenza, ma è lo strumento attraverso il quale il servizio si emancipa dal suo fine, sostituendolo. Sicché la conoscenza non è più diretta a Dio, come suo oggetto esclusivo e privilegiato, ma lo sostituisce con la realtà del mondo, usurpandone il posto di Soggetto divino. Ciò comporta che “la partecipazione al divino” attuata dalla conoscenza, inerisce non solo alla “coscienza razionale”, interna all‟orizzonte di senso religioso, “ma anche, in misura inferiore, a quella intellettuale e sensibile”, ossia a ogni grado di conoscenza, tutti riabilitati di fronte alla scepsi religiosa e filosofica della “ignorantia”, per cui “compito dell‟uomo è la formazione e il compiuto sviluppo di tali facoltà”, che sono “il più bell‟ornamento della dignità dell‟uomo armonicamente sviluppato”. 142 Se l‟idealismo classico fa della personalità virtuosa “il punto centrale di un‟etica autonoma che trae da sé tutti I valori”, la filosofia di Cusano pone razionalisticamente la moralità dell‟uomo come una totalità spirituale e corporea , un “ordo ad unum” il cui “risultato è
140 Ivi, pag. 200. 141 “Sine ipsa omnia creata valore caruissent”: N. Cusano, De ludo globi, cit. in Stadelmann, pag. 200 n. 15. 142 Ivi, pag. 201.
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molto analogo a quello kantiano”, anche se ottenuto per mezzo della psicologia aristotelica. Così, la persona, quale “unitas humanitatis”, è fondamento etico dello “iustitialis ordo”, così come il fine della conservazione dell‟ordine unitario diventa il contenuto della legge morale: “Nullus homo amandus est nisi in unitate atque ordine humanitatis”. La metafisica diventa la proiezione di questo universo morale nato dall‟unità della coscienza, costitutiva del mondo.143 Porre la coscienza umana, non più solo come riflesso passive di quella divina, ma come legislatrice cosmica e criterio di valore della realtà, significa esautorare il posto di Dio e quello della colpa e della grazia. Infatti, questa deriva razionalistica della orale come compendio microcosmico dell‟essenza cosmica universale, crea le premesse della scissione dell‟unità metafisica cristiana incentrata sulla figura simbolica e teologica di Cristo, sintesi divino-umana e misura di valore universale. Come disse Lutero a proposito di Erasmo, “humana prevalent in eo plus quam divina”.144 La glorificazione dell‟uomo, in Cusano come in Erasmo, poggia sull‟idea del libero arbitrio, ossia sulla lettura antropologica pelagiana, di cui “il razionalismo di Cusano […] può ben essere visto come la forma estrema di concezione indeterministica”, mentre agli occhi di Lutero, l‟egemonia della ragione non può che affermarsi a scapito della gloria divina e della maestà di Dio, sicché per lui “fare della ragione la norma in base a cui l‟agire di Dio sarebbe valutato e da cui dipenderebbe la bontà di tale agire non può apparire che come una bestemmia”. 145 Al punto in cui è giunta la pretesa umana di giudicare Dio, è impossibile far vivere la stessa fede religiosa, il cui presupposto è la “disperatio sui” dell‟animo umano, che aspira all‟azione di Dio proprio in quanto “non riconosce ai poteri conoscitivi propri della ragione la possibilità di distinguere il bene e il male”.146 La figura di Dio, resa accessibile all‟intelligenza umana attraverso l‟incarnazione di Cristo, che l‟ha umanizzata e trasformata in realtà anche finita, poté sostituire la società pagana come referente di completamento della insuperabile
143 Ivi, pag. 202. 144 Cit. in Ivi, pag. 202. 145 Ivi, pag. 203. 146 Ibidem.
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finitezza antropologica dell‟uomo, in quanto la sua originaria trascendenza venne superata dalla testimonianza evangelica del suo Essere, la cui possibilità storica venne affidata alla buona volontà dell‟uomo di fede. Con l‟incarnazione, lo Spirito si umanizza, diventa carne e sangue, e perciò segno tangibile della possibilità di edificare, in suo nome, un‟altra civiltà rispetto a quella politica, della pòlis, ossia quella caritatevole dell‟ “ordo amoris”. La verità cristiana aveva neutralizzato nel suo orizzonte di senso il logos Greco, la sua logica politica, quella ratio mondana che, alla fine dell‟ordine cristologico medievale, affermava le sue ragioni autonome sotto forma di libertà di volere, che si pone dunque, nel senso di Lutero, come alternativa pagana alla fede religiosa. L‟idea di Lutero è che questo “razionalismo sacrilego” sia strettamente legato alla “sceptica Theologia” che ha messo in discussione la stessa realtà del creato e la possibilità della conoscenza, interpretando malamente la visione medievale del mondo fondata sulla definizione agostiniana della colpa. Anzi, proprio dell‟eredità dogmatica il nuovo razionalismo cercherà di sbarazzarsi, concependo “il sentimento cristiano della colpa come un‟angoscia insensata”, che opprime il sentimento della vita.147 Ogni limitazione della libertà del volere e dell‟umana responsabilità è vista come un ostacolo al libero perfezionamento, per cui, di conseguenza, è da respingere la dottrina del peccato originale ereditato da Adamo.148 Questa posizione idealistica ha dirette ricadute sui dogmi cristologici e sulle tre possibili maniere di affrontare la questione:
quella religiosa, che accetta per intero il mistero del dogma; quella morale, che ricorre all‟idea del carattere di modello in temporale di una vita assoluta; e quella storico-filosofica, che inserisce Cristo in uno sviluppo organico comunque concepito. Posta nei termini di una alternativa, la questione si riduce a decidere se la comparsa di Cristo, mediante un inizio radicalmente nuovo, faccia compiere un passo in avanti irripetibile, non tanto alla storia del mondo, quanto alla storia di Dio, oppure se Gesù sia colui che risveglia certe energie, già presenti nello spirito dell‟uomo, ma assopite, un prosecutore quindi che a sua volta, e nelle circostanze opportune, possa e debba venire
147 Ivi, pag. 206. 148 Ivi, pag. 207.
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continuato.149
La questione cristologica si presenta quindi come preminenza accordata alla “rappresentanza”, ovvero alla “imitatio”. Per la rappresentanza si schiera Lutero, che intende la santità una essenziale novità del cristianesimo e non ammette alcuna possibile santità in personalità pagane. Per la “imitatio” si pone invece tutto il tardo medioevo, da Eckhart a Sebastian Franck. Gli spiritualisti del sec. XVI si oppongono alla teoria luterana del “servum arbitrium” intuendo che la posta in gioco siano le prerogative della ragione e della forza morale dell‟uomo, che, sulla tradizione stoica, appare loro naturalmente buono. In questa posizione essi si scontrano con la autorità della Scrittura e dei padri della Chiesa, oltre che con Lutero.
Per trovare un sostegno a questa concezione ottimistica della natura e per farla prevalere, si opera una straordinaria contaminazione. L‟opposizione tra “scrittura” e “spirito” che è al centro del loro interesse religioso diventa opposizione tra artificiosità e neutralità e, in una visione ancora più generale, tra arte e natura. Quanto più viene riconosciuto il carattere di istituzione derivata della religione positiva e dei suoi organi, cosa che porta ad una sua svalutazione, tanto più cresce la considerazione per quelle fonti immanenti di conoscenza. 150
La natura è il modello originale e Dio stesso insieme alla vita,mentre l‟arte è quella derivate, la copia e la sua “scimmia”, l‟apparenza. Da qui la preminenza della “religione razionale”, che si fonda sulla “parola innata” e insita nell‟uomo, sulle relazioni eteronome della religione e del logos, che “dimora sostanzialmente nell‟uomo” dando voce alla sua “religione naturale”.151 Pertanto il lògos naturale
non viene più limitato all‟ambito del cristianesimo, ma è un principio universale presente nell‟antica filosofia quanto nei libri profetici della Scrittura, e non soltanto in semplice traccia ma col suo intero contenuto di verità. d‟altra parte, perché questa identificazione potesse reggere, si dovette
149 Ivi, pagg. 207-208. 150 Ivi, pag. 209. 151 Ibidem
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razionalizzare e naturalizzare tutto quel che si intese fosse verità essenziale.152
La “sapienza morale dell‟uomo” diventa un patrimonio universale, che Dio ha destinato al mondo non solo attraverso Cristo ma anche i pagani illuminati.
L‟idea dell‟uomo contiene in sé uno splendore del tutto nuovo, la dignità dell‟uomo eguaglia quella del cristiano. Solo presupponendo questa comunanza nella ragione si può intendere per intero il cosmopolitismo umano di Franck: uomo per ogni uomo.
Da qui il collegamento con l‟umanesimo platonico italiano di una posizione autonoma del pensiero, che in Cusano assume una fisionomia panteistica nata dalla mistica, mentre in Franck quella di una “rivelazione individuale mediante la ragione”.153 Il razionalismo sviluppa e consta sempre di due tendenze opposte: da un lato, una filosofia religiosa della storia, e dall‟altro una concezione della religione che Dilthey ha chiamato “teismo universalista”. Entrambe sono presenti nel “sistema naturale” della cultura del sec. XVII, la cui base di partenza è la constatazione comparatistica della stessa rappresentazione fondamentale di Dio attraverso le diverse religioni particolari, dalle quali, per astrazione, è possibile ricavare “una religione unica, normativa e fondamentale, la cui giustificazione sta nella sua natura razionale e che si mantiene indifferente di fronte alla pretesa di superiorità di ogni singola religione”. L‟altra posizione, storicistica, “parte dall‟idea che anche la ragione ha uno sviluppo e ha bisogno di una formazione”, per cui i posto delle religioni positive riflette “il piano di educazione della ragione”, stabilito in un ordine necessario nella storia. Non si tratta di una “fusione delle religioni nella storia universale”, ma di un movimento ideale della ragione che si dispiega in una sua storia progressiva. Dalla prospettiva illuministica, la concezione della religione naturale è di più ampia portata rispetto a ogni primato accordato al cristianesimo sulle altre religioni. Ma resta decisivo e problematico che entrambi “questi due
152 Ivi, pagg. 209-210. 153 Ivi, pag. 210.
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movimenti di pensiero non possano venir derivati l‟uno dall‟altro”,
154
pur restando abbinati “al comune ambito razionalistico”.
155
Sul precedente agostiniano del “regnum militiae”,156 la visione storicistica è entrata nella “immagine feudale del mondo” attraverso la teologia di Gioachino da Fiore, per la quale “l‟azione di grazia di Dio non è un fatto concluso che sta nel passato ma un‟opera che progredisce”, secondo quanto teorizzato “nella forma più evidente ed efficace, in Duns Scoto”. Questi motivi sono “estranei a una religione della trascendenza assoluta”, come testimoniato da Lutero, la cui concezione misteriosa della salvezza “non sopporta che il regno di Dio venga visto come un auto sviluppo dello spirito, come una creazione in divenire”.157 A questo punto la frattura con la cultura mondana è insanabile e “definitiva” fra “ciò che è cristiano e ciò che è fuori del cristianesimo”, producendo quella rottura dell‟unità dello spirito propria della filosofia del Medioevo. Le tensioni escatologiche della mistica distolgono l‟attenzione dalla crisi del mondo storico, riportandole all‟interno della coscienza come un “dramma dell‟anima”, la cui dinamica coincide già in Origene con una “ontologia della salvezza”.158 Ma la prospettiva millenaristica fu neutralizzata e “allontanata dalla Chiesa” da Agostino, il quale “non combatte il millenarismo, ma lo reinterpreta, in modo da fargli perdere la sua tensione escatologica” e facendogli assumere “il volto della Chiesa”, la quale, rappresentando “il tempo del potere” di Dio in terra, realizza in terra “il regno di Dio”.
Al posto della escatologia universale subentra l‟escatologia individuale. L‟attenzione ora è rivolta al destino dell‟anima, e il tempo della fine viene sostituito dal‟ultimo giorno della vita umana. Da Agostino in poi l‟escatologia individuale domina la religione cristiana di confessione cattolica e protestante. L‟escatologia universale, invece, che porta con sé la speranza
154 Ivi, pag. 212. 155 Ivi, pag. 213. 156 Agostino, Civitas Dei, XX, 9. 157 Ibidem. 158 Taubes, Escatologia occidentale, pag. 105.
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nel regno, viene considerata in ambito cristiano come una eresia.159
All‟interno del “corpus christianum” medievale, lo Stato non si distingue dalla Chiesa, ma vi è compreso, come parte integrante della “civitas Dei”. Uno Stato, come “civitas terrena” separata dalla Chiesa, sarebbe una “civitas diaboli”. Ma la formula apocalittica del “regno di Dio sulla terra”, indicando un avvento futuro, “spezza l‟orizzonte vigente di una sfera vitale” e si realizza come “ecclesia spiritualis” che “riduce in cenere le mura delle istituzioni esteriori”, spostando l‟accento verso l‟attività, per cui “l‟annuncio del regno di Dio incita alla realizzazione”.160 Gli avvenimenti escatologici si alternano sui due poli della “ecclesia spiritualis” e della condizione “sulla terra”, ossia tra il sacro e il profane, che si escludono reciprocamente come il vecchio e il nuovo senso della vita. “La parola d‟ordine della ecclesia spiritualis distrugge quell‟identità tra Chiesa e regno di Dio che è in vigore a partire da Agostino e su cui, nel medio evo, si fonda la città di Dio”, producendo la “teologia della rivoluzione” di Thomas Munzer e dei battisti, il cui proposito è di realizzare con la “violenza dei buoni” il regno di Dio in terra.161 La storia europea trova il suo filo rosso nella tensione escatologica che l‟attraversa per l‟intero suo corso cristiano, di cui le rivoluzioni non sono altro che “l‟esterno di questo interno”, sicché “la storia delle rivoluzioni europee coincide con la storia della perdita del patrimonio europeo cristiano-cattolico”, che costituiva l‟identità ideale della stessa “umanità europea”.162 La chiesa medievale ha una concezione tolemaica del mondo, per cui il mondo terreno è copia dell‟originale, “simbolo”, che è in cielo. Da qui l‟aspirazione a raggiungere quel modello, compiendosi nell‟elevazione a quell‟ideale celeste. Essa infatti, in quanto corpo mistico di Cristo, si identifica con il suo operato, e si realizza perciò nei termini di una “cristianità carismatica”, che trova nella messa il suo luogo di incontro. “La storia delle rivoluzioni europee è la storia dell‟allontanamento del
159 Ivi, pag. 111. 160 Ivi, pag. 117. 161 Ivi, pag. 118. 162 Ivi, pag. 120.
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culto tolemaico del Kyrios-Christòs, della cristianità carismatica del medioevo”.163 Il termine “rivoluzione” ricorre nei moderni cosmologi Copernico e Galileo, e indica, come già in Dante, il moto rotatorio dei corpi celesti, il cui movimento viene mutuato come analogia del sommovimento politico delle città-stato italiane, che “appaiono una sorta di rappresentazione del mondo”. Secondo la concezione copernicana, invece, “il mondo è una terra senza cielo”.
La terra non rispecchia più alcun cielo, e la peculiarità del mondo non è quella di coinvolgere l‟umanità copernicana avvicinando questo [mondo terreno] a un originale superiore, ma rivoluzionandolo secondo un ideale situato nel futuro. Nel mondo tolemaico regna l‟ éros platonico, che avvicina reciprocamente il sopra e il sotto; in quello copernicano domina lo spirito, che tende in avanti. L‟ éthos dell‟umanità copernicana è un‟ éthos del futuro. Poiché il cielo, il sopra, perde il suo contenuto di valore, il valore auspicato si concentra nel futuro. Lo spazio copernicano perde il suo significato; il compimento della sua umanità, allora, si situa nel tempo, e quindi nella storia.164
E‟ Gioachino la fonte metafisica di Copernico. Egli elimina ogni mediazione tra cielo e terra, facendo della storia il terreno di realtà dell‟ideale cristiano, “radicando il compimento in un futuro prossimo, chiaramente databile”. La esclusiva dimensione storica dell‟escatologia cristiana deve inevitabilmente coinvolgere il ruolo della Chiesa, che viene anch‟esso storicizzato e quindi rimosso, trasferendo direttamente nella figura di Cristo quella “potenza” spirituale che sino ad allora il cristianesimo medievale aveva risolto nella vita ecclesiastica.
Il nesso platonico tra copia e immagine, che per Origene e Agostino sussiste tra la storia terrena e la guida celeste, si trasforma in Gioacchino in una serie esponenziale intrinsecamente storica: il regno celeste dell‟aldilà diventa il regno spirituale della fine. […] Quando infine gli hussiti e i riformati rifiutano il papato e la chiesa carismatica, cade anche l‟ultimo valore e l‟ultimo punto
163 Ivi, pag. 120. 164 Ivi, pag. 121.
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di riferimento della chiesa cattolica, l‟unità, cioè, della cristianità.165
Se Lutero, attraverso Paolo, mantiene il suo rapporto con il cattolicesimo, per cui è ancora possibile pensare a una riforma della Chiesa, gli ultimi legami con la comunanza cristiana vengono a cadere con Munzer, il quale, sulla scia di Gioacchino, “apre la via verso una religione spirituale”, per cui “all‟ombra di Cristo sorge Prometeo” e “con la dissoluzione del corpus christianum, che racchiude in sé anche il protestantesimo, la storia dell‟apocalittica europea è giunta alla fine”.166 Ma se la sconfitta di Munzer chiude il tempo del cristianesimo medioevale, non pertanto cessa di esistere la tensione escatologica della realizzazione del regno di Dio, in cui consiste l‟utopia della “chiesa della ragione” che nell‟Illuminismo troverà un nuovo centro nella ratio come tensione liberatrice.167 Gioacchino, ossia il Cristianesimo platonico e razionalistico, eliminando la mediazione ecclesiale, “traduce” il messaggio evangelico della salvezza in rappresentazioni storiche, fornite di senso razionale, coinvolgendo Cristo, fino ad allora “polo immobile del cristianesimo”, nel “processo storico della Trinità”.168 La coniugazione di Storia e Ragione genera l‟umanesimo razionalista, ossia la fine del “mistero” religioso. La Storia, emancipata razionalisticamente dal suo referente di fede trascendente, diventa il piano di realtà della volontà umana, la cui missione di salvezza coincide con la stessa fruizione operativa della ragione in senso idealisticamente speculare al suo modello eidetico: la ragione, non più strumento della fede, ma dell‟Idea di Salvezza, per cui la Storia diventa storia della salvezza, processo irenico della ragione, secondo una movenza che in Hegel troverà la sua più compiuta fenomenologia. Interpretando in senso storicistico la natura trinitaria di
165Ibidem. 166 Ivi, pagg. 122 e 123. 167 “Il trionfo della dea ragione e della sua chiesa nella Francia cattolica non è casuale […]. L‟epoca dei lumi prende in prestito dalla chiesa cattolica la sua esigenza di storia. Medioevo e Illuminismo sono, in ambito europeo, le due sfere vitali storiche. La chiesa del medioevo e quella dell‟Illuminismo si pongono entrambe in maniera assoluta e poggiano sull‟identità per cui la chiesa è il regno di Dio”: Ivi, pag. 118. 168 Ivi, pag. 121.
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Dio, Gioacchino trasferisce in ognuna delle persone divine un‟epoca storica, la cui connessione dialettica rende simbolica, all‟interno del processo della salvezza, la funzione dei personaggi e degli eventi storici. Così “le tre fasi hegeliane” della dialettica storica “si comprendono solo a partire dalla scansione gioachimita delle epoche –quella del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.169 Nella nuova prospettiva razionalistica, l‟immagine del mondo offerta dalla religione è funzionale al livello di maturità intellettuale dei suoi fruitori storici, ma ogni rappresentazione allegorica o antropomorfica del divino deve lasciare il posto a una simbologia spiritualistica in progressiva chiarificazione pedagogica, più o meno evidente. “Comunque, ogni mitologia che, giustificata a suo tempo e luogo, ha reso il suo servizio, deve sparire perché si mantenga desta la coscienza della sua provvisorietà e non degeneri in idolatria”.170 Accanto a questa concezione pedagogica del processo storico delle religioni, “c‟era la tendenza della cultura ad affermarsi nella propria autonomia e quindi a misurare le diverse religioni in base al loro significato per la vita della cultura stessa”, vedendo la funzione storica dei sistemi religiosi in relazione “al contributo dato da ciascuna alla formazione dello spirito”,171 inteso come processo segnato da tante tappe religiose. In questa prospettiva razionalistica lo spirito umano aveva di proprio delle “possibilità endogene” che dovevano solo essere sollecitate per attivarsi, senza il “bisogno di alcuna operazione della grazia”. La “cura naturale e storica” fu opera dei “profeti precristiani” e di quelli “cristiani”, secondo tempi e necessità, i quali “hanno vigilato su questa cultura della ragione” al fine del suo “perfezionamento”. Così, secondo Cusano, “il potere della ragione, purché adeguatamente coltivato ed attivato nei suoi poteri con gli esercizi ed i modi dovuti, contiene tutto ciò che occorre alla vita dello spirito”.172 L‟altra tendenza è rappresentata da Wessel, la cui filosofia della cultura “raggiunge il punto di vista dell‟umanità, che è stato quello del XVIII secolo”. In riferimento allo sviluppo storico, Wessel sostiene che, dopo il peccato
169 Ivi, pag. 124. 170 R. Stadelmann, Op. cit., pag. 214. 171 Ibidem. 172 Ivi, pag. 215.
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originale, solo il dono divino della società ha consentito all‟uomo di superare la condizione ferina,
e quel che più conta, solo attraverso questa convivenza possono venire soddisfatti anche i bisogni e le necessità spirituali, i compiti della formazione dell‟umanità, perché gli uomini sono spinti in avanti e moralmente sostenuti solo dal consiglio e dall‟avvertimento reciproci, dalla consolazione e dall‟incoraggiamento.173
Le due forme di completamento antropologico, quella socialitaria e quella spirituale, vengono presentate non come antagonistiche ma complementari, o almeno alternative all‟interno di uno stesso universo di senso religioso, per cui sia nella versione idealistica di Cusano che aristotelica di Wessel, “la considerazione della religione all‟interno di un complessivo sviluppo storico viene fortemente accentuata”.174 Secondo Cusano, la partecipazione della ragione umana a quella divina comporta una “varietas” di spiriti ammessi alla partecipazione, alla “ratio” universale, tanto individuali che collettivi, da costituire un sistema ordinato di progressione al nucleo essenziale divino, la cui gradualità consente consente alla sua filosofia della storia una “visione totale […] capace di abbracciare tutti i popoli della terra”175 e dai caratteri più spaziali che temporali ed organici, che assume un complessivo carattere pedagogico. La “crescita dell‟umanità” è paragonata a “un moto ondoso che si propaga dal polo all‟equatore”, secondo un movimento graduale che raggiunge l‟intera umanità attraverso “un‟opera di educazione universale nella storia”.176 Come in Hegel, il movimento apparentemente senza senso del divenire della Storia, rivela invece l‟intervento divino in direzione di una crescita spirituale progressiva, che costituisce il fine stesso della Storia, per cui “l‟uomo deve essere introdotto all‟uso del suo liberum arbitrium e reso maturo per la conoscenza di essere capax aeternae vitae” attraverso un‟opera di auto-coscienza (“notitia sui”) che gli consenta di
173 Ivi, pag. 215. 174 Ivi, pag. 216. 175 Ibidem. 176 Ivi, pag. 218.
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essere “capace e degno di una partecipazione a Dio”.177 Gli intercessori della volontà divina, il cui compito è quello di riportare l‟uomo alla retta via, sono i “profeti”, i quali, da “educatori” e “maestri” insieme ai “santi” sono degli “inviati del Signore”, e come tali “di stirpe divina”, quasi a sottolinearne la differenza rispetto alla figura classica dei filosofi, che comunque, anche quando in posizione critica e “privata”, partecipavano alla vita della comunità mondana della società. In questo caso, invece, non si è di fronte a questioni circoscrivibili a un contesto politico, ma a una dimensione universale che “generalizza e trasferisce ad altre religioni delle rappresentazioni che, appartenute originariamente all‟universo profetico veterotestamentario, hanno subito uno stemperamento che le trasforma in categorie d‟una filosofia e psicologia della religione”.178 Era convincimento comune alle due tendenze razionalistiche che il senso filosofico della storia era nella progressione spirituale dalla maniera sensibile di conoscere a quella astratta, dal simbolismo al razionalismo, secondo una processualità le cui distinte modalità gnoseologiche costituivano anche i due livelli di coscienza dell‟orizzonte di senso religioso, la cui progressione rappresentava lo stesso processo spirituale della storia. Rispetto alla condizione profetica originaria, vetero-testamentaria, il nuovo profetismo si muoveva all‟interno della coscienza razionale, identificata con la dimensione della storicità, il cui corrispettivo ingenuo era il fideismo messianico dell‟immaginazione meramente avveniristica, temporalmente indeterminata. Secondo Agrippa ci sono tre gradi di conoscenza di Dio: quella creaturale, quella della legge e dei profeti, e quella del Vangelo, le quali sono sorte in successione storica. “Dio ha donato all‟uomo questa sua verità in tre “libri” della rivelazione, disposti in sapiente successione: il libro della natura, il libro della legge e il libro della parola divina”, con tre relativi tipi di custodi di tali scritti: i filosofi, i profeti e gli apostoli. La posizione più saliente della conoscenza e la vera saggezza è riservata alla fede fondata sui miracoli. In subordine sta la sapienza filosofica antica. Anch‟egli come Erasmo assegna un carattere soprannaturale al cristianesimo, “in contrasto con la più
177 Ibidem. 178 Ivi, pag. 219
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perfezionata deologia della storia del XVIII secolo”.179 Il filone che si diparte dal razionalismo di Cusano ha, da un capo, la filosofia della storia e dall‟altro una visione comparata delle religioni, da cui emerge l‟idea di una religione naturale, ossia la visione massonica dell‟unità religiosa dei saggi di tutti i tempi. La sintesi di queste visioni, quella filosofico-esoterica e quella storica, assume, a partire dall‟individualismo metafisico, il pluralismo delle fedi come una conseguenza del “pluralizzarsi dell‟unica sostanza nella molteplicità dei fenomeni”; ed essendo questo considerato un processo necessario, e nn una caduta dell‟Idea, esso giustifica ogni particolare determinazione. La teoria religiosa che ne consegue viene prodotta non più dal platonismo del V secolo, ma dalla filosofia della storia francescana, la quale, privata del contenuto escatologico, è stata riformulata in senso razionalistico. Da qui la riabilitazione della teoria gioachimita dei tre stadi, in base alla quale
il genere umano si divide in tre classi: laici, chierici e religiosi. Formulato in termini generali ciò, per Cusano, viene a significare che vi sono i sottoposti, i dominanti e i saggi. La loro funzione è di rappresentare, nell‟ambito del‟intera umanità, la ragione, l‟intelletto e la natura della specie.180
Al vertice, Cusano – come già S. Francesco – pone i contemplativi, cioè i filosofi platonici, “quasi in supremo humanitatis coelo versantes”. Seguono i reggitori, solo in parte illuminati dalla saggezza comunicata loro dai profeti religiosi, e dediti alle occupazioni mondane. Infine, coloro che “non hanno il tempo” di cercare Dio, occupati come sono dalle faccende materiali e soggetti interamente alla guida politico-pedagogica degli altri due ordini. La diversa natura o sostanza dei tre ordini dell‟umanità di riflette nella relativa loro rappresentazione dell‟al di là, il quale, per l‟ordine supremo, “consiste in una nobiltà che oltrepassa ogni rappresentazione e sentimento umani”; per “l‟ordine razionale, nella conoscenza e nella fruizione delle cose, mentre per l‟ordine dell‟uomo dei sensi consiste nel diletto sensibile”.181 Dalla combinazione di questa sociologia e di quella
179 Ivi, pag. 221. 180 Ivi, pag. 222. 181 Ivi, pagg. 222-223.
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concezione metafisica monadologia nasce una visione religiosa della storia, per la quale
l‟origine d‟ogni forma di fede si trova nella religione razionale dello strato superiore (intellectualis religio), che prodotta e sorretta dall‟intelletto stesso dell‟uomo, è un tutto naturale e unitario, come un nucleo di verità religiose, e non può essere frantumata da aggiunte estranee.
Nel secondo stadio, quello dell‟ordine dei reggitori, “questo deposito [di fede] si fa fluido e trapassa nella molteplicità delle chiese”, subendo un processo di specificazione “interamente naturale” e relativo alle condizioni di ricettività dei fedeli storici, il quale costituisce “la mediazione fra l‟idea della religione e la sua realtà e in esso consiste il movimento della storia”.182 La molteplicità è la specificazione dell‟Uno razionale, cioè dell‟Idea, la quale è posta all‟inizio del processo storico e non ne è il termine finale. Ma poiché la molteplicità che ne discende è legata alla diversità della natura umana, questa è un limite alla comprensione razionale, non potendo coincidere la coscienza dell‟Uno con la coscienza particolare. Ciò comporta che il processo della Storia è un movimento degenerativo che dall‟Idea trapassa nella materia. Come afferma Cusano, “nello spirito non c‟è mai uno status assoluto, poiché per esistere esso deve riflettersi nella materiale ed incessante molteplicità degli individui umani”.183 Ora, la presenza di una mediazione tra l‟Idea e la realtà si rende necessaria dalla diversità della natura che ha il razionale e il reale. Se la monade sostanziale si frantumasse nelle rappresentazioni molteplici restando se stessa, ogni rappresentazione sarebbe l‟identico micro-cosmico dell‟Uno. Ma così non è, poiché l‟Uno ideale e il Molteplice reale sono “nature” diverse, tant‟è che abbisognano, per collegarsi, di una “mediazione”. Ed è la loro differenza essenziale a rendere possibile lo stesso movimento storico, altrimenti impossibile nel caso di coincidenza di essenza e di fenomenicità. La Storia diviene perché l‟Idea diventa realtà. Altrimenti l‟Idea non avrebbe storia essendo ciò che eternamente è. Chi esclude la mediazione tra Idea e realtà, deve postulare l‟identità dell‟Uno e del Molteplice (monismo ontologico), senza darsi ragione della diversità,
182 Ivi, pag. 223. 183 Ibidem.
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considerata come il Negativo assoluto da sopprimere in quanto irrazionale. La scoperta platonica del diverso, ammette implicitamente la co-esistenza di una dimensione a-razionale, cioè extra-sistemica, che comprende nel suo orizzonte di senso il livello di coscienza razionale come l‟orizzonte della fede ontologica il livello filosofico. La loro opposizione “dialettica”, cioè l‟esclusione della determinazione logica di ogni realtà non sussumibile nel giudizio categoriale, comporta la loro originaria con-presenza ontologica nell‟Essere possibile, per cui il loro mutuo rapporto esclusivo si determina come lo scarto di coscienza tra il livello fideistico e il livello coscienzialistico in senso progressivo ascensionale e riduttivo, tale cioè che la sua sussistenza è tanto più logicamente determinata nella sua specifica idealità, quanto più circoscritta alla sua attualità temporale. Da qui discende che il movimento di razionalizzazione dell‟universo di senso religioso giunga alla progressiva individualizzazione del suo oggetto ideale, per cui l‟unicità e la soggettività delle determinazioni spirituali rappresentano il punto culminante del processo della conoscenza. Ed è proprio tale minimale qualificazione ideale dell‟Essere nei fenomeni singolari a far rimpiangere romanticamente il senso complessivo dell‟appartenenza di ogni singolarità transeunte all‟eternità dell‟Essere possibile e indeterminato da cui proviene e a cui appartiene ogni fenomeno idealmente e temporalmente determinato, e cioè conosciuto, e per ciò stesso rimpianto a seguito della sua evanescenza. La progressione da un livello di coscienza generico verso un livello di coscienza sempre più logicamente consapevole, mantenuta all‟interno di uno stesso orizzonte di senso ontologico, stabilisce un ordine gerarchico anche antropologicamente ascensionale verso un vertice di assoluta soggettività e individualità che costituisce il punto di approdo di ogni processo di perfezionamento logico, che rappresenta simbolicamente l‟Idea stessa da cui discende ogni molteplice determinazione ideale e fenomenica. Se tale orizzonte di senso è stabilito sul fondamento ontologico della fede tradizionale, il vertice di ogni processo ascensionale e derivativo è Dio, la cui immagine simbolicamente antropomorfa è Cristo, nella cui persona si accomuna il corpo mistico cristiano, ossia ogni molteplice determinazione storico-empirica dell‟umanità. Ciò comporta che tale rappresentazione simbolica veda nel rapporto speculare tra Dio e le sue creature la stessa gerarchia dell‟ordine sacro in quello ecclesiale, per
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cui, il corrispettivo della persona simbolica di Cristo come mediatrice tra Dio e gli uomini è il Papa, supremo vertice dell‟organismo ecclesiale e mediatore tra il cielo e la terra. Se, invece, l‟unità di senso viene circoscritta al solo livello di coscienza razionale, tale da costituirlo come un orizzonte dialetticamente esclusivo di ogni altro, allora la diversità logica viene intesa in termini di opposizione ontologica, tale per cui il non-essere ideale diventa sinonimo di in-significante elemento extra-sistemico, da sopprimere attraverso un atto di negazione reale, e non simbolica. In questo caso, il rapporto logico non viene inteso in senso gerarchico ascensionale da uno ad altro livello di coscienza, ma in senso ontologicamente esclusivo, per cui l‟unità logica non può ammettere che una definizione d‟Essere, la sua, che si determina all‟atto del suo giudizio di realtà, della sua attualità. Solo nel primo caso, cioè nell‟orizzonte di senso della fede, è possibile stabilire un ordine gerarchico delle differenze, poiché quest‟orizzonte può comprendere un livello di coscienza razionale senza alterare i suoi presupposti ontologici fondamentali, stabilendo così all‟interno del comune orizzonte di fede ontologica quell‟ordine di gradualità simbolico-sociologica tipica del cosmo religioso medievale. Viceversa, nel secondo caso, il livello di coscienza razionale, che originariamente era infra-religioso, volendosi costituire come autonomo orizzonte di senso, deve negare la sua appartenenza ontologica originaria e determinarsi nella assolutezza del proprio fondamento di senso sistemico. Qui la differenza diventa opposizione ontologica esclusiva del più (l‟orizzonte della fede comune) da parte del meno (il sottoinsieme razionalista), che storicamente si determina come una lotta idealistica dell‟utopia rivoluzionaria contro la tradizione della coscienza comune. Questa lotta rivoluzionaria, dal punto di vista religioso, è idolatrica, poiché sostituisce al culto divino della Persona di Dio come Essere spirituale di ogni ente fenomenico creato, il culto dell‟Idea di Dio come Essere ideale di ogni ente razionalmente determinato e solo di quello. In questo caso, la sostituzione di Dio con altra determinazione storica dell‟Idea, non cambia la natura appunto ideale del fondamento ontologico, per cui persisterebbe il suo valore d‟Essere etsi Deus non daretur. Ed è questo processo idealistico a caratterizzare la storicizzazione gioachimita del processo trinitario e la sostituzione
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messianica della Chiesa mediatrice (storico-simbolica) con la chiesa utopica (storico-ideale). Ma è indubbiamente la lettura neo-platonica del Cristianesimo a provocarne la deriva idealistica parmenidea, incentrata sulla falsa alternativa tra assertori dell‟Uno versus assertori del Molteplice, che non derime la questione ontologica fondamentale circa l‟essenza del fondamento dell‟Essere, se divino (o naturale) oppure ideale (e quindi umano). Solo nel secondo caso, cioè del razionalismo idealistico, è possibile il passaggio dall‟ontologia divina alla gnoseologia storica, facendo del Soggetto trascendentale la fonte non solo della conoscenza della realtà, ma della realtà stessa in quanto conosciuta, a esclusione di ogni realtà non-conoscibile. Caratteristica del razionalismo tardo-medievale
è il riconoscimento di una religione naturale che non vuole essere intesa come la generale disposizione alla religione, ma viene considerata come il possesso degli spiriti privilegiati di ogni tempo, [che vanno a costituire quella] chiesa invisibile [intesa] nn nel senso di una universale comunità interiore di tutti i credenti , ma, in maniera più illuministica, una loggia di saggi, in cui, lontani dall‟affaccendarsi ingenuo delle religioni storiche, si incontrano tutti quegli spiriti solitari, legati, attraverso tutte le epoche, da una spirituale parentela. Questo e non altro significa quella intellectualis religio dei contemplativi.184
L‟astratta universalizzazione della coscienza razionale, che costituisce l‟idealismo teoretico, emancipandola dall‟orizzonte di senso ontologico della fede, sostituisce il metodo astraente a ogni contenuto di senso, per cui l‟originaria classe dei saggi religiosi diventa ora la generica classe dei sapienti di ogni tempo, privilegiati nell‟uso della ragione a prescindere dai contenuti della loro rispettiva fede, la cui attività filosofica diventa, alla stregua di un ludo sofistico, un puro esercizio teoretico in sé, privo di senso comune. Da qui la simpatia razionalistica per gli eretici, intesi come gli elitari cultori dell‟Ideale contro la credenza dei comuni fedeli. “La pura visione dei pochi doveva infatti necessariamente finire col trovarsi in un rapporto di tensione con la religione del popolo, ed appariva comprensibile che gli scomunicati e perseguitati fossero coloro che veramente sapevano”.185
184 Ivi, pag. 224. 185 Ivi, pag. 224.
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Non c‟è più la figura cristiana del più saggio e consapevole fratello che guida da pastore il suo fraterno gregge di ingenui fedeli, ma il ripristino della figura del filosofo socratico che lotta, in nome del‟Idea, contro la credenza socializzata dei molti ingenui. Una figura che, sia pure trasfigurata nell‟immagine di Gesù, resta idealisticamente platonica, poiché astrae dal contesto di senso – pagano e anti-cristiano, oppure comune e cristiano - per affermare la mera figura dell‟oppositore teoretico, che conosce il vero a discapito dei falsari suoi negatori. Torna, a discapito della cosmicità cristiana definita sul principio della carità fraterna, l‟universo polemico della civiltà pagana, informata alla logica esclusivistica della discriminazione politica, che resta tale anche se trasfigurata a sua volta in opposizione sapienziale. L‟atteggiamento razionalistico si lega al favore romantico per le minoranze oppresse e oppositive, viste come la proiezione sentimentale del cenacolo spirituale cristiano oppresso dall‟ottusità del Potere materialistico sociale. Questo atteggiamento, che scardina i valori medievali, secondo Agrippa proviene dalla tradizione ermetica, per cui lo stesso Cusano, “come filosofo, può collocarsi al di fuori della tradizione cristiana”, tanto che l‟Illuminismo ha visto in lui un precursore.
Nel suo aristocratico disinteresse, che gli viene dalla cultura barocca, il XVIII secolo accetta, tranquillamente e senza scrupoli, come un fatto definitivo la divisione dell‟umanità in due categorie, senza passaggio o mediazione; da un lato persone autosufficienti e capaci, dall‟altro gli sciocchi che vengono guidati, i quali non possono fare a meno della loro religione popolare; perché tutto sia in perfetto ordine non c‟è che da riconoscere questo fatto e lasciare a coloro che sono capaci di pensare da sé la loro libertà. Non ci si preoccupa della sfera inferiore.186
Infatti “l‟accordo può sussistere solo tra pochi spiriti maturi”,187 mentre gli altri sono condannati dalla loro stessa insipienza. Ora, il carattere anti-cristiano del “razionalismo esclusivista dell‟Illuminismo” non deriva dal fatto di essere una “filosofia di privilegiati”, come sostiene
186 Ivi, pag. 225. 187 Ivi, pag. 226.
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Stadelmann accreditando la tesi di Agrippa, 188 in quanto ogni conoscenza, anche quella di Dio, è un segno di distinzione carismatica che coloro che è saggio e utile riverire da parte di coloro, i più, che “non sono capaci di pensare da sé”; ma deriva dalla giustapposizione del piano sapienziale in termini esclusivi, e quindi polemici, al piano della coscienza comune in senso spirituale-comunitario e non politicosociale. Infatti, l‟antropologia cristiana aveva universalizzato il livello di coscienza spirituale, mantenendo la diversità delle tradizioni storiche delle diverse espressioni culturali dell‟uomo mondano, mentre ora l‟astratta idealizzazione del motivo sapienziale in sé, a prescindere dal suo rapporto di coscienza interno all‟universo cristiano, esalta la sua funzione direttiva in senso esclusivo e non caritatevole, riconducendola all‟interno di una logica discriminante sul piano sociologico ed esistenziale, tributario di un privilegio che è storicosociale, e non metafisico-spirituale, sul quale insisterà la polemica antiborghese del socialismo, quale ideologia post-cristiana o del cristianesimo idealistico secolarizzato, che traduce il motivo etnicoantropologico della diversità politica in termini di privilegio socioeconomico. In tal senso, l‟affermazione di Stadelmann per cui “la teoria razionalistica della storia e della religione avanzata dal XV secolo è il tentativo di fornire una base d‟appoggio al sistema cristianouniversale del medioevo”,189 va intesa nel senso che fu la pretesa di universalizzare il “sistema” socio-politico cristiano storicamente costruito dalla Chiesa romana a provocare, attraverso il mutuo umanistico della filosofia politica pagano, la deriva politicistica del cattolicesimo, la cui cultura razionalistica, accogliendo l‟istanza emancipativa delle scienze istitutive del nuovo universo di senso “moderno”, ha legittimato teologicamente il ripristino del pensiero naturalistico classico che ne era a fondamento, provocando così l‟opposta scissione di un sapere mistico a un sapere razionale, che la sintesi religiosa cristiana aveva superato con la sua originale antropologia spiritualistica, e che verrà sancita dallo scisma protestante. La distinzione evangelica tra il regno di Cesare e quello di Dio,
188 Ibidem. 189 Ibidem.
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indicava il diverso percorso, a tratti alternativo, dell‟universalismo spirituale rispetto a quello socio-politico, che invece il cattolicesimo romano ha incrociato nella formazione di un impero cristiano, facendo della Chiesa, anziché la mediatrice dei due regni, sacro e profano, il luogo di fusione e di contaminazione dell‟universo soteriologico con quello antropologico, e quindi trasformando la Persona mistica di Cristo in realtà istituzionale storico-sociologica. Solo a questa condizione la stessa Chiesa poteva essere “superata” da uno stadio teologicamente più avanzato della salvezza mondana. Lo storicismo gioachimita è inscritto nella traccia sincretistica del cattolicesimo come variante idealistico-platonica del dogma cristiano, il quale
da Agostino a Tommaso aveva escluso di principio un‟interpretazione storica delle cose ultime, e proprio perciò aveva considerato teologicamente la storia del mondo. Gioacchino vide invece tutto in una prospettiva storica. Anche Cristo significa per lui non soltanto il compimento delle predizioni dell‟Antico Testamento, ma anche l‟inizio di un‟epoca nuova. Cristo rimane al centro, ma questo è tuttavia un centro di simboli e di significati, che rimandano tanto a lui, quanto anche da lui ad eventi futuri. Il suo significato è veramente storico, non perché sia stato tale in un determinato tempo, ma perché contiene riferimenti ad eventi passati e ad eventi futuri entro una continuità storica, in cui le generazioni dopo Cristo sono importanti quanto quelle prima di lui. Gioacchino pensa in un modo rigorosamente teologico e contemporaneamente storico, nel senso di un cursus temporis invece di un semplice interim. 190 L‟orizzonte gioachimita è un processo storico in cui si dispiega la verità in divenire, anziché, come in Agostino e in Tommaso, un evento di significato simbolico universale ed terno ma accaduto una tantum nel passato. La differenza è che
nel pensiero di Agostino la perfezione religiosa è possibile indifferentemente in ogni momento del processo storico dopo Cristo; nel pensiero di Gioacchino è possibile soltanto in un determinato periodo per una particolare coincidenza di eventi. Secondo Agostino la verità storica si rivela in un evento singolo; secondo Gioacchino essa si rivela in una successione di ordini. L‟uno attende la fine del mondo, l‟altro l‟età dello Spirito Santo.191
190 K. Loewith, Significato e fine della storia (1953), tr. it., Milano, 1979, pag. 180. 191 Ibidem.
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Ma la diversa dislocazione del processo irenico non la stessa valenza assiologia, poiché il percorso personale e intimo del fedele presupponeva soltanto il rapporto mistico della sua coscienza con Dio, mentre invece l‟allocazione nel tempo storico della fase teologica, coinvolgeva un aspetto collettivo e quindi sociale che includeva i rapporti dei singoli con le condizioni istituzionali dei regimi del tempo, ossia una dialettica inevitabilmente politica tra la prospettiva spirituale e quella mondana, che tagliava fuori la mediazione ecclesiastica, rendendola partecipe di uno dei due campi storicamente avversi. Essendo in Agostino la verità nell‟evento trascendente e non nel processo storico, essa è eterna rispetto al divenire dei fenomeni storici mondani. Per Gioacchino, invece, la verità è immanente alla Storia e perciò si rivela solo attraverso la sua auto-coscienza spirituale, in un tempo idealmente prefissato perché logico, ma anche temporalmente definito. La teoria gioachimita, coinvolgendo anche il profilo mondano della Chiesa, suscettibile anch‟essa a fasi di decadenza, di morte e di resurrezione spirituale, ne provocava la reazione, di natura essenzialmente repressiva e conservativa.
Una volta inseritasi nel mondo storico, la Chiesa doveva rafforzare la sua posizione e praticare la saggezza di questo mondo, amministrando gli strumenti della salvezza su una base sicura. La Chiesa trionfante stabilizzava e neutralizzava le potenzialità anarchiche dell‟escatologia radicale dei primi cristiani, che nel loro eroismo si disinteressavano completamente della continuità storica di questo mondo.
Ossia di quel filo rosso che per Ralke costituiva, come abbiamo visto, la possibilità stessa della comprensibilità dei fenomeni umani all‟interno del processo temporale più o meno idealmente stabilizzato.
Dopo un‟esistenza storica millenaria, la Chiesa era satura di mondanità, come la sua teologia era satura di filosofia araba e aristotelica. Gli elementi originari della fede cristiana – l‟avvento del regno di Dio, la seconda venuta di Cristo, il pentimento, la redenzione e la resurrezione – furono sommersi da una massa di diritti acquisiti e di interessi secolari.192
Una tesi simile a quella di Gioacchino da Fiore fu sviluppata da
192 Ivi, pag. 181.
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Lessing, il quale ripensa la possibilità di un Cristianesimo dopo la Riforma come “una religione del genere umano”, fondata non più sugli dèi ma sullo “spirito”, sicché “il cristianesimo dopo Cristo non è più condizionato dalla tensione tra un nuovo messaggio soprannaturale e le forze cosmiche del paganesimo, ma è libero di svilupparsi in una scienza umana completamente autocosciente”.193 Ciò comporta che non basta la semplice diffusione del Vangelo ma occorre lo sviluppo di una gnòsis universale di tipo scientifico. Al fondamento petrino di una continua successione, che riflette l‟età di Dio, succede l‟apostolato di Paolo, dedicato al Figlio, e infine quello di Giovanni dedicato all‟avvento dello Spirito Santo, ossia della completa verità. Come scrive Loewith,
lo schema storico cristiano e soprattutto la costruzione storico-teologica di Gioacchino crearono un clima spirituale e una prospettiva in cui divennero possibili certe filosofie della storia che non avrebbe trovato luogo nell‟ambito del pensiero classico. Senza l‟idea di progresso non vi sarebbe stata né la rivoluzione americana, né quella francese né quella russa; e senza la fede originaria in un regno di Dio non sarebbe sorta l‟idea di un progresso secolare verso un compimento, benché non si possa affermare che l‟insegnamento di Gesù si ritrovi nei manifesti di questi movimenti politici. La discrepanza tra i risultati storici remoti e il senso delle intenzioni originarie dimostra che il principio di una derivazione attraverso un processo di secolarizzazione non equivale ad una determinazione causale. […] Il cristianesimo può, in ultima analisi, essere “responsabile” della possibilità della propria secolarizzazione e delle sue conseguenze anti-cristiane, ma la proclamazione originaria di un regno di Dio non mirava certo a rendere il mondo più mondano di quel che già era per i pagani.194
Ma perché ciò è stato possibile? Qual è la relazione ideale tra propositi espliciti e risultati eventuali? Ogni pensiero astratto dal suo fine trascendente, che è anche il suo principio ontologico (aitìa), si converte nel suo opposto dialettico. Se il fine è diverso dal suo principio, lo strumento persegue il suo principio
193 Ivi, pag. 239. 194 Ivi, pag. 242.
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costitutivo, contraddicendo il fine improprio, e perciò astratto. Ciò conferma la teoria aristotelica secondo cui ogni ente è la realtà visibile della sua potenza ideale, della potenza ideale del suo principio, che è il suo fondamento d‟Essere. Intervenendo sui mezzi, la volontà umana può mutarne la destinazione empirica, ma non la loro ragione ideale, che costituisce la loro verità essenziale. “Verità” è ciò che è in sé il suo se stesso, e perciò non è manipolabile. L‟immodificabilità di ogni vero riduce l‟azione sui mezzi a una pratica illusoria, destinata a fallire i suoi scopi teleologici astrattamente preordinati dalla volontà umana (hybris). La teologia cristiana, astraendo dal principio “naturale”, cioè ontologico, affermato dalla fede, presente negli enti come realtà visibile, e cioè attuale, rende i mezzi razionali del suo livello di coscienza astratti dall‟orizzonte di senso originario, quello biblico, e disponibili ad altro fine, diverso da quello che essi serbano in potenza. Questo fine “altro” dal suo principio costitutivo, o Essere degli enti, è una negazione dell‟Essere del principio, altrimenti sarebbe a esso uguale, per cui il fine allotrio giustapposto a quello “naturale” degli enti, secondo la possibilità del loro Essere originario, è un non-essere ciò che di quegli stessi enti è l‟Essere , da qui la dialettica della conversione dei fini astratti al loro opposto reale, ossia la loro eterogenesi. Pertanto, la vita etico-politica delle società “naturali”, astratta dal suo “fine particolare”, e cioè dalle ragioni della sua esistenza reale, diventa, nella prospettiva cristiana, un processo ideale, ossia una “storia della salvezza”, la quale non contiene più un principio immanente che ne giustifichi il processo evolutivo secondo una intrinseca dinamica (iuxta propria principia) coerente al suo fondamento costitutivo, che caratterizza l‟indirizzo ideale della sua conseguente evoluzione, ma solo un fine trascendente, secondo una proiezione prospettica futura, verso la quale il movimento storico sarebbe teleologicamente indirizzato, indipendentemente dall‟agire umano e quindi dalla responsabilità degli attori. Proprio la corrispondenza del principio con il fine dell‟agire umano crea l‟idea di un‟anaciclosi dei regimi sociali e delle forme politiche classiche, laddove l‟astrazione dei mezzi dai suoi princìpi essenziali fa di questi dei meri strumenti della Provvidenza per conseguire i suoi fini imponderabili, tutti proiettati verso un ignoto futuro, il “progresso” storico. Il fedele crede all‟ordine sacro del mondo, ma non lo vede.
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Giudicata con gli occhi del senso la fede è effettivamente “cieca”. La greca è realmente una visione del mondo ovvero una contemplazione di ciò che è visibile, e perciò può essere dimostrata, mentre la fede cristiana, la , è una certa confidenza o una fiducia incondizionata nell‟invisibile,e quindi nell‟indimostrabile. L‟oggetto della fede non può essere riconosciuto teoricamente; si deve farne professione praticamente. Il Dio cristiano non è accessibile a nessuna teologia naturale. […] La cosmologia greca è teoreticamente inconfutabile muovendo dalla fede cristiana. Infatti dal credere al vedere non vi è alcun passaggio. […] Poiché Dio è, nel suo essere e nella sua potenza, infinitamente superiore alla sua creatura, non può essere concepito dal mondo. Il mondo biblicamente inteso, può essere e anche non essere in quanto creazione; esso non esiste essenzialmente per natura. L‟unico autentico testimonio del mondo visibile è il Dio invisibile, che nelle Scritture attesta all‟uomo la sua creazione.195
Intendiamoci. L‟elemento “invisibile” del creato è la sua destinazione di senso, non certo la realtà fenomenica, per cui questa, alla luce della verità di fede, dev‟essere reinterpretata secondo il suo fine non più immanente, di carattere naturalistico e, nel caso dei rapporti umani, sociale, ma trascendente, in ragione della quale l‟antico cosmo perdeva il suo necessario valore di senso naturale a favore del nuovo senso irenico, entro il cui orizzonte veniva compresa tutta la realtà, partecipe della storia divina. Il nuovo orizzonte di senso poteva includere l‟antico in quanto più comprensivo e più originario. La nuova fede cristiana agisce sull‟antica ontologia naturalistica pagana come il livello di coscienza razionale sulla credenza ontologica di un fideismo ingenuo; ma, diversamente dalla filosofia antica, e dal razionalismo moderno, che pur negandolo sono costretti ad ammettere lo stesso fondamento ontologico del Mito, il razionalismo teologico cristiano si costituisce come il “vero” fondamento ontologico del mondo, in quanto assume la realtà del mondo non come originaria ma come prodotto divino, concependo quindi Dio come l‟Essere stesso e la fonte di ogni realtà, e il mondo come il suo conseguente prodotto. Concepire il Creatore del mondo come l‟Essere originario, significava spostare la sua essenza in una dimensione pre-fenomenica, e perciò “invisibile” e
195 Ivi, pag. 186.
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pre-sensibile e pre-eidetica, non oggettivabile concettualmente ma contenuto della sola fede nella sua misteriosa realtà in-finita ed eterna. Il carattere creato del mondo è confermato per S. Agostino dalla sua mutabilità. Ciò che infatti è eterno non può essere mutabile. “Un mondo creato dal nulla è a priori privato di un suo proprio essere”,196 come pure è immerso nel tempo, o meglio accanto ad esso, essendo anche il tempo una creazione divina.197 I filosofi pagani attribuirono al mondo il carattere dell‟eternità, che pertiene invece solo a Dio, e a nessuna creatura. La caratteristica dell‟uomo è la sua natura debole, che nel corso dell‟esistenza terrena deve potersi salvare spiritualmente. L‟idea di salvezza è lo stesso di conversione metafisica dal senso naturale al senso trascendente, secondo il “passaggio” tipico del “pagano” al “sacro” riscontrabile in ogni religione. Nel nostro caso, l‟attenzione esistenziale viene spostata dalla generazione e continuità delle generazioni come evento perpetuo e sociale, alla finalità personale del singolo destino spirituale. Questo elemento di speranza manca al pensiero naturalistico greco, per il quale il processo che dalla nascita conduce alla morte è del tutto fissato nella sua eterna necessità biologica. Al ciclo naturale, il Cristianesimo sostituisce il percorso morale verso la salvezza per mezzo della speranza vòlta al futuro. La circolarità della ricorrenza dei fenomeni naturali, compresi gli umani, non era però, come asserisce Loewith, “senza principio né fine”,198 poiché in realtà il ciclo nasceva dalla identità ideale del principio e della fine delle cose, che garantiva la stabilità ontologica del cosmo. Tale “identità”, e quindi riconoscibilità essenziale delle cose, costituiva il motivo ontologico fondamentale in base al quale era possibile distinguere il valore della corrispondenza o il disvalore della difformità tra l‟essenza di un fenomeno e il suo sviluppo necessario, la cui eventuale incoerente devianza rappresentava il male da stigmatizzare e correggere, se riguardante la condotta dell‟uomo e la sua volontà. Il rapporto fra infrazione e punizione, umana o divina, non nasceva da un giudizio umano, da una posizione morale legata a una credenza culturale, e perciò variabile, ma bensì da una consequenzialità
196 Ibidem. 197 Ivi, pag. 187. 198 Ivi, pag. 189.
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necessaria di carattere ontologico e immutabile dalla volontà umana. Era questa necessità e immutabilità a costituire il criterio del valore come disposizione “sacra” della “natura” delle cose, che le disponeva in un ordine che era “razionale” in quanto universale ed eterno, al quale l‟uomo doveva ragionevolmente attenersi. Da questo fondamento ontologico nasceva quindi il comportamento etico come conformità al volere degli dèi. La ragione “dialettica” socratico-platonica sposta il senso del processo fenomenico dal suo sviluppo naturale e necessario a quello ideale e tecnico, preparando il terreno teoretico all‟ontologia cristiana. Infatti il Cristianesimo elimina il rapporto di coincidenza tra principio essenziale e fine naturale delle cose, e fa del percorso esistenziale dell‟uomo un viaggio della salvezza spirituale che parte da un inizio naturale –la nascita biologica – e termina con la rinascita dello spirito, cioè con un evento metafisico. Tra i due estremi non c‟è coerenza ontologica dell‟ente che attraversando la sua potenzialità giunge ad esaurirla nella morte, ma un itinerario mistico consegnato alla responsabilità morale dell‟uomo di buona volontà, dall‟esito non preventivabile e quindi incognito. Da qui il senso cristiano della libertà umana. Proprio l‟incertezza del futuro e la sua dissociata relazione dal passato soggettivo, costituisce il motivo della “debolezza” umana, della sua “ignoranza” circa la sua stessa vita, non più concepita in termini biologico-naturalistici ma in termini spiritualistici. L‟idea che l‟uomo non abbia uno habitat (che era la pòlis), né un indirizzo istintuale paragonabile a quello delle altre specie viventi, risale alla dissociazione metafisica che dal Fedro di Platone viene ereditata da quella cristiana tra la natura bio-fisica dell‟uomo e la sua natura spirituale, che verrà ripresa modernamente dal razionalismo cartesiano. L‟antico piano unitario di esistenza, viene cristianamente dimidiato in due livelli esistenziali: uno meramente fisico e accidentale, l‟altro morale ed eterno. tra i due, la maggiore considerazione andava al secondo, essenziale a definire la costituzione metafisica dell‟uomo e la sua originalità ontologica rispetto al resto del creato, il suo stato privilegiato e il suo percorso unico, eccezionale, di vita. Non più prodotto di natura, ma divino, l‟aspirazione massima dell‟uomo diventava quella di somigliare a Dio, attraverso un percorso di santità che abbandonava ogni aspetto caduco dell‟esistenza per privilegiare
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ciò che veramente meritava di coltivare, lo spirito, la essenza terna e divina che l‟uomo condivideva con Dio, il suo creatore paterno. La volontà umana, spiritualizzata, irrompe nel ciclo cosmico naturale modificandone il percorso biologico predeterminato, per inaugurarne uno nuovo, rettilineo e progressivo verso la meta finale, mistica ed escatologica. E ciò che fu possibile a Gesù sarà possibile ai santi, e per essi a tutta l‟umanità. Da qui nasce la missione evangelizzatrice di convertire il cosmo pagano, destrutturato ontologicamente e declassato moralmente, in un novus ordo spiritualis, costitutivo di una nuova comunità di rinati in Cristo, la Chiesa universale di tutto il genere umano convertito alla verità eterna portata agli uomini dal loro Redentore. La Chiesa è una comunità di “rinati” in Cristo, di spiritualmente risorti alla morte della loro precedente natura, alla loro antica appartenenza mondana, sociale come familiare. Una comunità di “anime” viventi riunite dall‟Amore in una fratellanza spirituale indissolubile. La necessità naturale viene superata dalla condizione spirituale perché essa stessa prodotto divino, il cui ordine provvidenziale è ben più potente di ogni ordine fisico, come è dimostrato dalla resurrezione di Cristo.
Il potere di destare i morti alla vita eterna è la prova più valida della potenza di Dio ed è infinitamente più significativa dell‟eternità del mondo, quale la insegnavano i filosofi greci. Nel miracolo della resurrezione si rinnova e si potenzia il miracolo della creazione. La giusta dottrina conduce ad un fine futuro, mentre “i malvagi si muovono in cerchio”. Il circolo, che secondo gli antichi era l‟unico movimento perfetto perché in sé concluso, è vano e condannabile, se la Croce è il simbolo della vita e il suo significato giunge a compimento in un fine.199
Questo fine, non accertabile in vita, sposta l‟esperienza umana e il suo significato dalla realtà sociale, che era il luogo classico della possibilità riservata all‟uomo di perfezionare la sua natura, alla realtà spirituale, interiore o comunitaria. A fronte della accertabile perfezione del percorso sociale, che poggiava sulla saggezza del mondo, quindi sulla capitalizzazione dell‟esperienza comune tramandata, cioè sulla scienza
199 Ivi, pag. 191.
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ed esperienza umane, l‟itinerario spirituale era animato solo dalla speranza, e non era giudicabile che dalla coscienza stessa o da Dio. Ciò vuol dire che la “visione del mondo” classica concerneva realmente cose “visibili”, mentre quella cristiana “non è affatto una visione, bensì un atto di speranza e di fede nell‟invisibile”.200 Ciò che era convincimento e giudizio razionale per il parametro classico, diventa dovere morale e virtù teologale nella dimensione cristiana, per cui la speranza cristiana non era l‟equivalente della tranquilla saggezza del filosofo consapevole delle cose del mondo, ma un “dovere morale”, una “virtù mistica” della grazia, al pari della fede e della carità.201 Il contenuto terreno della speranza cristiana non è di costruire in terra la Città di Dio, che in quanto divina non può essere realizzata dagli uomini, ma di rappresentarla in una forma analoga, la Chiesa. Ma l‟analogia, già presente in Platone, costituisce, sia pure in versione umana, con tutti i suoi umani limiti, diventa il criterio di condotta delle azioni umane, al posto della corrispondenza razionale tra il principio naturale od ontologico e il fine corrispondente alla sua potenza. Rispetto alla verità cui il mondo è destinato da Dio, ogni fine mondano, per quanto elevato e razionalmente coerente, diventa irrilevante, per cui ogni sforzo teso a conseguire per educazione un télos mondano diventa senza valore
in confronto all‟alternativa tra l‟accettazione o il rifiuto del messaggio cristiano. La fede di Agostino non ha bisogno di alcuna elaborazione storica, poiché il processo storico in quanto tale non può produrre né assorbire il mistero centrale dell‟incarnazione di Dio. La fede in esso supera ogni sviluppo e ogni crisi storica.202
Tale fede, nondimeno, non è per Agostino la ricezione spontanea della verità dei primi cristiani, ma la fede quale è elaborata dalla Chiesa costituita, cioè una dottrina. Questa dottrina nacque in conseguenza della delusa aspettativa della fine del mondo e del ritorno di Cristo dei primi cristiani, e quindi come una giustificazione razionale e teologica
200 Ibidem. 201 Ibidem, n. 15. 202 Ivi, pag. 192.
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dell‟antica fede escatologica, fondata su attese storiche, su riscontri reali.
In conseguenza del rifiuto di tali aspettative entro il tempo storico, Agostino fu in grado di costruire per la prima volta una sorta di storia universale come un procursus teologico dall‟inizio alla fine, senza un millennio intermedio. Eventi profani e fine trascendente sono in questa costruzione separati in linea di principio, e collegati soltanto attraverso la peregrinatio dei credenti ain hoc saeculo. 203
L‟istituzione ecclesiale, quindi, costituisce il luogo di rielaborazione del mito escatologico originario, per cui la sua funzione mediatrice nell‟ambito dell‟orizzonte di senso religioso non è eliminabile senza tornare a un livello di coscienza fideistico di tipo escatologico, il quale incentra il motivo dell‟éskatòn non più sul piano della delusa attesa messianica divina, ma su quello dell‟evento antropologico mondano, sostitutivo dell‟avvento di Cristo col suo storico corpo mistico. Per la Chiesa, combattere questa prospettiva escatologica infra-mondana, significava salvaguardare il proprio ruolo mediatore, ossia la sua funzione razionalizzatrice all‟interno dell‟orizzonte della fede cristiana. A maggior ragione, la stessa presenza della Chiesa, quale istituzione teologica, doveva escludere altre presenze concorrenti alla stessa funzione, ossia il libero pensiero, sul piano teoretico, e la libertà politica sul piano sociale. E questo condizionò la vita storica della Chiesa, esponendola alla lotta culturale e politica con le due distinte ma correlate tendenze emancipatrici del mondo moderno. Il fine della città terrena, compreso l‟Impero romano, non è inscritto nella sua potenza, destinata a finire prima o poi, ma va compreso nell‟ambito del carattere originario dell‟uomo come essere mancante e imperfetto, la cui iniquità si proietta nella vita sociale tanto da richiedere una affermazione autoritativa di pace e di giustizia, garantita appunto dallo Stato. La società politica, dunque, nella prospettiva di Agostino, non va giudicata come una realtà che abbia in sé stessa la sua ragion d‟essere in quanto realtà “naturae”, ma va giudicata in relazione alle condizioni da essa consentita alla diffusione del Vangelo. Infatti, “quello che veramente importa nella storia non è la transitoria
203 Ivi, pag. 193.
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grandezza degli imperi, bensì la redenzione e la dannazione in un futuro escatologico”.204 Agostino conferma che è la Morte, come “compimento finale” della Storia umana, il “termine fisso per la comprensione degli avvenimenti presenti e futuri”, cui va collegato la creazione del mondo e la caduta di Adamo come termini opposti dell‟universale vicenda dell‟uomo.
In riferimento a questi due avvenimenti soprastorici, il primo e l‟ultimo, la storia stessa è un intervallo tra la prima manifestazione dell‟attualizzazione della salvezza e il suo venturo compimento. Soltanto in questa prospettiva di una definitiva attuazione della salvezza la storia profana in generale rientra nella concezione agostiniana, [per cui il suo] significato dipende dalla preistoria e dalla post-storia, da un principio e da una fine trascendenti. Soltanto attraverso questo riferimento a un principio e a una fine assoluti la storia in quanto totalità ha un senso. Al centro di questa storia così limitata sta al‟apparizione di Gesù Cristo, l‟avvenimento escatologico.205
I piani paralleli della storia profana e della storia sacra diventano dialettici, per cui i processo storico diventa per i cristiani lo scenario della lotta per la Civitas Dei e la civitas terrena. Secondo Loewith, “questi regni non si identificano con la Chiesa visibile e con lo Stato, ma sono due società mistiche costituite da modi opposti di esistenza umana”.206 In realtà, come abbiamo sopra chiarito, la funzione stessa della Chiesa quale istituzione storica, entrava in collisione con l‟altro modo di “esistenza umana”, quello socio-politico, la cui realtà storica poteva mantenere la sua autonomia metafisica fino a quando la dialettica che opponeva le due “società mistiche” rimaneva confinata in interiore homine, ossia ineriva i rapporti tra il Potere sociale e la coscienza individuale del credente. Ma allorquando il contesto dialettico si era trasferito dal cosmo pagano all‟interno dell‟universo di senso religioso, la relazione del singolo credente doveva stabilirsi sia con la comunità mistica che con la comunità politica, ognuna rappresentativa di due opposti principi di socialità, quello politico dello Stato e quello fraterno dell‟ordo amoris, i quali rappresentava anche
204 Ivi, pag. 194. 205 Ivi, pagg. 194-195. 206 Ivi, pag. 195
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due percorsi diversi di “salvezza”, rispettivamente quello economico della sopravvivenza bio-fisica, dominato dal principio dell‟adattamento ai rapporti di forza naturali, e quello spirituale della grazia divina, dominato dal principio della “metanoia”, della conversione alla legge dell‟Amore. L‟idea di poter concepire la Chiesa come una “civitas peregrinans” la quale, tesa a conseguire il suo fine escatologico, stesse “in relazione con gli avvenimenti profani, per quel tanto che essi servono al fine trascendente di costruire la casa di Dio”, [Ibidem.] non eliminava lo scontro tra le due prospettive antropologiche, proprio perché l‟universalizzazione cristiana dell‟originario dettato etnicoteologico ebraico di non avere “altro Dio”, inaugurava la demonizzazione della civiltà pagana, dominata dalla “vanitas” quanto la città di Dio dalla “veritas”. Tra un peccato (l‟omicidio di Abele da parte del fratello Caino) e una virtù (l‟amore anche immeritato per il prossimo) non c‟è paragone né conciliazione morale. La città terrena è un mero prodotto di “generazione naturale”, intesa qui come accidentalità senza valore, immersa com‟è nel temporale e nel finito, mentre la città di Dio è di contro una creazione dovuta alla “rigenerazione soprannaturale”, di carattere eterno e immortale. A fronteggiarsi sono l‟amore di Dio e l‟amore di sé. “Fede”, come amore di Dio, e “scetticismo”, come empietà e vita fine a se stessa, sono i due termini fondamentali della storia umana, cui corrispondono due visioni antropologiche alternative e due opposte visioni del mondo. Lo sforzo della civiltà umana di costruire qualcosa che resti nel tempo si scontra inesorabilmente con il carattere finito della sua costituzione ontologica, per cui
il processo storico come tale, il saeculum mostra soltanto il vano susseguirsi e perire delle generazioni di ogni tempo. agli occhi della fede, tutto il processo storico della storia sia sacra che profana appare come una predeterminata ordinatio Dei. L‟intero schema dell‟opera agostiniana serve dunque allo scopo di giustificare Dio nella storia.207
Il senso della Storia è la volontà di Dio, imperscrutabile e del tutto ignota agli occhi profani. La storia sacra, cosciente di questa divina volontà, diventa “una storia segreta entro quella secolare, sotterranea e
207 Ivi, pag. 196.
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invisibile per coloro che non hanno gli occhi della fede”.208 La storia secolare, alla luce della nuova coscienza religiosa, appare come un vano susseguirsi di particolari e molteplici forme ordina mentali, tutte destinate a finire insieme alla vanità delle loro pretese di superare la finitezza di ogni cosa umana, mentre l‟unico vero processo unitario della Storia è quello che tende verso la salvezza eterna. In altri termini, l‟antico senso delle cose, trasfigurato dal nuovo livello di coscienza teologico, perde il suo valore significativo, riducendosi a una avvenimenzialità di pure forme fenomeniche, prive di realtà simbolica. Il trapasso da un orizzonte di senso a un altro, comporta la frattura ermeneutica tra simboli e valori, sicché l‟intero percorso della civiltà pagana appare agli occhi della mito-logia cristiana una insensata fenomenologia di strutture societarie caduche e transeunti, tali che il “regno di Cesare” non sia più la casa comune dell‟ingenuo e dell‟illuminato, ma il luogo della perdizione antropologica e morale.
Per un cristiano credente, come Agostino od Orosio, la storia profana è priva di senso proprio. Essa è tutt‟al più un riflesso frammentario della sua sostanza sopra-storica, il divenir della salvezza, determinata da un principio, da un centro e da una fine sacra.209
Questa svalutazione della Storia come processo in sé compiuto, distinto da quello soteriologico, inserisce nel discorso sulla Storia un giudizio la cui validità dogmatica è indipendente da ogni rappresentazione più o meno razionale dei singoli fenomeni storici, i quali sono per il credente rilevanti solo in rapporto al piano di salvezza escatologica. Ciò comporta che anche epoche e interi processi culturali locali o mondiali acquistino significato solo attraverso la lettura sacra, perdendo di rilievo le differenze infra-storiche tra civiltà diverse o tra la stessa civiltà e la barbarie. Il punto di vista secolare, dunque, fa riferimento a un processo di realtà il cui senso è divenuto incomprensibile fuori della visione unitaria cristiana, dalla cui sacra prospettiva quella realtà profana appare priva di significative differenze: un non-Essere dalla cui negazione emerge la vera realtà ontologica dell‟unico Essere, quello della propria fede.
208 Ivi, pag. 197. 209 Ivi, pag. 206.
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Il processo dialettico del razionalismo socratico-platonico diventa, nella logica dell‟universale idealismo cristiano, una metodica gnoseologica per discriminare, alla luce del proprio giudizio di realtà, l‟intero processo storico, assunto per contrapposizione dialettica come il termine negativo rispetto alla verità. assistiamo qui al primo grandioso esempio di “esenzione del senso” operato dal linguaggio formalizzato di un orizzonte di senso teologico, entro cui la realtà determinata come “sacra” diventa il modello normativo di una positività ontologica, confermata ermeneuticamente dalle decisioni di un Governo, quello della Chiesa, le quali ri-stabiliscono sul piano comunitario dei fedeli la scelta fondamentale originaria tributaria del senso comune. Proprio perché esclusiva, la determinazione teo-logica rappresenta una scelta ontologica a favore dell‟Essere (di fede) anziché del non-Essere (mondano). E poiché sul piano esistentivo l‟essere e il non-essere entrambi “sono”, la scelta è ideale e consiste nella distinzione tra ciò che dell‟Essere va assunto come “sacro”, pertinente a Dio, e che perciò deve essere, e ciò che va considerato “profano”, e che perciò può nonessere. Il criterio d‟Essere coincidente con quello di valore, istituzionalizzato in dovere sociale, cioè giuridicizzato, costituisce il referente assiologico di un orizzonte di senso razionalizzato secondo quel valore, che sostituisce un altro orizzonte di senso, giudicato “mitico”, ossia pre-razionale, per cui non è più la potenza politica e la sapienza secolare a giudicare il fenomeno religioso, secondo i suoi parametri mondani, ma è la verità religiosa che formula giudizi riduttivi e liquidatori sulla Storia del mondo profano. E‟ da tenere presente che l‟interpretazione del mondo come fenomenologia profana lascia da parte i significati immanenti ai processi secolari, appunto profani, per cui ogni giudizio di valore proviene dalla visione escatologica e sacra, esterna a quella fenomenologia, e quindi pre-giudiziale. Ciò ha per conseguenza che, al fine di ottenere un valore significativo, cioè un qualche senso simbolico, la storia profana deve inscriversi nella Storia sacra, entro la quale soltanto può trovare il suo senso assoluto e totale. Questa transumanza non è che l‟esito e l‟auspicio di una conversione del mondo profano all‟ordine sacro, tale da realizzare l‟universale transvalutazione della stessa esistenza umana nel suo complesso come Storia della salvezza. “I peccati dell‟uomo e l‟intenzione redentrice di
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Dio – essi soltanto richiedono e giustificano il processo storico. Senza peccato originale e redenzione finale il tempo storico sarebbe inutile”. Ma inutile per il credente appunto non è. La storia è sentita da lui come un “intervallo” in cui l‟uomo è messo alla prova circa la sua risposta al volere di Dio. Questo comporta per il fedele “vivere in una suprema tensione tra due volontà opposte, in un conflitto la cui posta non è né un ideale irraggiungibile né una realtà tangibile, bensì la salvezza promessa”.210 Il teismo universale, attraverso l‟idealismo greco, diventa la premessa onto-teologica di ogni futuro razionalismo missionario, pronto ad aiutare a realizzare nel mondo i disegni escatologici della ragione provvidenziale.
8. Il “testo base del nuovo universalismo religioso del XVII secolo” è il Colloquium heptaplomeres di J. Bodin, di cui il Nathan di Lessing è una derivazione. Il colloquio di Cusano, De pace seu concordantia fidei, ha la forma di una visione di Dio con tutti i santi.
Lo scritto concepito da un superiore punto di vista filosofico, si fa più complesso di altri dello stesso genere, in quanto è animato nel fondo da due tendenze. L‟una ha di unire la sintesi in una religione universale che comprende il contenuto di verità delle singole coniaecturae e si accontenta di certi principi e leggi comuni unificabili alla maniera democratica, indipendentemente da particolarità di riti. L‟altra è invece interessata ad un comune bagaglio originario ed è incline a ridurre tutte le espressioni religiose a questa misura naturale e sufficiente. Come in Rousseau si intrecciano inestricabilmente due concetti di natura, uno utopico e l‟altro primitivo, così anche qui è impossibile una separazione di queste due tendenze: questa situazione spiega le numerose incongruenze.211
Ciò che unifica le due tendenze è che il cosmopolitismo religioso non tenta di introdurre una nuova fede, ma di considerare i valori accomunanti le diverse esperienze religiose delle culture storiche. Uno stesso “lògos” presiede lo stesso “contenuto di verità di ogni religione specifica”, per cui dalla comune origine razionale è possibile ricavare “una religione naturale”: “una est igitur religio et cultus omnium
210 Ivi, pag. 210. 211 Ivi, pagg. 227-228.
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intellectu vigentium quae in omni diversi tate rituum praesupponitur”.212 L‟atteggiamento filosofico-razionale viene rinvenuto nel mondo greco antico, sapienziale per antonomasia, nel cui amore per la sapienza si fa risalire l‟idea della sostanza unitaria, da cui procede il mondo empirico. I Greci hanno rappresentato la loro gnoseologia in termini mistici e religiosamente sensistici, quasi che la bellezza e l‟amore del mondo costituissero una anticipazione simbolica della sapienza.
Ma se tra l‟amante della sapienza cristiano e quello pre-cristiano c‟è un tale accordo nella esperienza religiosa vissuta, si può […] concludere che un tale accordo c‟è anche nell‟oggetto di tale esperienza. […] In ogni religione il centro è l‟adorazione di una potenza superiore, di un Dio unico: a questa affermazione si perviene ora con l‟aiuto di una psicologia mistica. 213
Rispetto alla tesi tomista del consensum gentium come comune tendenza innata in tutti gli uomini, la teoria cusaniana non considera la religiosità comune semplicemente come una tendenza, ma come l‟essenziale contenuto necessario alla sua santificazione:
l‟essenziale del comando e della rivelazione di Dio è talmente ristretto, semplice ed universale da essere mostrato in maniera sufficiente dalla voce della coscienza naturale; l‟amore di Dio e l‟amore del prossimo si comprendono, per così dir, per se stessi.214
Cusano, in conseguenza di tale riduzione all‟essenziale della religione, riduce anche i sacramenti “a semplici ornamenti ed appendici esteriori così come i riti politeistici, ebrei o mussulmani”, [Ivi, pag. 230.] ritenendo inessenziali gli elementi che variano per tempi e luoghi, dando risalto alla tesi paolina per cui è il processo interiore, e non le formule rituali, “a decidere del frutto della pietà”. [ Ibidem.] Con Paolo, doctor gentium, “il principio particolare è soppiantato da quello universale”. Se con Pietro il cristianesimo romano era riuscito a introdursi sia nel mondo occidentale che presso i popoli germanici e latinizzati, con Paolo si definisce il suo universale “contenuto etico-
212 Ivi, pag. 228 213 Ivi, pag. 229. 214 Ivi, pag. 229.
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filosofico” cosmopolitico, che “subentra” alla “rigorosa cattolicità”.
215
Anche Cusano si pronuncia per la sola fides, ma in senso opposto a quello di Lutero.
Mentre Lutero ne ricava una dottrina della giustificazione del massimo esclusivismo pensabile, che pone nella luce più cruda la singolarità della situazione cristiana, per lo spiritualismo tardo-medievale la dottrina della sola fede diviene la conferma e la giustificazione della sua saggia indifferenza per i confini tra le religioni positive, diviene la formula di una universale religione della coscienza e della tolleranza filosofica. Con essa Cusano, in fondo, ha compiuto il tentativo di una dottrina fondamentale del cristianesimo e della religione in generale.216
L‟individuazione di un “minimum sostanziale” tra le diverse esperienze religiose, ha condotto inevitabilmente a rasentare il pensiero razionale, ovvero a farlo emergere come livello di coscienza dominante su quello ingenuo e fideistico, con risultati non sempre riconducibili a una matrice spiritualistica. Infatti, “finché si cercò un denominatore comune alle varianti del cristianesimo, quella riduzione poteva dare dei risultati spiritualistici. Ma quando nel confronto si inserì anche la filosofia antica, la base comune dovette essere cercata nell‟elemento razionale”.217 Sebastian Franck individuò nella letteratura ermetica “la comunanza universale della verità antica con quella cristiana”, consistente nella comune considerazione dell‟ideale morale della rettitudine e del timore di Dio; ideale razionale comune che esclude ogni forma di intolleranza religiosa. Franck asserisce che al fondo della religiosità umana risieda un “universale teismo umanistico, per il quale la tolleranza o la concordanza non sono più dei problemi”.218 Da qui l‟accusa di eresia di
215 Ivi, pag. 231. 216 Ibidem 217 Ibidem. 218 Ivi, pag. 232. La sostenibilità di tali posizioni anacronistiche, che proiettavano nel passato la chiave di lettura umanistica dell‟universalismo religioso, era dovuta alla riuscita inserzione del razionalismo greco nell‟orizzonte di senso dell‟onto-teologia cristiana, che l‟aveva acquisito in funzione strumentale e ancillare, e che tornerà alla sua funzione critica una volta recuperato l‟originario universo di senso naturalistico
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Lutero. La veduta razionalistica di Cusano è più larga di quella di un teismo dogmatico, vedendo nella pluralità dei riti e delle cerimonie un aspetto educativo, come lo stesso politeismo inteso nella venerazione dei santi intercessori dei bisogni popolari. La formula mistica, che presenta la beatitudine ultraterrena come superiore a ogni descrizione, sottrae le rappresentazioni a ogni controversia e conferma l‟utilità relativistica delle categorie mistiche. Venuta meno quella “grande forza che animava il medioevo, l‟idea missionaria”, in cui si manifestava la fede nell‟ordine cristiano condendo, dell‟antico fervore religioso restavano i lacerti documentali della varietà universali di pratiche di culto e di simbologie, di significato perlopiù pedagogico,219 che si estendeva anche ai culti extra-cristiani. La stessa religione islamica fornisce a Cusano “lo stimolo alla teoria del teismo universale”.220 Come per Bodin il mondo ebraico ha stimolato lo studio comparato delle religioni, per Cusano il modo arabo “è diventato il punto di partenza per una comprensione libera dei sistemi religiosi estranei”. Cusano infatti ammira in Maometto “la prudenza e l‟intelligenza con cui ha operato per distaccare il popolo dalla più grossolana idolatria”.221 Gli stessi sapienti arabi, in primis Avicenna, si sono attenuti a questa regola, criticando gli usi popolari per la distanza dalla legge coranica, ispirando al cristiano
pagano a opera dell‟umanesimo italiano. Ma l‟emancipazione dal servizio teologico, se gli riaprì la strada al naturalismo trasformando il suo “sapere” filosofico in “ricerca” scientifica, non eliminò perciò la sua funzione strumentale, ma bensì la destinò a un servizio metodico, contenutisticamente neutro, consistente nella tecnica sistematica del sapere. Rispetto al “sapere”, il metodo scientifico è una conoscenza priva di fede ontologica, che resta un fondamento extra-sistemico culturalmente variabile, e perciò, dal punto di vista metodico, storicamente “relativo”. 219 Ivi, pag. 233. 220 Il maomettanesimo, con la sua ricca fioritura di sette ed ancor più la filosofia della religione araba, con la sua tolleranza, ben nota in tutto il tardo medioevo […], esercita la funzione di modello sulla concezione di Cusano. Il filosofo tedesco conosce i numerosi passi del Corano che affermano che chiunque invochi Dio e viva rettamente gode dell‟amore di Dio, e a qualunque confessione appartenga e anche nel caso dovesse mutare fede”: Ivi, pag. 235. 221 Ivi, pag. 235.
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la distinzione, di stile illuminista, tra il ceto dei credenti istruiti e la massa dei ciechi seguaci, distinzione che a così poco in comune con la visione gerarchica del cattolicesimo. Cusano sa che i filosofi arabi guardano con superiore disprezzo all‟uso che il popolo fa del Corano, che sono ben consapevoli dell‟origine umana di questo libro “divino” e che il loro giudizio nelle cose della fede è autonomo, prudente e tollerante. E‟ questo atteggiamento dell‟intellettuale arabo che egli vuole introdurre nel cristianesimo del XV secolo.222
E così, accanto all‟universalismo dei platonici umanisti, che cercano un rapporto ideale tra la philosophia Christi e la sapienza antica, c‟è anche un universalismo nato all‟interno della cultura religiosa medievale, che “poteva giungere alla tolleranza non solo attraverso una interpretazione religiosa di Socrate, Platone, Aristotele, ma anche attraverso un uso razionalistico del maomettanesimo”.223 Sia l‟attenuarsi dello spirito missionario, che la situazione politica, insieme a una predisposizione intellettuale verso un pensiero universalistico e comparativo, spinsero a considerare del Corano non più solo gli errori teologici ma i suoi contenuti di verità, per cui Cusano segnò “una tappa decisiva” nell‟ambito della letteratura relativa alla “questione turca”, precedendo Erasmo nella prospettiva di una “progressiva fusione del mondo arabo con l‟Occidente cristiano sulla base del modello fornito dalla cristianizzazione del paganesimo romano”.224 Tale programma evoluzionistico del pensiero tardo medioevale fu contrastato dalla posizione protestante, la quale torna a valori di fede “estremamente più ingenui”, che si opponevano alla visione di una religione naturale propugnata dal razionalismo, che, nella dottrina universalistica della teologia negativa espressa nella Docta ignorantia poneva sullo stesso piano paganesimo e teologia positiva, entrambe colpevoli per Cusano di voler dare voce all‟indicibile. Sia nel campo gnoseologico che in quello religioso le conseguenze furono “una totale polverizzazione” della conoscenza e la “negazione d‟ogni possibilità di
222 Ivi, pag. 236. 223 Ibidem. 224 Ivi, pag. 237.
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una religione”. Solo l‟individualità può salvare la religione, per cui appare inevitabile lo scenario storico delle diverse confessioni, tutte giustificate metafisicamente dalla stessa distanza dall‟ “in sé” e poste allo stesso livello di “coniecturae”, la cui “diversità” è dovuta al “processo metafisico della moltiplicazione” della loro natura finita chiamata a rappresentare l‟infinito. E‟, come si vede, lo stesso processo idealistico del “rispecchiamento” dell‟Idea negli enti molteplici che la riflettono e che partecipano del suo Essere, ma è anche il paradigma razionalistico dello scientismo moderno, costitutivo di un livello di coscienza critica svuotata di ogni contenuto rappresentativo extrasistemico, proprio dell‟universo di senso di fede.
I contenuti rappresentati dalle diverse fedi umane acquistano il carattere di ipotesi, e con ciò si fa ancora più luminosa la loro unità nella complicatio assoluta: essi partecipano tutti allo stesso nucleo essenziale. In questo modo, per i seguaci di Cusano, la metafisica è generatrice di un‟idea di religione universale la cui ampiezza è senza precedenti.225
L‟universo fideistico non coincide necessariamente con il contesto abitudinario derivato dalla stratificazione culturale delle esperienze storicamente trascorse dalla coscienza collettiva. Anzi, la sovrapposizione del motivo religioso ha dovuto agire attraverso la resistenza di visioni del mondo più arcaiche e soprattutto più coerenti con le condizioni locali della sopravvivenza naturale. Per poter agire sulle coscienze soggettive, l‟istanza religiosa deve procedere a una reinterpretazione dei motivi culturali tradizionali in un senso teleologicamente compatibile con il fine soteriologico, ossia attraverso un processo di razionalizzazione di quei motivi, che diventano pertanto una variante simbolica del significato statutariamente valido in quanto teologicamente prescritto come vero. Intervenendo su una credenza antica, la nuova ragione religiosa deve prenderne il posto, ossia diventare a sua volta fede comune, opinione socializzata. E‟ a questo punto che i suoi fondamenti di ragione si dissociano dalla sua sussistenza fideistica, determinando quella tipica differenza tra il significato razionale destinato all‟elaborazione dei sapienti, e il significato simbolico destinato al culto popolare. La verità “ingenua” o
225 Ivi, pag. 239.
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simbolica, in linea di principio non è diversa dalla verità “di ragione”, ma lo è in via di fatto, in quanto le rappresentazioni simboliche della stessa verità risentono il più delle volte della interferenza e commistione di quegli elementi storicamente variabili legati a motivi culturali tradizionali, infra o extra-religiosi. Le religioni etniche, locali, sono servite perlopiù da supporto mitico confermativo delle rispettive tradizioni, svolgendo una funzione di stabilizzazione politico-sociale e di legame comunitario che la dottrina cristiana ha proceduto a destrutturare in senso mistico, agendo esattamente come una filosofia su una preesistente credenza mitica. In questo senso, il Cristianesimo si è storicamente sviluppato come un fenomeno razionalistico, affermandosi sulle pregresse credenze religiose alla stregua di una dottrina filosofica che ne verificasse la consistenza di senso razionale. E come ogni giudizio razionalistico, la qualificazione logica degli argomenti di fede deve astrarre proprio dalla fede che li sorregge, assumendoli solo come elementi sistemici di una struttura di pensiero di cui si esamina la coerenza. Agendo come procedimento confutatorio delle “superstizioni” locali, il Cristianesimo si è affermato come una filosofia socializzata, e solo per questa affermazione sociale esso è diventato una nuova “religione”, che ha preso il posto dell‟antica, mentre per il versante propriamente teologico esso si è costituito come un sapere che ha preso il posto di quello originariamente avuto dalla filosofia greca, anche in contesti culturali che mai l‟avevano prodotta o conosciuta. Questa doppia identità del Cristianesimo, come fede religiosa (fides) e come sapere razionale (ratio), ha consentito, con la sua superiorità dottrinale rispetto alle credenze storiche tradizionali, anche la sua espansione universale e “cattolica”. Ma l‟universalismo cattolico, per la sua intima natura razionalistica, non fu senza conseguenze morali per la fede, intesa come orizzonte di coscienza dello spirito umano. Infatti la “conversione” dalle antiche alla nuova credenza doveva passare necessariamente attraverso un ripensamento critico della fede tradizionale che, sradicandola dal suo terreno di coscienza tradizionale, la trasformava in oggetto di una superiore riflessione, di tipo razionale, la quale, qualsiasi fosse la sua consistenza e raffinatezza logica, comunque educava all‟esercizio critico della ragione, allargandolo sino a comprendere la stessa fede cristiana in quanto orizzonte di coscienza “ingenuo”. E fu tale tendenza
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intrinseca a costituire il Cristianesimo come “filosofia per il popolo”, ossia come pedagogia razionalistica, la quale, emancipata dal suo fondamento di fede, acquista la fisionomia di un distinto livello di coscienza, diventando “idealismo” (la ragione al posto della fede) e “gnoseologismo” (la conoscenza al posto dell‟Essere). 9. In conseguenza del suo carattere “religioso”, esclusivo di altre credenze allotrie, il Cristianesimo ha dovuto assumere una forma istituzionalmente preposta alla promozione della sua incidenza sociale come comunità mistica, tanto più efficace quanto più l‟istituzione si faceva garante, in ambito sapienziale, della salvaguardia del monopolio ermeneutico, tale da costituirla anche come una comunità filosofica. Così, all‟interno di uno stesso orizzonte di senso consistevano il motivo religioso e il motivo razionalistico, ossia i due essenziali livelli di coscienza spirituali che nella società pagana afferivano a due distinte realtà sociologiche e teoretiche, dialetticamente contrapposte, le quali ora avevano trovato la loro sintesi. L‟equilibrio delle due istanze consustanziali della Chiesa istituzionale e della Chiesa mistica era strutturalmente instabile, in quanto l‟originario motivo destabilizzante della coscienza spirituale personale, in un contesto cristianizzato, agiva ora non più verso il Potere di Cesare ma all‟interno dell‟ordinamento ecclesiale del Potere del Papa, per cui la progressiva razionalizzazione del processo di universalizzazione del motivo religioso doveva assorbire e neutralizzare le resistenze spirituali provenienti dal lato personalistico, della coscienza teologicofilosofica, riproponendo la classica dialettica tra fede e ragione in termini di lotta tra ortodossia ed eresia. Questo equilibrio, più volte ricostituito dalla Chiesa, si infranse clamorosamente con le 95 tesi di Lutero affisse alla porta del duomo di Wittenberg il 31 ottobre del 1517 e il conseguente moto protestante, che stigmatizzavano quella deriva mondana che faceva della Chiesa soprattutto una potenza storicopolitica. Come afferma L. Febvre, “la Riforma fu il segnale e l‟opera di una profonda rivoluzione del sentimento religioso”, teso non a separarsi dalla Chiesa ma, invece, mosso “dal solo desiderio di restaurarla sul modello di una Chiesa primitiva”. Ed è per questo che i riformatori la designarono appunto come una “riforma”, “sentendo profondamente l‟esigenza di dare alla Chiesa la „forma‟ che essa ha avuto al tempo
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degli apostoli”. [ Xxx.] Questo carattere utopico a contrario trasferiva nella Chiesa istituzionale e mediatrice le tensioni che invece erano intrinseche al Cristianesimo in quanto fede filosofica, teo-logia. Ma la Riforma non fu l‟ inizio di quella “profonda rivoluzione del sentimento”. Le origini vanno ricercate nel sorgere della “devotio moderna” nel sec. XV e nell‟umanesimo cristiano, per cui la Riforma va ripensata all‟interno della cultura europea rinascimentale. Fevbre ha mostrato il parallelismo tra l‟esaltazione del Cristo re e l‟ostilità verso i feudatari usurpatori o concorrenti dell‟autorità regale dei monarchi. L‟ostilità coinvolge non solo l‟autorità papale, ma anche gli ordini religiosi e la tradizionale simbologia religiosa, come le immagini e le reliquie delle chiese, e i monasteri, che vengono soppressi e trasformati in scuole e ospedali. La violazione delle istituzioni cristiane – che sarà sistematica nella Francia rivoluzionaria del XVIII secolo – ha inizio con la Riforma, che segna l‟esordio della dissacrazione della civiltà cristiana medievale a partire dalla sua cultura istituzionale, ancora di forte impronta religiosa. La lotta tra Papato e Impero, tra Chiesa e Stato, era tra organismi istituzionali rivali all‟interno di un ordine socio-culturale cristiano comune. La Riforma introduce all‟interno del cosmo cristiano una frattura religiosa che coinvolge le istituzioni politiche, oltre ai fedeli, chiedendo loro di parteggiare per la causa religiosa, di secessione dalla Chiesa comune, indicata come una istituzione di potere distante dalla comunità dei credenti. La rottura della sintesi di fides et ratio, emancipando la fede dalla sua relazione con la ragione, legittima anche l‟emancipazione della ragione dal suo legame con la fede, sicché la Riforma, osteggiando la figura teologica della Chiesa, legittima indirettamente la posizione politica del potere secolare di preminenza verso la Chiesa, ammantandolo di crisma teologico. Se teniamo conto delle ragioni della critica religiosa alla Chiesa, delle accuse di secolarizzazione che le furono mosse da parte protestante, il connubio dei riformati con il potere politico rivale della Chiesa non poteva che sospingere la società civile in direzione della secolarizzazione e del discredito delle istituzioni religiose, sia pure in nome della fede. Si comprende come, fatte salve le ragioni della fede, la secolarizzazione costituisca il punto di non ritorno della Riforma sul piano, non solo teologico, ma generalmente culturale. Nel contesto storico-religioso del tempo, l‟idea che la “sola fede” potesse ridare una
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identità cristiana alla società europea, al di fuori o contro le istituzioni ecclesiastiche e del rapporto da esse stabilite con la realtà politica nei secoli, significava che l‟intero processo di cristianizzazione dell‟Europa era viziato da sostanziali incongruenze. Ma ciò che più conta, è che con Lutero (e quindi con gli altri protagonisti della Riforma) viene messa in discussione non solo la piega degenerativa della Chiesa apostolica, ma la stessa tradizione ecclesiastica e teologica cattolica. In altri termini, la Riforma, diversamente dalla esperienza francescana, propose un modello di cristianesimo alternativo a quello storico della cristianità così come si era venuta definendo e costruendo nei secoli, istituendo, all‟interno della tradizione dottrinale, una posizione conservatrice distinta da una radicale che inevitabilmente spostava la dialettica teologica sul terreno della lotta politica. la distinzione tra soggettivismo coscienziale e comunitarismo politico, tra libertà religiosa e obbligazione legale, riportando alle origini della distinzione tra Cesare e Dio, interessava questa volta la società e la coscienza cristiane, e non, come allora, un contesto pagano. Ciò significa che, dietro l‟integralismo religioso, agiva il motivo relativistico espresso, prima che da Erasmo, da Cusano e dalla sua teologia negativa. La protesta si estende a macchia d‟olio per tutta l‟Europa. Zurigo, a partire dal 1523, diventa il centro di irradiazione della Riforma in Svizzera, avendo per protagonista Zwingli (1484-1531), che studia i testi di Lutero e ne partecipa delle idee le autorità civili municipali, che istituiscono un tribunale per il controllo della morale pubblica. Dal 1536 W. Farel organizza la chiesa di Ginevra, che diventa anche il soggiorno di Calvino (1509-1564), esule francese in seguito alle persecuzioni del re Francesco I. Per Calvino la sola fonte della parola divina è la S. Scrittura. Come Lutero, professa una sovranità di Dio sugli uomini marcata e determinante per le sue sorti terrene. Se Lutero credeva nel miracolo della grazia, Calvino predica l‟ineluttabilità dei suoi piani. Ma, ciò che più conta, egli nn vede la realizzazione dei fini umani alla fine dei tempi, ma già in questo mondo, nella storia, in cui vede il ritorno di Cristo come profetizzato nella Chiesa delle origini. Egli fa coincidere l‟avvento del regno di Dio con la istituzione di una repubblica di santi, la cui elezione è identificabile grazie a) alle professioni di fede, b) alla dirittura di vita e c) alla partecipazione ai sacramenti. La a) coincide con la pubblica accettazione de Credo, ossia
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del patto con Dio; la b) con la condotta di vita austera e sobria; la c) con la condivisione dei sacramenti con la comunità spirituale. Rispetto a Lutero egli accentua la dipendenza dell‟uomo da Dio, che lo giustifica, attraverso la grazia, della sua benevolenza predestinandolo alla vita eterna o alla dannazione, a seconda della Sua insondabile volontà. L‟uomo ricerca in sé i segni di tale predeterminazione, mostrandoli attraverso la sua attività mondana, ossia la sua personale vocazione. Da qui la rivalutazione delle attività mondane, il cui successo diviene il segno della benevolenza divina, superando i tradizionali pregiudizi della dottrina cattolica (si pensi al prestito a interesse, e all‟attività bancaria). Per Calvino l‟uomo è sospeso tra due mondi, per cui la sua condotta equilibrata e sobria deve mantenerlo in equilibrio spirituale tra i doveri spirituali e quelli mondani, senza propendere per l‟uno a discapito dell‟altro, diviso tra predestinazione e responsabilità, vita ecclesiale e individualismo. Calvino distingue tra una Chiesa invisibile, fatta di eletti e nota solo a Dio, e una Chiesa visibile, fatta di eletti e reprobi, che è quella storica. La dicotomia tra due emisferi, uno positivo e l‟altro negativo, reintroduce in ambito cristiano una chiave di lettura della realtà per opposizioni che finisce per perdere di vista la sostanziale novità morale del Cristianesimo, il cui principio caritatevole superava la logica polemica pagana. La discriminazione elettiva in campo spirituale, sviluppava una tensione conflittuale che trasferiva, sublimandola, in ambito religioso la rivalità tipicamente politica, la quale, per essere privata e indifferente al riconoscimento pubblico, si costituiva come essenzialmente di natura economica. Significativamente Weber ha indicato in questi presupposti la mentalità di base dello sviluppo del moderno capitalismo. Proprio per aver eluso la distribuzione gerarchica dei ruoli, dei meriti e delle responsabilità religiosi da parte di un riconosciuto organo istituzionale insieme comune e super partes, la Chiesa, la vita religiosa dei fedeli protestanti fu costretta a ridefinirli, attraverso una lotta per il riconoscimento molto simile a quello politico della società anarchica hobbesiana, in cui l‟uguaglianza di diritto ingenera l‟inuguaglianza di fatto, come l‟assenza di autorità sovrana provoca la guerra di tutti contro tutti per la sua definizione. Da un lato, gli umanisti, lettori e commentatori delle fonti antiche, cristiane e pagane, che cercano una comune radice “naturale” alle
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diverse fedi storiche dell‟umanità; dall‟altro, gli ordini mendicanti, ancora legati alla cultura teologica scolastica e fautori di una religiosità formale e dogmatica, appoggiati dalle più famose università, si fronteggiano all‟interno di una stessa tradizione cristiana per affermare, gli uni, l‟aspetto razionale della fede, e gli altri quello dogmatico e istituzionale. Papa Clemente VII (1478-1534) subisce il sacco di Roma nel 1527 da parte dei lanzi di Carlo V, il quale aveva avuto come precettore Adriano VI (1459-1523) di Utrecht, il quale aveva cercato di riformare la Chiesa per contrastare l‟azione di Lutero, suscitando però le diffidenze di coloro, anche tra i progressisti, che temevano una perdita di identità italiana della Chiesa a favore di motivi ultramontani. E‟ noto che l‟attacco alla tradizione latina fu uno dei motivi di ripulsa dell‟opera di Lutero, che si estese poi anche verso gli umanisti come Erasmo. Clemente VII diffida del Concilio, temendo una perdita di autorità del papa a favore delle chiese nazionali. Ma col sacco di Roma cambia la politica papale e il suo successore, Paolo III (1534-1549) convoca il concilio di Trento (1536), che si aprirà nel 1545, col compito di definire i termini dell‟ortodossia e di riformare le istituzioni disciplinari della Chiesa. Alla fine del Trecento nei Pesi Bassi sorge una comunità di chierici e laici, i Fratelli della Vita Comune, che con l‟educazione dei giovani cerca di rinnovare la vita spirituale e morale. La spiritualità della “devotio moderna” si diffonde in tutta Europa, anche grazie all‟opera del mistico Tommaso di Kempis (1380-1471), la Imitazione di Cristo. Nel 1540,Ignazio di Loyola (1491-1556), nobile basco, fonda la Compagnia di Gesù e attraverso i suoi Esercizi istituisce le regole spirituali e pedagogiche che incanalano le istanze mistiche nell‟alveo delle azioni caritative e della guida apostolica delle gerarchie ecclesiastiche. Le spinte che nel corso di un secolo (dalla seconda metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento) si erano sviluppate dal basso – movimenti mistici, confraternite laicali di assistenza – e dell‟altro –azione di prelati impegnati a riformare le chiese locali -, trovarono nel Concilio di Trento quello sbocco di rinnovamento della società religiosa e civile che non avevano trovato nel precedente Concilio del Laterano (1512-1517), dove pur avevano preso vita e animato speranze
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riformatrici (si pensi al Libellus ad Leonem X (1513), redatto dai monaci camaldolesi Vincenzo Quirini e Tommaso Giustiniani). Il Concilio di Trento viene convocato formalmente da Paolo III con la bolla Initio nostri pontificatus del 29 giugno 1542. Per l‟ostilità di Carlo V di Spagna e Francesco I di Francia, il Concilio venne rinviato. Intanto il 21 luglio di quell‟anno „42 nasce il Sant‟Uffizio, che dà inizio all‟Inquisizione per fermare il diffondersi delle eresie. Mentre il Concilio tenta di riequilibrare le tensioni interne e di fronteggiare quelle esterne ala Chiesa attraverso una soluzione dottrinale e pacifica, l‟Inquisizione cerca di confermare l‟autorità pontificia e romana contro le spinte centrifughe o anarchiche dei suoi detrattori. Così, se il Concilio doveva ridurre l‟autorità papale con l‟azione conciliare, l‟Inquisizione doveva rafforzarla di fatto. Dopo la pace di Crépy (1544) tra Spagna e Francia, Carlo V preme perché il Concilio affronti le questioni disciplinari e tralasci quelle dottrinarie, che potrebbe portare a una definitiva rottura coi protestanti. Il successore, Paolo IV (1555), Carafa, inaugura la figura del papa inquisitore, che si svilupperà di seguito coi posteriori Paolo V, Ghisleri, e Sisto V, Peretti, i quali freneranno l‟azione riformatrice del Concilio rafforzando il potere papale. Con l‟istituzione dell‟Indice dei libri proibiti (1559) ispirata da Paolo IV, scompare per due secoli la figura di Erasmo nel panorama culturale italiano. Il successore Pio IV tenta di frenare gli eccessi dell‟Indice abolendo il divieto di stampa delle Bibbie in volgare, che verrà però ripristinato con Clemente VIII nel 1596 restando in vigore fino al 1758. Nipote di Pio IV è Carlo Borromeo (1538-1584), vescovo di Milano, ricordato anche dal Manzoni. Sotto il suo pontificato avviene la strage di S. Bartolomeo del 23 agosto 1572, data delle nozze di Margherita, figlia di Caterina de‟ Medici con Enrico di Navarra, il futuro Enrico IV di Francia. Per l‟occasione, gli Ugonotti affluiscono a Parigi e vengono sterminati a tradimento. Solo nel 1598, Enrico IV concederà agli Ugonotti, con l‟Editto di Nantes, la libertà di culto e i diritti civili. Con Sisto V (1585-1590) i poteri papali si allargano e si introducono le congregazioni cardinalizie, coordinate dal Sant‟Uffizio e subordinate al papa, che escludono ogni gestione collegiale del affari spirituali e temporali della Chiesa e la stessa autorità dei vescovi, pur prevista dal Concilio, nella direzione delle coscienze.
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Per Lutero, distante dalla cultura del Rinascimento italiano e immerso nello spirito gotico dei confini col mondo slavo della cristianità teutonica, la Chiesa era troppo umanistica e troppo poco deistica, e l‟oggetto della sua polemica “non furono le deformazioni del cattolicesimo medievale, ma il cattolicesimo stesso, considerato come una deformazione del Vangelo”, per cui, come aveva ben visto Erasmo, “la disputa verteva sul concetto di Dio e dell‟uomo”, ossia fu “fondamentalmente religiosa”,226 anche se altri fattori si aggiunsero in seguito. Alla Dieta di Worms (1521), Lutero dichiara che “il papa, non è arbitro in materia pertinente alla parola di Dio e alla fede”, per cui il cristiano era tenuto ad “esaminare e giudicare per sé”.227 Si infrange così il monopolio ermeneutico della Chiesa dall‟interno, e inizia l‟individualismo teologico e l‟annesso egalitarismo spirituale, anche se, come ricordato da Bainton, “il luteranesimo divenne e rimase democratico soltanto nel canto”.228 Quello che invece rappresentò un impulso per gli Stati nazionali, non fu tanto la erosione del Sacro Romano Impero, che costituì piuttosto la conseguenza che la causa delle costituzioni nazionali, quanto l‟affievolimento della presenza della Chiesa come potenza di contenimento alla espansione della potenza politica regionale. Infatti, la frantumazione della presenza ecclesiastica in tate chiese nazionali provocò il rafforzamento dell‟autorità secolare, la quale anche di fatto poté garantirsi una propria assolutezza sovrana nel suo ambito territoriale. All‟interno delle singole chiese nazionali si ripeteva l‟influenza separata degli Stati, per gli affari politici, e della Chiesa, per gli affari spirituali, che si era avuta su scala europea in ambito imperiale a proposito del doppio ufficio dei prelati-vassalli. La varietà di professioni e di fedi che si sviluppò a partire dalla Riforma, e lo stesso spirito di tolleranza che le correnti mistiche e razionalistiche avevano alimentato a partire dalla fine del sec. XV, subirono una notevole restrizione e inversione di tendenza liberale al costituirsi e rafforzarsi
226 R.H. Bainton, La riforma protestante (1952), tr. it., Torino (1958), 1974, pag. 37. 227 Ivi, pag. 67. 228 Ivi, pag. 78.
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degli Stati nazionali, i quali
per quanto propensi a raffrenare il papato, non avevano alcuna intenzione di tollerare nel loro ambito particolare più di una religione. Une foi, un roi, une loi – era ancora la norma di ogni saldo organismo politico; sicché anche i paesi, come la Svezia e l‟Inghilterra, che ruppero con Roma, non erano affatto disposti ad ammettere più di una varietà di protestantesimo; e meno che mai la sopravvivenza di minoranze cattoliche. Della nuova religione veniva riconosciuta ufficialmente una sola forma; tutte le altre erano proscritte: gli Stati nazionali erano intesi come riproduzioni, su scala minore, del sistema medievale.229
Con una differenza decisiva: mentre la confessione cattolica costituiva la forma tradizionale di Cristianesimo, nella quale si erano riconosciute le varie e diverse espressioni regionali, le nuove confessioni protestanti nascevano da un‟abiura, e quindi affermano la legittimità di una eresia, la cui istanza di riconoscimento, non potendo essere avanzata a Roma, inevitabilmente chiedeva di essere accolta dal potere politico territoriale, che finì così per surrogare quello della Chiesa sul piano spirituale, diventando il referente autoritativo laico delle confessioni separate. Questo esito paradossale forse era facilmente prevedibile ma sicuramente fu foriero di gravide conseguenze religiose e politiche, a cominciare dalla conformazione dei regimi giuridico-politici nazionali. Infatti, ora, come al tempo dell‟Impero romano, era la religione a chiedere di essere riconosciuta dallo Stato, e non più questo, come durante il Medioevo, a chiedere la legittimazione religione. Il fondamento della legittimità del Potere, dunque, passava dal piano sacrale-religioso a quello formale-giuridico, per cui la funzione delle confessioni cristiane, cattoliche o protestanti, dal punto di vista dello Stato sovrano tornava ad essere, come ab antiquo, di consolidamento del Potere, e non più di vigilanza critica sull‟operato del braccio secolare. Pertanto, i nuovi Stati nazionali non rappresentavano più la distinta funzione politico-militare interna al cosmo spirituale cristiano, ma si costituivano come una forza separata dal potere spirituale avente un proprio principio di legittimazione morale, la “ragion di Stato”, che era giuridica e formale.
229 Ivi, pagg. 134-135.
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Inoltre, la costituzione di uno spazio pubblico definito in termini interamente politici, quello appunto dello Stato, in cui questo esercitava la sua assoluta sovranità, stabiliva per converso la natura privata di ogni istanza sociale non riconosciuta dal Potere, compresa la confessione religiosa, per cui qualsivoglia espressione di vita civile doveva passare al vaglio dell‟autorità pubblica al fine di essere omologata come di rilevanza pubblica e quindi legittimamente sussistente. Ossia doveva essere giudicata compatibile o meno con la realtà politica, il cui essere empirico costituiva il fondamento di realtà della vita sociale. Questi germi di statolatria, che riportavano la coscienza etica delle nazioni cristiane al tempo classico, si svilupperanno sia in direzione del favorevole riconoscimento delle istanze private, che caratterizzerà la vita etica dei regimi liberali, e sia della tendenziale negazione di tale riconoscimento, che caratterizzerà la vita etica dei regimi autoritari, con una varietà di oscillazione interna che va dall‟instabilità politica al totalitarismo. In ogni caso, però, la varietà dei regimi statuali storici dell‟Europa moderna si conterrà entro la logica politicistica riabilitata dal scisma religioso d‟Occidente, il quale rappresentò per la civiltà cristiana ciò che il razionalismo rappresentò per la cosmologia teologica sulla quale quella civiltà era fondata: un processo di dissoluzione dell‟orizzonte di senso ontologico della metafisica cristologica, della quale dissoluzione l‟età moderna segna lo spazio storico della sua fenomenologia. Va notato che la persistenza di una questione religiosa, legata alla libertà di professione, anche a scisma consumato, era dovuta all‟insopprimibile rilievo politico che l‟azione dei gruppi sociali cristiani esercitava nella vita dello Stato, assumendo quindi di fatto una netta importanza pubblica, non confinabile a una questione di coscienza privata, come pure avrebbe dovuto essere in linea di principio. L‟astrattezza della ragion di Stato si manifestava nel considerare la realtà della professione religiosa come ai primordi della predicazione evangelica, allorquando l‟orizzonte di senso culturale e socio-politico era pagano, non considerando che all‟interno dell‟orizzonte storico cristiano, erano gli Stati nazionali il corpo estraneo alla coscienza religiosa comune, il quale intendeva imporsi come un nuovo orizzonte di senso politico, con strumenti concettuali arcaici, risalenti alla civiltà classica pre-cristiana, valutata quindi nei
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termini razionalistici della astrazione dal millenario processo storico della cristianità. In questa riabilitazione anti-storica dell‟antico, il misticismo protestante e il razionalismo filosofico s‟incontravano nella congiunta lotta alla tradizione cristiano-cattolica. Il principio del “cuius regio eius religio” stabiliva quali culti erano da considerare di rilevanza pubblica e quali meramente privati, tollerati o meno. La questione del dissenso nasceva dalla rilevanza politicosociale dei culti, dalla quale rilevanza lo Stato assolutistico moderno cercò di emanciparsi professando a sua volta una sua “ragion di Stato” che fosse superiore e alternativa alla “ragione religiosa”. In tal senso, l‟affermarsi del primato politico andava di pari passo con la perdita del primato religioso nella cultura sociale dei popoli cristiani. Il potere statuale, in virtù del suo primato politico, diventava detentore della sovranità pubblica, cioè del potere di decidere quali valori erano ammissibili e quali non. Questa prerogativa sovrana in materia spirituale costituiva il precedente storico e dottrinario della pretesa totalitaria dello Stato moderno. Ciò che la Chiesa fu costretta a tollerare nei singoli Stati nazionali, riservando a sé l‟universalità del primato spirituale, non poté tollerare in linea di principio, cercando di impedirlo a livello imperiale, sicché quando Carlo V cercò di arrogare a sé il ruolo di sovrano cattolico decisore di giustizia e garante della pace religiosa fra i popoli cristiani d‟Europa, la Chiesa vi si oppose fermamente in nome e ragione del proprio primato spirituale su ogni potere civile. La contesa, com‟è noto, finì col sacco di Roma del 1527 dei lanzi imperiali e con la cattività del Papa. La rottura dell‟uniformità religiosa fu sentita come una conquista di libertà di coscienza da parte protestante, e una grave infrazione teologica e uno scandalo morale da parte cattolica. In termini storici, quella rottura liberò sì tante energie intellettuali e civili prima costrette negli alvei spesso angusti del conformismo culturale e religioso, ma dilaniò pure la coscienza europea, destinando la ragione a fondarsi sul nulla anziché sulla verità, e la vita umana ad affidarsi alla forza economica anziché alla speranza spirituale. La crisi che ne derivò fu lacerante e i vantaggi effimeri quanto illusorii. A distanza di cinque secoli, quella frattura non si è ancora rinsaldata, ma invece la società e la cultura già cristiane hanno progressivamente perso la loro identità teologica e religiosa, abbandonando alla “necessità” di una politica
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ritenuta “indipendente” da ogni principio morale i destini dei popoli civili, che nel Cristianesimo avevano trovato la loro luce interiore e la loro bussola esistenziale. Con esiti devastanti e cruenti. Il sacco di Roma segnò il punto di svolta politico della storia cristiana quanto la Riforma lo fu in senso religioso. Infatti, la rivolta di un imperatore cristiano al suo papa rappresenta simbolicamente la pretesa della politica di emanciparsi dall‟orizzonte di senso teologico-morale e di costituirsi come orizzonte separato, come la ragione a se stante di una logica metodicamente auto-giustificata. Dalla giustificazione della “verità” propugnata dai filosofi quale volontà divina, la ragione passa a giustificare il “diritto” sancito dai giudici ed espressivo della volontà sovrana dei principi. Dopo quello dialettico di Platone verso Parmenide, questo segna il secondo grande parricidio della ragione nei confronti del suo fondamento ontologico. Una ragione non giustificata ontologicamente, trasformava la lotta delle diverse confessioni protestanti non per la libertà religiosa, ma “solo per il proprio diritto”, quello della coscienza particolare, aprendo la strada, “sul terreno dei fatti storici concreti”, al principio della sua inviolabilità e a quello dell‟integrità della personalità (abeas corpus), distruggendo “il monopolio di una confessione sola”, cioè l‟unità teologica della civiltà cristiana, e sviluppando quella molteplicità dei valori empirici che costituirono “quei principi distintivi che si affermarono nell‟Occidente con l‟Illuminismo”.230 Il razionalismo, che “considera la fede più come una ricerca che come un deposito, suggerisce la tolleranza”, sia verso le diverse confessioni cristiane che verso le altre religioni storiche. Le idee di tolleranza possono a loro volta distinguersi in relazione al concorso “a demolire i tre bastioni ideali dietro cui si trincera l‟intolleranza persecutrice”.
Quanto al primo punto, né i cattolici né i primi riformatori avevano alcun dubbio. I cristianesimo ha ereditato il carattere esclusivista del giudaismo. Iddio è un Dio geloso che non tollera che il suo popolo abbia altri dèi al suo cospetto; i profeti avevano anzi affermato che non esistevano altri dèi. Questo Dio ha un popolo eletto a cui ha dato in eredità la terra promessa. Nel cristianesimo l‟Iddio unico fu integrato col Signore unico, e la terra promessa divenne la vita a venire. La lotta decisiva non fu, per la Chiesa primitiva, fra
230 R.H. Bainton, Op. cit., pag. 194.
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l‟Iddio uno e le divinità del politeismo, ma fra l‟unico Signore e l‟imperatore romano. Il cristianesimo non ammetteva rivali: era deciso a vincere o morire; e vinse.231
La rivelazione di Dio in Cristo è contenuta nella Scrittura, che è la fonte della certezza della fede.
L‟interpretazione della Scrittura venne riservata alla Chiesa e quindi la libertà d‟indagine venne limitata solo a zone marginali, dove non si era ancora giunti a formulazioni definitive. Ma una volta che il papa si fosse espresso in materia di fede e di morale, non era più ammissibile la discussione in proposito; e coloro che, all‟interno della Chiesa cattolica, contestavano ancora nel secolo XVI l‟infallibilità papale […] non lo facevano in nome del giudizio individuale, bensì dell‟autorità conciliare. La Riforma protestante ripudiò simultaneamente l‟autorità papale e quella conciliare.232
Ma la contestazione del monopolio ermeneutico custodito dalla curia romana e dallo stesso Papa, a favore del giudizio personale, non implicava sic et simpliciter il soggettivismo delle interpretazioni scritturali, ma “nel caso di interpretazioni divergenti, una dev‟essere sbagliata e lo Spirito fa difetto a colui che sbaglia”. [Ibidem.] Ciò significa che Lutero credeva nell‟unica verità, ma che questa fosse oggettiva, e perciò conseguibile da chiunque vi potesse giungere, e non era appannaggio di alcuna dittatura dogmatica. In realtà, il dogma stabiliva e fissava i termini della conseguita verità, e non li sostituiva. E soltanto a chi contestasse i suoi contenuti poteva apparirgli una imposizione alla propria verità. La questione relativa al “conflitto delle interpretazioni” veniva solo spostata, e non risolta. Infatti,
se i dissidenti si appellavano alla propria coscienza, si replicava loro che non vi sono diritti per la coscienza in quanto tale, ma solo per la coscienza retta. La parola coscienza consta di due componenti, con e scienza: solo la coscienza esente da errore può quindi essere rispettata.233
231 Ivi, pagg. 196-197. 232 Ivi, pag. 197. 233 Ivi, pag. 198.
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Rispetto alle posizioni raggiunte dalla filosofia scolastica, “secondo cui la coscienza può essere nell‟errore ma rimane tuttavia vincolante finché non venga illuminata”, quella protestante è chiaramente più arretrata, in quanto afferma che la coscienza umana è tenuta a seguire ciò che reputa giusto, anche sbagliando, “ma non ha diritto a che si tenga alcun conto di ciò che gli sembra giusto. Quel che egli pensa nn c‟entra per nulla: bisogna che sia nel retto perché gli siano riconosciuti i suoi diritti”.234 Ma chi decide della sua giustezza? Lutero infrange il principio di autorità (papale) ma non può eliminarlo, per cui si tratterà solo di sostituire il referente discretivo, ovvero di ammettere l‟anarchia ermeneutica del soggettivismo relativistico. L‟uomo di fede crede nella verità, che non può essere che unica, e ispirata dallo Spirito Santo. Per l‟umanista, invece, se “l‟incertezza rimane e le discussioni stesse stanno a dimostrarlo”, e “se fra coloro che sono uniformemente corredati di sussidi critici permangono divergenze, ciò significa che la materia in esame non è chiara”.235 Spostati i termini della verità dall‟oggetto al soggetto, la originaria certezza della verità divina e l‟incertezza della ragione umana, fece trasferire l‟alea della ricerca, dogmaticamente assicurata della sua giustezza dal metodo, nell‟oggetto, tale che il problema non risolvibile metodicamente veniva considerato non razionalmente significativo, per cui anche Dio diventa un‟ipotesi non verificabile. Il dogmatismo si spostava insomma nel metodo scientifico, infallibile a prescindere dai risultati conseguiti. Ora, che “la distruzione del dogmatismo ecclesiastico non si dimostrò, di per sé stessa, una garanzia di libertà”, non fu dovuto solo al fatto che “ai tempi della Rivoluzione francese il razionalismo e lo scetticismo mandarono le proprie vittime al patibolo”,236 ma soprattutto alla circostanza che, più semplicemente, l‟ammissione della verità, comunque venisse conseguita, implicava necessariamente la sua affermazione dogmatica; e, poiché alla verità di ragione si annetteva una speculare realtà di fatto, l‟astrattezza della determinazione teoretica si rifletteva nella vita concreta come
234 Ibidem. 235 Ibidem. 236 Ivi, pag. 200.
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eliminazione degli elementi a essa contraddittori, e quindi alla lotta contro il divenir stesso della storia. Mantenendo ferma la costruzione idealistica dell‟Essere e la teoria della “corrispondenza” o del “rispecchiamento”, soltanto la negazione della verità poteva ragionevolmente eliminare ogni forma di dogmatismo e le sue conseguenze pratiche. Oltre al monoteismo giudaico, un altro presupposto della persecuzione era l‟importanza che si annetteva alla materia del contendere. Infatti,
perché una fazione sia disposta a mandare a morte gli oppositori, bisogna ch‟essa sia convinta che la propria sicurezza è in pericolo in qualche punto delicatissimo [talché] i più grandi persecutori, nella storia del cristianesimo, non sono stati ipocriti o degenerati, ma crociati d‟un ideale ch‟essi ritenevano d‟importanza suprema per l‟umanità.237
Per costoro, la benevolenza di Dio era decisiva tanto del destino terno dell‟uomo che del suo benessere sociale, legati al‟appartenenza alla Chiesa che Egli ha voluto per la salvezza dell‟umanità, sicché
un credo ortodosso appare [a costoro] più importante d‟una condotta retta, perché chi accetta la dottrina può anche emendare la vita; mentre chi respinge la dottrina, per quanto possa essere temporaneamente irreprensibile, è destinato quasi fatalmente a naufragare perché la fede è l‟unico saldo fondamento dell‟etica.238
Da qui la necessità che la Chiesa, quale “santuario di ogni buon vivere”, influenzi della sua spiritualità e missione “tutte le istituzioni” e che “il braccio secolare sia a sua disposizione per la repressione dell‟eterodossia”, fornite di altri perniciosi contagi.239 Invece, “per gli spiriti liberi, dovevano ritenersi più importanti agli occhi di Dio i fatti che non le dottrine”, per cui l‟ “atteggiamento etico” dei razionalisti e dei tolleranti “considerava le opere buone come il collaudo delle dottrine, e riteneva che fosse migliore quella fede che fa migliore
237 Ivi, pag. 200. 238 Ibidem. 239 Ibidem.
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l‟uomo”.240 La preminenza della “azione” caritativa rispetto al “sentimento” religioso, nasceva dal bisogno di verificare sul piano esistenziale il portato di quella fede che tradizionalmente era considerata un‟acquisizione intima della coscienza che nella metanoia coinvolgeva non soltanto i comportamenti, cioè le occasioni mondane di testimonianza, ma soprattutto l‟intimo rapporto mistico con Dio. La stessa virtù della “sincerità”, intesa come “fedeltà interiore a ciò che al momento ci appare vero”, era sinonimo di rettitudine, cioè di conformità comportamentale ai modelli ideali di condotta virtuosa, che manifestassero indirettamente la distanza del probo dalle nequizie del mondo rei reprobi. Il sindacato morale degli altri era il germe dell‟importanza che l‟opinione pubblica avrà nella vita sociale dei paesi riformati quale sostituto dell‟occhio di Dio. Senza “sincerità” non pareva possibile la ricerca della verità, essendo convinti che non esistesse “un deposito di dottrine che fosse ugualmente valido, siano sincere o insincere le persone che le professano”.241 Un terzo requisito delle persecuzioni “è che la coercizione possa essere efficace”. Ma efficace a quale scopo? Non certo ai fini della fede, poiché essa è un dono di Dio, e non può ottenersi “con la spada del magistrato”.242 Come afferma Lutero, “la fede è una libera attività a cui nessuno può essere costretto. E‟ un‟attività divina nello spirito. Non è dunque neanche da pensare che una forza esteriore possa imporla o crearla”.243 Eppure la Riforma, legittimando teologicamente la defezione da Roma, apriva la strada all‟assolutismo politico anche in materia religiosa, stabilendo, col principio del “cuius regio eius religio”, la priorità dell‟appartenenza politica rispetto all‟identità religiosa.
Tutte le confessioni religiose combattevano l‟assolutismo in quanto credevano in una legge morale universale – la legge di natura – che vincola tutti gli Stati, cristiani o non cristiani. La pretesa machiavellica che lo Stato possa essere legge a se stesso non sarebbe mai stata ammessa da alcuna collettività
240 Ivi, pag. 202. 241 Ibidem. 242 Ivi, pag. 205 243 Ivi, pag. 206.
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cristiana.244
Ma, a partire dalla Riforma, proprio la teoria della sovranità limitata degli Stati trovò una confutazione pratica, prima che teorica, nella esautorazione del ruolo moralmente direttivo della Chiesa. E per quanto “l‟affermazione che tutte le correnti religiose del secolo XVI contribuirono, nel loro contrasto, alla formazione della democrazia” sia “irrefutabile”,245 è pur vero che, sia la resistenza – morale o fisica – al sovrano, che la questione relativa alla giurisdizione, statale oppure ecclesiastica, in materia religiosa, partivano dal presupposto che esistesse una comunità cristiana, per cui anche il fondamento della sovranità popolare era costituito non già dal “contratto” politico stipulato col sovrano, ma dal “patto” sacro stabilito con Dio originariamente da Israele e quindi cristianamente con tutte le genti del mondo. Quando il rapporto fondativo della legittimità sovrana fu inteso in senso esclusivamente politico, la questione resistenziale al potere illegittimo fu spostata interamente sul piano dei rapporti sociali e istituzionali. Ma alla base di tale interpretazione c‟è il passaggio da una considerazione religiosa e teologica della esperienza umana a una di tipo esclusivamente mondana e laica. Pertanto, se la “democrazia” di stampo religioso corregge sia la monocrazia papista che l‟assolutismo regio nel senso dei diritti “naturali” universali e originari degli uomini quali esseri spirituali, la versione laica e politica della “democrazia” stabilisce che il principio di sovranità risieda nel popolo, e che la sua volontà sia decisiva circa ogni potere, aprendo la strada alla concezione totalitaria dello Stato. La differenza radicale fra le due ipotesi è che, nella forma religiosa, il rapporto tra volontà popolare e potere ha come elemento costante e imprescindibile l‟alterità di Dio, laddove, nella forma politica, la volontà popolare e il potere possono coincidere, determinando una assoluta auto-referenzialità morale che legittimi ogni autorità. E‟ la trascrizione in termini politici laici del patto religioso a creare le condizioni ideali della monocrazia assolutistica e del totalitarismo
244 Ivi, pag. 220. 245 Ibidem.
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ideologico statalistico.
10. La conseguenza della visione razionalistica del mondo è legata alla distinzione tra sacro e profano, non nel senso di fondarla, essendo essa alla radice dello stesso concetto di sacertà, ma nel senso di attribuire alla dimensione profana una sua legittimità ontologica in conseguenza della sua determinazione logica dell‟Essere. Essere portatore del lògos, che è la “legge” di ragione del pensiero, e cioè legis-latore, attribuisce alla fondazione logica della sacertà una essenza distinta dalla fede, che diventa un suo attributo, che non inficia la sua definizione, la quale consente di distinguere ciò che “è” sacro da ciò che “si ritiene” che lo sia. Come abbiamo visto a proposito dell‟Eutifrone platonico, soltanto ciò che “è” santo lo può definire tale, laddove la venerazione sentimentale non è che una “proprietà accidentale” della sacertà, il cui venir meno non altera la sua essenza.246 Si infrange l‟unità di sacertà e giustizia, per cui l‟essenza del valore sacro non è determinato dalla fede, cioè dalla credenza religiosa, bensì dalla giustizia, ossia dall‟essere del concetto definito dal giudizio logico, il quale, contraddicendo la credenza che tutto ciò che è giudicato santo sia anche giusto, afferma “l‟opposto di ciò che disse il poeta”, ossia quanto tramandato dal racconto mitico. La possibilità di distinguere ciò che è “giusto” da ciò che è solo ritenuto “sacro”, implica la necessità di attenersi all‟essenza immutabile del sacro, e non alla variabilità del pathos religioso, ossia all‟accidentalità della fede. Questo comporta che la coscienza razionale del mondo venga intesa come uno stadio ultroneo a quello fideistico della coscienza religiosa, e il solo ontologicamente decisivo. Che senso ha, infatti, emotivamente credere quando si può razionalmente pensare? La dinamica del pensiero logico, inteso come stadio superiore della sapienza umana, che soppianta il pensiero mitico, ricorre in ogni gnoseologia idealistica, e risale appunto a Platone, che distinse per primo una verità di fede da una verità d‟essenza. Ora, questa gerarchia fu capovolta dal Cristianesimo, che pose la fede, non soltanto a fondamento dell‟Essere, ma anche della sua “ragione”, ossia come la sua stessa verità, che la comprende. Da qui l‟eternità del Mistero della
246 Eutifrone, 11 a.
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fede, che la ragione può cercare di definire ma mai di comprendere interamente, in quanto nel Tutto vi è anche ciò che la ragione non coglie. Solo la fede, pertanto, può conoscere a suo modo la verità del Tutto, per cui essa non può essere soppiantata dalla conoscenza razionale, la quale si definisce espungendo dal Tutto ciò che “non-è” definibile, quel Negativo ignoto alla ragione ma che pure “esiste” (come “diverso” da ciò che logicamente “è”). Il concetto di una fede che, in quanto relativa alla verità del Mistero, costituisca un orizzonte di senso più comprensivo di quello configurato dal livello di coscienza razionale, capovolge la simmetria idealistica platonica, che invece viene riaffermata dal razionalismo moderno; il quale, nondimeno, nasce all‟interno della cosmologia cristiana, come polo dialettico della corrente religiosa mistica Queste due fondamentali correnti interne al Cristianesimo, e precedenti alla Riforma, convergevano, nella specularità delle rispettive posizioni teoretiche, nell‟idea che fosse possibile conoscere Dio indipendentemente dalla ragione (la posizione mistica, per la quale i dogmi e la tradizione della Chiesa sono inutili al fine di un congiungimento con Dio), ovvero dalla fede (la posizione razionalistica umanistico-rinascimentale). Tale “indipendenza” reciproca dei due fondamentali elementi della gnosi cristiana, la fides e la ratio, costituiva la premessa logica dell‟idea di libera coscienza e di tolleranza religiosa che formeranno i contenuti ideologici dell‟Illuminismo. Ma l‟espressione razionalistica ancora interna all‟orizzonte di senso cristiano, e quindi genericamente religioso, è il teismo universale, il quale “si potrebbe definire […] come il sistema extra-politico del movimento razionalista”.247 Rispetto a questa fase originaria del razionalismo teorico elitario, l‟Illuminismo rappresenta il succedaneo divulgativo di un movimento intellettuale che, “disceso dal suo fastoso castello, entra nelle vie e nelle botteghe di ogni giorno, divenendo l‟oggetto non più di esposizioni filosofiche nelle scuole, ma di discussioni sulla piazza”, allorquando,
Anziché superare il passato, si è presi da un‟opposizione ad esso, anziché
247 R. Stadelmann, Op. cit., pag. 255.
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mettersi semplicemente a costruire il nuovo ci si dà a un‟attenta critica, là dove si era essenzialmente lavorato a porre delle fondamenta si è tutti occupati a stabilire delle delimitazioni, lo slancio del filosofo si è trasformato nell‟orgoglio calcolatore di un intelletto avvertito e libero da pregiudizi.. [Da qui l‟analogia tra la] Atene del IV secolo [e l‟] età dell‟Illuminismo nell‟Europa occidentale moderna.248
In altri termini, la coscienza critica, anziché fondarsi sul presupposto della fede da cui è nata, prende a negarla rinnegando la dimensione religiosa dell‟Essere, senza la quale la ragione diventa senza fondamento, poggiante sul vuoto della sua auto-affermazione. E proprio questa auto-affermazione costituisce il suo movimento estroverso, anelante al consenso dell‟opinione pubblica. Paradossalmente, tradendo la sua inconsistenza ontologica, la ragione che si emancipa dalla fede per costituirsi come verità indipendente, ricerca nel consenso pubblico quel fondamento di fede perduto, manifestandosi quindi come opinione “forte”, decisa alla sua affermazione pubblica, ma non “vera”. In tal senso, l‟Illuminismo è il momento in cui il razionalismo, perdendo la sua verità di fede, la ricerca nella società, diventando movimento politico, chiudendo la parabola che da ancilla della teologia ha condotto la ragione ad essere serva della ideologia. Ma, appunto perché tale “passaggio dal razionalismo all‟Illuminismo” importa che si compia un “passo ulteriore” rispetto alle semplici posizioni teoriche, esso va chiaramente indicato nel principio universalistico del razionalismo, ossia nella sua forma idealistica, la quale, come ormai sappiamo, consiste nella posizione dell‟Idea, che è un modello di realtà, al posto dell‟Essere. E tale giustapposizione, sostituendo all‟Essere possibile, cioè al Tutto, il solo Essere attuale, quello definito logicamente come oggetto del giudizio razionale, astrae dal divenire, e cioè dalla dimensione temporale della storicità, nel tentativo di affermare al suo posto ciò che non-è storico, ma utopico. E per voler affermare ciò-che-non-è-storico, combatte contro la tradizione, la quale, nel campo religioso, è l‟orizzonte di senso della fede, e nel campo teoretico è l‟orizzonte stesso della verità, dal quale la ragione è sorta come coscienza logica dell‟Essere. Nella prospettiva
248 Ibidem.
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cristiana, i due orizzonti della fede e della verità coincidono perfettamente, costituendo quel Tutto che è insieme Essere e Mistero. La crisi del mondo medievale aveva “mutato il cardine della visione del mondo, che adesso non si chiama più Dio ma ratio”, lasciando però presagire la possibilità che rimanesse “intatta la struttura dei valori medievali e del loro ordine”, assegnando tale “sforzo” teorico al “nominalismo”, diventato il “rigido e inflessibile difensore del passato”, e il compito pratico di conservare il declinante “carisma trascendentale” della Chiesa al suo “particolare diritto”, in grado di controllare la “nuova situazione di maggiore interiorità” che si era venuto sviluppando dal confronto con “altre forme e gradi della religione” rispetto a quelli tradizionali.249 Il fallimento di un tale tentativo era inevitabile,
poiché quella trasformazione lenta che portava al disfacimento dell‟intero albero aveva colpito non solo le fronde, ma anche le radici del tronco, [minando] tre punti soprattutto […] di importanza vitale per l‟intima struttura dell‟edificio medievale: il principio d‟autorità, il primato del religioso, il sistema della gerarchia ecclesiastica, [i quali] a poco a poco erano stati privati del loro peso e li si era fatti divenire superflui.
La morale, costruita su categorie razionalistiche dell‟etica, fece “tacere il senso dell‟origine e del movente religioso della moralità e, accanto alla cattedrale della pietà”, fu innalzato il “tempio del justum et utile”.250 La critica del mito, in età moderna, intacca la dottrina del “peccato originale”, che in Wessel Gansfort si traduce nella difesa dei “diritti del momento, di ciò che di volta in volta è presente per l‟anima”, così che “per il giudizio di Dio esiste solo l‟attuale, il passato è un niente”.251 Torna il principio della “attualità” del giudizio, di ciò che “è” nel momento in cui è posto logicamente in essere dal niente del passato.252
249 Ivi, pag. 256 250 Ibidem. 251 Ivi, pag. 258. 252 L‟importanza del Negativo risiede nella presa di coscienza che la possibilità esclude la teoria gnoseologica secondo cui la conoscenza attuale sia l‟unica conoscenza, e nell‟ammissione della trascendenza dell‟Essere, non riducibile all‟esistente, cioè al dato storico. L‟ontologia della storicità, che concepisce l‟Essere nella sua possibilità idealmente diacronica e non nella mera attualità sincronica in cui
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convergerebbe storicisticamente l‟essenza e l‟esistenza, considera l‟Essere totale, il Tutto, come processo di possibilità di cui l‟attualità è l‟aspetto fenomenico, la cui realtà richiama per esclusione, cioè per opposizione logica il suo negativo, che Kant indica come “noumeno”, che consiste in quell‟in sé non riducibile alla attualità contingente, e perciò trascendente la temporalità meccanica. Hegel comprese che la totalità dell‟Essere coincide con la sua processualità dialettica, intendendo però la “attualità” come “sintesi” idealistica, dando adito sia all‟identità del giudizio storico col giudizio logico, e sia all‟attualismo come processualismo eleatico. Infatti la “sintesi” segna la fine del processo, e può aversi solo fuori della realtà in fieri, e non nella “attualità” dell‟Essere, che è uno dei momenti del processo dialettico, quello dell‟astrazione del “fatto” dal suo divenire. La “attualità” non è dunque la “sintesi” del processo ma l‟aspetto fenomenico e finito del “fatto” umano. I concetto di “sintesi” elimina la teoria kantiana della causalità, ossia supera la sua contraddittorietà, ma nel senso di renderla superflua entro la realtà della coscienza, dove regna l‟assoluta volontà e libertà del Soggetto ideale. la causalità fenomenica, ha senso solo se l‟assolutezza dell‟esito (come “fatto”) venga accompagnata all‟assolutezza della causa, ossia isolando i fattori causali dal processo reale, così come gli effetti del divenire. La conoscenza per causas è dunque a posteriori, alla stregua di ogni cognizione scientifica, storiografica compresa. Ma tale conoscenza non riguarda l‟Essere nella sua possibilità ontologica, ma solo la fenomenologia degli enti astratti dal processo del divenire, ossia dalla Totalità del loro senso ontologico. solo l‟ontologia conosce l‟Essere, conoscendo il Tutto e non solo i singoli fenomeni attuali. Ma l‟ontologia non è una “scienza” in senso epistemologico, ma un‟intuizione trascendentale che coglie l‟essenza di un processo diacronico così come l‟intuizione artistica coglie l‟essenza dei singoli fenomeni. Per la cognizione scientifica, ogni oggetto di conoscenza “è” sia in senso logico che ontologico, in quanto il suo esistere dipende dal suo essere ideale. Da questa sincronia deriva l‟analisi a priori dell‟ipotesi scientifica da verificare empiricamente ai fini della sua legittimazione razionale, cioè della sua sostenibilità ideale; e l‟analisi a posteriori della ricognizione storiografica, la cui legittimità razionale è legata alla documentazione fattuale. In entrambi i casi, l‟elemento “scientifico” della conoscenza consiste nella corrispondenza del (l‟Essere del) giudizio al (l‟essere del) fatto. Secondo questa prospettiva, ogni oggetto di giudizio si equivale nel suo essere ciò che è, ente, a esclusione di ciò che “non-è” e semplicemente esiste. Da qui il paradosso per cui il “diverso” da ciò che “è”, il non-essere logico, sul piano della realtà effettuale a sua volta “è” anch‟esso, e perciò “è” nello stesso senso di ciò che “è” per il giudizio. Ma se ciò che esiste, esiste indipendentemente dal giudizio che lo pone in essere, allora la realtà empirica non può valere da misura di realtà del giudizio logico, per cui ciò che “è” in senso logico è soltanto ciò che l‟Idea pone e riconosce come suo oggetto. E poiché a porre e a giudicare è il Soggetto, la realtà oggetto di giudizio, ossia di conoscenza scientifica, è soltanto quella posta dal Soggetto. Non diversamente da quanto accade nel Mito e in genere dall‟attività fantastica. In tal senso, la “conoscenza” scientifica ri-conosce solo ciò che pone come suo oggetto, ossia ciò che “vuole” conoscere. Il primato della volontà sulla contemplazione nasce in conseguenza della
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Anche in questo caso, lo “eudemonismo sociale-utilitario” oscura la “grande emozione” della fede religiosa, anche se continua ad avvalersi di “moventi e scopi religiosi”.253 L‟eudemonismo deriva dal trovarsi nel “giusto e vero”, che costituisce il vertice della felicità, consistente nel “liberarsi dei propri sentimenti spiacevoli”, legati alla condizione antropologica di finitezza. E‟ questo il radicale movente “demonico” di Socrate, la “gravosa inquietudine [che] non cessa finché l‟ideale non è raggiunto”, anche per piccoli passi, che procurano però “un sentimento di felicità che non possiamo ottenere in nessun altro modo”.254 La “felicità” è qui sentimento di riscossa umanistica su un ordine originario cui ci si poteva solo adeguare, e che ora viene riscritto in termini tutto umanistici, nel segno della razionalità, per cui “l‟agire umano è orientato da un sistema di valori il cui ordine gerarchico fisso è fondato sulla ragione e che esige, in risposta, un movimento rigorosamente razionale delle energie morali”.255 Tale “economia
gnoseologia idealistica come forma di conoscenza scientifica alternativa alla forma intuitiva della conoscenza ontologica. Ma le due forme di conoscenza non si equivalgono teoreticamente, poiché una è la verità, e non è quella ideale, che muta col variare delle posizioni idealistiche e che conduce al nichilismo contraddicendosi come conoscenza dell‟Essere. Infatti, ciò che è diverso non può essere uguale se non astraendo dalle sue qualità specifiche, ossia appunto dal suo Essere ciò che è, dalla sua possibilità, che è anche la sua verità. la cognizione scientifica pertanto è resa possibile attraverso l‟astrazione idealistica dei “fatti” fenomenici dalla loro essenza ontologica. astratti dalla loro essenza o qualità specifica tutti gli enti si equivalgono, per cui il Molteplice reale equivale all‟Uno ideale. da qui la dialettica di ogni razionalismo idealistico, che convertendosi nel suo contrario reale si contraddice. L‟Unità affermata dal giudizio ideale non è l‟atomo fisico, l‟elemento primo e indissolubile, ma l‟idea di unità, comprensiva di una molteplicità di elementi empirici. In questo senso è attività di pensiero, costituito da elementi molteplici. Senza tale attività, gli elementi sarebbero liberi e non “ruoterebbero” intorno al suo “nucleo” ideale “radioattivo”. E perciò, ogni idealismo, per ovviare alla sua contraddizione intrinseca, finisce per rinunciare alla sua unità ideale, trasformandosi in empirismo, ossia in volontarismo irrazionalistico. ] 253 Ivi, pag. 259. 254 Ibidem. Si tratta dell‟inquietudine della contraddizione idealistica, che cerca di trovare nella realtà quel superamento del negativo postulato con l‟affermazione dell‟identità dell‟Essere e dell‟Idea. 255 Ibidem.
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dell‟utile” impone che “ciò che è migliore [sia] nemico di ciò che è semplicemente bene e di infrangere o trascurare, in vista di un bene maggiore, anche gli imperativi più vincolanti”.256 Il principio eudemonistico della “beatitudine terrena”, nato dall‟utilitarismo sociale dell‟ideale razionalistico della felicità, si scontrava, quale “modo di agire orientato verso il successo” col “principio della stretta obbedienza”, che costituiva il cardine morale del sistema etico gerarchico medievale. Il “prossimo” della morale cristiana non è più il “fratello” di fede ma un soggetto astratto e generico, la cui universalità anonima perde l‟afflato caritativo proprio dell‟ “amore” cristiano, per cui
non è più l‟esigenza religiosa di una attività ispirata all‟amore che chiama il seguace di Cristo ad uscire dal chiuso del suo chiostro o della sua cella, bensì l‟ideale razionale di un generale stato di felicità. [Pertanto,] mentre per il pensare gerarchico-monastico la subordinazione ai comandi di superiori è una virtù in sé stessa, indipendentemente da ciò che viene comandato, per Wessel anche l‟obbedienza dipende da un sistema naturale di nessi e di fini in cui la posta deve valere il gioco, dove anzi la partecipazione attiva può venire giustificata solo da un calcolo dell‟esito possibile.257
Cambia l‟unità di misura, che non è più il bene necessario, ma ciò che è “conforme a ragione” (rationabiliter) in base a una valutazione di mezzi e fini. Da qui la crisi del concetto medievale di “autorità” e la messa in mora del dovere assoluto di obbedienza, e cioè di conformità a quanto stabilito e tramandato. Contestare, o almeno ridimensionare, l‟autorità costituita equivaleva a eliminare la mediazione della tradizione, il cui deposito sapienziale consentiva, da un lato, l‟ortodossia della sua conservazione, e dall‟altro la possibilità del progresso continuativo del processo della conoscenza umana. Tale continuità si interrompe allorquando l‟insorgenza della coscienza critica non inerisce al processo di avanzamento limitatamente all‟elemento inedito, che andava razionalmente giustificato nel contesto dell‟orizzonte tradizionale, ma coinvolge l‟intera tradizione come oggetto di giudizio e di valutazione alla luce del dato innovativo,
256 Ivi, pag. 260. 257 Ivi, pag. 260.
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per cui la legittimità di questo si misura sulla capacità di giustificare la tradizione, reinterpretandola sulla “attualità” del dato di coscienza temporalmente più avanzato, e perciò considerato logicamente più maturo. Per cui, la tradizione aveva una sua precisa rilevanza positiva, in quanto determinava il livello di progresso relativo della posizione più avanzata rispetto ad essa, e una rilevanza negativa, in quanto l‟avanzamento di livello della coscienza critica veniva misurato sulla base dell‟arretratezza relativa della tradizione nel suo insieme. Sicché, tanto più innovativa ed eslege risultava la posizione novella, quanto più appariva retrivo il deposito tradizionale rispetto al quale essa innovava. Il capovolgimento prospettico spostava il fuoco della rilevanza ottica sul dato di coscienza innovativo, non già sulla sua compatibilità con la tradizione sapienziale, che fu progressivamente avvertita come un fardello ingombrante rispetto alla libertà di coscienza, anziché l‟argine di sapienza consolidata opposto alla volubilità della coscienza individuale, tanto che al singolo viene riconosciuta una sovranità in conseguenza della quale
la libertà della decisione individuale vale più dell‟obbedienza, anche se questa mantiene la pace dell‟amore; la libertà della decisione morale diventa qualcosa come un valore in sé. L‟autorizzazione a giudicare in materia pratica spinge da sé all‟esigenza di un esame soggettivo degli insegnamenti della Chiesa.258
La legittimazione dell‟esame soggettivo, liberato dalle pastoie ermeneutiche della tradizione, apriva la strada alla reinterpretazione della tradizione come oggetto storiografico del soggetto teoretico, il quale, dalla determinazione trascendentale, trasferito sul piano sociale, diventava il giudizio di un qualunque soggetto empirico. Dal punto di vista sociale, la rivoluzione ermeneutica di rimettere in discussione l‟impianto dogmatico-fidesitico della stessa verità di ragione, si traduce in rivoluzione politica, consistente nel mettere in dubbio la legittimità del Potere tradizionale, ossia i fondamenti stessi della convivenza sociale gerarchicamente organizzata. Ogni limitazione e cautela originaria era puramente psicologica, legata alla transizione
258 Ivi, pag. 261.
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dall‟uno ad altro sistema formale di giudizio di valore, ma essa cadeva appena varcata la soglia della prima infrazione, e la quale diventava la regola del giudizio come dell‟azione delle nuove generazioni ideologiche. E infatti, l‟iniziale limitazione del principio soggettivistico, attraverso la distinzione fra “coloro che possono permettersi di fare una critica ed una scelta autonoma, e quelli che, per la loro immaturità, sono rinviati, nel caso d‟incertezza anche minima, alle verità indubitabili”,259 viene superato in seguito dalla tendenza universalistica intrinseca al razionalismo astratto, il cui esito individualistico non era originariamente intenzionale. Ma è proprio tale “esito intenzionale” di ogni individualismo astratto a far ritenere ai suoi moderni propugnatori razionalisti che i fini sociali siano frutto di una auto-regolamentazione spontanea delle volontà soggettive razionalmente indirizzate a fini particolari utilitaristici. In realtà, il divario fra scopi soggettivi e fini sociali, non è conseguenza “spontanea” dei comportamenti razionalmente orientati, ma l‟esito necessario, e quindi logicamente prevedibile, della dialettica del pensiero astratto che si fa movente delle azioni storiche. L‟appello alla “esperienza” è rivolto al senso retrospettivo dell‟esperienza attuale e non all‟indirizzo consolidato dalla tradizione, per cui ogni novità, dovendo diventare il nuovo parametro della realtà passata, costituiva una singolare esperienza, a partire dalla quale veniva reinterpretata la storia passata, la quale pertanto, scollegata dalla unità del processo fenomenico e ricollegata all‟unità del processo ideale dell‟interprete, diventava un récit mitico, il cui grado di plausibilità razionale era determinato dalla coerenza strutturale del racconto, alla stregua di una qualunque opera della fantasia del genio immaginativo. Che la storia narrata alla luce della astratta ragione idealistica fosse un‟opera d‟arte, lo comprova la circostanza che il supposto discriminante “principio di realtà”, che distinguerebbe la narrazione storica dal prodotto fantastico, vale solo per il passato ma non per il futuro, che resta incognito, e perciò imprevedibilmente slegato da quella ragione che dovrebbe essere universalmente valida anche in senso temporale, e che invece lega la sua plausibilità alla verifica degli eventi posteri, come una qualunque ipotesi scientifica. Ciò conferma che solo la realtà che “è”, è
259 Ibidem.
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quella vera, mentre quella passata e quella futura sono soltanto ipotesi, l‟una, quella storica, riguardante l‟opinione sul passato, l‟altra, l‟opinione sul futuro. La scienza del passato e la scienza del futuro no solo altro, dunque, che opinioni soggettive e ipotetiche frutto della immaginazione soggettiva. L‟indipendenza della coscienza dagli obblighi dottrinari tradizionali, è il correlato della emancipazione della ragione (astratta) dall‟Unità dell‟Essere totale e dalla sua possibilità. Le dispute teologicodialettiche di Wessel richiamano il modello della diatriba tra “ratio” e “confessio” religiosa rappresentato dall‟ Eutifronte platonico, che è all‟origine della stessa tensione tra Girolamo ed Agostino rievocata dal Wessel 260 a proposito del concetto di eresia. Infatti, la ricerca soggettiva della conoscenza razionalmente condotta può inscriversi nell‟ambito della virtù della fede quando questa venga presupposta come orizzonte di senso in trascendibile della verità cui la ragione umana è chiamata a partecipare. Ma stornato da quell‟orizzonte teologico fideistico, la ricerca in senso precipuamente umanistico di verità di ragione, mostra il suo lato nobile in relazione agli esiti logicamente coerenti e perciò sostenibili. Fuori, quindi, dell‟orizzonte religioso della fede, la ricerca razionalistica diventa “diabolica curiositas”, costitutiva di grave colpevolezza secondo l‟insegnamento della Genesi, per cui “la libertà del cercare e il diritto di trovare hanno una sola direzione, quella dell‟amicizia con Dio”.261 Secondo la ricostruzione di Stadelmann, è la mistica che “nell‟ambito tardo-gotico” ha consentito il sorgere di un soggettivismo di transizione, “le cui basi e le cui ragioni non sono né propriamente mistiche, né propriamente umanistiche”.262 Egli definisce “ingenuo” l‟atteggiamento critico di questa condizione di emancipazione dalla tradizione, sostituendo però la sua posizione di estraneità storica al clima ideale del tempo con quella di partecipazione religiosa alle verità comuni propria degli esegeti di allora. Lo sguardo critico poteva apparire come “negativo” solo a condizione di avere ad oggetto metafisico le comuni verità di fede della tradizione cristiana, poste
260 Ivi, pag. 262. 261 Ivi, pag. 263. 262 Ibidem.
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come il relativo “positivo”. Solo allorquando la negatività dei postulati di ragione verrà assunta come fondativa di una diversa autorità di pensiero, emancipata da quella religiosa e a questa antitetica, la ragione idealistica costituirà l‟ambito di una fede altra, a movente della quale viene posta non più l‟amore fraterno cristiano, ma la libertà di coscienza. E‟ tale libertà a generare lo spirito eversivo della spiritualità tipicamente moderna, esercitato in ogni ambito di ricerca teoretica e di prassi sociale, che si esercita come “singularitas” o “volontà di originalità che deriva più da un atteggiamento di critica e di insoddisfazione che da una visione nuova e che è più una conclusione e dissoluzione che l‟inizio di una nuova epoca”.263 Il termine dialettico oggettivo di questo spirito critico è l‟autorità, la quale, in ambito di persistente religiosità, non è la fede scritturale bensì la tradizione gerarchica della Chiesa. La verità di fede aveva nelle Scritture la loro fonte intoccabile, a rispetto della quale la critica poteva ragionevolmente incidere sulla tradizione umana, sia pure eminente e pluri-secolare. Il “senso del vangelo” non è più accertabile sulla scorta di una tradizione ermeneutica maggioritaria, ma attraverso una ricerca della verità che il singolo deve proporsi come confermativa della stessa fede. Ciò che qui entra in gioco è la traslazione del valore della fede religiosa dalla tradizione al fondamento della legittimazione razionale, da cui dipende la stessa verità religiosa. La ratio non è più, dunque, ancilla fidei, ma fundamentum fidei. Il presupposto, cioè, è che la ragione stia allo stesso piano di verità della religione rivelata, emanando dalla stessa fonte divina, per cui la ricerca individuale non può che comportare la verità religiosa. “Questo presupposto tacito della identità di personalità e Vangelo è anche la chiave della teologia di Erasmo”, la quale “mantiene il legame con la rivelazione del passato e con l‟assoluto” senza “reprimere la voce dell‟interiorizzazione individuale”, dell‟esperienza vissuta di ciascuno e della fedeltà alla coscienza”.264 Ma la tensione tra i due principii – tradizionale e fideistico, e razionalistico e liberale – non poteva mantenersi lungamente in equilibrio in mancanza di una sintesi teologico-filosofica significativa,
263 Ivi, pag. 264. 264 Ivi, pag. 266.
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per cui da un lato l‟istanza scritturale e dogmatica impersonata da Lutero, e dall‟altra l‟istanza spiritualistica di autonomia della ricerca individuale portata avanti dai pensatori del sec. XVI, tendono al reciproco “sopravvento”.265 In entrambe le tendenze c‟era alla base un “elemento rivoluzionario dissolutore”, costituito dalla responsabilità di coscienza, che è la prima e ultima istanza morale, sia nel caso di una scelta filosofica a favore di un sistema razionalistico di fede religiosa, sia nel caso di conformità alle direttive teologiche eteronome. Così la “coscienza” diventa il crocevia tra lo “ius divinum” e lo “ius naturale”, che nel tomismo trovano la sintesi tra dogma e ragione. La secolarizzazione delle verità religiose inaugura una nuova stagione di umanesimo cristiano, che già con Occam concede alla ragione naturale una fonte legittima di morale autonoma da quella evangelica. Il “pericolo” costituito dal razionalismo etico e religioso poteva essere superato “se non vi fosse introdotto quel terzo criterio di validità che è la conscientia”, che avrebbe di lì a poco infranto l‟unità tradizionale di fides et ratio, menando ciascuna tendenza a un autonomo sviluppo.
La Parola, in un nuovo senso profetico, dovrà diventare il giudice supremo degli spirito (Lutero), la ragione scientifica dovrà stabilire il contenuto storicamente originario o razionale della rivelazione (umanesimo), infine la voce soggettivistica dello spirito soffocherà le pretese di rivelazione della Scrittura, già minata dalla critica (Sebastian Franck).266
Il rapporto tra dogma e ragione è, originariamente, tra verità di fede –la fede in una “verità” a suo tempo professata come “ragione” del mondo – e critica della verità – una verità che per la critica è appunto “fede” e non “ragione” -. Tale rapporto è quello classico tra Mythos e Logòs, in cui la ratio che sostiene la fede mitologica viene criticata in nome di un lògos che autoreferente, fondato su proprii princìpi di realtà. Poiché ogni principio di realtà è originariamente un fondamento di fede, anche il principio razionalistico si fonda sulla fede nella ragione quale criterio di verità. nel momento in cui la verità di ragione viene acquisita come realtà, essa è diventata verità di fede, religione.
265 Ibidem. 266 Ivi, pag. 268.
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La essenza della religione riposa nella fede nella sua rappresentazione della realtà, nella sua “verità”, appunto. E‟ la critica alla fede come verità a fare della verità di fede una mitologia, una rappresentazione non-realistica del mondo. Vi è da dire che la dimensione di fede della verità costituisce la condizione antropologica della socialità cosciente dei gruppi umani, in quanto si basa su una comune interpretazione del mondo. Su questa base fideistica si erge la coscienza razionale, ossia la consapevolezza della funzionalità che quella lettura del mondo ha sulla stessa convivenza sociale. La lettura consapevole, cioè razionale, della fede comune la distingue culturalmente, come lettura alta dalla posizione della generalità della componente sociale bassa, definendo attraverso questa dicotomia ideale anche la differenza sociologica tra la élite dirigente e la massa diretta. Il razionalismo, emancipando la ragione dal suo fondamento di fede, crea le condizioni del superamento di questa divisione sociologica, introducendo un concetto di uguaglianza di ragione che si costituisce come un orizzonte di senso alternativo a quello dicotomico tradizionale, che sul piano politico tende a superare ogni gerarchia sociale, e quindi la stessa distinzione tra classe dirigente e classe diretta, facendole coincidere idealmente nella “rappresentanza”, il cui concetto pubblicistico rimanda a quello idealistico del “rispecchiamento” del mondo ideale in quello reale. In entrambi i casi, la condizione della loro effettualità e congruità è l‟eliminazione di ogni mediazione, ideale o storica, tra i due termini riflessi, per cui, così come la coscienza stabilisce un rapporto diretto con la verità o Dio, la sovranità individuale lo stabilisce con il Governo, tale che ogni coscienza e ogni cittadino è l‟elemento speculare della forma ideale comune a ciascuno, e che costituisce la loro unità. Pertanto, senza l‟Idea e senza il Governo, il caos intellettuale e quello sociale non sono riconducibili a ragione, cioè diventare sistema. E ciò comporta che l‟Unità ideale e sociale sia un postulato di ragione, una necessità logica, e non la costituzione ontologica e antropologica, per cui la distinzione, essendo una opposizione puramente ideale, può essere superata logicamente e sociologicamente, in modo che la tradizionale dicotomia tra fede e ragione, e tra Potere e Obbedienza possa essere considerato un mero
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dato culturale, relativo alla credenza dei tradizionali gruppi pensanti e dominanti.267 La “fides” distinta dalla “ratio” è una religione astratta dalle sue ragioni di fede, cioè dalla ragionevolezza dei suoi enunciati di verità. viceversa, la “ratio” emancipata dalla “fides” è una ragione astratta dalla sua verità, cioè dalla fede nella sua fondatezza ontologica, tale da tradursi in tecnica del pensiero, o appunto a logica astratta dal suo fondamento di verità, dalla sua religiosità. Una religione che accetta il principio della “doppia verità” – quella di fede e quella di ragione, distinte – si condanna alla rappresentazione fantastica della realtà, dove la “fede” è puro esercizio di volontà, senza adesione di ragione. Viceversa, un razionalismo che voglia costituirsi come verità e insieme come esercizio critico della ragione, è contraddittorio, in quanto assume la fede in se stesso e nel suo metodo critico come strumento di dissolvimento di ogni fede, alla maniera del dogmatismo scettico, che fa della negazione di ogni verità la sua unica verità. superstiziosa, perciò, non è solo una fede priva di ragionevolezza, e cioè di verità, ma anche una ragione priva di fede nei suoi presupposti e nei suoi fini, e perciò “debole”. Se la religione senza “ratio” si risolve in “rito”, in rappresentazione puramente simbolica, ossia in ludo estetico, parimenti il razionalismo privo di “fides” si risolve in sofistica e in tecnica confutatoria, che incide sulla strumentalità logica della religione e metodologica del sapere formale, ma che non può intaccarli né accreditarli sul lato del loro fondamento di verità, sul quale essa è muta. D‟altro canto, una verità di fede lasciata senza ragionevole supporto teoretico, si fonda sull‟intuizione mistica, cioè appunto su una affermazione di fede nella verità non razionalmente giustificata. La ragion critica non incide sulla fede, quando questa sussiste, ma sulla sua ragionevolezza o giustificazione razionale. Confutata questa, la fede resta sospesa in se stessa, orfana di ragione, ma non perciò insussistente. E in tal caso si fonda sulla intuizione di verità, sulla
267 Vi è da aggiunger che la logica egalitaria del razionalismo giungerà a porre le stesse distinzioni naturali tra i sessi un “dato di cultura”, e come tale superabile da una mentalità diversa. Ved. il classico libro manifesto del femminismo di S. De Bouvoire, Il secondo sesso, etc.
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mistica, per definizione non comunicabile, e perciò strettamente e assolutamente soggettiva nel rapporto con la verità. sta qui il rapporto tra mistica religiosa e individualismo spiritualistico o soggettivismo. Ed è l‟incomunicabilità mistica a creare il soggettivismo teoretico, che è il contrario della “scienza” in senso platonico, fondata sulla logica comunicativa, sulla “dialettica” come metodo d‟apprendimento e insegnamento dell‟unica verità, razionale e non semplicemente intuitiva. Il soggettivismo è misticismo, perché deriva da questo. E il misticismo, privo di comunicabilità razionale, è fantasia, creazione di realtà immaginata, prodotto dell‟immaginazione. Parimenti, il razionalismo, come metodo del soggettivismo teoretico, è una rappresentazione mistica della realtà, una immaginazione razionalmente costruita, una “teoria” priva di fondamento veritativo, ossia una “credenza” o ipotesi di realtà. E dunque una “mito-logia”, in cui la fede nella ragione si identifica con la stessa ragione della fede. Una tautologia, la cui “coerenza” sistemica viene scambiata per “verità”, cioè viene “creduta” essere tale solo per convenzione formale, per “gioco” noetico. Il posto che la critica dell‟autorità ecclesiastica (prima, e quindi filosofica, mettendo in dubbio l‟autorità di Aristotile da parte dei nuovi filosofi della scienza) ha lasciato alla volontà in materia di fede è lo stesso di quello che il razionalismo ha lasciato alla mistica. Rotto il rapporto tra fede e ragione, anche il fondamento autoritativo viene a perdere la sua ragionevolezza, acquisendo di conseguenza la sola forza di una efficace pedagogia, la quale, agendo sulla formazione spirituale iniziale, persegue un suo scopo di indirizzo intellettuale conforme ai suoi presupposti religiosi. La riduzione della tradizionale auctoritas ecclesiastica a credulitatis initium coincide con la trasformazione del “mysterium” in una versione razionalistica di una “mediazione empirico-pedagogica”, in conseguenza della quale
l‟appartenenza al corpo dei credenti diventa una casualità storica. [Se] il carattere divino dell‟annuncio di Cristo non ne subisce alcuna conseguenza, l‟idea di chiesa visibile e forse anche quella invisibile ha subito un colpo, [sicché] il grande tema della fase finale del Medioevo è la distinzione,
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dall‟esterno e dall‟interno, della Chiesa.
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Il posto che la volontà ha lasciato alla ragione emancipata dalla tradizione dogmatica ha reso la testimonianza religiosa dei singoli fedeli un atto non giustificabile in base a un presupposto di verità – sia pure accolto per via eteronoma dalla tradizione -, ma in base a una condizione spirituale assolutamente indipendente da ogni necessità oggettiva, di carattere teoretico o morale, tale che la “emancipazione” della ragione dalla fede acquistasse un implicito valore di “indipendenza” della coscienza dalla stessa morale comune, fondata sulla fede tradizionale.269 Le conseguenze di questa impostazione del rapporto coscienziale tra religione e ragione, una volta universalizzate come caratterizzanti la coscienza moderna e quindi socializzate a opera delle ideologie razionalistiche, furono culturalmente devastanti, in quanto sostituirono al sentimento sacrale della comunità di vita, presente già nella visione greca della socialità, un antropocentrismo umanistico auto fondato sulla coscienza individuale, riflesso mistico dello spirito di Dio incarnato nell‟esperienza umana particolare e irrepetibilmente personale, nonché implicita premessa di ogni attivismo,270 ermeneutico come politico.
Originalità della propria visione [può esprimere l‟] orgoglio del dotto teologo
268 Ivi, pag. 270. 269 In senso lato, il razionalismo, negando l‟Essere della fede, ossia Dio, e contrapponendogli una realtà fenomenica idealisticamente giustificata dal suo modello ideale o categoriale, si costituisce essenzialmente come una forma, non tanto di ateismo, quanto di poli-teismo, ossia un‟espressione di idolatria gnostica che minava in radice le fondamenta, non già della religione, il cui spirito messianico anzi si arricchiva di nuove forme secolarizzate, ma dell‟antropologia religiosa, ossia della pretesa universalità della visione del mondo cristiana, sostitutiva della cosmologia etnocentrica greca ed ebraica. Tale sostituzione interessava anzitutto la figura personale del Dio di Isacco e di Giacobbe, che divenne un‟Idea appunto universale, e come tale impersonale, mentre la Sua espressione terrena fu rappresentata da Gesù Cristo, la cui costituzione sintetica, una volta dimidiata nelle due distinte e irrelate essenze umana e divina, fu considerata il modello di ogni ideologia messianica che procedesse a sostituire alla figura religiosa una essenza mondana, secolare. L‟insistenza, pertanto, da parte di molti critici cattolici sul presunto a-teismo delle filosofie escatologiche moderne, non considera che il modello teoretico di ognuna di esse risale all‟ideal-tipo religioso della teologia cattolica. 270 Ivi, pag. 271.
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[…] oppure può nascere dalla certezza mistica di far parte di quei pochi che sono progrediti dall‟ascolto alla visione, o dal sentimento superiore di essere del numero di coloro che sono esperti del divino, [oppure] da una filosofia critica che fa della rarità della verità il suo criterio, poiché gli illuminati dello spirito sono sempre una minoranza, [in modo tale che] l‟esclusività diviene un costitutivo essenziale della verità, e lo stare a sé […] distintivo anche di grandi filosofi, [il cui ermetismo si coniuga col] disprezzo aristocratico del profanum vulgus. 271
La separazione dalla comunità del gruppo, religioso dapprima e poi generalmente sociale,alimenta non solo l‟originalità della ricerca di ciò che è proprio, ma lo spirito negativo, cioè la critica, e con essa lo spirito filosofico come pensiero eretico.272 In ambito anti-dogmatico, razionalistico o mistico, l‟eresia non è vista come superba o velleitaria o peccaminosa disposizione d‟animo ma il risultato del singolarismo religioso, il cui esito “paradossale” è “moderno” nel senso del suo universalismo sociologico, ma di per sé è inscritto nella logica stessa del processo razionalistico. Il razionalismo antico di Platone e di Aristotile trovava il suo correttivo etico-politico nella persistente dimensione sociale della loro teoresi, fondata sul presupposto naturalistico di uno status antropologico di cui la struttura della società era la proiezione empirico-reale intrascendibile. Allorquando l‟universalismo razionalistico si liberò – attraverso lo stoicismo prima
271 Ivi, pag. 272. 272 “Eretico” è ogni pensiero non riconosciuto dall‟ortodossia, e cioè dalla opinione condivisa, pertanto il pensiero “privato” e non (ancora) socializzato, ossia considerato interno all‟orizzonte di senso della fede comune. Il pensiero del livello di coscienza razionale è in linea di diritto costitutivamente “eretico” rispetto al pensiero fideistico, e lo sarebbe anche di fatto se non fosse omologato dalla tradizione, che riconoscendolo lo assume come pensiero di fede comune. Questo movimento dialettico di riconoscimento del pensiero privato nella comunità di fede pubblica, sarebbe normale se il razionalismo non avesse creduto di poter invertire il rapporto fede-ragione attraverso la riduzione dell‟orizzonte di senso della fede a livello di coscienza “ingenuo”, che il livello superiore della ragione avrebbe “superato” e inverato dialetticamente. In questo senso, la pretesa della ragione a costituirsi come senso universale del mondo sostitutivo di quello mitico-fideistico ha scatenato una vera e propria guerra di religione tra universi di senso reciprocamente alternativi ed esclusivi.
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e poi soprattutto col Cristianesimo – di ogni residuo naturalisticosociologico antico, fu la struttura ecclesiale a fungere da orizzonte comunitario della salvezza spirituale. E quand‟anche questo orizzonte comunitario entrò teologicamente in crisi, anche la filosofia che l‟aveva servito e giustificato si liberò di ogni remora morale, dispiegandosi come spirito individualistico e universalistico insieme. Sia nella prospettiva greco-classica che in quella cattolico-medievale, la tradizione, tramandata come costume etico ovvero come autorità teologale, aveva un carattere divino e come tale imprescindibilmente certo e sacro, e in tal senso “naturale” per gli uomini civili e di fede. Con la critica della tradizione, anche il senso del sacro fu disgiunto dalle leggi naturali, sì che la fondazione religiosa del mondo comune fu avvertita come una superstizione, anziché una virtù, a partire da citato Eutifrone di Platone. Le remore etico-politiche di Socrate o quelle teologiche di Lutero furono alla fine del Medioevo del tutto superate a freno della hybris razionalistica e soggettivistica, in favore dell‟esaltazione della coscienza individuale, intesa come “umana capacità, indipendentemente dal suo carattere di grazia che le viene dall‟essere riempita da una rivelazione”.273 A questo punto sorge il problema di “un criterio della autenticità dello spirito e il bisogno di un foro davanti al quale possa mostrarsi la sua natura”,274 e lo si trova nel “nostro cuore”, sicché
Criterio di verità sono la risonanza soggettiva, l‟esperibilità diretta, l‟intima evidenza, la disposizione emotiva [e pertanto] il cuore del singolo diviene il cardine della realtà spirituale, poiché solo l‟accordo spontaneo del cuore, l‟originaria forza religiosa dell‟Io, pongono il sacro come tale.275
La centralità del Soggetto è già preludio a un‟etica idealistica, ma soprattutto predilige l‟abbinamento di coscienza umana, della sua dignità umanistica di excellentia hominis, alla stessa rivelazione divina, che diventa l‟oggettivo riscontro scritturale della “natura umana”. Questa “autarchia della coscienza morale” cerca un nuovo fondamento
273 Ivi, pag. 273. 274 Ibidem. 275 Ivi, pag. 274.
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assoluto di verità, trovandolo nella “univocità delle decisioni della coscienza nell‟ambito etico, nel senso dell‟Illuminismo”.276 La coerenza etica è di responsabilità del Soggetto, non conformità a un precetto comunitario. La “chiesa invisibile” di Lutero trova nel foro interiore quella disciplina morale che viene ricusata in senso antiistituzionale nei confronti della “Chiesa evangelica” guidata da pastori. Il Soggetto cerca solidarietà elettiva, non conferme autoritative, in direzione di una “rinascita” spirituale emancipata da ogni delimitazione comunitaria e istituzionale. La “comunione degli eletti” non è una condizione prefigurabile a priori, ma l‟esito di u riconoscimento spirituale della “fratellanza sovra-confessionale di tutti i giusti e tolleranti” riscontrabile in ogni popolo e religione storica. Così l‟idea soggettivistica e quella di tolleranza si richiamano reciprocamente, ponendo al centro di ogni possibile disputa ermeneutica e contraddizione scritturale legata alla libertà dell‟anima, la propria coscienza, che si fa giudice e censore di ogni arbitrio e di ogni inganno. Un giudice tanto più libero e coscienzioso quanto silenzioso e discreto, a un tempo deciso a opporsi all‟ “eterno inganno” e alla “rassegnazione” di fronte alla caduca realtà del mondo, deciso pertanto a rinunciare sia “ad una qualunque forma di predicazione […], contrariato dalle dispute”, che a “ogni presa di posizione tra le grandi istanze del presente”, giungendo a rifiutare di “tracciare delle linee di demarcazione della prospettiva vera, che siano visibili all‟esterno, poiché ciò che sta intorno non merita che ciò venga espresso”.277 Ma a essere taciuta non è “un convincimento personale bensì la verità”, la quale deve poter riunire ogni particolarità individuale, e non rilevarla come segno, sia pure sublime, di distinzione. Il soggettivismo eretico conduce così all‟istanza anti-ereticale, secondo la tipica movenza dialettica di una ragione del Molteplice che finisce di affermare l‟esigenza dell‟ideale Unità, che viene trovata non a caso nel silenzio, ossia nella dimensione del Negativo, in cui si condensano le diverse espressioni positive della frantumata fede comune. A seguito della dissoluzione dell‟oggettivismo medievale, si presentano due tendenze eterogenee di pensiero: il singolarismo, di
276 Ivi, pag. 275. 277 Ivi, pag. 277.
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origine mistica, che si richiama allo spirito, e il diritto naturale, di origine scolastica, che si richiama alla ragione. Esse si compongono a proposito della questione del sacerdozio come esperienza spirituale immediata, non abbisognevole di alcuna mediazione sacramentale o comunitaria o scritturale, legata invece solo alla natura e alla ragione, 278 in cui si ravvede l‟intera legge divina. “Questo sacerdozio di coloro che sono naturaliter consacrati distrugge l‟idea della legge ieratica e biblica”,279 aprendo sia l‟adito alla teologia nominalistica dell‟etsi Deus non daretur che all‟idealismo giusnaturalistico rousseauiano di una storia primitiva pre-civile e pre-religiosa nel senso della Scrittura. Non a caso tali tendenze furono combattute più dal Protestantesimo nascente che dalla Chiesa, mettendo in discussione la parola della Bibbia. Esse infatti celavano, sotto il “ripiegamento sentimentale […] anche elementi attivi, di un razionalismo disgregatore”, che annunciava, all‟interno della storia delle religioni, il carattere tipico del razionalismo moderno, a es. di un Thomasius, che poneva la figura di Cristo come quella di un riformatore della religione, anziché di un fondatore della verità. spiritualismo e illuminismo qui si compenetrano in nome della vera fede in Dio contro quella oscurata dall‟istituzione ecclesiastica, con conseguente estensione della critica autoritativa al campo socio-politico.
Una volta caduto il privilegio della Chiesa di essere ispirata, doveva cadere anche l‟ostacolo che durante l‟alto Medioevo aveva impedito che la sua concezione politica del patto di sottomissione e del diritto di opposizione facesse presa sul terreno ecclesiastico.280
Il principio della sovranità popolare, intesa come “ius divinum et naturale” fu estesa alla Chiesa da parte di Cusano, stabilendo “il più compiuto parallelismo tra la struttura della Chiesa e quella dello Stato”281 in senso contrattualistico. Ma l‟idea di Cusano non è quella di un democraticismo egalitario, propugnata da Marsilio, di segno
278 Ivi, pag. 279. 279 Ivi, pag. 280. 280 Ivi, pag. 281. 281 Gierke, cit. in Ivi, pag. 281.
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illuministico, tendente a sottolineare il carattere sovrano del popolo. “Al contrario, egli ravvisa una rigorosa necessità nel sorgere delle formazioni statali”, sostenendo che
quando colui che è incapace e limitato, nell‟interesse della sua stessa autoconservazione, riconosce il predominio dei saggi, di coloro che eccellono per virtus animi, constantia e fortitudo e si lascia guidare da costoro, subisce in fondo una costrizione naturale, voluta da Dio.282
La visione di Cusano implicava una concezione dualistica dell‟Essere che si rifletteva nella storia sociale, mentre la concezione di Marsilio poneva un‟idea di totalità monistica inclusiva degli illuminati e, “in ogni caso più grande e più intelligente di ciascuna parte” e tale che “solo questo totum è competente nel consiglio e nell‟azione”. Tale idea di totalità è “utopistica”, in quanto anti-storica, e “irrazionale” in quanto pone il contratto come premessa non sostenibile storicamente ma solo per ipotesi e finzione giuridica. L‟infallibilità della totalità era il “dogma” su cui si fondava la teoria del diritto naturale assoluto.283 Ma non era questa l‟ideologia di Cusano, al quale non sfuggiva l‟imprescindibilità della disuguaglianza naturale per la teoria del contratto sociale. Per conciliare l‟istanza d‟ordine con la realtà storica delle condizioni umane, Cusano, prima di Hegel, concepisce l‟idea di una libera sottomissione dei deboli ai forti, prodotto da un “istinto naturale” a trovare “l‟accordo tra coloro che guidano e coloro che sono guidati”. A presidio dell‟ordine costituito Cusano pone la auctoritas del communis consensus, cui devono piegarsi sia le tradizioni dottrinarie che le singole concezioni, dipendendo quell‟auctoritas dallo stesso diritto naturale divino, affidando egli “senza limitazioni il diritto di approvare ed interpretare la legge e il canone alla comunità dei credenti, di tutti coloro che devono esserne gli autori”.284 L‟aspetto veramente innovativo, come sottolinea il Ritter delle teorie della devotiomoderna non risiedette tanto nei contenuti polemici,
282 Ivi, pag. 282. 283 Ivi, pag. 283. 284 Ibidem.
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quanto dal loro trasferimento in ambito teologico.285 La ratio viene inserita come criterio di validità nei praecepta e nella nuova concezione del factum subjectionis, che ora viene inteso come rapporto fiduciario cum praelato che può sciogliersi in relazione alla libertà stessa di deliberazione. “La deliberatio soppesa le ragioni e le conseguenze [del rapporto pattizio] e ogni dovere che si contrae vale solo finché ne risulta un valore”.286 Il “bonum” che “expectat ex observato” vincola l‟obbligazione. Il “valore”, che è concetto economico trasferito da Lotze in campo spirituale, risiede nel “bene”, ossia nei terini della sua definizione.287 La transizione dal bene religioso a quello mondano si rendeva agevole a seguito della secolarizzazione del suo concetto ideale, concomitante con l‟evoluzione del rapporto di subordinazione dalla organica visione sociale a un rapporto liberamente economico, cioè a contratto di compra-vendita.288 Su questa falsariga, il rapporto socializzato diventa, illuministicamente, relazione politica tra governo e governati che reciprocamente si sorvegliano e stabiliscano regole di convivenza, la cui validità è derivata dal “consensum omnium”, trascrizione razionalisticosecolarizzata del “consensus sapientium”, che fonda eticamente ogni ideologia democratica. A questo esito si perviene attraverso la critica della tradizione istituzionale della Chiesa, la quale opera corrosivamente anche in ambito socio-statuale, a partire dal diritto di opposizione, quale conseguenza più incisivamente eversiva della dottrina della sovranità popolare. In termini religiosi, la resistenza al potere statuale assumeva un carattere spiritualistico relativo alla dottrina cristiana, ma politicamente essa, elevando a valore universale i consilia evangelica, conduceva all‟anarchismo e alla critica radicale della società, facendo assumere ai suoi propugnatori una sfumatura oggettivamente rivoluzionaria e consapevolmente democratica. Soltanto la diffidenza teologica verso la sanità razionale (o recta ratio)
285 Ivi, pag. 285. 286 Ivi, pag. 286. 287 Per Aristotile il Bene aveva gli stessi significati di Essere: Etica nicomachea, 1096, a, 23. 288 Ivi, pag. 286.
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delle masse raffrena gli empiti democraticistici di questi mistici e razionalisti, impedendo che il loro giusnaturalismo trabordi in svalutazione dell‟ordine mondano e di ogni autorità politica. Lo sforzo, già presente in Lutero, era di mantenere il diritto di resistenza attiva in ambito evangelico, lasciando alla sola volontà di Dio il ruolo di giudice censore. Ma questa remora fideistica si mostrò labile per il razionalista emancipato; e se Lutero, da uomo religioso indifferente di fronte alle vicende del mondo, giustificava l‟atteggiamento passivo del popolo al cospetto della tragedia del Golgota in nome di una giustizia ideale, già Wessel ne faceva una colpa, sulla scorta di Agostino,289 superando le posizioni di acquiescenza, sia pure critica, della religiosità pura, che né accetta né combatte le situazioni di fatto. Infatti,
quanto più intensità mistica si affievoliva, tanto più spontaneamente si facevano avanti motivi giusnaturalistici a fondare e a contrapporre alla Roma storica l‟idea della communio sanctorum e della Chiesa invisibile, intese in certo modo individualisticamente.290
11. Il sentimento del declino di un‟epoca o di una società non è un‟affezione soggettiva di un‟anima intransigente legata a una sua particolare o singolare visione del mondo, ma è il risultato di un giudizio sul tempo presente in riferimento al tempo possibile. Soltanto chi predilige il presente, trovandovisi a suo agio da anima integrata alle sue necessità, può negligere la comparazione di esso con il tempo possibile (passato o futuro che sia), negandosi la possibilità di vivere in maniera più conforme a un ideale di vita migliore di quella attuale. Ed “ideale” proprio perché migliore di quella presentemente vissuta e “reale”. Tale sentimento sopravviene quando si prende coscienza che le strutture della vita sociale, ossia le istituzioni storiche preposte alla convivenza, non riescono a esprimere funzionalmente gli scopi per i quali erano state costituite, reprimendo non solo le energie eversive dell‟ordine stabilito, ma soprattutto ogni anelito vivificante lo spirito
289 Ivi, pag. 288, n. 350. 290 Ivi, pag. 290.
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della migliore convivenza possibile, costringendo gli animi a un adattamento al peggio che ai migliori e più sensibili appare intollerabile. Parlando di istituzioni, si parla nel contempo non solo di meccanismi tecnici di regolamentazione della convivenza, ma anche di apparati burocratici e di strutture sociali che quei meccanismi producono in senso attivo e passivo, cioè come custodi e come prodotti. Questi apparati sono naturaliter conservatori dello status quo, e rappresentano le forze sociali meno sensibili e meno disposte al cambiamento di una condizione che identificano con la propria, e quindi come la migliore. In tal senso essi vi costruiscono una legittimazione morale che presentano nei termini di un valore ideologico. Tale “valore”, originariamente, era fondativo della stessa socialità, e accettato come universale, cioè conforme alle esigenze dell‟intera società storica. Solo in seguito alla perdita di tale universalità, ristretta per così dire alle sole classi dominanti, quel valore diventa particolare, e perciò ideologico. Sentimento del declino e critica dell‟ideologia dominante sono congiunti. Lo spirito delle leggi, cioè delle istituzioni storiche, è, in quanto “spirito”, fuori di esse, fuori cioè del regno della politica, e di ambito morale. Sono i valori che animano le istituzioni, le quali, venendo meno i primi, si riducono a meccanismi di potere, a tecnica di controllo sociale. Pertanto, la riduzione dei valori morali a ideologia e della forza istituzionale in tecnica burocratica sono fenomeni paralleli e logicamente connessi. Se per “religione” s‟intende, in senso lato, il collante morale di una società, ogni crisi di decadenza riguarda sempre il rapporto tra valori e forze sociali, ed è quindi questione religiosa. L‟idea che la religione perciò sia mero strumento di governo confonde il valore come forza morale di unione con la sua vigente effettualità, che è il deposito proprio del “regnum”. Come non esisterebbe socialmente (e non in interiore homine) la presenza del valore morale senza la sua incidenza istituzionale, così non potrebbe giustificarsi una tecnica di governo senza la considerazione della sua legittimità morale, cioè del suo “principio”, che coincide anche col suo “fine”. Il senso ideale di un governo è sempre trascendente la sua forza reale, e perciò religioso. In questa prospettiva, l‟ipotesi della politica come fine in sé, assoluto da ogni legame teleologico, attesta solo la crisi dei valori religiosi che si
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proietta conseguentemente nell‟ambito della convivenza sociale, entro il quale la stessa politica, nell‟apoteosi della sua effettualità, è priva di senso, e perciò incapace di un qualunque reggimento durevole dello Stato. Pertanto, la assolutezza della politica e la crisi religiosa tardomedievale e la teoria machiavelliana della politica come tecnica di potere sono strettamente consequenziali e l‟idea che “gli Stati non si governino coi paternostri” registra appunto la crisi ideale di un‟epoca che, perdendo la legittimità della forza, crede superstiziosamente nell‟idolo del potere, che da strumento servile ai fini dell‟uomo diventa fine in sé stesso, ossia l‟opposto ideale di ciò che razionalmente dovrebbe. Lo strumento razionale che diventa tecnica disponibile a indeterminate fruizioni, ossia a fini diversi da quello originario, segna l‟oggettivazione e la congiunta presa di coscienza di una rappresentazione del mondo vissuta e poi ritualizzata. Questa coscienza ritualizzata in tecnica neutra, prelude, per un verso alla razionalizzazione del piano di coscienza mitico, ossia a quel processo di intellettualizzazione dell‟esperienza fideistica innescata dal filosofare, e per l‟altro alla formalizzazione ludica della rappresentazione mimica, ossia all‟estetizzazione artistica di un vissuto esistenziale. Ciò che vale idealmente per la società, quale unità di un processo molteplice, vale anche per la Storia, intesa come movimento unitario dell‟esperienza dell‟umanità. In ambito storico generale, come Storia umana, il valore che possa darle un senso idealmente unitario e complessivo, al di là della molteplice fenomenologia delle esperienze particolari, è dunque trascendente la stessa storicità vissuta, e perciò divina, in quanto legata a una dimensione meta-temporale priva di divenire, eterna. L‟incidenza del divino nella Storia diventa la condizione della sua stessa significatività unitaria, senza la quale essa si decompone in molteplicità realtà di fatto, ognuna delle quali risponde solo al suo intimo senso d‟essere finito. La visione idealistica dell‟Essere, liberta dall‟originario naturalismo greco, diventa la tecnica teoretica dell‟universalismo teologico cristiano, la cui rappresentazione rituale ricupera il culto religioso in una chiave simbolica meta-sociale, a favore di una soggettività meta-empirica che sublima l‟appartenenza fisica dell‟uomo al contesto naturale e lo destina a una comunità mistica trascendente, ignota alla sociologia classica. Nell‟opposizione metafisica alla fatticità della realtà mondana, si ritrova una dimensione
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dell‟altrove che non è abitato da impulsi alienanti auto-distruttivi e anomici, ma da una prospettiva utopica di tipo soteriologico in cui si innestano le speranze messianiche dell‟escatologia religiosa., secolarizzabili in empito rivoluzionario palingenetico.
La più rigorosa condanna di una data situazione può anche essere dettata da un ideale che si vive forse solo in forma negativa, ma che, con le sue esigenze, sta sullo sfondo della diagnosi e, il più delle volte, è anche già pronto a condurre il rinnovamento. In questo caso, il barometro della critica del tempo non annuncia la decadenza, ma un nuovo slancio.291
Un giudizio simile l‟espresse Berdjaev sul Medioevo come età di incubazione della fioritura spirituale rinascimentale, ma il senso più profondo dell‟ “ideale negativo” a cui si fa riferimento qui va rintracciato, a proposito del Cristianesimo, nel rapporto stesso che la fede ha con la Storia. Rapporto che è incentrato proprio su un evento “negativo” centrale per il suo significato generale, quale la morte di Gesù. L‟evento mortale racchiude tutta intera la prospettiva escatologica entro la positività della Storia. E‟ la morte, quale evento “negativo” unico, a dare senso agli eventi positivi storici, ai molteplici fenomeni temporali. L‟evento unico della Morte si dispone nell‟orizzonte di senso della fede cristiana, come lo stesso Essere che opponendosi alla molteplicità degli eventi storici li tra svaluta di un senso negativo, momenti di un non-Essere che solo grazie ad esso diventano i momenti distinti di un processo ideale unitario, quello della Storia, che è l‟unico orizzonte di senso in cui i fenomeni possono inscriversi per averne uno. La morte, come “ideale negativo”, rende il senso unitario altrimenti assente dell‟intera vicenda storica dell‟uomo. Necessariamente l‟ideale della fede è vissuta “in forma negativa”, come attesa parusistica del compimento del senso di ciò che appare. In tal senso, la “critica del tempo” annuncia un “nuovo slancio” spirituale, fuori del tempo. Il periodo di più intensa coscienza della decadenza dei tempi è il secolo che va dal 1430 al 1530, e di cui Lutero è il maggiore interprete religioso, in quanto
291 Ivi, pag. 295.
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il punto di partenza, per lui, non è la considerazione della situazione storica, bensì la tensione religiosa, l‟attesa del ritorno di Dio. La riforma assoluta, che è la grande e vittoriosa speranza del suo spirito, si può compiere solo attraverso l‟ingresso dell‟al di là nella storia.292
La sua ermeneutica della Storia è in funzione di tale attesa apocalittica, in relazione alla quale lui interpreta la realtà storica, con un capovolgimento di segno che parte appunto dall‟attesa (che perciò riguarda una realtà futura) per decifrare gli eventi reali (presenti). E‟ il non-essere (attuale) della speranza escatologica a costituire il fondamento epistemico di ciò che appare nella realtà degli eventi storici. Non è dunque l‟Essere come realtà fenomenica a decidere del senso della Storia, ma, all‟opposto, è il non-Essere come attesa di fede a fungere da paradigma assiologico della vita, ponendo al centro del senso l‟inattualità, sia come vento eterno (chairòs) che come speranza futura (parousìa). Lutero intuisce che “ciò che di contrario a Dio presenta questa epoca sta nel fatto appunto che l‟Anticristo diffonde indifferenza, tiepidezza, pace e sicurezza, e toglie ai cristiani la benedizione della lotta”.293 Non dunque la lotta interna alla Chiesa, le guerre civili e i contrasti politici sono i segni del Maligno, ma “l‟attesa angosciosa che spinge alla pazzia non solo i singoli, ma la moltitudine, o che li distrugge con una permanente e divorante tristezza”,294 che è stato d‟animo contrario alla speranza dell‟ultimo giorno e alla stessa redenzione pasquale. “Il fervore religioso solleva l‟escatologia di Lutero dall‟alternativa di ottimismo e pessimismo”, poiché egli “non pensa in senso terreno ad una crescita o ad una caduta storiche, ma solo il contrasto tra l‟essere assoluto e quello provvisorio”. Il protestantesimo misurava il progresso umano non sui dati di uno sviluppo storico, ma sul sentimento religioso, vedendo perciò
la sua epoca come il tempo della rivelazione e del rinnovamento inauditi, e questo con un‟enfasi che è inferiore alla gioia umanistica della scoperta e della rinascita solo per il fatto di restare relativa e di riservare il risplendere
292 Ivi, pag. 295. 293 Ivi, pag. 296. 294 Ibidem.
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definitivo della verità ad un imminente miracolo di Dio.295 Nella prospettiva del giudizio sub specie aeterni, Lutero “parla con disprezzo di quei preti che possono a tal punto abbassare l‟assoluto da credere che, con la Riforma, e con la guerra dei contadini, la catastrofe profetizzata sia già superata”.296 Ma le voci d‟entusiasmo per i tempi presenti, e la critica del sentimento pessimistico, considerato come “follia”, provengono da chi si poneva in una prospettiva apocalittica, ossia dai gioachimiti e dai visionari in genere che “vivono ormai per intero nel mondo rinnovato, destinato a sorgere dalle ceneri di quello presente”.297 Per gli altri credenti, costituiva invece un “delittuoso consenso” tale disposizione favorevole al “rinnovamento” del mondo, anziché al suo inabissamento. Nondimeno, tutte le
diagnosi positive, l‟umanistica, la protestante, la chiliastica, l‟utopica e la restauratrice, sono inscritte in una precedente ipotesi di decadenza, che ammette di venire modificata, ma non ammette in alcun modo di venir negata. L‟idea che fornisce lo sfondo teorico di tutte le reazioni di fronte alla storia del tempo e come la veduta panoramica della storia universale, non è altro che la imperante metafisica della storia, l‟idea della graduale continua degenerazione della Chiesa, [il cui] principio è stato volgarizzato dall‟umanesimo298
e poi travisato, ma che risale già all‟alto Medioevo, quando viene fissato lo schema del corso universale della Storia, che vede apogeo e decadenza cristiani in parallela similitudine alle vicende dell‟Impero romano, e che verrà quindi ripreso dagli scrittori ecclesiastici del XV secolo e fino al cattolicesimo tridentino del secolo successivo. Opposto a questo schema di decadenza della triplex discessio è la periodizzazione tripartita di matrice spiritualistica e luterana, orientata a
rappresentare la pacificazione della Chiesa di Cristo e gli effetti soporifici della pace come il più grande processo di decadimento della ecclesia. Nei tre periodi che scandiscono questo corso, il ritmo decrescente è indicato fin
295 Ivi, pag. 297. 296 Ivi, pag. 296. 297 Ivi, pag. 297. 298 Ivi, pag. 299.
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dall‟inizio come una legge essenziale. Non si tratta del funesto infrangersi di avvii pieni di speranza, né di una specie di rovina evitabile, ma di un accadere parziale delle “ultime cose”.299
Ciò che in ogni caso rileva è che “esse appartengono tutte ad uno stesso sistema di filosofia della storia, che si presenta con pretese pressoché assiomatiche”, in cui il presupposto di una “legge escatologica di degenerazione” priva di importanza le considerazioni soggettive di pessimismo circa il secolo, malato della stessa vecchiaia del mondo,300 un tòpos della filosofia cristiana della storia che risale ad Agostino e fu ripreso da Gregorio Magno e quindi da Gioacchino. L‟inevitabile declino delle cose terrene, non riguarda il cielo, la cui provvidenza è ben più efficace di quella umana, riguardando l‟eternità. Contro la decadenza si prospetta la soluzione escatologica, che assume inevitabili tratti polemici.301 Propria del tempo incapace di grande pensiero è la tendenza a mescolare “il grande ed il piccolo, senza senso delle dimensioni”, fondando metafisica e didattica,302 rassegnazione al male e predicazione morale, in cui si offre la “immagine sociologica di una situazione di malattia”303 che ha smarrito “ciò che si conviene”, secondo un concetto morale non ecclesiastico ma cortese. La critica sociale, di espressione medievale intessuta di idee convenzionali, ha carattere romantico, dove “la barbarie del presente viene descritta, da un punto di vista cortese-cavalleresco, in un modo che è immediatamente affine alla tesi umanistica della degenerazione e che conduce ad essa”.304 La critica ecclesiale del luteranesimo poggiava sul fondamento di un ottimismo antropologico che inclinava verso una fiducia per le masse, ritenute capaci a costituire una comunità di fede più autentica di quella ecclesiastica istituzionale. Questo ottimismo
299 Ivi, pag. 300. 300 Ibidem. 301 Ivi, pag. 301. 302 Ivi, pag. 302. 303 Ivi, pag. 303. 304 Ibidem.
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rientra tra le più profonde sorgenti di energia della personalità luterana [e] –malgrado la dottrina del peccato originale e la politicizzazione del cristianesimo di Stato – è rimasto un elemento centrale del protestantesimo luterano [che] ancora in Hegel, lotta col senso tragico che del mondo ha il filosofo della storia; in questo conflitto si deve forse vedere la chiave per la sua essenza.305
Sul piano politico, invece, il luteranesimo è conservatore, volendo “tenere a freno l‟innata malvagità dei sudditi mediante una rigorosa disciplina”,306 e questa visione è la stessa di Franck, che pensa il mondo come il luogo della storia della malvagità umana. La storia infatti per Franck
contiene certi leggi di costituzione e di svolgimento in base alle quali è dato pensare, da un punto di vista della filosofia della stria, ad un‟oscura immagine complessiva. Il cammino storico dell‟umanità appare come un dramma assurdo nel quale, con una sempre rinnovata ripartizione dei ruoli, si ripete la scena della crocifissione [in cui] gli attori, per una illusione grottesca, santificano le vittime della rappresentazione precedente, nell‟istante stesso in cui rappresentano la stessa scena di atrocità attuando, per nuovi sconosciuti motivi, lo stesso martirio. Ogni nuova generazione crede di essersi sollevata al di sopra dell‟accecamento dei padri, ma contemporaneamente colma, con gli stessi terribili delitti, “lamisura del mondo precedente”.
Questa ciclicità antropologica è precedente e persistente la venuta di Gesù, “perciò il mondo di continuo crocifigge e dilania l‟agnello che dall‟inizio fu ucciso in Abele”,307 facendo della Storia “l‟infinito Golgota dello spirito”,308 l‟infinito catalogo delle nefandezze umane. Storicismo e pessimismo sono congiunti.
Franck disprezza l‟uomo perché ha visto in fondo la mancanza di valore della sua stria, e scrive storia per ritrarre l‟homo vulgaris, per contrapporlo all‟uomo eletto, veramente libero, sereno, della rinascita, [cercando però sempre di] attenersi a una generale concezione storica e non rinunciando a priori ad una unità di senso, isolando singole infamie come prove della corruzione
305 Ivi, pag. 320. 306 Ibidem. 307 Ivi, pag. 321. 308 Ivi, pag. 322.
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dell‟uomo naturale.309
Il dramma storico della lotta tra le “duae civitates” agostiniane, che raccoglievano e contrapponevano “duo genera humanae societatis”, viene ripreso in Franck in chiave più sociologica che metafisica, dove il piano storico si incontra con quello spiritualistico, ma senza il profilo pedagogico assegnato da Agostino alla storia dell‟umanità, e una sostanziale diffidenza verso la cultura che si converte in “un monotono lamento”, che “non sta solo nell‟essenziale della storia, in questa lotta a morte contro il sacro, ma è in ogni pensare e agire, nell‟insieme della produzione politico-culturale”.310 D‟altro canto, la idea dell‟eterno ritorno risale ad Aristotile. Ma l‟aspetto saliente della filosofia della storia di Franck è che la decadenza abbia un decorso progressivo in senso negativo, ossia procede dal meglio delle origini religiose al peggio della cultura attuale. Non è la cultura, dunque, il luogo del progresso storico, ma nella vera religione, quella cristiana. La sua teoria della storia non ha carattere solo spiritualistico-religioso o escatologico, ma anche organico, e improntato a un fondamentale pessimismo, per cui “la costituzione originaria dell‟umanità decaduta, nello sviluppo della storia, può solo ampliarsi, così come le cattive disposizioni dell‟individuo non recedono con l‟età, ma solo „divengono più cattive‟ ”.311 Proprio per questo la conoscenza della storia è un “vivum exemplar” del carattere stereotipo delle vicende umane, n cui l‟intelligenza pratica di ciò che è stata ed è la vita si unisce all‟esemplarità della saggezza divina attraverso la condotta degli uomini, da cui traspare “l‟opera miracolosa di Dio”. Il senso di questo “miracolo” è dunque riposto nelle “decisioni etiche”, quelle che hanno autentico valore educativo, manifestando il “potere” di Dio “col quale abbatte i boriosi e innalza gli umili, rovescia i potenti e fornisce cibo agli affamati”.312 Chi è a conoscenza delle leggi della Storia, ha il compito di divulgarle a favore
309 Ibidem. 310 Ivi, pag. 323. 311 Ivi, pagg. 325-326. 312 Ivi, pag. 323.
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di coloro che sono privi di esperienza della vita. La teodicea storica di Franck è l‟opposto del pragmatismo eroicomoralistico degli storici umanisti, “per i quali l‟esempio spaventoso dei pravi è appunto il rovescio del modello morale dei boni viri, degli eroi della storia, la cui azioni, virtù e titoli di gloria sono nella storia come oggetto di emulazione”. Al contrario, in Franck l‟umanesimo si concentra sull‟ “esito felice di coloro che sono stati tormentati” e sulla “fine triste di tutti gli orgogliosi”.313 La tragedia storica e il pessimismo antropologico sono i due elementi complementari di una visione teologica della lotta tra i bene e il male in cui il soggettivismo mistico rifiuta in nome del suo estremo spiritualismo ogni glorificazione del mondo naturale. la “frattura” metafisico-religiosa della teoria della storia di Franck non è altro che l‟emersione della coscienza cristiana tardo-medievale delle due anime della sintesi cattolica tra il naturalismo greco e il suo principio d‟ordine rispettoso delle tradizionali virtù cardinali formulate per primo da Pitagora (coraggio, temperanza, giustizia e saggezza) e pervenute ai cristiania attraverso l‟etica stoica e al Medioevo attraverso la riscoperta di Platone e di Aristotile e lo spiritualismo ebraico, con la sua concezione creazionistica e l‟umanesimo coscienziali stico cristiano. Ognuna di queste tendenze originarie, tra svalutate dalla tradizione cristiana, riemerge in età di dissoluzione teologico-filosofica come spinta spiritualmente eversiva dell‟ordine cosmologico-religioso, avanzando le sue pretese teoretiche e morali. L‟effetto è duplice e inevitabilmente contraddittorio. Da un lato, infatti, scaturisce la esigenza di stigmatizzare lo scenario instabile e apparentemente assurdo delle vicende storiche dell‟uomo, votato, nonostante ogni sforzo generoso o vile, a uno scacco finale; dall‟altro, si fa notare a titolo pedagogico l‟intervento divino nella Storia come rimedio esemplare di ogni stortura e stoltezza umane e volontà provvidenziale che impedisce il trionfo dell‟ingiustizia, scongiurando una deriva grottesca al dramma storico. Così, l‟uomo si presenta come “larva” di Dio, attraverso la quale Egli governa il mondo e dietro cui “si nasconde la sua attiva onnipotenza”.314
313 Ivi, pag. 328. 314 Ivi, pag. 330.
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Il dramma esistenziale, da scenario insensato della volontà divina, viene poi rappresentato come pensiero autonomo, nn più rapportato a Dio, nei termini di “una mascherata, che il primo giorno di quaresima avrà l‟aria di un brutto sogno”. Ciò che tiene unita la “tensione fra teodicea storica e pessimismo della storia” è esattamente questa immagine simbolica del dramma umano, che, nella sua autonoma rappresentazione storicistica, “rispecchia l‟eliminazione dell‟elemento teologico dall‟involucro della storia”.315 Una storia intrisa di caos e di insensatezza, dove domina la relatività di ogni opera umana rispetto ai valori eterni dell‟altro mondo. Riappare in ogni caso la dicotomia tra valori finiti ed eternità, che dà adito al soggettivismo spiritualistico di affermare che “in fondo, tutto l‟essenziale può compiersi attraverso l‟anima individuale”, microcosmo elementare nel macrocosmo universale.316 La perdita di oggettività viene compensata con la soggettività, per cui “l‟uomo deve imparare a vedere se stesso nel tutto”,317 e viceversa. Fin quando la fede assegnava al “tutto” un inizio divino e una fine escatologica, restava all‟uomo il compito ricognitivo di “ascoltare” il “progetto di Dio”; ma quando la fede nn supportò più la soggettività, questa acquisì valore indipendente, al pari di quanto avvenne con la Storia nei confronti della teodicea. Da quel momento la “ratio” divenne legge a sé, non più strumentale alla “fides”, la quale venne intesa non più come ragione delle cose ma superfetazione mitica. Fede e Storia prendono a declinarsi secondo paradigmi diversi, tali che il processo della coscienza soggettiva sia un percorso alternativo a quello sociale e collettivo. Da qui il legame tra misticismo e filosofia spiritualistica come altro modo di conoscenza dell‟esperienza umana rispetto ai processi storico-sociali. “Si danno così tre metodi della conoscenza di Dio: la via evangelica, la via historica e la via mystica”, che “qua e là si intersecano”.318 Il punto di rottura è il discrimine tra spiritualismo mistico e storicismo, l‟uno volto alla “comprensione degli insegnamenti di Dio”, l‟altro a “un atteggiamento naturale di curiosità”
315 Ibidem. 316 Ivi, pag. 331. 317 Ibidem. 318 Ivi, pag. 332.
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per gli avvenimenti mondani; il primo immediato e diretto, l‟altro mediato e passivo. Il rapporto Soggetto-Dio è sorretto dalla fede nel Dio provvidente e creatore del mondo. Senza fede nel mondo come mistero per l‟uomo, il rapporto si introietta come ricerca del Soggetto, di sé e del mondo che vi abita. In questa dimensione il misticismo prende il sopravvento, e la fede diventa, al di là di ogni professione, solo il pretesto per un esame autarchico dell‟Io. Questo è comprovato dal fatto che “il segno” di questa “cultura tarda” vada rinvenuto nella mancanza di “punti di appoggio” della sua “visione del mondo”,319 siano di tipo ecclesiale o scritturale, mistico o naturalistico. Lo stesso appello storicistico di Framck ripiega su un intimismo mistico privo di un supporto metafisico di tipo cosmologico, che lo renda comprensibile e comunicabile.320 La sua teoria storica della decadenza si impernia sull‟ostacolo rappresentato per l‟uomo dal Male, inteso come mancanza del Bene, riservato ai soli iniziati o predestinati spiritualisti. Di fronte ad esso, è saggio affidarsi alla Provvidenza, rimettendo ad essa la lotta altrimenti inane e lasciando il mondo al suo corso, poiché “partecipare alla mischia significherebbe rinunciare alla distanza che sola assicura la visione e l‟ampiezza dello sguardo”.321 Era un “modo di aggravare il suo pessimismo, non di superarlo, così come la tua teodicea teistica ha solo aperto una frattura nella sua filosofia della storia, non l‟ha portata ad un piano più alto”.322 La colpa del mondo, “maligno e inquieto”, che lo avvilisce e tormenta, segnandone la fine, è quella di aver “distolto le orecchie dalla verità”, imboccando una “strada sbagliata”.323 Questo “tradimento della verità” è quello che Lutero sintetizza nel termine “epicureismo”, a metà tra l‟eresia e l‟indifferenza religiosa. Con esso si vuole indicare la tendenza a emanciparsi dal terreno religioso abbandonando la tensione provocata dalla coscienza del “paradosso dell‟essere”, della sua insuperabile antinomicità, che si riflette nella polarità del divino con l‟umano.
319 Ivi, pag. 333. 320 Ibidem. 321 Ivi, pag. 336. 322 Ivi, pag. 337. 323 Ivi, pag. 338.
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Fin dalla sua origine, ogni rapporto con l‟assoluto ha in sé un momento ideologico che, pensato fino in fondo lungo la propria linea, deve condurre al superamento del carattere di rapporto, poiché uno degli elementi, almeno tendenzialmente, trapassa nell‟altro e la tensione corre, come al suo fine, ad un assoluto stato di quiete.324
Ma proprio l‟indicazione divina riportata da Luca, per cui “oportet semper orare”, segnala all‟uomo che
Lo stato finale fisso non sarà mai raggiunto, ma è destinato a permanere sempre il rapporto di tensione tra miseria e aspirazione, tra sordes imperfectionis e orare, tra uomo e Dio che è posto nella idea religiosa di preghiera, [talché] l‟opposizione, creatrice di vita, è essa stessa il valore supremo e non deve essere cancellata in una unisona armonia.325
Dala intuizione areopagitica del mondo quale “coincidentia oppositorum” parte la riflessione di Cusano e la critica al “pensiero lineare” dominato dal “principium contradictionis et rationis sufficientis”, col quale “non si abbracciano le opposizioni del mondo”.326 La soluzione mistica rappresenta il modo religioso di superare le contraddizioni metafisiche di affermazione e negazione, facendo del paradosso stesso una cifra metafisica per il “passaggio alla sfera transrazionale, dove l‟incomprehensibiliter è nel suo diritto”.327 In Cusano l‟idea della coincidenza “non è più un dato dell‟intuizione immediata, ma della pura ragione”, secondo una “metafisica platonizzante” che si differenzia dalla modalità propriamente mistica, e dove
Dio significa la coincidenza degli opposti solo nel senso che nell‟assoluto sono contenuti il massimo e il minimo, il misurabile viene trasceso e l‟in sé infinito viene contrapposto alla alteritas finita. In questo contesto la coincidentia serve solo ad una determinazione formale del carattere di infinità
324 Ivi, pagg. 340-341. 325 Ivi, pag. 341. 326 Ibidem. 327 Ibidem.
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della sostanza, non al superamento delle opposizioni reali. Con ciò il rapporto di finitezza e infinità torna ad essere duale e le posizioni teistiche non sono messe in pericolo.328
La tendenza razionalistica era di trasformare la antinomia metafisica in una antitesi logica, nel segno filosofico (Cusano), ovvero teologico (Franck): da una parte Dio e lo spirito, dall‟altra l‟uomo e la carne, “perciò duplice è la pietà, saggezza, natura, ragione, arte, scienza, fede, amore, ricchezza, religione, giudizio, quiete, preghiera, ed ogni cosa in base a cui l‟uomo considera e giudica”. Ciò comporta che niente è assoluto, ma giusto e ingiusto, vero e falso, sono relativi “a seconda di come si vede e si giudica”.329 E‟ – apparentemente - un ritorno alla sofistica e il ripudio della dialettica platonica e la sua pretesa scientifica di fondare e comunicare la verità. In realtà, la contestualità del giudizio non implica necessariamente la relatività del valore, ma solo la sua relazione con il contesto normativo referenziale. Entro un universo di senso univoco, l‟opinione coincide con la stessa verità, la quale è asserita non in virtù della sua distinzione dall‟opinione ma appunto della sua coincidenza. E‟ la dialetticità dell‟Essere che consente la distinzione, per cui la verità, intesa come decisione di senso, deve presupporre un senso simbolico dal quale scaturisce la decisione distinguente. Non si tratta di confondere sofisticamente l‟utile col vero, ma di considerare la loro simultanea esistenza, sicché ogni dialettica deve ammettere la sua fonte simbolica. Proprio l‟ammissione della possibilità che la verità sia una realtà assoluta, di fronte a una alteritas negativa e nel contempo reale, presumeva la contraddizione dell‟Essere, che però veniva oggettivata astrattamente e considerata in sé come realtà fenomenica o ideale distinta. La distinzione, che è operazione tipica della logica formale e definitoria, opera astraendo dall‟unità (che non vuol dire univocità, ma unità simbolica) dell‟Essere gli opposti considerandoli appunto distinti, ovvero realmente altri. La “distinzione” del giudizio logico-definitorio consiste nell‟astrazione dal Tutto di elementi “opposti” dialetticamente e considerati realmente “distinti”. La operazione teoretica di attribuire
328 Ivi, pagg. 242-243. 329 Ivi, pag. 343.
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realtà oggettiva a un‟astrazione formale è quella stessa di trasferire nella realtà finita un‟essenza infinita o ideale attraverso un processo o rito di partecipazione (metessi). Questo “passaggio”, idealizzando il finito, lo rende partecipe dell‟assoluto, indicato come Idea, Spirito o Dio. La realtà spiritualizzata diventa così parte di un Tutto: parte finita e caduca di un Tutto infinito ed eterno. Ed è così che sorge la dicotomia tra spirito e materia, e la stessa convergenza nel sinolo fenomenico, cioè il suo superamento reale. Chi garantisce il “passaggio”, detiene il potere della realtà eterna sul mondo finito della realtà terrena. La ricerca del Potere costituisce il contenuto dell‟attività di governo del mondo. Governare, nella logica dialettica, è decidere. Ma la decisione non è l‟atto della distinzione logica, bensì l‟atto di fondazione ontologica, che la scelta di ragione deve confermare. La scelta razionale è confermativa della decisione ontologica, ma non è creativa di senso ontologico originario. L‟indebita estensione al giudizio logico della fondazione ontologica di senso è l‟attività propria di una ragione emancipata dal suo fondamento ontologico-sacrale, la quale si pone astrattamente fuori della possibilità di scelta, costituendosi come scelta compiuta definitiva. E così l‟Essere di ragione diventa scelta razionale, decisione d‟essere in base alla scelta logica, rovesciando l‟ordine originario della fondazione ontologica, che la logica doveva semplicemente confermare. In tal senso, la ratio emancipata dalla sua fides ontologica tende inevitabilmente, cioè necessariamente, al suo opposto, ossia alla irrazionalità di scelte contraddittorie rispetto ai suoi scopi d‟ordine, e anziché al cosmos tende al caos, a una realtà priva di razionalità, cioè di distinzione. Quest‟ordine caotico non è quello “sacro” degli dèi cari a Eutifrone e celebrato da Eraclito, dove “tutto è bello, buono e giusto”,330 ma è il regno della volontà, ossia dell‟assoluto atto di fede nella verità della “parte” razionale. Una volontà di credere è una fede senza supporto di ragione, in cui la scelta diventa arbitrio, cioè una certezza che annega nel relativismo, ossia nell‟incertezza religiosa, che è l‟opposto della fede liberatrice dal dubbio ontologico. Il “tutto” della decisione logica è in realtà la parte senza alterità, un Essere privo di possibilità simbolica e quindi senza
330 Eraclito, fr. B 102.
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distinzione e opposizione. Tale “tutto”, essendo in realtà la parte logica dell‟Essere assurta a modello ontologico, non può avere le qualità del vero Tutto ricordate da Eraclito, ma soltanto imposture credute vere, ideo-latrie.
Fides sine Ratio = voluntas (fideismo: decisione ontologica); relativismo (arbitrio della coscienza). Ratio sine Fides = idealismo razionalistico (logicismo dialettico); razionalismo tecnico. Fides et Ratio = religio (unità di senso simbolico); libertà di coscienza (laicità).
Un mondo “sacro”, ossia “separato” dal divenire e quindi eterno, deve ammettere una realtà simbolica da cui è possibile distinguersi dall‟elemento profano. La scoperta dell‟alteritas segna l‟inizio della laicità, ossia del riconoscimento del diverso, iniziato col parricidio di Parmenide da parte di Platone. Il relativismo di Franck è l‟esito coerente delle sue premesse coscenzialistiche e fideistiche. Rispetto alla relatività delle verità “opposte” (le astratte verità distinte), la verità appare “paradossale” e trascendente ogni conoscenza relativa. E ciò a conseguenza della credenza che la conoscenza formale sia conoscenza vera e non, com‟è in realtà, conoscenza astratta, relativa alla sola opposizione trascelta come forma vera di realtà. Legittimando la relatività del principio di realtà,
sorge una concezione che attribuisce di fatto una relativa giustificazione anche alle forme esterne dello spirito, a tutte le variazioni nella vita politica e religiosa, poiché si tratta dell‟immagine di un infinito, ne sono il negativo, è vero, ma questo negativo è legato al positivo mediante l‟opposizione.331
Tale opposizione, indicata nell‟ “oggetto” reale-fenomenico, cioè nell‟ente, anziché nell‟Essere ideale-trascendente, resta fissata in una antiteticità insopprimibile se non per negazione e assimilazione, per cui
gli opposita non ruotano più intorno ad una stella invisibile, ma presentano un
331 Ivi, pag. 344.
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orientamento dualistico fisso: “Deus mundi antithesis”. Spirito e carne, interno ed esterno, verità ed apparenza, Dio e mondo sono ora grandezze fisse inconciliabili. Continuano a chiamarsi paradossi, poiché stanno sempre in un rapporto reciproco, ma che ora è quello di ostilità. Ed il paradosso sta ora nel fatto che i contrari sono posti nella loro alterità, non più nel fatto di presagire ciò che di comune sta dietro di loro. Ne nasce l‟immagine del mondo di Franck quasi polemica, che già abbiamo trovato espressa nella sua idea di eretico e nella sua filosofia della storia, nel leitmotiv di temere e di credere in tutte le cose “l‟immagine contraria”.332
L‟alterità, fissa nella sua astrazione, non è superabile se non per sincretismo ideale (relativismo) o per pratica tolleranza, ovvero per riprovazione “polemica”. L‟incapacità di pensare dialetticamente l‟Essere spinge a superare il dualismo razionalistico nel misticismo spiritualistico, ossia le contraddizioni del mondo nell‟ascesi e nella fuga dal mondo. Da qui la sfiducia nelle capacità cognitive dell‟uomo, e il loro declassamento teoretico a “opinioni” senza fondamento. Il “para-dosso” della pluridimensionalità del pensiero, se da un lato spinge verso l‟universale tolleranza propria dell‟atteggiamento razionalistico, dall‟altra suscita la libertà ermeneutica di comprensione delle Scritture, e cioè il relativismo gnoseologico. Entrambi appaiono atteggiamenti di superiore comprensione dell‟unilateralità delle conoscenze ingenue della realtà, proprie delle visioni assolutistiche e non antinomiche del mondo. Atteggiamento di tolleranza che portava a sminuire le posizioni radicali ed estremistiche, come quelle di Gioacchino da Fiore, di Thomas Muenzer o dei battisti.
[Al Franck] in tali certezze gli pare trascurata l‟essenza della religione che è processo non mai compiuto. Così radicalismo e paradosso, visione lineare e visione antitetica del mondo stanno l‟una di fronte all‟altra nello stesso rapporto in cui stanno il razionalismo scolastico e la mistica del Cusano: razionalismo e mistica, soluzione ed enigma, fissità e mobilità, compiutezza ed infinità.333
Questo dualismo metafisico, lacerando l‟unità simbolica dell‟Essere,
332 Ibidem. 333 Ivi, pag. 348.
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suggerisce al razionalismo l‟autonomia dalla morale, ossia l‟autodeterminazione degli scopi della politica come tecnica economica o ricerca dell‟utile. L‟idea machiavelliana dell‟auto-fondazione razionale della politica come tecnica del Potere, universalizzata a prassi erga omnes diventa costume immorali stico e liceità di ogni scopo meramente utilitaristico. Il riverbero pedagogico di tale teoria sofistica è devastante per l‟anima poplare ingenua e abbisognevole di guida; tanto più pericolosa per la convivenza civile e per la stessa civiltà, quanto più sollevata da ogni incombenza giustificativa di tipo razionale. Infatti, la morale utilitaristica e quella eudemonistica si giustificano da sé come istinto naturale di sopravvivenza, assurto a valore oggettivo a fronte della crisi dei valori ideali e religiosi. Il ripensamento di tale sofisma morale è necssario al fine sia della salvezza della morale pubblica che del senso stesso della vita umana. Infatti, l‟idea di un dualismo nn mediabile e irriducibile genera quello che Tolstoj chiamava “lo spirito maligno del conflitto”,334 da cui discende il politicismo razionalistico dell‟età moderna; età diabolica. Lutero era convinto che senza una “salda dottrina”, il mondo sarebbe andato verso un esito “maomettano ed epicureo e non sarebbe rimasto più alcun cristiano”.335 Per epicureismo, il riformatore intende sia l‟anarchia soggettivistica di quanti “credono che libertà cristiana sia che ognuno dica o faccia ciò che gli piace, senza badare che cosa garbi agli altri, o che cosa sia meglio”,336 che l‟indifferenza di “coloro che sono ormai purtroppo quasi del tutto raffreddati nella religione, e non chiedono più per nulla, o molto poco, la parola, la preghiera, i sacramenti e le altre pratiche della fede”.337 Soggettivismo e indifferentismo sono i due lati della stessa medaglia della moderna visione del mondo, che già al tempo di Lutero si prospettavano come le tendenze essenziali del pensiero della dissoluzione cristiana. Tendenze che si intersecavano
in un‟atmosfera disposta al compromesso [in cui] poté svilupparsi quella
334 L. Tolstoj, Anna Karenina. Maligno = diabolico = conflittuale. 335 Cit. in Stadelmann, Il declino del Medioevo, pag. 349 n. 2. 336 Ivi, pagg. 349-350 337 Ivi, pag. 350.
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scepsi moderata, quella distillata religiosità, quella liberalità e senso mistico del generale, che si è abituati ad indicare come erasmiana religione di cultura [la quale] non è stata soltanto il risultato dell‟umanesimo ma, nella stessa misura, il prodotto di una mistica ormai passata, di una rassegnazione pietistica, di un individualismo spiritualistico, di una filosofia razionalistica della religione.338
Il sincretismo, come tendenza anche psicologica a un superiore compromesso pratico di tendenze teoriche inconciliabili, nessuna delle quali poteva rappresentare l‟intero spirito del mondo, nasceva dalle stesse premesse ideali di un sapere che, emancipato dai suoi fondamenti di fede e assegnato alla sola ratio, riteneva insolubile il problema della verità, portando così il discredito sullo stesso strumento razionale, ormai irrelato dalla fede ultra-mondana. Lo stesso movimento ideale di emancipazione dalla fede si registra nei confronti della Chiesa da parte dei credenti riformati, i quali, escludendo la mediazione tra fede e ragione, negano anche la credibilità storicoteologica dell‟istituzione ecclesiale. I due aspetti sono correlati e congiunti nell‟affermare la legittimità di un aut-aut di cui, nel contempo, asseriscono l‟impossibilità esistenziale. Infatti, la stessa fede in Cristo quale “via, verità e vita”, senza un contesto di appartenenza comunitario, restava una via solitaria, una verità intima e una vita personale. Cioè l‟opposto del corpo mistico tradizionale. D‟altronde, le dinamiche sociologiche di una tendenza razionalizzatrice della vita tendevano a risolvere l‟ autaut religioso in una dissociazione empirica tra la canonica pratica votiva e la quotidianità legata ad esigenze del tutto oggettive e impersonali. La visione religiosa del mondo di Lutero fa leva sul dualismo metafisico di cielo e inferno, di spirito e carne, per affermare la necessità inderogabile di una scelta tra la salvezza e la dannazione che costituiva la via di uscita dalla opposizione e dalla stessa soluzione accomodatrice di tipo sincretistico, basata sulla prospettiva del “totalmente altro” propria della rivelazione. In un mondo
materialmente spartito, senza residui, tra bene e male, tra Cristo e Satana […] non è pensabile alcun punto di transito tra il vero e il falso, non è possibile in
338 Ivi, pag. 351.
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rapporto a Dio alcun tendere idealistico [dove sia possibile] per la libertà della volontà […] occupare una posizione superiore neutrale, dalla quale soltanto sarebbe possibile prendere una decisione definitiva per la vita o per la morte.339
La ricerca vocazionale al Bene, che era pratica propria della filosofia antica e pagana, non riusciva a produrre lo “stato di grazia”, ma restava agostinianamente “al di qua della linea di confine tra tenebre e luce”.340 Da qui il giudizio liquidatorio di Lutero per ogni forma di universalismo teistico e di ogni “etica della coscienza”, frutto solo di “sciocca presunzione”.341 Infatti, “solo un prodigioso intervento che viene dalla sfera divina strappa alla rovina l‟anima di per sé perduta”.342 La visione luterana – di origine agostiniana – del peccato originale si oppone a ogni idealistica e razionalistica concezione, propria anche del misticismo medievale, di una originaria e inestinguibile redenzione antropologica che può essere ridestata e ricongiungere l‟animo umano alla totalità divina. Solo la premessa dell‟“insuperabile dualismo DioSatana” poteva dar senso all‟opera stessa della redenzione, altrimenti superflua. Redenzione appunto dallo “status non cristiano e precristiano non redento”343 Dal dualismo originario discende una pietà che rivaluta “la maestà di un Dio personale che non può venir compreso né nel „suo odio eterno per l‟uomo‟, né nel suo amore che salva”,344 restando all‟uomo inaccessibile la libertà che Dio ha riservato a sé e che proibisce ogni domanda, esigendo solo la fede che è fatta di “timore e invocazione”. Il “Deus absconditus” di Lutero non è il Dio infinito della coincidenza assoluta di Cusano, conoscibile solo negativamente o intuito misticamente; non è “l‟assoluto al di sopra degli opposti”, ma la sua trascendenza riguarda “quella parte del suo volere che è insondabile e temibile”, la quale resta ben distinta dalla
339 Ivi, pag. 353. 340 Ibidem. 341 Ibidem. 342 Ivi, pag. 354. 343 Ibidem. 344 Ivi, pag. 355.
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parte oggettiva, “che Dio ha dato a conoscere per mezzo della sua parola”, e che costituisce il contenuto dell‟annuncio di fede del “Deus praedicatus”.345 Se il cattolicesimo, accogliendo la prospettiva evangelizzatrice ed istituzionalistica della Chiesa-nel-mondo, aveva accettato le regole del mondo, anche a costo di subire compromessi a volte indegni, il ritorno al dualismo, alla versione radicale, non considerava il nuovo orizzonte della cristianità come storicamente diverso rispetto a quello dell‟età pre-cristiana, ma ripropone la dicotomia con o contro Dio come immanente a ogni contesto esistenziale. La non curanza della dimensione storica e culturale declina la purezza religiosa come l‟alternativa al mondo peccatore. “Solo di fronte a questa follia di una religione radicale emerge con evidenza il carattere unitario del „filosofismo‟ medievale”,346 che, innestato di arabismo e di mistica teorica, conducono a un “soggettivismo divinizzato”.
Da una sfiducia, tutt‟altro che sempre consapevole, nel sistema oggettivo di un istituto teologico-gerarchico, che tiene nelle sue mani il rapporto col divino, e dal contemporaneo rifiuto di un‟esperienza religiosa immediata, nasce il tentativo di una regolazione teoretica di questi rapporti tra Dio e l‟uomo che, a seconda dei casi, dà un peso maggiore all‟assoluta inconoscibilità della sostanza o alla possibilità del soggetto di accostarsi ad essa.347
Il soggettivismo mistico libera l‟uomo dalla contraddizione del dualismo metafisico, e soprattutto “da quella mancanza di libertà, che è propria del membro della Chiesa o del predestinato”, ma non raggiunge la dimensione esistenziale perché lega la sua condizione di grazia e di rinascita spirituale dalla volontà imperscrutabile di Dio. Mancando questa dipendenza divina del “momento estatico e carismatico della mistica”, essa si risolve in moralismo razionalistico, in religiosità universale, ovvero in “quietismo semplicistico”, oppure ancora nello storicismo, ossia “all‟atteggiamento contemplativo del filosofo della storia, che trova in una storia della fede la giustificazione
345 Ibidem. 346 Ibidem 347 Ivi, pagg. 356-357.
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al suo soggettivismo”.348 Motivi tutti che contengono in nuce la
spiritualità romantica. Affidarsi (o abbandonarsi) alla Storia, oppure rinunciare al compito di costituirsi come “coscienza” del mondo, assumendo su di sé la mediazione tra i due emisferi metafisici, consegue a uno stesso sentimento di impotenza spirituale, nato dalla “distruzione della religione concreta”, ovvero, come ormai è per noi chiaro, dalla dissoluzione del mito cristiano. I processi di tale dissoluzione attraversano e coinvolgono tutta la modernità, le cui tappe ideali sono caratterizzate da movimenti storici di affermazione e di resistenza dei motivi salienti che la determinano nel senso della sua sostanziale autocoscienza, di cui le diverse ideologie socio-politiche rappresentano le relative tappe culturali. Entro tale orizzonte, le scansioni storiche dei vari periodi che, a partire dal tardo Medioevo, giungono sino al Novecento, vanno interpretate come momenti particolari di uno stesso processo ideale, per cui sarebbe riduttiva ogni chiave di lettura autoreferenziale, di tipo sociologico o istituzionali stico o economicistico o politicistico, che mancasse o perdesse il senso essenziale del processo medesimo.
12. Intendendo la coscienza come fonte di legittimazione razionale della volontà umana, e supponendo appunto razionale la sede del giudizio della volontà, ossia della necessità di ragione, dobbiamo distinguere dalla coscienza razionale la coscienza intenzionale, sede della intuizione della verità, ovvero di Dio, e fonte della libertà o Possibilità, che coincide appunto con l'intenzione. La libertà di coscienza, intesa come volizione razionale, concentra nel giudizio di ragione l'intera possibilità dello spirito umano, rimuovendo dall'ambito del giudizio intenzionale ogni istanza intuitiva di verità, confinata nella sfera irrazionale della religione e dell'inconscio, dunque mitica e fantastica. La libertà intesa come volizione, astratta dalla sua Possibilità e considerata come realtà assoluta, presuppone la rimozione della coscienza intuitiva, che è la fonte, appunto intuitiva, della verità e della sua sacralità. Lo sviluppo della personalità morale dell'uomo, cioè
348 Ivi, pag. 357.
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della sua maturità esistenziale, avviene nella coscienza intenzionale, e non in quella razionale, la quale ultima determina le sue rappresentazioni della realtà sulla base di fondamenti ideali astratti dal mondo-della-vita e quindi dal divenire. Proprio perché privi di divenire, le rappresentazioni razionali della coscienza sono inadeguate alla conoscenza della storia umana e alla interpretazione dei fenomeni spirituali. Ciò vale soprattutto per l'età moderna. Il principio di autodeterminazione del soggetto, politico e razionale, deriva dal presupposto che la coscienza razionale sia la sede del governo delle passioni umane, ossia lo strumento sufficiente a stabilire i modi e le opportunità per la realizzazione del bene per l'uomo. La prospettiva razionalistica moderna, dando rilievo assoluto alle facoltà umane di decidere liberamente del destino del singolo, si veniva di conseguenza a negare valore comune al bene collettivo, ritenendolo astratto se non relativo al bene individuale. La libertà venne perciò intesa come possibilità riconosciuta al soggetto individuale di dar forma reale alla propria rappresentazione del mondo, indicata come “felicità”, consistente nella possibilità di conformare la realtà del mondo alla soggettiva ideale visione interiore, intesa come “libertà”. Questa teoria liberale della soggettività ha in pratica consegnato alla volontà più forte le sorti dei singoli, privati di riferimenti socioculturali comuni e tradizionali, e delle comunità, disgregate dai loro legami etici e religiosi. Il costituzionalismo liberale fu la premessa dello statalismo, dando alla potestà legale tutto il potere. Infatti la collettività tradizionalmente organizzata per ceti era il popolo quale soggetto distinto dal principe, ma anche dalla plebs incondita et confusa turba, la quale era disgregata e disorganizzata. Il razionalismo giuridico-politico fa cadere la relazione al principe, facendo del popolo un ente politico-giuridico assoluto, depositario della sovranità, dotato di facoltà di giudizio autonomo dal potere costituito. Ma la stessa teoria democratica, dovendo riconoscere il pluralismo partitico, confuta la finzione concettuale che pure teoricamente la legittima. La realtà delle formazioni sociali, spontanee o tradizionali, contrasta storicamente col principio della sovranità popolare come determinazione fattuale di una volontà collettiva che si esprime unitariamente e univocamente. La libertà privata, garantita dalla legislazione statale, diventa concessione di diritto pubblico, spostando
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sul piano politico la facoltà di disporre dei propri beni, ai quali vengono equiparati i diritti politici. Ciò che conta è che, a fronte della titolarità formale, il riconoscimento e la garanzia dei diritti giuridici soggettivi è dello Stato, il quale può pertanto, oltre che proteggerli, anche revocarli. Nel Medioevo, “in conseguenza della concezione patrimonialisticofeudale della società, solamente il possesso della terra dava il crisma del potere. Avere il dominio equivaleva essere Signore, possedere cioè la sovranità”.349 Se la concezione antica faceva rilevare l'elemento gentilizio della sovranità politica, quella medievale designava lo Stato come “territorio”, diviso a seconda della sua grandezza o estensione. Non già i popoli ma i territori facevano uno Stato. Il principio di sovranità popolare spezza il legame storico tra Governo e Popolo, cioè tra Corona e sudditi, per stabilire un patto sociale interno alla sovranità popolare, tale da farlo coincidere con un contratto politico. L'identità di contratto sociale e di patto politico trasferisce la solidità originaria e storica della convivenza civile nei rapporti politici, assumendoli anch'essi come necessari e non contingenti al pari della condizione sociale, e del pari trasferisce a sua volta ai rapporti sociali la contingenza propria dei rapporti politici, stabiliti per pattuizione e quindi per volontà soggetta a revisione. Ciò comporta che le dinamiche della competizione politica si riflettano sugli assetti sociali in termini corrispondenti, privando perciò la convivenza sociale di quella stabilità e sicurezza indispensabili per ogni equilibrio esistenziale dell'uomo. Il “principio di movimento” (Grundsatz der Bewegung), diventando universale, rende la società estremamente instabile e la vita umana precaria, a tal punto che il Prinzip der Stabilitaet, che dovrebbe costituire una priorità per ogni avvicendamento generazionale e ogni riforma sociale, diventa invece una aspirazione problematica che si riverbera come insicurezza antropologica e angoscia psicologica; ossia come dramma culturale. Sicché, la crisi culturale, quella socio-politica e quella religiosa sono intimamente intrecciate nell'Europa moderna, a seguito della contrapposizione tra Natura e Storia, intesa la prima come condizione di necessità e l'altra di libertà o possibilità. Assegnando alla Storia il campo della libertà, diventava possibile per l'uomo realizzare
349 E. Bussi, Evoluzione storica dei tipi di Stato (1970), Milano, 2002, pag. 26.
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ogni disegno ideale di società e di Stato di tipo nuovo e antitradizionale. Liberata da ogni vincolo trascendente, naturalistico o divino, la volontà umana si credette capace di operare qualsivoglia cambiamento nella vita sociale, politica e culturale, solo a costo di una disponibilità di risorse materiali e tecnologiche, le quali funsero da correttivo storico alle stesse disposizioni della Provvidenza. Infatti, separata o smentita la correlazione tra Verità (presunta) e Possibilità (effettiva), ossia tra la giustizia ideale e la forza reale, la differenza decisiva era riposta nel potenziale materiale, nella tecnica. Assunta per certa la relatività delle convinzioni morali di fronte al potere degli strumenti tecnici, che decidevano le sorti belliche tra Stati e i contenziosi politici tra i ceti sociali, la mentalità moderna fu foggiata da una cultura delle distinzioni astratte tra i valori spirituali e tra essi e la pratica operativa, cioè dalla sofistica del pensiero razionalistico, e dall'individualismo egalitario, personale o nazionale, che alimentava l'illusione dell'autodeterminazione dell'uomo, a prescindere dalle sue condizioni storiche che le rendevano significative, determinò la posizione illuministica del rigetto del passato come condizione del progresso avvenire, presupposto di quella frattura rivoluzionaria che caratterizzò la civiltà europea moderna o post-medievale. L'emancipazione dell'uomo dalle sue condizioni storiche (sociali e culturali) provoca l'individualismo economico e il soggettivismo intellettuale, prodromici dell'egalitarismo politico e delle teorie democratiche, legittimate dall'ipotesi che l'uomo sia un microcosmo autonomo e assoluto, rispetto al quale ogni forma di convivenza sociale o di relazione politica sono contingenti. Se la civitas antica era il “coetus multitudinis juris consensu et utilitatis communione sociatus”,350 ciò che differenza lo Stato antico da quello medievale e moderno è “la perfetta comunione fra l'elemento religioso e quello statuale”.351 Il Cristianesimo predicò l'autonomia della coscienza dallo Stato, mentre nello Stato antico la coscienza del cittadino era inscindibile da quella religiosa. La Chiesa si fece portatrice del diritto del popolo verso il diritto del re, contrapponendo sacerdotium a
350 Cicerone, De Republica, I, 26. 351 E. Bussi, Op. cit., pag. 129.
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imperium. L'unità antica di società e Stato viene infranta nel Medioevo, anticamente, tutti e solo i cittadini erano lo Stato, a esclusione di schiavi e stranieri. Nel Medioevo la Chiesa, accordando protezione agli esclusi, ne affianca la loro esistenza collettiva a quella dello Stato, dando vita a un organismo parallelo che è appunto la Società, intesa come l'unità dei gruppi sociali interni allo Stato. Nel caso in cui i gruppi sociali si costituirono in ceti, e questi in Parlamenti o Stati, essi non si pensarono come rappresentanti universali dell'intera società o popolazione nel suo complesso, ma soltanto essi intesero essere il popolo o la nazione in senso giuridico.352 Ciò comportò che la maggior parte dei sudditi restasse fuori della vita pubblica.
La teoria medievale della sovranità popolare è del tutto diversa da quella moderna, la quale prende vita solamente nel XVIII secolo. Nel Medioevo, infatti, si era ben lungi dall'avere una concezione democratica del popolo, perché la dottrina medievale della sovranità popolare trovava le sue basi reali nella formazione delle corporazioni di arti e mestieri, nell'esistenza degli Staende nell'Impero, nel progressivo distaccarsi dei Regna dallo stesso, nell'affermata preponderanza dei Concili sul Papa e così via.353
La sovranità popolare nasce con il sentimento nazionale e dunque, in mancanza d'esso non si può parlare di rappresentanza degli interessi particolari, ma semmai di rappresentazione, “perché gli Stati e i Parlamenti, i ceti organizzati e le corporazioni, esercitano un diritto altrui, unitamente al proprio”.354
Se mai è esistito uno Stato di diritto, questo è stato quello medievale, perché la principale cura del potente è stata quella di provvedere alla pace della tutela pubblica, cioè alla tutela del diritto. (Non nel senso che) nello Stato patrimoniale ci si possa incontrare in una compiuta e organica legislazione (…) ma si deve intendere che il diritto scritto regola per lo più rapporti di diritto pubblico, (il quale, per quanto) rozzo e rudimentale quanto alla qualità e scarso quanto alla quantità, è sempre molto rispetto all'attività amministrativa e all'attività di governo. (…) Il governo patrimoniale è, in sostanza, cura dei propri affari da parte del principe e la eventuale cura di
352 Ivi, pag. 136. 353 Ivi, pag. 137. 354 Ivi, pag. 138.
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interessi generali è la conseguenza di particolari rapporti ed accordi, che potrebbero sorgere mercé la estensione della difesa a nuovi commendati.355
L'amministrazione dello Stato è, in fondo, governo degli affari del
re. 356 La divisione di fatto dei campi tra il Re, che si occupava dei suoi affari e del rispetto del diritto e della difesa, e la Chiesa, che si occupava dell'educazione, consentiva una formazione spirituale cristiana che univa tanto gli uomini sotto una stessa credenza religiosa, che gli Stati sotto una stessa identità di fede, sicché “mentre gli antichi consideravano legittimo solamente il loro proprio Stato, ora è subentrata (nel Medioevo) l'idea di una comune fraternità cristiana e di un cristiano consorzio delle genti”.357 Le organizzazioni politiche del Medioevo erano tutte sovranazionali o anazionali, quale il Sacro Romano Impero. I popoli in quanto tali non avevano alcun peso politico, che avranno solo col costituirsi come nazioni. All'interno degli Stati medievali, il collante tra signore e suddito è la “fedeltà” (Trene) politica, di carattere personale, che si estingue con la morte delle parti. L'obbligo dei fideles di servire il sovrano era condizionato dall'esercizio della sua protezione armata e dal riconoscimento dei loro diritti, a cui si aggiunse quello di osservare il diritto statuale esistente: Magna Charta, in Inghilterra (1215); successione salica, in Francia (1327); Bolla d'Oro, in Germania (1356). Il vincolo diventa dunque giuridico, poiché le parti sono entrambe legate al diritto.358 Il Re non poteva creare nuovo diritto ma doveva solo attenersi a quello esistente, confermandolo con documenti. “Ciò che era diritto non era scritto, ma era trovato dalla sapienza di persone esperte”.359 Il diritto dipendeva dalla condizione del soggetto a esso. Nel Medioevo non era distinto il diritto privato da quello pubblico.
Lo Stato di diritto, rigorosamente attuato, ridurrebbe lo Stato ad una semplice
355 Ivi, pagg. 162-164. 356 Ivi, pag. 165. 357 Ivi, pag. 171. 358 Ivi, pag. 178. 359 Ivi, pag. 181.
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istituzione per l'amministrazione del diritto, in cui il potere legislativo avrebbe il compito di fissare il diritto in generale e dovrebbe riconoscere e proteggere la giustizia stessa in ogni singolo caso, mentre al governo non rimarrebbe quasi alcuna funzione se non quella del servizio della giustizia o dell'uso della pubblica forza (a scapito degli) interessi nazionali (che costituiscono la) grande politica. (…) Nello Stato patrimoniale (cioè nel sistema feudale) difetta completamente il concetto di Stato, (essendo) territorio e popolo solamente oggetto dell'attività del principe, (il cui patrimonio privato), per effetto delle concessioni feudali, viene ad esautorare il potere del principe stesso frazionando in tanti contratti di diritto privato quelle che per noi sono le prerogative sovrane dello Stato.360
Il processo inverso a questa frantumazione del potere sovrano è “la ricostruzione dello Stato”, ovvero del potere centrale.361 Emilio Bussi individua quattro fattori categoriali che hanno influito sulla evoluzione della forma di Stato in Occidente.362 Il primo è di natura filosofica e religiosa. La filosofia cristiano-teocratica medievale fu contestata dal risveglio della cultura classica e dall'ideale scientifico di Bacone. Da un lato, la Riforma contestò l'autorità spirituale del Papa, esaltando la coscienza individuale e la libertà religiosa; dall'altro, l'istanza religiosa divenne politica e civile. Sul piano teologico-politico, la distinzione fra regno del Vangelo, in cui vige la libertà di coscienza, e il regno secolare, in cui vige il diritto dei principi, portò Lutero ad affermare l'autonomia della religione dagli interessi sociali, lasciati al potere politico e al dominio della legge. Sicché il potere mondano, derivando da Dio, ha l'autorità di regolare la vita dei sudditi a suo piacere e giudizio per il miglior fine comune, pervenendo a dare norme al culto esterno e a cambiare autoritativamente la religione dei sudditi, secondo il principio affermato a Westfalia del “cuius regio eius religio”. La cultura neo-classica fece rinverdire anche l'antico concetto di polis, il cui potere si estendeva a tutti gli aspetti della vita pubblica e privata dell'uomo. Nacque la ragion di Stato, sostituto empirico dell'autorità divina che offre un appoggio all'autorità politica più razionale in rapporto ai suoi fini pratici che non la legislazione divina,
360 Ivi, pagg. 205-206. 361 Ivi, pag. 206. 362 Ivi, pagg. 206 sgg.
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giustificandosi in sé stessa. Ma poiché la ragion di Stato, sciolta da ogni soggezione divina e libera di ogni rispetto umano, provocò un declino del livello morale del Potere, facendo dello Stato la fonte di diritto di ogni violenza, non oppugnabile per principio.363 Il principio di libertà religiosa ben presto coinvolse anche la sfera politica, innescando il secondo fattore storico di cambiamento. Nel sec. XVI in Francia, Scozia e Spagna una serie di scrittori affermarono il principio della sovranità nazionale sotto una monarchia costituzionale, per cui rex propter regnum, non regnum propter regem. Questi teorici, detti monarcomachi, sono protestanti che aspirano alla libertà religiosa, e cattolici avversari di Enrico III ed Enrico IV. Le loro teorie furono sopraffatte da quelle di Bodin, che nella sua Repubblica (1577) distingue l'imperio legittimo dei magistrati chiamati ad applicare la legge, da quello assoluto, che è la maestà del principe. Il potere “summum” e “solutum” dello Stato è indivisibile e tale che non ammette controlli, sindacati giudiziari o divisioni di tipo feudale, e si rifà alla formula di Ulpiano del “princeps legibus solutus”, incarnato da Luigi XIV, da Federico II, da Ludovico di Baviera e da Federico Guglielmo I, tutti concordi nell'esprimere la supremazia assolutistica sulle leggi di cui erano gli autori. Fu Bodin a coniare il senso moderno della sovranità, che dalla Francia si diffuse in tutta Europa. Con Hobbes lo Stato diventa l'unica fonte di diritto. I concetti di legale/illegale, giusto/ingiusto e bene/male sono condizionati dal concetto di Stato, poiché “ante imperia iusta et iniusta non existere”, e la stessa religione è al servizio dello Stato, se è vero che “voluntas Dei nisi per civitatem cognoscatur”, essendo il principe interprete e ministro. Quanto al fattore giuridico, lo statalismo assolutistico in Francia e in Italia avvenne tramite il recupero dei filosofi antichi e dei giuristi romani, dai quali si mutuò il concetto di imperio come assolutismo imperiale: “rex in regno suo est imperator”. In Germania avvenne invece attraverso le teorie del diritto naturale, espresse per primo da Grozio, il quale nel suo De jure belli ac pacis (1625) tese a dimostrare la ragionevolezza della convivenza pacifica tra gli uomini, sia in
363 Ved. in argomento il testo classico di F. Meinecke, Die Idee der Staatsraeson in der neueren Geschichte del 1957.
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ossequio alla legge divina, che rifacendosi all'insegnamento della storia. Sul fondamento della vita pacifica e rispettosa della legge dello Stato, Grozio costruisce la teoria generale dello Stato moderno, la cui funzione è di regolare e conservare la vita sociale, possibile solo se i governati riconoscono l'autorità dei governanti. L'implicito patto civile fra cittadini e regnanti fonda lo stesso diritto dello Stato a porsi come legittimo detentore del Potere. Tale teoria fu più facile applicarla alla situazione inglese che a quella tedesca, complicata dalla presenza di un'autorità imperiale accanto a quella regale, che si poneva tra l'imperatore e i sudditi. Ciò comportò che il rapporto col principe variò a seconda dei suoi particolari poteri locali e dei compiti concreti che doveva espletare per il bene dei sudditi, chiamati pertanto ad adattarsi ai bisogni dei loro principi. Questa dottrina si prestò all'assolutismo dei principi tedeschi e fornì la base dello Stato di Polizia. Il quarto fattore fu di natura amministrativa. Lo Stato si rafforzò “a cagione dell'aumento dei compiti cui esso si trovò a fare fronte, dopo che, spontaneamente o per forza, la Chiesa dovette rinunciare a certe sue attività: l'educazione, soprattutto, e la beneficenza”.364 Prima nei paesi riformati, in virtù dello ius reformandi riconosciuto ai principi, e più tardi nei paesi cattolici. Lo ius reformandi consisteva nel “diritto di dare norma all'esercizio della religione e perciò di permetterlo, di mutarlo, di restringerlo, di estenderlo o di abolirlo”, e dunque interessava solo il culto che fosse pubblico.365 Se lo si riteneva insopportabile, il suddito poteva cambiare paese e quindi autorità: beneficium emigrandi. Il trasferimento di compiti dalla Chiesa allo Stato comportò la creazione di una burocrazia di funzionari regi, che diede corpo allo Stato di Polizia. Nello Stato patrimoniale, i funzionari erano incaricati degli affari del re e di quelli addetti ai suoi affari, secondo precise istruzioni e senza procura generale, mentre i compiti dei funzionari dello Stato di Polizia erano più organici e organizzati per settori, secondo una responsabilità gerarchica rigida e conforme a una prassi, la cui fissazione darà poi vita al diritto amministrativo, separato da
364 Ivi, pag. 219. 365 Ibidem.
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quello civile e dal penale. In entrambi gli Stati, i funzionari rispondevano al principe, e non avevano alcuna relazione giuridica con lo Stato, per cui le loro funzioni potevano essere avocate o corrette dal mandante. Altro corpo dello Stato di Polizia fu l'esercito, col quale il principe superò le resistenze feudali, difese il suo territorio e impose le riforme. I comandanti non dipendono più dai vassalli ma dall'autorità diretta ed esclusiva del re, al quale i militi giurano fedeltà, servendo non solo in guerra ma per lunghi periodi (miles perpetuus), regolarmente stipendiati con gli introiti delle imposte. La struttura politica ha sviluppato una sua amministrazione che, come nel caso esemplare della Francia, ha esautorato, sostituito o surclassato la struttura organica sociale. La sovrapposizione dell'ordine politico all'organismo sociale, pur garantendo una sicurezza di risultati pratici, ha esonerato la convivenza sociale delle sue libertà di costituirsi secondo costume e tradizioni, di solito religiosi. Il Potere politicoburocratico, incidendo sulla sfera della socialità, ha interposto al legame di gruppo un legame formale, non esistenziale come quello originario del diritto storico.366 L'idea contrattualistica che la società sia conseguenza di un pactum, anziché di una fides nella comune verità divina, ha posto il Potere politico in funzione religiosa, di legame sociale. Lo Stato di diritto, in senso assoluto, è lo Stato ideologico totalitario. La forma contemporanea di esso è stata possibile per l'incremento del potere burocratico in senso capillare e pervasivo, ma la funzione governamentale incarnata dal re assolutista rappresenta il modello ideale, così come la funzione giudiziaria il modello istituzionale di servizio alla volontà del re. In senso lato, la costituzione fondamentale, intesa come “le leggi fondamentali dello Stato che non possono venire offese neanche dallo Stato stesso o dal capo di esso”,367 acquistò un valore legale che oscurò la comunità religiosa nel rapporto al suo vincolo sociale.
366 “Per diritto storico dobbiamo intendere l'insieme delle norme che in una determinata epoca sono in vigore: ma non solamente l'insieme delle norme giuridiche, sibbene anche di tutte quelle altre: sociali, morali, di contegno, di etichetta e così via, che danno particolare fisionomia nonché allo Stato, alla società stessa”: E. Bussi, Op. cit, pag. 75. 367 Ivi, pag. 236.
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La rimozione del vincolo sociale originario, di natura religiosa, consentì al vincolo politico di costituirsi come l'unico collante sociale, interprete e garante del quale era il re, l'istituzione concreta del titolare fisico del potere. Quando i teorici dell'assolutismo attribuirono allo Stato le prerogative regali, anche il prestigio si trasferì all'istituzione astratta. L'autonomia dei principi tedeschi dall'Imperatore non avvenne sul piano legislativo, ma su quello giurisdizionale, poiché “nella amministrazione della giustizia si vedeva allora la manifestazione di quel potere che oggi viene chiamato sovranità”.368 E poiché l'Imperatore era, fino al sec. XV, l'unica fonte di giustizia, l'ottenimento della superiorità territoriale passava attraverso l'autonomia giudiziaria. Nel 1495 fu creato il Tribunale Camerale dell'Impero, con un Regolamento, in cui erano prescritte le forme di giudizio sottratte all'Imperatore e assegnate all'organo. In conseguenza della loro sovranità, i principi espansero la loro autorità territoriale senza limitazioni giudiziarie, dando vita allo Stato di Polizia, che “si risolve a potere statale, intollerante di qualsiasi resistenza od opposizione”.369 Il concetto di polizia fu introdotto nel Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca solo nel sec. XVI, anche se il primo “gute Ordnung und Policey” fu emanato nel 1530. la Policey dei secoli XVI e XVII aveva per compito di sostituire l'attività degli enti locali la cui amministrazione non riusciva più a espletarsi adeguatamente per ragioni di decadenza dei centri urbani. Al principe perciò “compete uno ius politiae, il cui ambito di efficacia si estende fino là, dove questi enti con amministrazione autonoma esplicavano effettivamente la loro azione”.370 L'equiparazione dell'amministrazione interna con la Policey avvenne nel sec. XVIII, quando nel 1705 apparve il Traité de la Police del Delamare, che costituì la prima base del diritto amministrativo francese, in cui si afferma che “la puissance souveraine est une éclat de la toute puissance de Dieu”.371 Lo ius politiae è quella parte del Potere che ha il compito di allontanare
368 Ivi, pag. 249. 369 Ivi, pag. 256. 370 Ivi, pag. 260. 371 Delamare, Traité de la police etc., Paris 1722-1738, vol. I, pag. 238; cit. da E. Bussi, Loc. cit., pag. 282.
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i mali futuri (cura avertendi mala futura), ma non di promuovere il pubblico benessere (cura promovendae salutis publicae). Per riprendere il Bluntschli, “polizia è la cura dello Stato per il bene comune, mediante l'esercizio della sua autorità coattiva”.372 Tale bene comune è definito da v. Justi come un rapporto di coerenza giuridico-ideale tra il fine generale della polizia e il “benessere delle singole famiglie, dalle quali lo Stato è composto”.373 Lo ius politiae fu inteso come un atteggiamento etico di carattere non autoritativo, inerente cioè l'auctoritas di una istituzione carismatica, ma come un esercizio potestativo, consistente appunto nel “potere del principe di procurare una situazione di benessere nello Stato”.374 Nello Stato di Polizia, dunque, si realizza una situazione giuridica e insieme etico-politica di esautorazione dei diritti storici e insieme delle istituzioni che li legittimavano, di tipo sacrale-religioso e sociale-tradizionale, affermate autorevolmente dalla Chiesa nella sua dottrina del diritto naturale, per cui “tutte le idee fondamentali del diritto naturale stavano in diretta opposizione con l'idea assolutistica dello Stato di Polizia”.375 Fin quando era il principe a dover provare i titoli di esercizio della sua potestà nei territori, i sudditi erano garantiti dalle consuetudini locali, ma allorquando la sovranità si impone in tutto il regno, sono i sudditi che vogliono far valere i loro diritti contro il potere di polizia del principe a dover provare le ragioni giuridiche che limitano quel potere. Lo Stato assoluto di diritto diventa una istituzione ideale, e come tale potenzialmente illimitata come un principio universale, laddove la Corona, quale istituzione concreta, costituiva l'esercizio del potere umano stabilito in virtù di norme e consuetudini tradizionali, e pertanto condivise in quanto riconosciute dal consenso comune. L'elemento consensuale del Potere tradizionale costituiva quell'elemento di partecipazione etica alla vita socio-politica che lo Stato moderno, segnatamente nella sua versione “democratica”, deve
372 J.C. Bluntschli, Allgemeine Staatslehre, Stuttgart 1875, vol. III, pag. 66; cit. da E. Bussi, Loc. cit., pag. 274. 373 J.H.G. v. Justi, Die Natur und das Wesen der Staaten, Berlin, 1760, § 271, pag. 466; cit. da E. Bussi, Loc. cit., pag. 300. 374 E. Bussi, Op. cit., pag. 300. 375 Ivi, pag. 282.
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concepire in termini di militanza attiva e di propaganda elettorale finalizzata alla legittimazione di un Potere puramente formale. Il rapporto, sempre coltivato dalla Chiesa, tra dottrina colta e pratiche religiose popolari, trovava nel diritto storico quel referente etico tradizionale che collegava le istanze di governo del terriorio con il “collettivo di pensiero” di una società, inteso come l'orizzonte sociologico-culturale entro il quale dei fatti o delle dottrine assumono la loro giustificazione razionale, fondata sulle credenze dominanti del tempo in quel contesto di conoscenza, che è sempre socialmente condizionata. Il carattere scientifico del diritto statuale moderno fa di questo sostanzialmente una ideologia, coi suoi dogmi e le sue credenze e i suoi riti procedurali. Diritti inalienabili dell'uomo e potere assoluto dello Stato sono concetti antitetici. Si deve a Kant se l'astratto razionalismo fu portato ed applicato nel diritto, inteso da Kant come solo ciò che corrispondeva alla ragion pratica, ossia la sola volontà determinatasi secondo la logica di ragione.376 Lo Stato così diventa prodotto della ragione e non della umana socievolezza o conseguenza di un accordo di interessi. Lo Stato ideale razionale era per Kant il modello di ogni forma empirica di organizzazione politica. Senza più fine eudemonistico, lo Stato razionale diventa di diritto, per cui il momento giuridico viene separato da ogni considerazione etico-morale e da ogni preoccupazione politicoeconomica. La salute pubblica coincide con la Costituzione, cioè col sistema giuridico razionale, che costituisce la legalità universale entro la quale si svolge la “libertà” umana, che da condizione antropologica diventa situazione giuridica. Lo Stato si fonda sulle libertà legali dei soggetti giuridici singolari, che vengono limitate solo dalle azioni di altri uomini. Lo Stato, in ipotesi, diventa il regolatore di questa presunta dinamica della libertà razionalizzata da diritto e il suo unico scopo è la sicurezza giuridica dei singoli. La salus publica va modernamente intesa come “la maggior consonanza della costituzione coi principi del diritto”, che sono quelli a cui si ispira la ragione con l'imperativo categorico.377 La libertà negativa, ovvero dallo Stato e dal Potere, viene razionalmente giustificata da Kant come “egoistico
376 Ivi, pag. 387. 377 Ivi, pag. 389.
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isolamento” dell'uomo dedito all'intrapresa economica senza limiti. Poiché il fine eudemonistico cui era votato lo Stato e l'azione virtuosa del principe non aveva un fondamento giuridico, anche il loro Potere non trovava più una base razionale. Sia i diritti e i doveri dello Stato che quelli dei cittadini sono ora regolati dalla legge, e non più da rapporti fiduciari e tradizionali o convenzioni ad personam. Il freno al Potere non viene più dal diritto naturale, ma dalla legge stessa dello Stato. Alla felicità dei popoli si sostituisce la libera attività. In riferimento allo Stato, la sua “libertà” giuridica consistette nell'autonomia della politica dall'etica, parallela a quella della economia dalla morale. Il diritto diventa la tecnica del Potere assoluto, che legifera anche in materia di controllo della propria attività, sicché pone il proprio volere al controllo di sé. Lo Stato di Polizia esercitava il suo arbitrio nell'amministrazione, mentre lo Stato di diritto lo estendeva anche in ambito politico. Lo Stato, avendo perso il suo fine eudemonistico, si adopera solo alla sua conservazione e al suo potenziamento, non già come mezzo di governo paterno del popolo, ma verso gli altri popoli. Il germe del nazionalismo totalitario è già in queste premesse. Il Totalitarismo non è che l'assoluto potere legale dello Stato emancipato da ogni remora morale e tradizionale e da ogni freno autorevole di una istituzione carismatica rappresentativa della fede comune. Il legalismo taumaturgico è il portato ideologico-giuridico del razionalismo illuministico. Se infatti
Bossuet faceva discendere la legge dal cielo sulla terra, i teorici delo Stato di Polizia ne laicizzano la origine, sostituendo al cielo la ragione umana, e nutrono per essa una fiducia altrettanto ingenua quanto illimitata, soprattutto quando possono farla derivare da un testo scritto.378
L'autonomia locale, i privilegia e le immunitas sono sinonimi di libertà, che presuppone la legittimità dei poteri costituiti, cioè la autorità, da cui si può derogare, ma senza rivendicazioni di assoluta autonomia.
E questa autonomia, questa rivendicazione di diritti particolari di ogni individualità senza negare i principi supremi dell'organizzazione sociale,
378 Ivi, pag. 401.1
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costituirono forse uno dei tratti più caratteristici della civiltà medioevale e ci additano l'esempio di una configurazione dei rapporti fra l'individuo e lo Stato che è nello stesso tempo lontana dalla concezione anarchica del puro individualismo, e dalla opprimente statolatria di ogni totalitarismo.379
La contesa fra Chiesa e Stato, apertasi nel 1296 per un contenzioso fiscale, manifestava una questione culturale e teoretica che trascendeva quella contingente e politica, e inerente alla conservazione o dissoluzione della società organica cristiana e della forma imperiale che la caratterizzava. In questione non erano le distinzioni formali tra i poteri religioso e laico, ma la legittimità della loro possibilità teorica, prima che pratica. Infatti, l'affermazione della libertas christiana dall'onnipotenza del Potere politico, trasferita in ambito politico, quale istanza sovrana verso l'ingerenza della Chiesa negli affari di Stato, equiparava la libertà spirituale trascendente alla libertà della volontà regia di autodeterminarsi nella sua propria sfera giuridico-politica. Questa indebita equiparazione poneva l'auctoritas religiosaalla stregua della potestas secolare, ingenerando perciò la questione del primato di una sull'altra sullo stesso terreno concorrenziale, quello politico e mondano. Il criterio medievale che reggeva il sistema imperiale era quello gerarchico, non egalitario, sicché l'integrazione dei due poteri era la condizione della loro reciproca legittimazione morale. Nel momento in cui la teoria dello Stato autonomo e superiorem non recognoscentem veniva con Marsilio e con Ockham fondato sulla plausibilità razionale e sulla volontà sovrana di costituirlo, la legittimazione religiosa diventava superflua al pari di ogni riconoscimento esterno al sistema statuale, basato sulla sua propria forza politica. Se la ragione perdeva la sua funzione ancillare verso la verità di fede, diventando autonoma dalla teologia, anche lo Stato razionalmente fondato acquisiva le proprietà tipiche di un'opera e di un pensiero auto-giustificato. Porre la questione metafisica in termini giuridici e formali, fu errore capitale della Chiesa, che non comprese che la posta in gioco non era il suo potere, quanto la funzione della fede cristiana in relazione alla Verità, che per il fedele è il dato originario della ricerca razionale e dell'esperienza esistenziale, mentre per il razionalista è l'obiettivo auspicato della ricerca scientifica. In
379 R. Morghen, Medioevo cristiano, Bari, 1951, pag. 25.
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senso lato, la questione verteva sull'identità della civiltà europea, che poteva sussistere solo in quanto metafisicamente cristiana. Assegnato invece il primato alla ricerca, non restava a qualificarla che il metodo, cioè la tecnica del sapere. Se la ragione può pervenire alla verità, perché la fede nella Rivelazione? Da qui la tendenza umanistica a rivalutare il passato come civiltà razionalistica e visione del mondo improntata al Logos naturalistico. La Natura, il mondo sociale e la realtà politica di fronte alla coscienza sono materia da interpretare e rifondere in nuova forma ideale. Se la coscienza razionale può giungere alla verità e costruisce un mondo migliore, essa non può piegarsi all'autorità costituita né ad alcuna tradizione, politica o religiosa che sia. Volontarismo e personalismo sono aspetti complementari del razionalismo, cioè dell'auto-nomia della ragione a conseguire la libertà teoretica, spirituale e pratica. Anselmo d'Aosta (realismo) e Abelardo (concettualismo) inaugurarono una nuova civiltà, segnando l'antitesi all'agostinismo. “Per Sant'Anselmo infatti il peccato originale non ha profondamente alterato l'equilibrio” divino, stabilito attraverso il principio naturale della giustizia originale. “L'incarnazione del Verbo è stata dunque necessaria per ripristinare fra gli uomini quella possibilità di giustizia”.380 L'antropologia pessimistica agostiniana viene corretta dall'idea delle possibilità umane di giungere alla salvezza, dunque da una visione ottimistica. A partire dalla procreazione, alla quale Tommaso tolse il marchio degradante della fornicazione e concupiscenza dell'originario stato di colpa, per giustificarla moralmente come funzione naturale di generazione della specie. In genere la scolastica rappresentò un indirizzo spirituale, cioè antropologico e soteriologico, antitetico all'agostinismo.
Anche dal punto di vista gnoseologico, all'atteggiamento agostiniano prevalentemente mistico e basato sulla validità dell'esperienza interiore, del testimonium animae, si sostituiva con la Scolastica un atteggiamento intellettualistico, una tendenza a condizionare il reale al pensiero, un razionalismo che essa aveva mutuato in pieno dal più intellettualista filosofo della Grecia antica (...). Tutto ciò che era esperienza mistica in S. Giovanni e
380 Ivi, pag. 363.
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in Sant'Agostino, era divenuto, così, concetto preciso, logicamente determinato. Si traduce in termini logici, intellettuali, sociali ciò che in San Paolo era intuizione profonda delle realtà spirituali, rivissute intensamente nell'affocata speranza dell'avvento imminente del Regno.381
Gli elementi mistici del Cristianesimo lasciano il campo ai valori razionali e intellettualistici, determinando una profonda trasformazione della struttura della Chiesa, sempre più teocratica e accentratrice, che diviene interprete esclusiva sia delle Scritture che della tradizione. Ed è sul modello totalitario della Chiesa che lo Stato moderno, operando una rimozione del sacro ed esaltando la funzione del metodo razionale nella ricerca della verità, diventerà col tempo quel sine nomine monstrum che crescendo su se stesso giungerà infine a voler modellare ideo-logicamente l'intera esistenza umana, prendendo il posto di Dio come creatore che forgia l'uomo a sua immagine ideale e somiglianza politica. Questo esito non era inscritto nella historia sacra agostiniana, fondata sul percorso della rivelazione ebraico-cristiana, ma è dovuto allo sviluppo conseguente alla inserzione della cultura greca, tramite la sua metafisica, nella civiltà cristiana, determinando un cambiamento di prospettiva soteriologica orientata verso l'ordine razionale, verso una cosmo-logia in cui si rivela l'Essere, anziché la Verità. Il problema filosofico, perché coincida col problema della salvezza, deve essere fondato sulla verità di fede, deve cioè presupporre la Rivelazione, senza la quale non vi è una storia della salvezza personale dell'uomo, ma solo della coscienza del Logos impersonale. Se l'avvento dell'Essere costituisce una rottura dal mito, lo stesso avvento del Cristo va inteso razionalisticamente come una frattura antropologica, anziché la rivelazione alla coscienza naturalistica e onto-logica della Possibilità della coscienza morale come luogo della salvezza spirituale. Era difficile, infatti, estendere in senso logico-universale una verità circoscritta storicamente alla ricezione dell'evento cristiano, per cui ebbe buon gioco il tentativo di Voltaire di denunciarne i limiti nel suo Essai sur l'histoire générale (1756), in polemica evidente con il Discours sur l'Histoire universelle (1681) dell'agostiniano Bossuet. La
381 Ivi, pag. 364.
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questione, però, non riguardava la sussunzione entro un modello paradigmatico cristiano-occidentale di storia universale, bensì la possibilità riservata alla spiritualità cristiano-europea di offrire un valore soteriologico cattolico e fruibile erga omnes, in quanto interessante l'esperienza dell'uomo in quanto essere spirituale, caratterizzato dunque dalla possibilità della sua libera redenzione, ispirata dalla Grazia e non partecipata dalla cogenza del Logos. La difficoltà era quella di inquadrare la figura singolare della persona spirituale entro la cornice culturale molteplice e variegata delle nazioni storiche. Trascegliendo tra le tante la matrice simbolica razionalistica, l'esperienza culturale europea divenne il campione rappresentativo di un ideale universale di umanità che Dante indicò come Monarchia cristiana, ma il cui ordine storico era costituito dalla civiltà medievale. Ciò che realizzò il Medioevo in termini teologico-culturali e politicoistituzionali fu l'intersezione nell'alveo della storia cristiana della matrice filosofica greca, facendo di questa l'ancilla del finalismo escatologico. Ed è nella scissione di questa struttura storico-simbolica che consiste l'età moderna, quale processo di dissoluzione dell'ordine classico-cristiano. L'ordine cristiano, per la sua legittimazione trascendente, volle costituirsi come un orizzonte di realtà fondato sulla verità divina, e dunque totale rispetto a ogni possibile esperienza umana, che in quell'ordine avrebbe trovato il suo valore eterno e la sua salvezza mondana. La pretesa di asservire a tal fine la filosofia greca, facendone una tecnica di pensiero simbolico atta a tradurre in espressioni umane quel valore, che divenne perciò culturale, oltre che cultuale, fu resa possibile per il declino della potenza autonoma della civiltà greca e la sua sopravvivenza come tradizione culturale in età ellenistica; ma, appena le condizioni furono mature nel corso dell'assimilazione dello spirito della filosofia greca nella metafisica cristiana, la pretesa teologica si scontrò con l'antica pretesa filosofica di costruire un ordine a sua volta vero e universalmente valido, inevitabilmente confliggente con quello che nella sua logica non poteva che apparire mito-logico. L'intera esperienza intellettuale del Moderno può essere intesa perciò come un processo di de-mitologizzazione della teologia cristiana da parte delle sotterranee correnti del razionalismo greco rivisitato sotto forma di istanze illuministiche e storicistiche. Ma la innegabile superiorità della prospettiva cristiana su quella classica è, al di là del
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dato fideistico, ovvero proprio per esso, la sua capacità di aver costruito una civiltà storica e non solamente un modello ideale di socialità, che per oltre un millennio e mezzo ha rappresentato per la cultura mondiale il paradigma antropologico dell'umanità, riuscendo dove né il razionalismo antico, né tantomeno quello moderno, sono riusciti a realizzare, in quanto privi di quel fondamento veritativo eterno che ha caratterizzato l'esperienza cristiana. Una cultura senza fondamenti può infatti offrire una rappresentazione della realtà come mondo razionale, ma non già come mondo-della-vita, la cui concretezza comprende ciò che la dialettica della ragione rimuove come negativo non-essere, cioè quella particolarità dell'esperienza storica personale sulla quale conta la fede cristiana, che rifiuta la considerazione, non dico del creato, ma dell'uomo a mero ente di ragione. Ed è proprio la sconsiderazione teorica del mondo-della-vita a impedire alle strutture razionalistiche del pensiero moderno di fondare modelli durevoli di socialità e di civiltà, tutti esposti a quell'incontenibile divenire, tenacemente osteggiato dai costrutti della ragione. Non è dunque solo un auspicio del credente il ritenimento che il nuovo ordine socio-culturale post-moderno riconsidererà, in termini non sappiamo quanto originali, il rapposto tra fides et ratio come centrale e necessario per ogni futura costruzione degli assetti sociali della storia avvenire. Per un motivo semplice quanto essenziale, poiché la considerazione della realtà ontica come totalità onto-logica è pura rappresentazione fideistica, decisione etica, senza alcun crisma di vera necessità; idonea al controllo scientifico della realtà naturale, alla quale la ragione tende ad omologare anche l'esperienza umana, ma non alla conoscenza della verità, che trascende la finitezza entro cui si muove la logica dell'ordine razionale.382 La sua costituzione ontologica la rende perciò esposta alla stessa opera di destrutturazione alla quale essa procede per statuto epistemologico alla demitizzazione teoretica dei saperi noetici, trasferendo la potenza negatrice del suo metodo dialettico entro le strutture del proprio orizzonte di senso, facendole criticamente implodere. Sul piano delle strutture politiche, le ideologie razionaliste, emancipate
382 Ved. C. Marco, Dalla metafisica classica al Grande Errore moderno, in “Coscienza storica” online n. 3, 2020.
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dal loro fondamento mitico-veritativo e diventate pura tecno-logia del potere, esaltano l'aspetto pragmatico rispetto a quello ideale fino alla catastrofe della civiltà. Era già avvenuto nel V secolo a. c. con la Guerra del Peloponneso,383 e avvenne nuovamente con la guerra civile europea che portò alle due guerre mondiali nel sec. XX. La pretesa del razionalismo, e dunque della filosofia greca, è di eliminare dal problema della vita il mistero, pensando all'Essere come al Tutto. Diversamente dalla prospettiva del Mito, che per la filosofia è pseudos, il discorso filosofico rappresenta la realtà come una trama di eventi causali, senza mediazione, connessi per un criterio di legalità, ritenuta non disponibile, e dunque necessaria, ma le cui condizioni sono in realtà create dall'uomo, che dunque le vive come una dimensione della sua libertà. Il carattere illusorio di tale libertà è dato dall'esito ipotetico di quella supposta necessità, che rimette alle conseguenze umane la responsabilità che nel Mito viene attribuita al ruolo divino, esautorato dal criterio razionalistico. Il passaggio dalla prospettiva mitica a quella filosofica, liberando la vita umana dal legame col sacro mistero, la consegna all'alea dell'autodeterminazione della coscienza razionale, la quale, fondando la sua credibilità procedurale sulla finzione ontologica che l'Essere sia Tutto, si regge su una superstizione metodologica, quella scientifica, che i processi storici inevitabilmente smentiscono sempre, in quanto la realtà non è, ovviamente, vincolata ad lacuna convenzione gnoseologica. Il riflesso metodologico di tale disposizione ideologica fu la trattazione della civiltà medievale come un organismo politico-statuale, riscontrando perciò in esso mancanze e imperfezioni parametrate al contesto giuridico-istituzionale dell'età moderna. Se l'opinione pubblica liberale ha carattere di vincolo morale quando riesce a persuadere, nei regimi autoritari l'autorità pubblica delle istituzioni è universalmente intesa come un vincolo di natura morale, anzi religiosa, sicché nel Medioevo “il destino dell'Impero, nella storia governata da Dio, obbliga tutti i cittadini a rispettare i suoi ordini e ordinamenti. La vita della collettività è determinata dall'autorità, non dall'opinione di partito o dalla sovranità popolare”, essendo l'autorità
383 Ved. E. Voegelin, Order and History, vol. II The World of the Polis, tr. it., Milano, 2015, pag. 47.
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pubblica il referente primario della vita morale e spirituale della collettività, la cui storia di civiltà non è “tutto l'accadere umano”. Accanto ad essa, infatti, “vi è una vita tradizionale, comune agli uomini, che nei suoi aspetti naturali e nelle sue tendenze rimane essenzialmente sempre la medesima. (…) Solamente ciò che concerne il destino generale dei popoli, solamente ciò che appartiene al comune senso dell'attualità e dell'Impero, appartiene alla realtà storica”, mentre le decisioni istituzionali prese una tantum hanno effetti che durano nel tempo e “fanno epoca” nella vita collettiva. Da qui la possibilità di rifarsi alle fonti documentali, politiche, alle grandi personalità che segnarono eventi epocali, insomma al potere pubblico.384 L'ordine storico in senso moderno non è dunque il percorso privilegiato della civiltà medievale, la cui avvenimenzialità non rende il senso del suo processo epocale, che invece va indicato attraverso una trama escatologica che ne riveli l'orizzonte cristiano del suo ordine socioculturale. La storia in senso medievale va declinata dunque nella relazione con il trascendente, che si costituisce come il referente muto e onnipresente verso il quale le istituzioni del potere civile e religioso si pongono per l'avallo alla propria legittimazione. Tutto il contenzioso tra Chiesa e Impero si può intendere come una contesa tra interlocutori divini, ognuno dei quali vantava, in virtù della sua funzione, un primato rappresentativo. Se “il salto nell'essere filosofico scopre la forma storica” nella cultura greca,385 la concezione storica della cultura cristiana sposta il terminus a quo della costituzione arcaica del Mito classico di fondazione, alla proiezione, a partire dall'evento cristico, verso un terminus ad quem escatologico che conchiuda nell'esito sacro le vicende della storia profana. In tal modo si recuperano le vicende significative entro l'economia della salvezza cristiana delle civiltà maggiori che hanno anticipato la Rivelazione e il cristianesimo storico. In tal senso, il Medioevo diventa il crogiuolo di fusione della civiltà romana, di quella greco-ellenistica e di quella barbarica.
384 A. Dempf, Sacrum Imperium (1933), tr. it., Firenze, 1988, pagg. XIV-XVII. 385 E. Voegelin, Loc. cit., pag. 58.
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