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etico di “pace sociale”. Infatti, secondo le parole di Montesquieu, la “libertà politica, in un cittadino, consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione, che ciascuno ha, della propria sicurezza; e, perché questa libertà esista, bisogna che il governo sia organizzato in modo da impedire che un cittadino possa temere un altro cittadino”.328 Ma il rimedio è puramente retorico, poiché, se è vero che per esperienza eterna l‟uomo tende a sopraffare l‟altro uomo, solo la paura di una ritorsione potrebbe dissuaderlo a provarci. E che altro sarebbe la divisione dei poteri se non una larvata minaccia di ritorsioni a chi volesse abusare del proprio? Una logica di guerra interna al corpo politico, che determina un equilibrio delle forze nello Stato, che Montesquieu chiama “governo moderato”. Da qui la nota teoria della divisione dei poteri per la quale “non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore”.329 Ma il rimedio divisorio è anche astratto, smentendo quanto dallo stesso Montesquieu asserito circa l‟analogia tra “ciò che possiamo vedere negli individui, lo riscontriamo pure nelle varie nazioni”.330 L‟uomo reale, infatti, è il depositario di un libero arbitrio, ed agisce secondo una unità volitiva in cui egli è legislatore ed esecutore a un tempo; e se sbaglia, non sempre è perché vuole sbagliare. Sbaglia perché la sua legislazione è imperfetta, perché è un essere limitato che ha bisogno di aiuto. Questo aiuto correttivo può provenire dagli altri uomini, formando il consorzio sociale; oppure da un ente metafisico, il Logos greco o il Dio ebraico-cristiano. La prima ipotesi, è la strada perseguita dallo Stato costituzionale moderno, patrocinato da Montesquieu, in cui il vettore del Potere è la risultanza di un equilibrio delle forze sociali. Ma nella logica dell‟economia delle forze, la divisione dei poteri sussegue a una fase di accumulazione del Potere, caratterizzata dallo Stato assolutistico che

328 Ivi, vol. I, pag. 276. 329 Ibidem. 330 Ivi, vol. I, pag. 169.

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nella Francia del sec. XV si andava a definire come un modello europeo. Dalla sua costituzione, a partire dal monopolio fiscale, si desume che “l‟unità sociale che nasce dall‟interdipendenza degli individui possieda peculiarità strutturali e obbedisca a leggi differenti da quelle del singolo e che non potrebbero dunque essere comprese se si prendesse questi come punto di partenza”.331 Ciò indurrebbe a ritenere che la formazione dello Stato moderno razionalizzato fosse accompagnata dalla progressiva presa di coscienza di una ontologia sociale che non rifletteva più l‟immagine speculare del microcosmo antropologico della metafisica tradizionale, ma una nuova prospettiva teoretica, di natura sociologica, in cui i gruppi umani agiscono secondo leggi oggettive e non discrezionali; ossia che la convivenza sociale fosse affrontata dalla coscienza moderna all‟interno delle leggi della res extensa. In realtà le cose agli albori dell‟età moderna stavano diversamente, come conferma anche il resoconto degli ambasciatori veneti alla corte di Francia. Quello, citato da Elias, di Marino Cavalli attribuisce l‟unità del regno francese alla “obbedienza del popolo ai suoi re” 332 che notoriamente non è una virtù fiscale -, i quali, da Carlo VII il Vittorioso (1422-1461) a Francesco I (1515-1547) non hanno fatto altro che spogliare la nobiltà dei suoi beni accumulando ingenti ricchezze, “il che, oltre al tener sempre ricca la corona, unita, e in riputazione estrema, fa che ella sia sicura dalle guerre civili: perché, non avendo principi se non poveri, non han spirito né modo di tentar cosa alcuna contra il re”, come solevano fare i grandi signori di un tempo.333 Se è pur vero che il sistema assolutistico, trasformando il re da “proprietario di terre e dispensatore di terre […] in un re che dispone di mezzi finanziari e dispensa rendite in denaro”, spezza “il circolo vizioso in cui erano vissuti i signori al tempo dell‟economia naturale”,334 è altrettanto vero che la crisi che si andò determinando nel 1789 precipitò la corona in un isolamento sociale che era la

331 N. Elias, Loc. cit., pag. 286 332 N. Elias, Loc. cit., pag. 288. 333 Ivi, pag. 289. 334 Ivi, pag. 290.

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conseguenza del suo stesso assolutismo politico, che la privava dell‟antico sostegno feudale della nobiltà locale. L‟obbedienza al Potere non equivaleva a consenso, né tampoco a fedeltà monarchica. Anzi, la struttura centralizzata della monarchia assoluta fu tanto più efficiente nell‟amministrazione fiscale quanto perniciosa nell‟erosione dei valori aristocratici che sostenevano moralmente il sistema. Essa infatti affermò il suo sistema razionale di controllo territoriale del regno sostenendo surrettiziamente il principio della cittadinanza egalitaria, contro il principio delle autonomie locali, fondato sulla disuguaglianza dei rapporti sociali, e dunque su un principio gerarchico. L‟equilibrio sistemico nei due casi è molto diverso. L‟uguale sudditanza al Potere genera infatti individualismo e indifferenza morale alle sorti comuni, laddove lo spirito di ceto impediva l‟unità nazionale intorno a una rappresentanza unica e superiore. In tal senso, come ben compreso già da Tocqueville, fu l‟assolutismo monarchico che consentì la sua conversione nel radicalismo democratico. Infatti, il trionfo della Rivoluzione segnò la preminenza del principio delle volontà individuali, che per Sieyès rappresentavano “i soli elementi della volontà comune”, contro l‟esprit de corps dei gruppi sociali intermedi, “sia che questi gruppi fossero ordini privilegiati tradizionali, classi sociali o corporazioni con uno status speciale”, ritenuti portatori di interessi parziali ed egoistici.335 L‟ “equilibrio” politico che il re assolutista manteneva, attraverso il monopolio della forza economica e militare, “tra le tensioni esistenti all‟interno di ciascun settore” sociale336 non nasceva da un rapporto fiduciario stabilito entro un comune orizzonte di valori condivisi, ma si reggeva sulla convergenza in direzione centralizzata verso la polarità unica del Potere politico della spontanea dialettica sociale tra ceti dirigenti e popolazioni locali, che tanto depotenziava il ceto aristocratico tradizionale quanto caricava la burocrazia del sistema centralizzato di una funzione politica impropria a una classe di tecnici, che pertanto essa non poteva espletare, pur mantenendo alta l‟efficacia del regime assolutistico. E‟ ovvio che i re assolutisti non intendessero promuovere una organizzazione della società da essi dominata che

335 J.L. Talmon, The Origins of Totalitarian Democracy, tr. it. cit., pag. 104. 336 N. Elias, Loc. cit., pag. 294.

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preludesse una svolta rivoluzionaria, e in questo senso non ci fu da parte loro alcuna pianificazione razionale del sistema perseguita nei secoli, 337 così come è pacifico che una ideologia individualistica non produca ipso facto una condizione rivoluzionaria. Il rapporto tra piano ideale e piano razionale, infatti, non è diretto, come pretende l‟idealismo da Platone in poi, ma è mediato da un reticolo istituzionale che, sistemizzato, diventa una struttura di Potere, funzionale cioè al dominio di chi ne è a capo. In questo senso, sistemazione e razionalizzazione indicano lo stesso processo funzionale al Potere. Ma proprio la sistemazione del reticolo istituzionale in senso funzionale al Potere, avviene in base a un principio razionale, che non deriva dalla natura, al pari dell‟istinto animale, ma dalla cultura di un popolo, e più esattamente dalle sue classi dirigenti, che lo elaborano e lo interpretano nel Governo sociale, il quale è perciò sempre espressivo di un ideale mondo-di-senso. Ogni mondo-di-senso è una totalità indivisa di elementi ideali individuali e di elementi reali collettivi stabiliti in una relazione variabile di possibilità legate tanto alle qualità della sintesi singolare di ogni coscienza umana (che indichiamo come livello di coscienza) quanto alle storiche condizioni esistenziali in cui l‟uomo viene a trovarsi in quanto componente di un gruppo sociale (che indichiamo come orizzonte di coscienza). In ogni caso, la realizzazione di quelle possibilità è legata alle forme culturali fruite da quel gruppo e che sono determinative del loro significato sociale, il cui valore simbolico è perciò culturalmente inscritto entro l’orizzonte di coscienza di quel gruppo. Chi è al Governo della società, ne dirige i valori costitutivi del suo orizzonte di coscienza. Chi invece guida la società esercitando il Potere, stabilisce le modalità tipizzate delle relazioni di convivenza attraverso coerenti modelli normativi. Ma questa distinzione dei ruoli direttivi non ha niente a che veder con la divisione dei poteri di cui parlava Montesquieu, poiché la distinzione dei ruoli inerisce a condizioni di esistenza non omologabili, e quindi non univoci nella loro destinazione razionale, e indivisibili nelle loro rispettive funzioni. Il processo moderno di razionalizzazione del Potere consiste invece nella ideale identificazione delle due funzioni in uno stesso organo

337 N. Elias, Loc. cit., pag. 297.

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deliberativo, lo Stato razionale di diritto, la cui attività sovrana e impersonale si auto-determina come la deliberazione della volontà generale, prima monarchica e quindi collettiva. Il Potere moderno, eliminando dalla sfera decisionale ogni limitazione di carattere extrametodico, destinandola alla sfera privata, tende a neutralizzare ciò che Max Scheler chiamava i “fattori spirituali di determinazione” culturale, 338 la cui funzione regolativa viene a perdere, nello Stato razionalizzato, il suo essenziale carattere dirigente, ossia di Governo morale della forza. Nella tipologia sociologico-politica caratterizzata dalla divisione dei poteri, il Governo diventa elemento esecutivo strutturalmente interno alla dinamica politica, perdendo così il suo significato autoritativo. Ora, il trapasso dalla fase integrativa della potestà con la autorità, tipica del periodo medievale, alla fase assolutista della integralità del Potere, propria dell‟evo moderno, ha un aspetto propriamente pubblico, legato a forme di pensiero socialmente dominanti all‟interno dell‟orizzonte di coscienza dal significato istituzionalizzato, distinto dall‟aspetto privato, legato a forme di pensiero minoritarie e comunque prive di valore istituzionale. Dal punto di vista culturale, il monopolio della sfera pubblica da parte dello Stato assolutista comporta la selezione dei valori rilevanti in senso funzionale al Potere politico, per cui gli ostacoli frapposti a tale monopolio hanno anch‟esso un carattere ideale-privato e un carattere pubblico-istituzionale e in tal senso va interpretata la lotta che ha impegnato la Chiesa contro le pretese dello Stato secolare, i modelli ideologici del quale, peraltro, non sono che una traduzione politica dell‟integralismo religioso di origine ecclesiastica. A questo proposito, ciò che rileva ai fini della determinazione della Weltanschauung moderna, e quindi della differenza rispetto alla visione del mondo medievale, non è l‟univocità dei motivi interni all‟orizzonte di coscienza sociale, ma la rilevanza pubblica dei livelli di coscienza politicamente omologati. Ciò comporta che a qualificare lo spirito del tempo non sia la varietà dei modelli culturali coesistenti all‟interno di uno stesso mondo-di-senso, quello che oggi si direbbe il “pluralismo dei valori”, ma la rilevanza pubblica di alcuni di essi a

338 M. Scheler, Wissenssoziologie (1924), tr. it., Roma, 1966, pag. 72.

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scapito di altri, ammessi o tollerati ma nella sfera privata. Essendo nota, dai tempi di Socrate, l‟impotenza delle idee nella direzione del corso degli eventi, ai fini della loro rilevanza sociale esse necessitano di una oggettivazione istituzionale che le affermi di valore comune, ossia ne socializzi il significato nel senso della sua rilevanza pubblica. In questo precipuo senso, i detentori del Potere sociale sono anche, e soprattutto, detentori di un potere ermeneutico, tributario di significato alle opere umane. E‟ questo il senso funzionale ed etimologico attribuito da Platone al Demiurgo, il quale ha il potere di rendere (ergon) demion, cioè “pubblico”, l‟operato umano, riportando all‟unità ideale, ossia universale, il molteplice. La capacità poietica, cioè creatrice, del Demiurgo è indicata nel Sofista e confermata nel Simposio come il passaggio “dal non-essere all‟essere” (), attraverso il quale si perviene all‟ordine. Ed è in virtù di tale ordinamento che il Demiurgo nel Politico viene chiamato “governatore” ().339 Per intenderne il ruolo, occorre ricordare che Platone aveva stabilito nel Politico tre livelli di sapere: quello tecnico o artigianale, quello legislativo o politico, e quello teoretico o filosofico. Circa il livello politico, la sapienza relativa concerneva la possibilità di trovare il “giusto mezzo tra opposti eccessi”, presumendo che il legislatore politico conosca la differenza tra la conoscenza pratica e quella teoretica, detenuta dal filosofo. E‟ questi infatti che, conoscendo le ideali “norme supreme” che regolano la vita cosmica e dunque anche quella politica, possiede “il vero sapere politico”. Come è stato giustamente notato, “il rapporto tra conoscenza filosofico-politica e attività pratico-politica, in tal modo, risulta analogo al rapporto di essere e di azione sussistente fra la sfera delle Idee e la sfera dell‟anima: in ambedue gli ambiti ciò che è sopraordinato e che dà forma e che è quindi produttore di bene, agisce su ciò che è subordinato”.340 Ciò implica che la stessa distinzione interna all‟ambito politico si fonda su una gerarchia strutturale di valori non omologabili, ossia non riducibili l‟uno all‟altro, per cui sarebbe improprio sia negare il ruolo del legislatore, che misconoscere quello

339 Ved. a proposito il commento di G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, cit., pagg. 503-536. 340 K. Gaiser, La metafisica della storia in Platone, cit., pag. 77.

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del governatore. In tal senso, la stessa funzione demiurgica è distinta tra un livello ordinamentale, di carattere strutturale e sistemico, e un livello amministrativo, di carattere operativo e funzionale. Il mito politico platonico di pervenire all‟unità di questi distinti livelli di coscienza e operativi, è legato alla concezione idealistica del “rispecchiamento” pratico della perfezione ideale, che avrebbe superato il divenire delle imperfezioni dei fenomeni sensibili, ed è lo stesso mito ereditato prima dalla teologia politica cristiana di cultura ellenistica, in chiave teocentrica, e quindi dalla filosofia politica moderna, in chiave antropocentrica. Storicamente, esso ha legittimato il potere ermeneutico di determinare l‟ambito della realtà significativa, detenuto nell‟evo di mezzo dalla Chiesa in termini di monopolio della verità scritturale, e acquisito in età moderna dallo Stato assolutistico attraverso la creazione dello Spazio Pubblico politico quale l‟unico ambito di significazione riconosciuto di rilevanza sociale. L‟accezione di “pubblico”, cioè di significato avente rilevanza comune, è stata contesa originariamente tra i rappresentanti della tradizione religiosa antica, i sofisti e i filosofi, in relazione alla possibilità di collegare quel significato ordinato dal Potere a un valore universale, superiore dunque alla disponibilità arbitraria della forza politica. La pubblicità patrocinata dai filosofi, e che finalmente ha prevalso come criterio di validità teoretico-scientifica, è quella di carattere universale, ricercato attraverso il discorso condotto con metodo logico, quello appunto della filosofia, per la quale soltanto o “spazio pubblico” di senso universale è razionalmente valido, cioè “vero”. La verità di un asserto razionale è nella sua universalizzazione, ossia nella sua possibilità di essere esteso in senso logicamente universale. Questa possibilità era riservata alla sapienza dei filosofi, che Platone voleva, com‟è noto, porre alla guida ideale degli Stati. Ma stabilita la possibilità di coniugare i due distinti momenti gerarchici in un Potere unitario che li assommi entrambi, ecco che si ipotizza la realizzazione dello Stato ideale. da qui nasce la contesa totalitaria tra l‟imperium teologico-ecclesiale medievale e quello politico-statalistico moderno. Rispetto alla analoga creazione dell‟ambito della antica politeia greca, la creazione razionalistica moderna dello Spazio Pubblico ne rappresenta per l‟appunto la sua proiezione universale, inerente cioè tendenzialmente ogni ambito della vita sociale, interpretato in termini

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di relazione politica, e dunque funzionali al Potere. E la creazione dello Spazio Pubblico risale al processo di razionalizzazione dello Stato in senso della impersonale e anonima struttura burocraticoamministrativa garante dell‟ordine razionalmente costituito, con la quale il Potere ha trasferito entro la sfera politica il tradizionale ambito dei valori socialmente significativi, riservato alla religione e ai suoi custodi, cioè alla Chiesa. La razionalizzazione in senso universalistico dello Stato e il processo culturale di secolarizzazione sono aspetti intimamente connessi alla stessa funzione totalitaria del Potere moderno, che assegna alla scienza lo stesso valore universalistico assegnato alla politica. Dal punto di vista sociologico, la correlazione strutturale tra Papa vescovi e clero con la nomenclatura feudale di Re vassalli e popolo viene ad essere alterata dalla razionalizzazione amministrativa in senso della indipendenza funzionale della titolarità del Potere da ogni vincolo di rapporto carismatico, tale che la sua oggettivazione istituzionale lo rendesse neutrale rispetto ai contenuti, ossia agli stessi fini. La neutralizzazione dei fini ai quali è preposto l‟ordinamento, rendono questo una mera struttura di potere, funzionale alla sua sola stessa conservazione e quindi al Potere immanente che esprime. Con la perdita dei fini dello Stato cade anche la questione della legittimazione morale del Potere, e quindi del suo Governo etico, incarnato dalla Chiesa, che diventa per lo Stato assolutistico moderno l‟istituzione che ne minaccia la supremazia espressa dalla sua legislazione secolare. Il passaggio dalla integralità medievale all‟assolutismo moderno può anche essere indicato appunto nei termini del passaggio dalla legittimità morale del Potere alla sua sola legalità formale. E proprio il formalismo legato alla struttura di Potere dello Stato moderno ha indotto a credere molti analisti a un “meccanismo” istituzionale generatore di una forza sociale indipendente dalla volontà umana. 341 Ma la stessa struttura di potere statale, per poter svolgere le sue funzioni politiche di dominio sociale, deve trovare un referente antropologico, consapevole portatore di una interpretazione della realtà e dunque protagonista dei moderni processi di civilizzazione. E‟ pertanto vero storicamente che “a partire dalle primissime epoche della

341 N. Elias, Loc. cit., pag. 301.

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storia occidentale fino all‟epoca nostra, le funzioni sociali tendono sempre più a differenziarsi sotto la forte pressione della concorrenza”,342 ma è altrettanto vero che le dinamiche che sottendono tale processo epocale sono interpretabili alla luce di una ontologia fondamentale entro il cui orizzonte di senso gli eventi fenomenici sono significativi. Tale ontologia, determinativa di significati interni al relativo mondo-di-senso, è stata elaborata dal pensiero filosofico greco e rielaborata dalla metafisica cristiana di età ellenistica, giungendo attraverso le sue forme intellettuali medievali, sino all‟età moderna. Ciò che fonda l‟orizzonte di senso non coincide con le sue forme simbolicamente rappresentative, che variano in rapporto alle storiche determinazioni culturali socialmente egemoni. Se nell‟analisi storica si perde di vista, ovvero si ignora del tutto, il fondamento di cui il processo culturale è elaborazione di senso, si perde di vista la dinamica che lo presiede, rappresentandola come spontanea o priva di senso, oppure fatale o divina. Tale dinamica è sempre correlata ai termini di oggettivazione istituzionale delle forme simboliche rappresentative della realtà, che ne determinano l‟orizzonte sociale di senso. I termini di oggettivazione delle forme simboliche aventi un significato socializzato sono dunque sempre istituzionali, e come tali presidiate da un Potere (trans)formativo e di controllo. L‟esistenza del Potere è legata al suo ruolo, giustificata dunque dalla sua stessa funzione sistemica, per comprendere la quale occorre chiedersi anzitutto quale sia l‟essenza immanente allo Stato moderno, il suo principio costitutivo. Rispondere che esso sia “la forza”, non chiarisce ancora i termini della necessità del suo monopolio concentrato in un solo detentore. Può infatti sussistere anche una forza diffusa, come quella che caratterizzava il sistema feudale, o quella che oggi caratterizza il potere giudiziario. Invece la razionalizzazione del Potere tende alla concentrazione della forza nell‟apparato centralizzato dello Stato, il quale apparato la distrae dalla società, così come il re assolutista la sottraeva ai signori feudali. La tendenza accentratrice del Potere assolutistico è dunque simmetrica alla tendenza disgregatrice della società moderna, conseguente alla “progressiva differenziazione delle funzioni sociali” ricordata da Elias.

342 Ivi, pag. 303.

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Ora, se vi è un processo il più distante dalla disgregazione sociale a opera di forze tra loro concorrenti è quello della vita naturale. Infatti, la natura “presenta una concorrenza reale ed effettiva e, presentandola unificata, coerente e integrata”, 343 laddove la vita razionalizzata della civiltà moderna è un‟esistenza “sradicata”, direbbe S. Weil, dai suoi fondamenti comunitari, che sono appunto quelli sociali e che il pensiero classico considerava costitutivi dell‟essere umano, aristotelico .

Proprio in quanto processo innaturale, cioè non spontaneo e inscritto nell‟ordine dei processi naturali, la disgregazione sociale necessita di un impulso istituzionale che sia ancora più artificiale, del meccanismo razionale che deve presiedere, la cui forza correttiva abbia la meglio delle tendenze spontanee e naturali insite nel comportamento umano e che, riguardo al sistema, sono irrazionali. In questo senso, la forza unitiva dello Stato razionalizzato esprime una contro-tendenza rispetto a quella spontanea dell‟esistenza umana, cioè di quella socialità antropologicamente propria alla sua natura. Questa contro-tendenza anti-sociale è ciò che indichiamo col termine di “civilizzazione”, la quale consiste nella razionalizzazione dei comportamenti umani resi funzionali, ossia compatibili, alla struttura artificiale del sistema Stato. La “civiltà” è dunque lo stile di vita adattato, ossia razionalmente conforme, al sistema di relazioni anti-sociali e rappresentate idealmente come più reali di quelle sociali in senso naturale, e perciò vere. Il principio che informa la visione del mondo razionalizzato è una immagine antropologica, una intuizione dell‟uomo, sul fondamento della quale viene giustificata razionalmente la sua esistenza. L‟intuizione che sorregge l‟antropologia dell‟uomo civilizzato moderno è la stessa che fondava la credenza ontologica della sapienza occidentale dagli albori della esperienza greca, secondo la quale l‟uomo sia per natura ragionevole e che la sua vita più autentica debba perciò avere uno stile razionale. Su questo fondamento ontologico, la costituzione dello Stato moderno non fa che esprimere in forma sempre più consapevole l‟istanza razionalizzatrice insita nella credenza antropologica originaria, secondo la quale il grado di razionalità della

343 F.J.E. Woodbridge, An Essay on Nature (1940), tr. it., Milano, 1956, pag. 162.

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vita umana ne misura anche l‟indice della sua qualità esistenziale. Conformemente a questa credenza fondamentale, le istituzioni umane devono tendere ai fini della loro legittimazione morale a realizzare uno stile di vita il più razionale possibile. E nel perfezionamento di tale processo di razionalizzazione dell‟esistenza umana consiste il “progresso” della civiltà. E pertanto la funzione essenziale dello Stato consiste nell‟investimento della sua forza politica, ossia del Potere, ai fini di una “totale riorganizzazione del tessuto sociale” in senso conforme al sistema di rapporti razionalizzati. Questo, per un verso, spiega quanto riscontrato dall‟analisi sociologica di Elias circa il rapporto inversamente proporzionale tra il Potere statale centrale e l‟autonomia delle forze sociali locali, e per l‟altro chiarisce la funzione di contenimento del Potere delle tendenze politicamente centrifughe che sorgono continuamente dalla vita sociale e che determinano l‟accentuazione della tendenza razionalizzatrice del sistema, tesa a normalizzare quei settori sociali non sufficientemente omologati. Tenuti presenti questi due elementi di analisi, possiamo comprendere inoltre l‟intima radice totalitaria dello Stato razionalistico, che nel sec. XX rivela la sua compiuta fisionomia ideologica, insita come possibilità già però al principio della sua costituzione originaria nell‟età antica. 344 La credenza ontologica che l‟uomo ideale sia per natura un essere ragionevole, nonostante l‟empirica smentita, determina il dovere di costituire uno spazio civico di razionalità in cui tutti i membri del consorzio sociale, a prescindere dalla loro posizione sociale, possano

344 Alla luce di queste considerazioni, le teorie riguardanti la costituzione olistica della società antica in analogia con quella totalitaria moderna, sono comunemente viziate da una stessa incomprensione del fenomeno politico come forza razionalizzatrice del Potere artificiale dello Stato in funzione disgregatrice delle relazioni sociali naturali. Infatti, l‟analisi che tende a distinguere l‟azione politica dal suo fine costitutivo a essa immanente, non riesce a spiegare storicamente la “legge di Tocqueville”, ossia il rapporto tra libertà concessa e aumento di libertà richiesta. Infatti, ogni concessione di libertà da parte del Potere comporta la simmetrica negazione del monopolio della sua funzione. Soltanto l‟interiorizzazione del sentimento del limite della razionalità potrà conseguentemente estendersi al Potere razionalizzatore dello Stato. Ma ciò richiede un correttivo culturale ben più radicale e fondamentale di uno meramente istituzionale, che lasci impregiudicato il fondamento ontologico della fede razionalistica occidentale.

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prendere le decisioni politiche di interesse comune. Questo spazio, organizzato e sistematizzato razionalmente per costituire una struttura duratura e non occasionale, è lo Stato, il luogo pubblico per definizione. I contenuti della decisione politica, ossia la volontà del Potere, vertono su una esigenza fondamentale: rendere i comportamenti umani più razionali rispetto a quelli spontanei, ossia renderli conformi al modello di vita ideale. all‟origine del Potere c‟è pertanto la pretesa etica di rendere gli uomini migliori in riferimento al valore di quanto essi stessi saprebbero spontaneamente essere. L‟aspetto etico di tale pretesa consiste nella creazione delle possibilità comuni a tutti i membri sociali di essere migliori. La creazione delle possibilità di migliorare la condizione umana è il potere di perfezionare la natura stessa; potere che la tradizione di pensiero occidentale considera eminentemente politico. Lo Stato moderno nasce da questi presupposti fideistici, ne è la loro versione reale. Il prodotto socio-culturale di tale processo storico è la “civilizzazione”, lo spazio ideale entro il quale, mercé una struttura istituzionale, si trasforma in senso razionale il comportamento naturale dell‟uomo. Lo spazio ideale è lo stesso spazio politico, per cui il mondo civile rappresenta il luogo di realtà in cui si rispecchia storicamente l‟ideale modello antropologico. Ciò che ai fini del nostro ragionamento più rileva è che l‟ambito della sfera politica venga concepita come la forma ideale di esistenza umana, quella appunto razionale, la quale si determina in contrapposizione alla forma naturale, legata a comportamenti non regolamentati, essenzialmente belluini. In tal senso, l‟azione politica è la pratica di una discriminazione ideale tra ciò che è razionale da ciò che non lo è, ma è naturale. Il giudizio teoretico tra l‟essere e il nonessere si traduce nella discriminazione politica tra l‟amico (appartenente all‟insieme ideale) e il nemico (estraneo a tale insieme). Il giudizio politico, pertanto, presuppone un giudizio logico, stabilito su un fondamento di realtà, cioè su una fede ontologica, rimossa la quale l‟atto politico diventa mera volizione arbitraria, e l‟atto politico per antonomasia, il Potere dello Stato, mera volontà di potenza. In ogni caso, la determinazione politico-ideale consiste nel potere di assegnare il Luogo-di-realtà, che possiamo indicare come Topontico. Il Topontico è lo spazio ideale politicamente assegnato alla convivenza razionale dell‟uomo, ai suoi comportamenti normalizzati secondo il

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sistema garantito dal Potere. Il potere di assegnazione è un potere di trasformazione, per mezzo del quale nell‟esistenza umana si determina un passaggio da una condizione di non-essere a una condizione d‟essere, del tutto analoga a quello che per Platone era attuato dalla filosofia. Il legame tra la politica e la filosofia non verrà più reciso nel corso dell‟intera storia della civiltà occidentale, perché stabilisce il senso razionale dell‟agire politico. La lunga digressione, che fa da premessa a quanto stiamo per dire, è resa necessaria allo scopo di chiarire la natura del Potere e, soprattutto, le ragioni della esistenza dello Stato: perché la maggioranza degli uomini debba sottostare alla volontà di una minoranza che li obblighi a uniformarsi a determinati modelli normativi di comportamento. Tale dovere nasce appunto dalla fede ontologica nella natura razionale dell‟uomo che soltanto il Topontico politico può garantire. Ed è tale fede ontologica a trasferirsi per emanazione mistica nel rimedio politico, assegnandogli un potere taumaturgico, quello di assegnare l‟ambito di realtà entro il quale le azioni e i comportamenti umani hanno senso comune, ossia vengono omologati come atti razionali, riconosciuti degni di esistenza e quindi di protezione politica. Ed è questo ambito di realtà contraddistinto da un orizzonte di coscienza politico-razionale che viene indicato con il termine di “Storia”, che per la coscienza razionalistica è intrascendibile, in quanto fuori di essa ci sarebbe il Niente, il luogo del negativo, ossia il regno della natura. Ed è appunto entro questo orizzonte che si pone l‟analisi di Elias allorquando afferma che “l‟individuo non ha molte possibilità di scelta” in che mondo vivere. Egli infatti “nasce e cresce all‟interno di un determinato ordine con determinate istituzioni; con maggiore o minore esito, viene condizionato da esse e in base ad esse”. E anche se le trovasse “poco gradite […] non può certo ritirare la sua adesione ed isolarsi dall‟ordine esistente”.345 Non potrebbe farlo senza negare la realtà stessa, ossia il fondamento di fede razionale che la sostiene, ponendosi perciò fuori dal mondo. E‟ appena il caso di aggiungere che la riserva teoretica, e il conseguente rifiuto politico della “realtà” costituiscono l‟atteggiamento tipico del filosofo. Elias stesso aveva affermato poco prima che “l‟adesione che il singolo dà a un certo

345 N. Elias, Loc. cit., pag. 299.

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modo di convivere con gli altri, la giustificazione, in base a motivi determinati, dell‟essere inserito in una formazione statale o vincolato ad altri in qualità di cittadino […] e non di cavaliere […] avvengono a posteriori”,346 segno che la sua “adesione” non è un semplice “residuo” paretiano, ma un atto consapevole di ubbidienza alla necessità, ossia di volontario e rassegnato adeguamento alla realtà quale viene rappresentata dall‟ordine costituito. Si dà il caso, però, che la Storia stessa è un catena di vicende che vede come protagonisti uomini che non si rassegnano alla realtà data, ma lottano per cambiarla. Lo Stato razionale, col suo apparato ordinamentale, opera nel senso di debellare tali tendenze eversive attraverso il “monopolio della costrizione” con lo scopo di conseguire un “condizionamento sociale che abitua l‟individuo fin da piccolo ad un costante ed esattamente regolato controllo di sé”, stabilendo così in lui “un più stabile apparato di autocontrollo” quasi “automatico”, mentre nella società crea delle “zone pacificate”, ossia dei “campi che di norma sono al riparo dall‟impiego della violenza”.347 Il modello ideale di Stato, nell‟orizzonte di coscienza razionalistico, resta sempre quello platonico, fondato sulla dicotomia tra mentalità naturalistica dei cavernicoli non illuminata dalla ragione e quindi preda del particolarismo anarchico delle volontà, e mentalità razionale di una minoranza di uomini civilizzati, in grado di portare a unità ideale la molteplicità caotica dei fenomeni naturali. Il punto decisivo è l‟idea che l‟unità del cosmo sociale sia data dalla stabilità politica, che questa sia proporzionale al livello di monopolio della forza sociale, e che questo monopolio si ottenga ramificando le funzioni sociali in una progressiva interdipendenza degli individui, tale da inibire l‟aggressività delle pulsioni spontanee per non compromettere la loro “esistenza sociale”.348 Il punto derimente è dunque questo: l‟esistenza umana, fuori della dimensione socializzata nel senso del Topontico politico, non è (considerata) reale. E sulla fede determinata da questo giudizio di realtà si fonda la legittimità del Potere di Cesare e dello stesso processo di civilizzazione, che consiste nel riportare il

346 Ibidem. 347 N. Elias, Loc. cit., pag. 306. 348 Ivi, pag. 307.

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molteplice all‟unità ideale. Dato per vero questo assunto, ne consegue che l‟opera di razionalizzazione della vita sociale avviata dallo Stato assolutistico sia non solo altamente benemerita ma oltremodo necessaria ai fini della qualità della vita umana. Ciò stabilisce una relazione tra benessere sociale e razionalizzazione della cultura, cioè delle forme di rappresentazione ideale della realtà. Più queste vengono depurate da residui irrazionali, maggiore è la loro veridicità e fruibilità sociale. In questo senso, l‟opera di razionalizzazione culturale coincide con quella di demitizzazione della tradizione teologica cristiana, ossia con la secolarizzazione, come meglio vedremo in seguito trattando delle teorie di Blumenberg. Per restare alle analisi di Elias, l‟elemento problematico delle sue considerazioni storico-sociali è l‟irresoluta contraddizione tra l‟istanza unitaria dell‟ideale razionale di società rappresentato dallo Stato assolutistico, e la varietà crescente di funzioni interne alla struttura sociale, indispensabile alla sopravvivenza del Potere. Tale diversa e opposta declinazione delle forme di organizzazione razionale, unitaria quella del Potere e molteplice quella sociale, comporta una intestina tensione istituzionale che nei singoli si riflette in termini esistenziali di “autogoverno psichico”,349 che è il modo con Elias chiama la rassegnazione al destino, oggetto topico della tragedia antica. Ciò che muta nella versione moderna secolarizzata è il rapporto non più eroico, come ab antiquo, tra il protagonista moderno e la Storia in cui agisce, rispetto alla razionalità della quale il suo cimento appare velleitario e destinato perciò alla disfatta. Esso infatti, lottando contro l‟apparato della ragione istituzionalizzata, mostra un deficit di socializzazione, una diseducazione perversa contraria alla spinta indotta dal Potere “a trasformare tutta la sua economia psichica nel senso di una continua e uniforme regolazione della sua vita pulsionale e del suo comportamento in ogni aspetto della vita”.350 Abbiamo sottolineato la chiusa in quanto essa comprende il senso immanente a ogni processo di razionalizzazione, che è quello di uniformare l‟esperienza molteplice al modello paradigmatico stabilito come spazio pubblico,

349 N. Elias, Loc. cit., pag. 311. 350 Ivi, pag. 313.

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attraverso la sua progressiva universalizzazione, la quale costituisce l‟intima istanza di ogni ideologia totalitaria. Con la formazione della società moderna, a opera dello Stato assolutistico, non viene più chiaramente distinto lo spazio pubblico da quello privato, ma questo viene inglobato nel processo di razionalizzazione istituzionale e considerato anch‟esso espressione della volontà politica, soggetta alla decisione di essere o di non essere entro l‟orizzonte di realtà stabilito dal Potere. in tal senso, affermare che “tutto è razionale” vale a dire che “tutto è politica”: significa in entrambi i casi che “ciò che è reale è razionale e ha valore politico”. Che l‟uomo sia un essere imperfetto, non è solo la teologia ad affermarlo ma la stessa acquisita coscienza antropologica. Ciò che resta controverso è se la perfettibilità umana sia possibile entro lo spazio politico, e non piuttosto in un piano che trascenda l‟ordine naturale, di cui quello politico sarebbe appunto la versione perfezionata e più razionale; un piano spirituale. Se la sapienza greco-romana ha creduto nella prima ipotesi, quella politicistica di impronta naturalistica, la coscienza cristiana ha invece perseguito la seconda, quella spiritualistica, per cui, dal punto di vista cristiano, al di là della concreta condotta della Chiesa e della sua produzione teologicopolitica, il processo politico-culturale che ha condotto alla formazione dello Stato moderno è fondamentalmente legato a una errata posizione metafisica e antropologica. Infatti, la sconsiderazione della realtà spirituale partecipe della natura umana ha determinato risposte sociopolitiche coerenti a un piano di coscienza assolutamente naturalistico, che pone al centro di ogni considerazione teoretica l‟identità di verità e necessità, la cui unilateralità culturale, misconoscendo il fondamento spirituale della libertà, e dunque il movente di un agire non condizionato da fattori naturalistici, ha provocato l‟instabilità tanto delle rappresentazioni teoriche dell‟esistenza umana che dei regimi politici. Il ricorso alla forza, quale vettore di stabilità sociale e contenuto del Potere politico, è un tentativo di modellare la volizione umana entro alvei di necessità normativizzati, tendenti ad eludere il più possibile la casualità individuale a vantaggio della predeterminazione di comportamenti standard razionalizzati, sulla presunzione che l‟efficacia dell‟intervento correttivo sui comportamenti spontanei sia legata alla conoscenza dei processi naturali, ossia dei comportamenti generalizzabili secondo leggi universali. Ma proprio perché l‟azione

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potestativa del Potere agisce su moventi generici e indifferenziati, le diventa impossibile raggiungere la sfera dell‟individualità in cui si esprime la libertà umana, sicché la sua tendenza ad annullarla è dovuta alla necessità stessa di riportarla al livello operativo della genericità, in cui è possibile appunto il suo controllo e quindi efficace l‟azione istituzionale in cui consiste. Ora possiamo meglio comprendere come il passaggio dalla condizione naturale a quella civile altro non sia che il progresso da uno stadio di minore a uno di maggiore razionalizzazione dell‟esistenza umana, ma pur tuttavia stadi interni a uno stesso processo ideale di rielaborazione di un comune fondamento ontologico che ignora la libertà spirituale, l‟essenza umana più profonda, molto più della socialità, perché riguarda l‟uomo anche fuori dei rapporti naturali e collettivi, che non a caso Gesù chiedeva di rescindere a chiunque volesse seguirlo. Questa essenza spirituale infatti non pertiene al piano politico o di Cesare, strutturato economicamente ai fini del controllo delle forze fisiche della vita sociale, ma alla sfera dei rapporti altruistici, dove dominante è il sentimento del limite della potenza dell‟attore, individuale come istituzionale, in considerazione della realtà indipendente dell‟altro; indipendente dal nostro riconoscimento, e quindi assoluta. La condizione di assolutezza di una realtà che non dipenda dalla nostra volontà teoretica o di dominio, ma che riguarda ciò che trascende i limiti della nostra personalità naturale, della nostra identità politica, non può che riguardare la dimensione del divino o della Verità, declinata però non secondo i paradigma della naturalistica necessità o costrizione invincibile di una forza superiore, ma come libertà e volontaria adesione, ossia come fede. Questa è la sfera morale, alla quale deve presiedere un organo di Governo etico diverso da quello del Potere politico, i cui princìpi la Morale trascende. Fu il Cristianesimo che, per dirla con Ricoeur, introducendo nell‟alveo esistenziale dell‟uomo la “dimensione della vita morale, fa scoppiare il quadro propriamente politico della vita umana”,351 liberando l‟esperienza umana da quella fatale necessità che per la sapienza pagana legava l‟esistenza dell‟uomo alle leggi inviolabili della natura. Con la

351 P. Ricoeur, Histoire et Verité, cit. in C. Marco, Libertà e Liberalismo. Pensiero e politica della ragione in Occidente, Lungro di Cosenza, 2004, pag. 264.

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coscienza cristiana la sfera della socialità, costitutiva della natura ragionevole dell‟uomo, non viene negata a favore della dimensione noetica, alla maniera platonica, ma viene trascesa, cioè limitata all‟ambito della dimensione naturalistica, anch‟essa voluta da Dio, ma non più l‟unica a caratterizzare l‟esperienza umana, come era per l‟antropologia antica. Il carattere trascendente del limite dell‟affermazione di sé al quale ci richiama la coscienza morale, destina il Potere politico entro questa limitazione, entro i suoi limiti naturalistici. E soltanto entro la dimensione naturalistica il Potere può espletare la sua forza di dominio. Ma non essendo l‟unica dimensione umana, la sfera morale gli rimane intangibile, fuori della sua portata. Da qui il senso politico della lotta dello Stato assolutistico a negare realtà pubblica alla religione della fede cristiana, espellendo da essa, cioè dall‟ambito del suo dominio assoluto, ogni ingerenza morale, sia della sfera intellettuale che della potenza istituzionale e dottrinale della Chiesa. Negare spazio pubblico alla Morale, equivale ad affermare l‟onnipotenza del Potere e della cultura naturalistica di cui è espressione ideale.352 Viceversa, riconoscere il limite al Potere politico e al sapere razionale, significa ammettere l‟intangibilità dell‟ordine della creazione divina, e quindi dei rapporti sociali spontanei fondati sulla gerarchia dei valori tradizionali, in capo ai quali c‟è la legge di Dio e non quella dello Stato. Il Potere sconvolge l‟ordine sociale tradizionale, facendo della politica la ragione del mondo, lo strumento umanistico per sovvertirlo, mutando l‟ordine gerarchico che lo caratterizza. Niente può rimanere fuori del Tutto. Questo ni-ente è ciò a cui la ragione nega realtà significativa, il meta-fisico, ostracizzato dal metodo scientifico di conoscenza dell‟ente. Una conoscenza manipolatrice, tendente a possederlo come prodotto della sua possibilità di farne qualcosa anziché altra. Attribuire valore significativo all‟ente, significa distoglierlo dal niente e dargli realtà. La prerogativa massima del Potere è di attribuire significato alle cose. Circoscrivere l‟ambito significativo allo spazio pubblico, significa controllare entro quello spazio tutto ciò che vi rientra. Un Potere che

352 Giusta pertanto l‟affermazione di E. Severino secondo il quale “la metafisica ha preparato la dimora della violenza, ed è anzi la violenza stessa nella sua forma più originaria e più pura”: Téchne. Le radici della violenza (1979), Milano, 2010, pag. 215.

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guarda al tutto come suo campo di controllo e che non venga limitato da un principio trascendente è tendenzialmente totalitario. 353 Se dunque ci chiediamo a quale stadio di razionalità appartenga l‟epoca medievale, in riferimento alla costruzione della società politica moderna, la risposta appare scontata. Ma sarebbe la risposta giusta a una domanda sbagliata. Infatti, la domanda corretta è: possiamo considerare il processo razionalistico di civilizzazione un percorso storicamente necessario? Oppure esso è soltanto il possibile esito storico di una ipotesi onto-antropo-logica? Dai risultati fallimentari per l‟esistenza umana cui è pervenuta la civiltà europea nel sec. XX, la risposta sembrerebbe scontata, ma per convincersi della impraticabilità storica del paradigma ontologico razionalistico occorre che la possibilità dell‟esito totalitario non venga intesa come un‟opzione degenerativa contingente e arbitraria rispetto ad altre ireniche di determinate versioni ideologiche aberranti, ma che ogni possibilità elaborata sul fondamento di quel paradigma conduce a un analogo esito totalitario, essendo totalitario il principio stesso di ragione. Questo principio, infatti, determinandosi per negazione dell‟altro-dasé, afferma esclusivamente sé stesso, rappresentando il proprio sé come il tutto. Nella riduzione di tutta la realtà al sé consiste la reductio ad unum sia del metodo razionale di pensare che della pratica politica, e pertanto, non soltanto i sistemi di pensiero razionalistici, ma anche lo Stato razionalistico sono fondamentalmente totalitari. La forza politica dello Stato razionalistico o assolutistico è la stessa forza teoretica della ragione che procede per esclusione dall‟orizzonte di potenza del Sé tutto ciò che non gli appartenga, l‟altro, appunto. E poiché la considerazione dell‟altro è la premessa di ogni sentimento morale, il processo di affermazione dello Stato assolutistico si sviluppa come esclusione di ogni considerazione della realtà non sussumibile entro il suo orizzonte di coscienza-potere, e dunque come formalizzazione istituzionale del Potere esclusivo di ogni forma sociale di carattere impolitico. Il sistema medievale, entro il quale convivevano distinte e diverse costellazioni sociali, costituiva un

353 “La storia dell‟Occidente è il progressivo impadronirsi delle cose, cioè il progressivo approfittare della loro disponibilità assoluta e della loro infinita oscillazione tra l‟essere e il niente”: E. Severino, Loc. cit., pagg. 222-223.

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ostacolo formale alla razionalizzazione sistematica del Potere unico centrale, e quindi, così come la sua economia naturale, doveva essere superato da una organizzazione statalistica che riportasse la diversità socio-economica all‟unità politica, nelle forme ricordate da Elias. Ciò che però Elias non considera è che il processo di normalizzazione razionalistica della struttura assolutistica di potere statuale, se aveva come obiettivo politico empirico il superamento del sistema feudale, e dunque la lotta contro le resistenze nobiliari ed ecclesiastiche, l‟obiettivo ideale del sistema di potere razionalistico è l‟annichilimento di ogni forma di pensiero e di ogni prassi sociale di carattere etico, assunto come l‟oggettivo polo dialettico della sua auto-affermazione politico-culturale. Se questo è chiaro, allora possiamo comprendere come il processo di secolarizzazione della cultura moderna proceda di pari passo con la tendenziale eliminazione istituzionale di ogni forma di Governo morale della società, avvertito come concorrente al monopolio del Potere dello Stato assolutistico. In tal senso, era necessaria la lotta contro il potere concorrente sia della nobiltà feudale che della Chiesa, condotta in termini di dissacrazione di ogni valore morale e sentimentale trascendente il piano di realtà politico, quello appunto del Potere. La conseguenza spirituale di questa strutturazione razionalistica della vita sociale è la sublimazione economica della volontà, ovvero il fenomeno che Weber ha indicato come “trascendenza infra-mondana”, consistente nella razionalizzazione utilitaristica degli impulsi vitali in forme produttive di beni materiali. L‟etica del successo prende il posto, nella stessa società di cultura cristiana, dell‟etica della santità. Un‟altra conseguenza della “civilizzazione”, non meno gravida di risultati esistenzialmente devastanti per l‟uomo, è l‟aumento del Potere di controllo istituzionale su pressoché ogni aspetto della vita sociale si accompagna alla crescente incapacità di controllare i processi messi in moto dallo stesso Potere di indirizzo normativo dello Stato di diritto. Il che fa dire a Elias che “come quello sociale, anche il processo individuale di civilizzazione a tutt‟oggi si è svolto in massima parte in modo cieco”.354 “Cieco” in senso kantiano di un agire non guidato dalla ragione, attivistico. Come ha notato a suo tempo H. Arendt,

354 N. Elias, Loc. cit., pag. 317.

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l‟agire umano produttivo di processi incerti e imprevedibili, non riguarda alcuna sua facoltà teoretica legata alla contemplazione o alla stessa ragione.

In questo tipo di azione – il cui effetto è stato straordinario per l‟età moderna, sia per l‟enorme estensione delle facoltà umane sia per la nuova coscienza storica che ha prodotto – si sono avviati processi dei quali non è dato prevedere l‟esito, così che l‟incertezza anziché la fragilità, diventa il carattere decisivo delle cose umane.355

Questo esito paradossale della civilizzazione, non soltanto collega destini individuali a destini collettivi, ma è l‟indice di quell‟errore di cultura della credenza ontologica razionalistica, di cui si diceva sopra, che produce, nelle sue incessanti rielaborazioni dello stesso paradigma mitico, mito-logie che non trascendono il suo orizzonte di coscienza, e perciò riproducono in forme diverse gli stessi esiti irrazionali, e quindi “comportamenti incontrollabili” (Zwangshandlungen), contraddittori rispetto al Potere panoptico di controllo dello Stato moderno, e per questo “socialmente privi di utilità”.356 Ciò significa, in altri termini, che il dominio della sfera del valore economico, proprio di una cultura socializzata in senso razionalistico, produce comportamenti devianti non controllabili dal Potere, in quanto espressivi di una condizione umana che la cultura razionalistica tende per principio a escludere dalla realtà informata ai suoi princìpi. Ma a seguito di questa rimozione dell‟irrazionale, le manifestazioni sociali extra-sistemiche, anziché essere comprese entro il processo di universalizzazione dei valori della ragione, vengono, in virtù del processo universalistico stesso, marginalizzate dal sistema, il quale non potendole discriminare senza ammetterne l‟esistenza, ne ignora la genesi auto-poietica interna al sistema, ovvero le classifica come occasionali devianze criminali, socialmente marginali. Le conseguenze sociologiche di tale rappresentazione della realtà sono analoghe a quelle teoriche, nel senso che, se per un verso i fenomeni eversivi prodotti dalla civilizzazione vengono (almeno in pare) puniti da non culturalmente assorbiti se non psicologicamente come fenomeni

355 H. Arendt, The Human Condition (1958), tr. it., Milano, 201419, pag. 171. 356 N. Elias, Loc. cit., pag. 318.

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di assuefazione, per altro verso, l‟intrascendibilità dell‟orizzonte politico del sistema induce l‟agire eversivo ideologicamente più motivato e consapevole, a organizzarsi politicamente e ad agire a sua volta come legittima forza sociale, chiedendo di essere riconosciuta tra le altre forze sociali. In questo modo i movimenti fascisti europei tra le due Guerre andarono al Potere democraticamente secondando una prassi istituzionale formalmente corretta, pur con l‟intento chiaramente eversivo di rovesciare il sistema che tendeva ad emarginarli ma che si rivelò del tutto impotente a contenerli. Di fronte alla portata sociopolitica di questi fenomeni eversivi, il giudizio realistico di parecchi ascoltati osservatori di dogma razionalistico – si pensi, in Italia, solo al giudizio di Croce sul fascismo – si rivelò di una miopia teoretica più che incresciosa, sbalorditiva per la loro incomprensione storica. Ma vi è di più. Ancora dopo l‟esperienza devastante dei regimi totalitari per la civiltà europea, dopo la seconda Guerra mondiale, che aveva mostrato plasticamente le conseguenze tragiche della teoresi razionalistica portata agli estremi ideologici, tutti i paesi che negli anni Trenta del Novecento avevano rigettato il sistema democraticoparlamentare per quello fascistico, tornarono ad adottarlo come antidoto politico-istituzionale al fascismo e al comunismo, non prendendo consapevolezza che anche la forma parlamentare era una variante ideologica dello stesso principio totalitario che sottende la teoria razionalistica della sovranità democratica, confermando con ciò quanto sopra affermato circa la confusione tra possibilità istituzionalmente diverse ma idealmente interne allo stesso orizzonte di pensiero, e cambiamento di paradigma ontologico. Così come il realismo filosofico non è che la forma speculare dell‟idealismo, anche lo statalismo è la forma secolare dell‟ecclesialismo, espressioni di una medesima concezione razionalistica e perciò totalitaria della realtà. Il pensiero antico, compreso quello greco, fin quando si era mantenuto all‟interno di una particolare dimensione sociale, conforme all‟organicismo naturalistico, quella comunitaria, distinta dalle altre per credo, lingua e costumi, ha concepito il sentimento del limite come la conseguenza di quella stessa insuperabile particolarità, collegata alla volontà divina e perciò necessaria. Allorquando il pensiero razionalistico ha ricercato una legittimità del mondo diversa da quella mitico-comunitaria, ritrovandola nella logica universalizzante, ecco che il piano della realtà fenomenologica si è trasferito in una

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dimensione meta-fisica di elitaria accessibilità ma oggettivabile in termini razionali attraverso una metodica tecnica, e quindi riproducibile. La politica, intesa come arte (o tecnica) della riproduzione della società ideale attraverso il Potere legislativo, è una concezione che appartiene alla metafisica idealistica che ancora domina il nostro orizzonte di coscienza. Riprodurre la realtà, in termini politici, significa formarla secondo l’idea, e dunque non crearla dal niente, come l‟opera di Dio ha creato l‟universo, ma farla nascere dall‟Idea: costruirla. La poiesi particolare della creazione idealistica è che la realtà da essa determinata è razionale, cioè “vera” e non semplicemente funzionale (utile) o estetica (bella). Affermare che qualcosa sia razionale significa che è di valore universale, non dipendente cioè dalle credenze umane delle culture particolari, e perciò affermabile al di là di ogni comprensione particolare, oggettivamente. La razionalizzazione del mondo elimina la soggettività per affermare l‟oggettività del valore universale. Ciò vuol dire che tale valore universale non perde la sua oggettività se non venga compreso, e dunque può essere imposto anche con la forza, cioè politicamente. La differenza rispetto al processo dialogico, è che nell‟ambito politico la mediazione del deuteragonista dialettico si può superare affermando direttamente il risultato razionale, ossia realizzando la realtà ideale. La struttura di Potere messa in piedi dallo Stato assolutistico moderno non è che la definizione sistematica della realtà formalizzata secondo l‟idea razionale, ossia la razionalizzazione del mondo in custodia politica, lo Spazio Pubblico. Questo mondo custodito dalla politica è lo Stato. La costruzione dello Spazio Pubblico statale riproduce in forma razionale il materiale sociale, quale si è venuto casualmente accumulando sulla base dell‟esperienza spontanea degli uomini. Ciò vuol dire che la realtà strutturata razionalmente dallo Stato è costruita espungendo dall‟esperienza sociale le forme di convivenza irrazionali rispetto al modello ideale, e perciò non utilizzabili. Questo scarto ontologico operato dalla politica sulla realtà sociale è ciò che comunemente va sotto il nome di “riforma sociale”. Considerando, però, la intima natura razionale di tali riforme politiche della vita sociale, la loro portata universale si riflette sulla coscienza culturale tradizionale come “progresso civile”, ossia come processo di civilizzazione. A questo punto è opportuno chiedersi il perché di questo processo di

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razionalizzazione del mondo, della sua necessità. Se infatti esso è stato perseguito per secoli fino alla sua realizzazione novecentesca, segno che il mito che lo ispirava è stato creduto vero per tutto questo tempo dalle classi dirigenti europee. La radice nella verità di tale credenza va riportata alla coscienza della finitezza umana, ispiratrice dei possibili rimedi. Fin quando l‟uomo ha creduto al volere degli dèi, ossia a quella Necessità che lo legava indissolubilmente ai destini naturali, egli non ha neppure pensato alla possibilità di emanciparsi, se non contingentemente a opera di eccezionali eroi, a loro volta di sangue divino. L‟uomo credente negli dèi non pensava di valicare il Limite della propria condizione umana, della propria natura. Solo allorquando ha creduto di poter attingere al sapere assoluto, alla verità, attraverso il metodo razionale, ha creduto anche di emanciparsi dal giogo della Necessità. In tal senso, la filosofia è stato il maggior atto d‟orgoglio teoretico dell‟uomo emancipatosi dalle credenze mitiche. E questa hybris l‟uomo moderno ha riversato costruendo politicamente la società ideale, non bastandogli più il semplicemente pensarla, realizzando così il progetto platonico della Repubblica di liberare la cieca umanità dalle tenebre delle superstiziose rappresentazioni mitiche del mondo. Ma per addivenire alla realizzazione di tale progetto razionalistico, la civiltà culturalmente demitizzata ha dovuto credere nella inesistenza degli dèi per poter rimuovere il sentimento del Limite che comportava la credenza in quella esistenza. E dunque la nuova posizione razionale ateistica dell‟uomo emancipato dal mito non è altro a sua volta che una nuova credenza, sostitutiva di quella antica nell‟esistenza degli dèi. Credere nell‟esistenza del Limite, o non crederci ha dunque la stessa valenza mitica? La risposta dipende dalla capacità che l‟uomo si è ascritto di poter superare quel Limite, sfidando la necessità naturale sul terreno della durata, cioè sulla vittoria contro l‟edacità del tempo. Soltanto dimostrando di poter realizzare l‟ideale l‟uomo può sconfiggere il Limite della morte. Per i Greci ciò avveniva attraverso la memoria (Mnemosyne), il gesto memorabile da tramandare ai posteri oltre la vita del suo attore. La costruzione dello Spazio Pubblico è stato un modo di partecipare i cittadini all‟agire razionale, mirante a edificare uno Stato non soggetto a termine, dalla durata illimitata: ideale, appunto. La sfida contro gli dèi non poteva che avere questa posta in gioco, la costruzione della città eterna. L‟uccisione degli dèi

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doveva segnare l‟avvento del tempo dei figli, mortali ma capaci di costruire il loro regno eterno. Il razionalismo si consuma attraverso il parricidio del mito che ha generato la sua elaborazione. Divino è, nel regno umano, colui che incarna l‟ordine ideale della Città per averlo costituito, il Demiurgo politico. Il suo compito è di negare la condizione mortale dell‟uomo come destino,divinizzando, se non l‟uomo empirico, la sua opera. Lo spostamento d‟attenzione dalla natura divina ai prodotti umani segna la dimensione stessa della sfida antropologica intrapresa contro la mortalità per mezzo della poiesi idealistica, della creazione degli enti di ragione.357 Il mondo della produzione e del lavoro diventa nell‟età moderna il luogo in cui si realizza l‟ideale. In questa centralità della praxis, la sfera politica si collega sempre più funzionalmente all‟economia, fino a diventare gestione della intera vita umana come esistenza razionalizzata, fuori del cui ambito c‟è il kaos delle società tradizionali. L‟ambito dell‟esistenza umana razionalizzata è quello della Storia, il campo ideale in cui si può narrare il processo della vita razionale dell‟uomo, il senso universale della sua fenomenologia. Fuori della Storia persistono culture non civilizzate e mentalità non razionalizzate, preda della necessità della mera sopravvivenza naturale. L‟universalismo razionalistico, anche sul piano storico, si determina attraverso l‟esclusione dialettica dell‟altro-da-sé, del Negato. Il Negato è colui che vive fuori della Storia, l‟alienato socio-culturale dal processo di civilizzazione razionalistico. Il rischio di alienazione socio-culturale è immanente a ogni processo di acculturazione, ma nella esperienza socio-culturale dell‟Occidente il fenomeno ha assunto i termini della minaccia esistenziale, proprio in conseguenza del carattere universale del processo di progressiva razionalizzazione della civiltà. Se dunque nell‟età medievale registriamo una varietà di luoghi di socializzazione (culturali, familiari, locali, religiosi, artigianali, etc.), la

357 Diversamente da quanto sostenuto da E. Severino, noi pensiamo che la civilizzazione occidentale in senso razionalistico sia un processo conflittuale contro il nichilismo, ossia contro il destino della necessità della finitezza umana, segnata dalla consapevolezza, solo umana, della morte. Questa lotta contro la necessità coincide con la stessa rimozione del Limite che divide la sfera mortale da quella divina.

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nascita dello Stato assolutistico riduce tali spazi tendenzialmente a uno: quello politico, lo Spazio Pubblico. Soltanto chi è all‟interno dello Spazio Pubblico partecipa della vita dello Stato. rispetto alla grande dicotomia tra chi è dentro il sistema e chi ne resta fuori, la stessa proliferazione delle funzioni sociali diventa secondaria, perché conseguenziale alla stessa struttura onnicomprensiva del sistema politico razionalizzato. Se questo è chiaro, lo è anche il termine polemico del Potere, che è un termine oggettivo non meno di quello positivo della volontà politica più forte. Il termine polemico contro il quale si manifesta il Potere politico razionalizzato è la società stessa in quanto luogo della coesistenza spontanea delle gerarchie, della tradizione impolitica, della credenza mitico-religiosa, dei conflitti non normativizzati, dove regna l‟anarchia dei poteri e l‟assenza delle leggi razionalmente valevoli per tutti, dove l‟uomo è lupo all‟altro uomo: il regno della vita naturale. La società come ambito naturale di vita, contrapposta alla vita civile nello Stato razionale, è il luogo del Negativo, del non-essere ideale, dove si rifugiano gli emarginati dalla Storia, i Negati appunto. L‟altra società, quella “civile”, in cui regnano i rapporti razionalizzati, è abitata da uomini ragionevoli, civilizzati, ossia inclusi entro l‟orizzonte di controllo del Potere universale. Fuori di questo mondo razionalizzato dal Potere resiste nel Medioevo la Chiesa, quale società altra e non omologata entro lo Spazio Pubblico dello Stato. La forza della Chiesa, che pure combatte la sua battaglia politica contro le pretese assolutistiche dello Stato, è riposta soprattutto nella sua capacità di influenza intellettuale nelle élites e di presa religiosa sugli strati sociali inferiori. Ma le resistenze intellettuali opposte dalle sue istituzioni e dalle sue tradizioni di pensiero non hanno retto l‟urto della secolarizzazione della cultura moderna, in quanto la teologia stessa era impregnata di razionalismo, fungendo da fucina mitica a ogni successiva elaborazione filosofica, sicché l‟attività di razionalizzazione universale ha trovato i suoi confini nelle civiltà di mondi socio-culturali diversi da quelli occidentali, verso i quali si è diretta l‟attenzione globale delle ideologie democratiche, il cui scopo è quello di inglobare le realtà dei Negati entro l‟orizzonte di senso razionalistico della civilizzazione occidentale, concepito sia come una opportunità di dominio che come una missione morale di chi ha benessere verso chi non ne ha. La stessa Chiesa di oggi, abbracciando del tutto la prospettiva ontologica

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razionalistica che la sua teologia ha così tanto contribuito a diffondere, propone questo rapporto quantitativo come scala di doverosa attenzione degli abbienti verso i fratelli non abbienti, abbandonando ogni prospettiva soteriologica di carattere spirituale a favore del miglioramento delle condizione di vita materiale legate all‟incremento della produzione e dei consumi delle realtà più povere, e quindi al protagonismo del Potere politico ed economico su sempre più ampia scala mondiale. Il rovesciamento della visione dell‟Essere nella dimensione dell‟Avere è il risvolto prassistico dell‟onto-logia razionalistica, il cui universalismo esclusivistico ispira l‟etica dell‟inclusività, ossia dell‟espansione indefinita del dominio ontologico in ogni ambito dialetticamente escluso, in una lotta strenua quanto impossibile contro il Negativo che essa stessa produce per partenogenesi. Infatti, qualunque lotta per la redenzione economica presuppone la povertà del redento, sicché ogni intervento mirato alla inclusione politico-culturale dei popoli esclusi entro l‟orizzonte della civiltà razionalistica, deve supporre la loro negazione dialettica, ossia un giudizio di irrilevanza della loro esperienza esistenziale. La prassi razionale, dettata dal “modello ideale” che, come già Marx affermava consapevolmente, “sta all‟inizio del processo lavorativo”,358 trasforma ciò che non è nell‟Idea in prodotto ideale, in ciò che è secondo la sua Idea. Quest‟opera di trasformazione, che pone in essere quanto non lo era, è per Hegel il processo stesso del divenire della Storia quale sviluppo razionale dell‟Idea totale o Spirito (Geist), il cui “prodotto è l‟intera esistenza etica di un popolo”, mentre il “modo” in cui l‟Idea “si produce nel tempo” è la “libertà”, definita pertanto da Hegel come “il modo in cui l‟Idea fa emergere ciò che essa stessa è e diventa progressivamente ciò che essa è secondo il suo concetto. Questo far emergere si dispone in una serie di figure etiche, la cui sequenza costituisce il cammino della Storia”.359 Il processo della volontà umana, inserito nel processo produttivo della Stria impersonale, perde la sua responsabilità morale e diventa libertà

358 K. Marx, Il Capitale, lib. I § 3. 359 G.W.F. Hegel, Vorlesungen ueber die Philosophie der Weltgeschichte (1822-23), tr. it. di S. Dellavalle, Torino, 2001, pag. 23.

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oggettiva, ossia momento funzionale alla realizzazione dell‟Idea, “quale è secondo il suo concetto”, ossia secondo il suo modello universale. E ogni realizzazione storica dell‟Idea, costituisce una forma etica in cui si comprende l‟intera realtà etica di un popolo, di cui lo Stato è l‟espressione istituzionale. Ecco dunque teorizzato lo Stato etico, ossia l‟eticità dello Spazio Pubblico che in esso si determina e dal cui Potere è presieduto. Lo Spazio dello Stato, il Topontico politico controllato dal Potere, diventa il luogo della razionalità, e dunque della verità della realtà. Ciò che è razionale e vero si manifesta entro lo Spazio Pubblico, fuori del quale c‟è il Niente, la Negazione, lo scarto irrazionale della natura. L‟interdipendenza sistematica, che costituisce il tratto caratterizzante della civilizzazione in Occidente,360 si spiega appunto con il processo di razionalizzazione della realtà attraverso lo Stato, tale che il suo Potere non sia un mero esercizio di dominio del forte sul debole, ma sia rivestito di un crisma etico che surroga la condizione di salvezza promessa dal messianismo escatologico cristiano e, come quello religioso, è pregno di un forte carattere ascetico teso alla “moderazione degli affetti e alla regolazione delle pulsioni” spontanee al fine di “subordinare le inclinazioni momentanee alle esigenze di una più ampia interdipendenza”. 361 La vita razionalizzata è costituita infatti da legami e relazioni stabilite secondo criteri funzionali al meccanismo complessivo della società artificiale regolata dallo Stato, il cui ambito diviene perciò la natura perfezionata dall‟uomo per l‟uomo. Così come il modello ideale per definirsi astrae dal divenire delle imperfette relazioni concrete del mondo-della-vita, parimenti la realtà razionalizzata si determina astraendo il proprio ambito ideale dal divenire scomposto della natura. In questo senso, la società liberale moderna rappresenta essenzialmente un modello astratto di esistenza umana, intendendo per “astrazione” la “modalità dell‟essere totale che si realizza come realtà finita, come fenomeno storico, nel tempo”.362 Ed è questa modalità, come abbiamo visto, che Hegel chiama “libertà”, per cui la relativa civiltà che ne è espressione è

360 N. Elias, Loc. cit., pag. 320. 361 Ivi, pagg. 321-322. 362 C. Marco, L’ordine pigro. Nascita e declino dell’Europa civile, Lungro di Cosenza, 2012, vol. I, pag. 203.

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quella che abbiamo indicato come “civiltà liberale”. Il meccanismo sociale sotteso al funzionamento dello Stato moderno, in virtù del processo di universale razionalizzazione del sistema di vita da esso regolato, tende a rapportare ogni singola articolazione interna al sistema alla sua prevista funzione, sicché ogni rapporto funzionale viene spersonalizzato e reso anonimo, ossia astratto da ogni altra considerazione di carattere esistenziale. ciò comporta che le relazioni inter-personali assumono significato solo all‟interno del sistema di valori riconosciuto come valido, mentre viene problematizzata in termini anti-economici ogni relazione extra-sistemica, da quella affettiva alla malattia, a ogni forma di devianza sociale allo scopo di neutralizzarne la carica anti-politica. Da qui il bisogno strutturale di coinvolgere il più possibile quei settori marginali della società refrattari alla socializzazione in senso razionale, in modo tale che “le strutture civilizzatrici si diffondono costantemente anche all‟interno della società occidentale; così l‟Occidente nel suo complesso – strati inferiori e strati superiori in ciò unificati – tende nello stesso tempo a diventare uno strato superiore e di centro di intreccio d‟interdipendenze da cui si dipartono le strutture civilizzatrici, diffondendosi in zone sempre più vaste della terra”.363 La istanza universalistica del sistema liberale provoca una tendenza omologante dei comportamenti socializzati che rende più fluidi i confini socio-culturali tra esponenti di tradizioni diverse, al fine di rendere più fruibili i contenuti della produzione economica e della comunicazione finalizzata al consenso. Ciò ha comportato una significativa riduzione delle differenze e dei codici di comportamento degli strati superiori e inferiori in senso di una generalizzata stratificazione mediana, al cui interno avviene un incessante flusso e riflusso osmotico che agevola il ricambio indolore delle classi dirigenti. Ma l‟aspetto più significativo di questa tendenza sociologica è inerente alle sue possibilità di fruizione universale, che sono sicuramente dovute all‟ “inglobamento di nuovi spazi umani nell‟intreccio di interdipendenze” generalizzate, ma ancor più alle ragioni che fanno mutare “la struttura della società [tradizionale] e

363 N. Elias, Loc. cit., pag. 325.

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quella dei rapporti umani in generale”. 364 Queste ragioni e queste possibilità sono dovute alla radicalizzazione dei motivi esistenziali dell‟uomo civilizzato ai suoi elementi più elementari, alle sue esigenze primarie, le più naturali e perciò stesso le più universali, legate alla sopravvivenza biologica in senso della nutrizione e della sicurezza fisica. Quelle che erano le istanze più diffuse nella società a economia naturale, e che costituivano i contenuti salienti della cultura di base dei popoli, vengono acquisite su un piano di promozione della vita che ne consenta la traducibilità in termini razionali universali. Questa traduzione in termini universali delle istanze particolari di tutti i popoli della terra è resa possibile appunto attraverso la loro rappresentazione razionale, emendata di ogni forma culturale particolare, di ogni tradizione antropologica entro il cui ambito quelle istanze elementari avevano significato esistenziale. La razionalizzazione in senso universale delle istanze elementari dell‟uomo è insomma resa possibile attraverso la loro astratta rappresentazione naturalistica, emendata di ogni riferimento ai loro fondamenti ontologici, immancabilmente religiosi e fideistici. Questo “sradicamento” dei fruitori della civilizzazione razionalistica dalle culture storiche particolari equivale a una generalizzata e sistematica rimozione culturale dei paradigmi fondamentali del senso della vita umana, ossia di ogni sua rappresentazione in base a significati spirituali, per definizione invisibili e indisponibili dal Potere umano, e perciò “sacri”. La rimozione del sacro è dunque la condizione di fruibilità universale del processo di civilizzazione razionalistico, la quale pertanto non riguarda il mero allargamento delle possibilità di vita, e neppure tanto l‟influenza degli stili di vita occidentali, ossia le garanzie di una evidente trasformazione delle strutture socio-economiche, quanto la dislocazione dei referenti culturali comunemente significativi da un livello di coscienza spirituale, inerente alle risposte sul senso della vita, a un livello di coscienza naturale, legato al soddisfacimento dei bisogni materiali. Una volta rimossa la relazione esistenziale tra il senso della vita umana, nel suo significato eterno e non contingente, e le giustificazioni trascendenti della sua concreta finitezza, viene cancellato anche il limite di sopportazione morale di ogni contingente

364 N. Elias, Loc. cit., pag. 328.

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condizione sfavorevole, che viene imputata a ragioni anch‟esse contingenti, di natura politico-economica, riportabili appunto alla insufficiente civilizzazione delle società locali e insufficiente razionalizzazione culturale, e in tal senso superabili da una trasformazione delle condizioni di vita tradizionali, legate ancora a moduli significativi di natura trascendente e religiosa, considerati mitici. Ma è la concentrazione del significato culturale dei rapporti umani al livello della coscienza naturalistica che, consentendo l‟espansione universale del suo modello ideale di sviluppo, genera nel contempo una universale instabilità socio-politica, cioè la condizione opposta all‟ordine politico e alla pace sociale alla quale era finalizzata l‟esistenza dello Stato e dello Spazio Pubblico da esso garantito. Il concetto stesso di ordine politico cambia rispetto al concetto sociale. In senso politico, l‟ordine è conseguito dall‟equilibrio delle forze sociali razionalizzate entro lo Spazio Pubblico. In senso sociale, l‟ordine è dato dalla struttura gerarchica dei rapporti tra i ceti. Se l‟ordine politico presuppone un equilibrio dinamico tra forze attive, ossia un adattamento circostanziale e continuo del Potere ai movimenti sociali, l‟ordine sociale, viceversa, si fonda sulla stabilità dei ceti e dei rapporti secondo forme di comunicazione rigidamente stabilite dalla tradizione.365 Ciò comporta che l‟ordine politico appaia a quello sociale come la sua negazione, la sua forma concorrente, mentre a sua volta l‟ordine sociale appare a quello politico come il luogo dell‟immobilismo oggetto di trasformazione da parte del Potere razionalizzante. Storicamente, questa tensione tra i due sistemi di vita è rappresentata dalla rivalità della monarchia assolutistica con la nobiltà dell‟aristocrazia signorile, e più in generale dalla lotta della ragione di Stato contro i princìpi trascendenti custoditi dalla Chiesa. In termini concettuali, dalla lotta della logica politica, che tende all‟astratta

365 N. Elias, Loc. cit., pag. 341. Non va confusa la stabilità tra i ceti con l‟equilibrio interno ai distinti ambiti sociali, dove la vita dei singoli esponenti può essere più o meno sicura e più o meno pacifica. Ciò che si vuol ribadire è che “il fossato che divide i vari stati (Staende) è ancora profondo, anche se sul piano spaziale essi [nobili e popolani] sono vicini; costumi, atteggiamenti, vestiario e divertimento sono diversissimi tra gli uni e gli altri. Sotto tutti gli aspetti, i contrasti sociali sono più accentati e la vita appare più variopinta” : Ivi, pag. 342.

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uniformità dei comportamenti e dei giudizi significativi secondo un criterio di potenza, contro la coscienza morale, che tende invece alla individualità e diversificazione dei comportamenti significativi, secondo un principio di relazione improntato sul reciproco riconoscimento. Sono due modalità diverse di rapporti umani, e dunque di concepire la libertà. La modalità politica non attribuisce importanza decisiva al riconoscimento del Potere da parte della parte della parte debole del rapporto, in quanto decisiva è la forza oggettiva del dominus. La modalità morale, invece, è determinata dal libero convincimento delle parti, la cui relazione non esclude né la forza del maggiore né il bisogno del minore in potenza, ma della sua qualità ne decide il rapporto personale di fedeltà. La curializzazione (Verhoeflichung) dei rapporti tra cavalieri e monarca366 costituisce la prima forma di neutralizzazione politica delle autarchie e autonomie sociali a favore di una forma astratta di relazione di potere, politicamente determinata, in cui non è più l‟autonomia del “libero cavaliere”367 a decidere del rapporto vassallatico ma la condizione di inclusione o non nello Spazio Pubblico monarchico. In altri termini, non è più la condizione di emancipazione dal lavoro e il libero riconoscimento della sovranità a determinare lo status aristocratico ma la condizione di dipendenza dal “meccanismo della monarchia”, 368 ossia di appartenenza involontaria o coatta all‟ambito del Potere. Il prestigio nobiliare nello Stato assolutistico passa non più attraverso il merito personale o il titolo ereditario conseguito pei servigi resi, ma attraverso il favore del monarca monopolista, che lo può rendere reversibile o accrescerlo, e a capriccio persino annullare per disgrazia contingente del titolato. La caratteristica della società razionalizzata, come più volte ricordato, è il grado crescente di razionalizzazione dei rapporti umani in senso funzionale, tali cioè da dislocare sempre più il loro senso simbolico dal piano dell‟immutabile valore a quello dell‟oscillante significato, provocando una nozione di razionalità dell‟agire desunta dal contesto valoriale entro il quale l‟azione umana ha significato, ossia dal suo

366 N. Elias, Loc. cit., pag. 338. 367 N. Elias, Loc. cit., pag. 346. 368 Ivi, pag. 350.

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orizzonte di senso socializzato. Elias insiste sul dato della mobilità sociale e della conseguente interrelazione dei gruppi, già per altro messa in evidenza da analisi precedenti che, da Weber a Mannheim, avevano messo in luce come “da un punto di vista sociologico, un cambiamento decisivo ha luogo quando si perviene a quello stadio dello sviluppo storico, in cui gli strati, precedentemente isolati, cominciano a comunicare l'un l'altro e si realizza una certa circolazione sociale”.369 E, in riferimento alla “trasformazione subita dalla nobiltà nel senso di un comportamento civile”, aggiunge che nella “ristrutturazione della società” che ha portato “a questa trasformazione dei rapporti interumani, anche l‟economia affettiva del singolo si trasforma”, per cui “l‟immagine che l‟uomo ha dell‟uomo diviene più ricca di sfumature, più libera di emozioni momentanee” e meno esposta a una loro “visione manichea”, ossia, in una parola, diviene più “psicologica”, nel senso che sviluppa un “orientamento in base all‟esperienza”.370 Questa linea interpretativa si sviluppa a partire dal presupposto che sia la fine del monopolio culturale del clero a provocare quella che Mannheim ha chiamato la “probematicità del pensiero moderno”, conseguente alla molteplicità delle interpretazioni del mondo, il cui esito gnoseologico fu l‟epistemologia, la quale a suo dire cercò di superare l‟incertezza delle interpretazioni “muovendo non già da una teoria della realtà dogmaticamente concepita o dall‟ordine del mondo che era stato giustificato da un sapere trascendente, ma dall‟analisi del soggetto conoscente”.371 Ora, a noi pare che questa linea interpretativa, che indichiamo come anti-metafisica in senso critico kantiano, pur registrando il percorso culturale più significativo della civilizzazione moderna, non sia la più idonea a comprendere le dinamiche interne al processo di razionalizzazione in atto nella società medievale per mezzo della forza politica, in quanto la tendenza che esprimono quelle dinamiche si afferma contro una opposta tendenza dialettica, precipuamente cristiana, tesa a privilegiare l‟uomo spirituale su quello naturale precristiano e fautrice di una libertà spirituale non determinata

369 K. Mannheim, Ideologia e Utopia (1936), tr. it., Bologna (1957), 1972, pag. 10. 370 N. Elias, Loc. cit., pagg. 354-356. 371 K. Mannheim, Op. cit., pag. 15.

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coattivamente ma scaturente dalla responsabilità morale dell‟uomo, che trova i suoi maggiori referenti in Gioachino da Fiore e in Francesco di Assisi, promotori di una ascesi religiosa di senso opposto alla centralizzazione e al disciplinamento delle energie morali dell‟uomo, quali invece si determinarono per opera della Chiesa e dello Stato assolutistico, che del centralismo ecclesiale fu la versione secolarizzata. La modernizzazione della cultura medievale segna l‟affermarsi della civiltà razionalistica contro l‟opposta tendenza spiritualistica. Come ha ben ricostruito Berdjaev, “il passaggio dalla storia medievale a quella moderna segna una specie di svolta dal divino all‟umano, dalla profondità di Dio, dalla concentrazione nell‟intimo, dal nucleo spirituale interiore, alla manifestazione culturale esterna”, sicché “tutta la storia moderna è una marcia dell‟uomo europeo che lo allontana sempre più dal centro spirituale, il cammino della libera messa alla prova delle energie creatrici dell‟uomo”.372 Il passaggio dalla cultura religiosa a quella laica non esclude ovviamente la prima, così come nessuna epistemologia basata sulla logica può eliminare il suo postulato ontologico,373 ma segna il predominio del sistema razionalistico della conoscenza, politicamente garantito, teso al dominio della natura, anziché al trascendimento della dimensione naturalistica dell‟esistenza umana, determinando quell‟ “approccio realistico” che considera l‟uomo, non in quanto esperienza spiritualmente singolare, ma nella sua relazione con gli altri, “nella sua situazione sociale”, fuori della quale l‟esistenza singolare sarebbe nell‟ottica realistica “artificiosamente enucleata”.374 Elias chiama “realistico” quell‟approccio alla realtà costituito da ciò che M. Scheler chiamava il “sapere di dominio” (Herrschaftswissen), sul quale si fonda la civilizzazione occidentale, e che ha per scopo il potere tecnico sulla natura e su noi stessi in quanto legati a un sistema di bisogni, che sono appunto “reali” ma la cui relativa conoscenza riguarda “soltanto quegli elementi e quei lati del mondo reale, che si ripresentano in maniera uniforme in base alla regola cause uguali,

372 N. Berdjaev, Il senso della Storia (1922), tr. it., Milano, 1971, pag. 111. 373 K. Mannheim, Die Strukturanayise der Erkenntistheorie (1922), tr. it., Milano, 1967, pagg. 91-92. 374 N. Elias, Loc. cit., pagg. 357-359.

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uguali effetti”, ma non gli elementi non uniformi e che pertanto sfuggono alle “leggi del contatto spazio-temporale dei fenomeni”.375 Questa forma di conoscenza, propria delle scienze empiriche, ricerca preventivamente la concatenazione dei fenomeni contestuali a un determinato ambito spazio-temporale, ossia la previsione degli eventi stabilita sulla base della loro sequenza dotata di senso. Orbene, il significato dei fenomeni interni all‟orizzonte di senso della cultura signorile medievale non è “razionale” nel senso della logica del dominio, ma nel senso interno all‟orizzonte religioso della salvezza escatologica, e quindi un significato non riducibile nei termini di un “mutamento dell‟economia psichica nel suo complesso” in rapporto all‟ambiente ai soli fini dell‟adattamento politico.376 Questa induzione adattiva entro lo Spazio Pubblico dello Stato costituisce appunto il contenuto razionale dello sforzo del Potere assolutistico. Ora, esattamente rispetto a questa tendenza induttiva del Potere l‟ideale religioso dell‟etica signorile rappresentava un limite insuperabile, lo stesso che incontra la conoscenza scientifica di fronte alle questioni metafisiche.377 E nel superamento di tale limite metafisico-eticoreligioso che la tendenza intellettuale della cultura razionalistica si interseca con il processo politico assolutistico dando vita alla “struttura spirituale” moderna. Senza l‟incontro dei “fattori ideali” con quelli “reali”, quali appunto i fattori politici ed economici, in senso lato istituzionali, non soltanto “lo spirito” ma anche la forza politica sarebbe stata “impotente nel senso di un‟azione dinamica sulla società e la storia”.378 In tal senso, il cambiamento delle relazioni tra gli uomini, degli stili di vita e delle forme di pensiero, ossia il processo di “razionalizzazione”, proprio in quanto processo che, a detta di Elias,

375 M. Scheler, Philosophische Weltanschauung (1928), tr. it. in Lo spirito del capitalismo e altri saggi, Napoli, 1988, pag. 246. 376 N. Elias, Loc. cit., pag. 359. 377 “La scienza positiva non può spiegare e rendere comprensibile né un‟essenza pura stessa, né l‟esistenza di qualcosa dotata di essenza pura. La riuscita dell‟opera della scienza positiva dipende proprio dal fatto che essa, con cura rigorosa, escluda dal suo ambito le questioni d‟essenze”: M. Scheler, Loc. cit., pag. 250. 378 M. Scheler, Sociologia della conoscenza, tr. it. cit., pag. 72.

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“per quanto possibile dovremmo cogliere nella sua totalità”,379 non può essere rappresentato storicamente nei soli termini della destinazione politica dell‟agire, poiché questa rappresentazione che si vorrebbe “realistica” è viziata a priori da un presupposto di corrispondenza ideale tra la “struttura dell‟apparto di potere” e la “struttura della società”380 che invece rimangono distanti quanto lo è il mondo-dellavita rispetto al mondo-di-senso che vorrebbe determinarlo esclusivamente rispetto ad altre possibili rappresentazioni. E‟ proprio infatti delle rappresentazioni realistiche assumere le differenze individuali e dei gruppi come interne alle “stesse leggi della società umana”,381 stabilite ne varietur dall‟interprete come l‟unico valido codice euristico. La rappresentazione politicamente vincente delle dinamiche socioculturali di un determinato contesto storico varia la sua portata significativa col variare del referente spazio-temporale, sicché nella prospettiva diacronica allargata a comprendere i termini di svolta relativi all‟insorgenza e al tramonto dei suoi contenuti culturali, notiamo, all‟interno di un determinato orizzonte di senso politico dominante, una sfasatura a volte significativa tra la forza incontrastata di vettori istituzionali relativi a quell‟orizzonte di Potere e le persistenze nella società di valori culturali anacronistici, ovvero di tendenze premonitrici di forme culturali non (ancora) istituzionalizzate. La coesistenza di queste varie forme culturali, solo alcune di esse socializzate attraverso le istituzioni di Potere, costituisce un “intreccio” sociologico solo in riferimento al processo complessivo di interazione dei suoi distinti segmenti vettoriali presunti in movimento nel senso della “civilizzazione”, ma la sua incisività sulla “struttura dei rapporti interumani” può essere limitata entro l‟esclusivo orizzonte di coscienza razionalistico, mentre può risultare del tutto inefficace in relazione ad altri orizzonti di coscienza, considerati contestualmente eretici o inattuali, e perciò marginalizzati dal Topontico politico. E lo stesso Elias pare sospettarlo allorquando asserisce che “non si tratta di una totalità originariamente armonica in cui i conflitti vengono introdotti

379 N. Elias, Loc. cit., pag. 361. 380 Ivi, pag. 362. 381 Ibidem.

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casualmente”, ma “costituiscono un elemento integrante della sua struttura”, e “comunque vadano le cose, queste spinte civilizzatrici si compiono in larga misura indipendentemente dal fatto di essere o meno gradite ai gruppi e alle unità in cui hanno luogo”, ossia indipendentemente dalla distanza culturale che può separare le forme ideali istituzionalizzate dalle credenze reali dei suoi fruitori sociali, a opera di “potenti meccanismi di interdipendenze il cui orientamento generale non può essere mutato da nessun gruppo”.382 La “struttura” egemone di controllo delle pulsioni “naturali” dell‟uomo, respinte a livello inconscio, proprio in conseguenza della sua astratta impersonalità, diventa lo sfondo fenomenologico della storia moderna intesa come processo di civilizzazione, la cui comprensione “esige una ricerca sociogenetica” che faccia emergere insieme alla “struttura complessiva di un determinato campo sociale e dell‟ordine storico entro cui esso si modifica”, anche la “struttura e la conformazione” dei “conflitti” delle energie pulsionali, che costituisce il campo specifico della “ricerca psicogenetica” . Esaminando “i rapporti tra i diversi strati di funzioni reciprocamente collegati all‟interno di un campo sociale” che si determinano e mutano “a seguito di uno spostamento più o meno rapido dei rapporti di forza”, possiamo avere la prospettiva della “totalità di un campo sociale”.383 Questa struttura egemone di controllo dell‟intero campo sociale è appunto l‟organizzazione del Potere nello Stato moderno, così come è stata configurata nella teoria razionalistica della sovranità e realizzata istituzionalmente. Ma esattamente la rappresentazione oggettiva di questo livello di realtà istituzionale si rivela insufficiente ai fini della comprensione dei “modi dell‟essere e della struttura essenziale di tutto ciò che è”. 384 Infatti, la stessa oggettività della struttura istituzionale del campo sociologico, assunto come la totalità dell‟orizzonte fenomenologico, rimarrebbe inspiegabile e casuale senza il riferimento alle ragioni profonde del suo significato essenziale, che non è strutturale, ossia relativo al sistema di relazioni degli individui e dei gruppi sociali, ma ontologico e relativo ai fondamenti di realtà, che sono di natura fideistica. In tal senso,

382 N. Elias, Loc. cit., pag. 368. 383 Ivi, pag. 372. 384 M. Scheler, Philosophische Weltanschauung, tr. it. cit., pag. 248.

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intendere il processo di razionalizzazione come “l‟orientamento che va assumendo il carattere degli uomini in determinate formazioni sociali” di un determinato periodo storico in relazione alle tensioni tra uomini e gruppi sociali, significa lasciare inspiegate sia le ragioni essenziali di quelle dinamiche, sottostanti alla registrata proliferazione delle funzioni sociali, da quella nobiliare a quella borghese, che “la crescente centralizzazione di alcuni luoghi di dominio”.385 Il senso ideale delle relazioni sociali non è nella loro interconnessione entro una struttura formale, ma nel significato ontologico del suo sistema simbolico-istituzionale; significato che è in relazione ai fondamenti di senso della realtà che la struttura simbolica esprime. E‟ infatti da tale fondamento di senso della realtà che dipende la rappresentazione storica dell‟esperienza dell‟uomo.386 Ciò che di specifico ha la razionalizzazione moderna rispetto alla prospettiva antropologica medievale è che l‟unità ideale del genere umano non venga più rinvenuta nella natura divina dell‟uomo ma nella unità politica dello Spazio Pubblico, nel quale si esaurirebbe l‟intera vita etica dell‟uomo socializzato. Poiché questo contenimento dell‟uomo entro l‟orizzonte politico è già stato il tratto specifico della civiltà antica, la modernità parrebbe costituire un ritorno alla Weltanschauung pre-cristiana della civiltà classica. L‟uomo moderno, proprio in quanto costruttore del suo mondo socio-politico sarebbe per Bergson homo faber, laddove il modello classico propenderebbe per le sue qualità teoretiche di homo sapiens. Ma, sia pure nelle sue distinte articolazioni storiche, tra la razionalizzazione antica e quella moderna sussiste nondimeno una continuità d‟intenti il cui senso originario va rinvenuto, non già nelle forme espressive che esso assume nel corso del tempo, ossia nelle strutture istituzionali che lo esprimono, ma nella istanza che le forme storicamente varie esprimono. Questa istanza, proprio in quanto persiste nel tempo, è originaria e sottostà a ogni espressione formale, a ogni realtà istituzionale, che l‟esprime strumentalmente e in relazione

385 N. Elias, Loc. cit., pagg. 374-375. 386 “Ogni teoria della storia ha il suo fondamento in un tipo determinato di antropologia, a prescindere dal fatto che lo storico, il sociologo o il filosofo della storia ne abbia coscienza e consapevolezza o meno”: M. Scheler, Mensch und Geschichte (1926), tr. it. in Lo spirito del capitalismo cit., pag. 261.

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alla quale si costituisce come una “struttura significativa” destinata a un fine culturale. Attribuire alla struttura istituzionale un significato indipendente da quello che essa esprime, equivale a rimuovere dalla sua oggettiva rappresentazione simbolica il contenuto essenziale del suo essere, sostituendolo con la ricerca genetica delle sue modalità costitutive, espressive di meri rapporti di forza politici o sociali. Ma la ricostruzione genetica di un processo storico, se ricostruisce i dati reali della sua manifestazione, non chiarisce il senso unitario del suo significato essenziale, che l‟analisi sociologica abbandona al caso e alla fortuita contingenza, cioè a quella irrazionalità che il processo stesso della civilizzazione doveva negare. Questa incongruità teoretica della gnoseologia sociologica limitata al “sapere di dominio”, lascia inspiegato il senso culturale del processo di civilizzazione, costituito dalla conversione della condizione naturale della realtà in un cosmo razionalizzato dall‟uomo. Non si dà, da Tucidide in poi, processo storico senza una unità di coscienza che, attraverso la rappresentazione degli avvenimenti che si succedono nel tempo, ne costituisca il suo significato unitario trascendente la varietà delle manifestazioni fenomeniche, fornendole di un significato unitario. Per l‟ontologia greca, ereditata dalla teologia cristiana e quindi dalla filosofia moderna, questo senso unitario della realtà, tributario di realtà, è il Logos, il significato riposto dell‟essere di ciò che è storico, ma che a sua volta non ha storia, e dunque trascendente la realtà storica.387 In questo essenziale senso razionalistico, la costituzione dello Stato, e non segnatamente di quello assolutistico, doveva assolvere a questo compito di umana razionalizzazione della realtà naturale, con gli strumenti del Potere politico. Era questo fine immanente al Potere che lo legittimava metafisicamente e religiosamente da parte dell‟autorità spirituale della Chiesa, lo stesso fine che giustificava il controllo delle passioni umane attraverso codici di comportamento etico da esso stabiliti. Lo Stato razionalmente istituito come Potere universale non era che la forma moderna del Logos stoico e di quello divino platonico-cristiano. Considerarlo nella sola prospettiva della “volontà di potenza” che esso

387 M. Scheler, Zur Idee des Menschen (1913), tr. it. in La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M.T. Pansera, Roma, 1997, pagg. 63 sgg.

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manifesta ci consente di pervenire alla ricostruzione della sua istituzione formale e della sua strutturazione materiale, ma non ci rende il senso essenziale della sua realtà storica, la ragione della sua esistenza, che coincide con la stessa ragione quale “principio della costruzione del mondo”.388 Senza questo fondale metafisico, le manifestazioni delle vicende umane perdono, con il loro significato essenziale, anche il loro senso finale, l‟unico che possa consentire all‟analisi storica di determinarne il processo fenomenologico, la curva di gittata, delle sue forme istituzionali, ossia la tensione che ne anima il movimento, dalla loro costituzione al loro tramonto. Tale tensione, che accompagna la parabola della loro esistenza, è sempre in relazione alla forza spirituale che l‟anima, costituita dalla fede che la coscienza umana nutre verso il suo fondamento di realtà, significativo per l‟esistenza storica dell‟uomo. Senza la fede in questo fondamento ontologico, non si dà alcuna storia umana, alcun processo razionale, ma solo casuale e più o meno caotico sviluppo di forme culturali dell‟homo faber. Ma la stessa tensione – sia intesa in senso della fede spirituale che della volontà di potenza – deve a sua volta essere razionalmente spiegata perché assuma l‟importanza significativa che il motivo ermeneutico prescelto dall‟interprete vuole attribuirle. Ed è a questo livello di coscienza che l‟analisi storico-sociologica deve farsi da empirico-intellettiva ad antropologica e metafisica. Infatti, ogni contenuto di realtà, razionalmente determinato nella sua genesi storica e nella sua particolarità funzionale, rimarrebbe privo di connessione di senso unitario se non venisse riportato a un medesimo fattore trascendente le singolari finitezze e originario rispetto alla loro transeunte costituzione temporale. Per la sapienza greca, questa Unità trascendente la singolarità dei fenomeni è data dall‟Idea, nella cui unità si rispecchia come dal modello eterno la stessa accidentalità della loro contingente manifestazione, che ad essa deve dunque ispirarsi per conseguire la sua possibile perfezione terrena. Questa possibilità ontica è conseguibile attraverso l‟adozione del metodo razionale quale criterio

388 W. Dilthey, Erfahren und Denken (1892), cit. da M. Scheler, Mensch und Geschichte, tr. it. cit., pag. 267.

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di giudizio della poiesi come della prassi. Ed è esattamente la realtà di tale possibilità a costituire per la cultura occidentale di matrice greca la “civiltà”, così come è il processo di razionalizzazione del mondo umano a costituire la “civilizzazione”. Ciò che la prospettiva di pensiero razionalistico cela dietro il processo di razionalizzazione del mondo è il fondamento ontologico e il principio di realtà da cui tutte le Idee discendono come sue elaborazioni razionali, ossia il Mito, il quale è l‟autentico luogo della totalità. Infatti il Mito, in quanto principio originario e in-determinato di ogni elaborazione e determinazione razionale della realtà, è il l‟ambito generativo della libertà poietica in senso hegeliano, mentre come sostrato materiale della realtà ideale, oggetto della “attività conforme allo scopo” (Marx), esso coincide con la stessa Natura. La dissociazione razionalistica della essenza ideale della realtà da quella materiale, elaborata in età moderna da Cartesio, risale alla stessa ontologia greca, la cui rappresentazione dicotomica dell‟Essere doveva celare l‟origine mitica del pensiero filosofico, irriducibile alla ragione in quanto principio archetipo del processo razionale. La rimozione filosofica del fondamento mitico del logos razionale rappresenta il parricidio ontologico della cultura occidentale di matrice razionalistica greca, mentre la ricerca teoretica della compiutezza sistemica di ogni costrutto razionale tradisce il nostalgico rimorso dell‟unità originaria perduta. Tuttavia, l‟unità ideale, teoreticamente conseguibile attraverso il metodo dialettico, per poter servire alla vita umana, deve fungere da modello di convivenza politica. Da qui l‟ideale etico della Repubblica platonica, rispecchiamento politico dello Stato razionale, del quale quello assolutistico è la versione moderna emancipata dal mito teologico cristiano. Per la sapienza cristiana, che ha mantenuto l‟impianto metafisico greco, l‟Unità suprema è Dio, tale che ogni sapere ne dipenda e vi conduca, sicché “tutto ciò che chiamiamo civilizzazione costituisce soltanto il luogo necessario e il meccanismo esteriore, indispensabile al suo apparire”, e nella cui unità mistica i singoli istituti storici della civiltà cristiana trovano la radice della cultura che li ha prodotti. 389 Vi è una dimensione privilegiata all‟interno della quale la

389 M. Scheler, Zur Idee des Menschen, tr. it. cit., pag. 67.

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civilizzazione in senso razionalistico trova il suo locus amoenus, quella della Parola. La Parola, intesa come luogo originario di ogni discorso, rappresenta l‟orizzonte poietico di elaborazione del Mito. La progressione dei processi di elaborazione delle cifre simboliche legate all‟espressione linguistica produce nella comunicazione umana, all‟interno della complessiva civilizzazione culturale, una parallela regressione di altre cifre culturali, anche codificate ma riferibili a universi simbolici meno elaborati e maggiormente legati alla espressività fisica di esperienze elementari o a moti pulsionali di natura istintuale, tanto che si può affermare che la civiltà letteraria sia l‟espressione formalizzata più cospicua ed elaborata della civilizzazione occidentale, sia in senso funzionale che della sua memoria documentale. La letteratura delle culture civilizzate svolge sul piano della comunicazione teoretica ciò che il pudore svolge sul piano delle relazioni sociali: una funzione di controllo e di sublimazione dei moti istintuali in direzione della loro regolazione razionale.390 Talché possiamo dire che la decadenza della civiltà traspare anche in termini di decadenza stilistica e di regressione delle forme di comunicazione letteraria a favore di altre più informali e volgari. Il carattere privilegiato della forma letteraria su altre forme di comunicazione non è casualmente legato alla Parola quale origine dei logoi, ma è dovuto alla possibilità insita nella sua elaborazione razionale di esprimere la qualità più caratteristica del logos, la sua universalità. La possibilità di esprimere in una rappresentazione simbolica l‟universalità del logos equivale alla possibilità di oggettivare lo stesso processo noetico, trasferendolo dal piano del pensiero a quello fenomenico. Tale possibilità, trasferita dal piano contemplativo del theorein a quello operativo della prassi sociale, costituisce il contenuto politico del processo di civilizzazione, nel cui orizzonte il Potere ha in scala sociale la funzione analoga a quella del Super-Io nella auto-costrizione individuale. La tensione teoretica finalizzata a conchiudere in un sistema razionalmente autarchico, e dunque di significato universale, l‟anelito all‟unità ontologica perduta, trasferita sul piano della prassi e della costruzione sistematica del

390 N. Elias, Loc. cit., pag. 379.

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Topontico politico, genera la funzione totalitaria del Potere, espressiva, in termini di vigenza erga omnes, della universalità della volontà razionale. Ed è propriamente questo passaggio dell‟istanza universale del logos razionale dal piano teoretico e della coscienza ideale, a quello pratico della coscienza sociale a segnare il primato moderno della strumentalità politica come agire universalmente significativo. L‟universale politico, cioè l‟ideologia, è l‟espressione infra-mondana della trascendenza teoretica, il risvolto pratico del razionalismo idealistico, così come l‟estetismo raffinato del curialismo del sec. XVI è l‟espressione simbolica dell‟ ordine gerarchico affermato dalla nobiltà di spada contro l‟emergente aristocrazia dei “bourgeois gentilhommes”. 391 Ciò comporta storicamente che “l‟uniformità dei modi di comportamento delle unità occidentali di dominio” non sia soltanto “una conseguenza della reciproca interazione tra i gruppi” sociali, legata alla similare “divisione delle funzioni nelle varie nazioni occidentali”,392 ma l‟espressione formale della comune adozione di un modello ideale di civiltà la cui orizzontale espansione emulativa presupponeva una medesima matrice culturale, che dai ceti dirigenti giunge agli strati popolari, almeno a quelli più abbienti e coltivati, come generale “comportamento civile”. 393 La stessa versione pandemia dei modelli curtensi è la espressione sociologica del potenziale universale della loro razionalizzazione socializzata, 394 così come la struttura piramidale del Potere feudale propendeva verso l‟unità ideale monarchica, che indica l‟esito cui giunge il superamento del “sistema dell‟equilibrio precario tra unità in libera concorrenza tra loro” a favore della costituzione di monopoli,395 cioè una tendenza semplificatrice dell‟organo decisionale, atta a contrastare quella che nel Gorgia platonico Socrate, sia in relazione alle passioni dell‟anima che ai costumi sociali, definiva “disordine” (). L‟organo decisionale, che per Platone “è presente in ciascuno di noi”, è il

391 N. Elias, Loc. cit., pagg. 390-393. 392 N. Elias, Loc. cit., pag. 395. 393 Ivi, pag. 396. 394 Ivi, pagg. 399 e 409. 395 Ivi, pagg. 399 e 409.

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Governo, il quale non esprime la mera forza della volontà, cioè il nudo Potere, ma è chiamato ad affermare la “legge” (), per mezzo dell‟ “ordine” () “regolato” () dal Potere. Il  è la legge morale con cui la “virtù” (), che è il Bene trascendente le relazioni di forza, vince la volontà di potenza, e che esprime il senso ideale della tensione storica tra Chiesa e Stato, non risolvibile sul piano della mera polemica politica. Nondimeno, il passaggio dal piano valoriale a quello normativo, di cui si fa strumento operativo, sul modello storico-istituzionale della Chiesa, un artificio umano di significato mistico, lo Stato, è fondato su di una credenza, residuo mitico della mentalità magistica, che pone un idolo istituzionale a mediare tra cielo e terra in funzione soteriologica. Credere nel potere taumaturgico del re, ovvero del Potere monarchico dello Stato, rientra in quella dislocazione dell‟orizzonte del sacro dal carisma trascendente di Cristo a quello immanente dell‟Imperatore cristiano che la teologia politica cristiano-alessandrina ha teorizzato un millennio prima dell‟assolutismo moderno, istituzionalizzando una tendenza di cultura che trascrisse in termini di universalità l‟unità ideale del molteplice, quanto andava ascritto in termini di infinitezza, ossia di trascendenza di ciò che è totalmente altro rispetto al mondo finito. La confusione-identificazione della totalità, inclusiva dell‟altro da sé, con l‟universalità idealistica, esclusiva dell‟opposto a sé, è all‟origine della conversione (Werdendung), a opera del Potere demiurgico, della trascendente unità mistica di Cristo nell‟Idea della universalità immanente dell‟unità ideologica, che ha caratterizzato l‟intero processo della civilizzazione europea. Rimuovere la questione metafisica che sottostà alla formazione dello Stato in Occidente, per una considerazione meramente funzionalistica della sociologia del Potere, significa non comprendere le ragioni del processo storico, il senso della sua progressione o involuzione rispetto al modello paradigmatico, operando nella stessa guisa parricida e obnubilante della rimozione razionalistica delle origini mitiche del pensiero filosofico. L‟esito teoretico di tale parricidio ontologico è l‟incessante rielaborazione critica dei sistemi logici con cui il pensiero razionale ha cercato di mascherare la rimozione del suo fondamento mitico, con la conseguenza pratica di rendere instabili le strutture della mediazione, ossia le istituzioni del Potere, garanti dell‟ordine cosmico umanamente costituito, insomma lo Spazio Pubblico della socialità razionalmente

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statalizzata quale proiezione oggettiva dell‟Idea. Il senso della rimozione filosofica dei suoi fondamenti mitici è riposto nel metodo stesso della oggettivazione idealistica dei contenuti di realtà, che risulta impraticabile nei confronti del sentimento metafisico, i cui contenuti fondamentali sono fideistici e non razionali, per cui la loro elaborazione logica può offrire una “immagine del mondo” (Weltanschauung), cioè delle “mutevoli forme di espressione di variabili situazioni, storiche e sociali, di vita”,396 ma non l‟essenza spirituale che le origina e che è in-finita e non oggettivabile concettualmente, e coglibile solo intuitivamente, “col cuore”, direbbe Pascal. Nell‟oggettivazione condotta col metodo razionale dalla coscienza umana si cela un sentimento metafisico di mancanza (penìa) misto a un sentimento di brama (poros), ossia di nostalgia dell‟Infinito e di anelito al Potere, che sono le costanti psicologiche dell‟agire umano nel mondo razionalizzato che si è costituito, in posizione mediana tra il cielo ideale e la terra naturale, come “civiltà”, sospesa tra il non-essere della informe natura e l‟essere formato di ragione. La civilizzazione della universale cultura occidentale procede attraverso la rimozione di questa intuizione ontologica fondamentale alla vita umana, la quale intuizione, in quanto sentimento di fede e non oggetto di pensiero, è originaria rispetto a ogni formalizzazione razionale oggettivante, di ogni reductio ad finitum del pensiero, e perciò in-finita e trascendente. L‟Infinito sentito per fede è il Mito della cultura greca ed è il Dio della tradizione ebraico-cristiana. Quando la elaborazione razionale del Mito, la mito-logia, ne oggettiva i contenuti simbolici in forme logiche, in concetti, e ne fa oggetto a sua volta di fede, ossia forme di culto, così come riduce l‟Infinito alla sua determinazione finita, altrettanto trasforma la originaria fede trascendente in idealistica idolatria, in culto ideo-logico, che è il surrogato immanentistico della vera fede, cioè della fede nella verità dell‟Essere. La originaria fede miticoontologica, trascritta in simboli razionali e affermata dalla filosofia come credenza nei valori ideali universali, pur rimossa dalla civiltà razionalistica, non si è mai veramente estinta, e risorge come anelito verso l‟Infinito in ogni periodo, della esistenza personale come dell‟età

396 M. Scheler, Philosophische Weltanschauung, tr. it. cit., pag. 244.

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storica, di crisi di quei valori ideologici conseguente incredulità nei coevi idola tribus, a conferma delle asserzioni di Scheler che

l‟uomo non ha la scelta di formarsi, oppure di non formarsi, un‟idea metafisica e un sentimento metafisico [che] sta a fondamento dell‟uomo stesso e del mondo [ma] ha – consapevolmente o inconsapevolmente, come acquisizione propria o per tradizione – sempre, necessariamente, una tale idea e un tale sentimento. […] L‟uomo può, bensì, rimuovere artificialmente la coscienza chiara di questa sfera, in quanto si nutre dell‟ involucro sensibile del mondo: l‟intenzione rivolta alla sfera dell‟Assoluto continua poi a sussistere, ma la sfera stessa rimane vuota quanto a contenuto determinato. [Allora] può riempire anche questa sfera dell‟ assolutamente essente e di un bene altissimo, con una cosa finita e con un bene finito, che egli tratta nella sua vita “come se” fosse un Assoluto: il denaro, la nazione, un uomo caro, possono essere trattati in tal modo [ma] questo è feticismo e servizio tributato agli idoli.397

Con un‟avvertenza. Se l‟essenza di ciò che è propriamente umano è il sentimento dell‟Essere infinito, la coscienza della sua presenza, ovvero l‟angoscia della sua assenza, ineriscono non già la realtà della sua esistenza, come credeva invece Kant, che rimane indipendente dalla sua razionale dimostrabilità, ma bensì la fede in quella realtà, il sentimento intimo che consente di agire nel mondo in modo difforme da chi quella fede non ha e si sente perciò povero senza i talleri kantiani in tasca. Infatti, solo chi attribuisca all‟esistenza di quei talleri, ossia al loro possesso e disponibilità della volontà umana, un valore assoluto, fa del “denaro” un Assoluto, ovvero un “idolo”. La vera fede riguarda la realtà non razionalmente dimostrabile in quanto non oggettivabile, che la ragione esclude dalla sua sfera di realtà in quanto mitica, laddove la falsa fede, l‟idolatria, inerisce alla credenza nei soli oggetti di ragione, ossia alla certezza oggettivamente dimostrabile della loro realtà finita, erroneamente creduta infinita. La credenza nella realtà dei soli enti di ragione è la stessa che attribuisce valore di realtà ai soli prodotti ideali posti in essere dall‟uomo ragionevole, ossia dall‟uomo della Storia. La credenza storicistica che la Storia umana sia quella inerente i soli prodotti della sua opera razionalizzatrice del mondo, e insomma della civilizzazione,

397 M. Scheler, Philosophische Weltanschauung, tr. it. cit., pagg. 244-245.

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è anch‟essa una immagine di origine idealistica e pre-cristiana. Ma è, appunto, soltanto una credenza, la cui verità dipende a sua volta dalla fede nella possibilità della rimozione razionalistica della realtà del Mito dalla sfera esistenziale dell‟uomo. La verità della Weltanschauung razionalistica è legata a una fede, è dunque anch‟essa una verità di fede, il cui postulato fa le veci dell‟intuizione mistica.398 La superiorità del fondamento ontologico ebraico-cristiano su quello filosofico del razionalismo pagano è nell‟aver riconosciuto l‟essenza della verità come Mistero. La concezione della verità come Mistero, e non come realtà di ragione, segna la differenza insuperabile tra un‟immagine del mondo riducibile a produzione razionalizzata, e un‟immagine del mondo non riducibile alla sua oggettività razionale, opera della sua produzione ideale. Infatti, mentre il mondo prodotto dall‟opera civilizzatrice dell‟uomo costituisce l‟orizzonte di realtà manipolabile dal Potere umano, la realtà non riducibile alla

398 “Giudicare e presumere la verità sono la stessa cosa”, affermava Husserl, “così come rappresentare e rappresentare oggetti. Il giudizio, però, è ora fondabile e ora n, e ciò rinvia alla possibilità che si fonda nell‟essenza dei corrispondenti giudizi del render-evidente o del suo contrario”: E. Husserl, Vorlesungen Ueber Bedeutungslehre (1908), tr. it. a cura di A. Caputo, Milano, 2008, pag. 339. Il carattere del predicato è tale che induttivamente subordina elementi molteplici all‟unità universale che esso esprime, ma non esiste alcuna necessità logica che la natura universale del predicato contenga realmente l‟unica e medesima ragione che rende questo predicato una necessità per tutte le sue specie, ovvero che se le specie in esso sussunte non partecipino solo di fatto all‟unità comune. Nel sillogismo aristotelico si suppone infatti che la giustezza di ogni elemento particolare derivi i suoi predicati dalla sua dipendenza dal suo universale, ossia dipende dalla sua verità. Ma la verità dell‟universale è solo presupposta, e così pure la sua validità in tutti gli enti particolari in esso compresi. Ciò comporta che la relazione stabilita tra tutti gli enti partecipi al giudizio universale non può mai logicamente essere convertita nel giudizio generale per cui ogni ente compreso nell‟unità comprendente sia omologo ad essa. La validità di tale conversione (Wendung), ossia di tale omologia, è solo frutto della credenza nella verità del principio universale, il quale “permette di trasmutare una data coesistenza di rappresentazioni in coerenza tra i loro contenuti”. Se il metodo induttivo è un “ideale logico” che conserva la sua validità metodologica, il convincimento della verità delle sue premesse è extra-metodico e fornita dall‟esperienza, che resta perciò indipendente dal metodo induttivo. Da qui il carattere “strumentale” con cui si compone la conoscenza induttiva col materiale dato. Ved. a proposito i chiarimenti di R.H. Lotze, Logik (18802), tr. it. a cura di F. De Vincenzis, Milano, 2010, pagg. 321-327.

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civilizzazione rimane interna all‟unità di senso trascendente la finitezza dell‟esistenza e dell‟opera dell‟uomo, ossia interna all‟orizzonte stesso dell‟Infinito non oggettivabile e non manipolabile dalla volontà umana. Mentre l‟unità dell‟orizzonte di senso razionalistico è puramente ideale e non concreto, perché definito sull‟esclusione del divenire, del suo non-essere ciò che solo idealmente è, l‟unità dell‟orizzonte di senso trascendente è inclusiva di ciò che non-è razionale, e pertanto è un orizzonte di coscienza totale, ossia infinito, e come tale non riducibile mai alla storia dei processi, delle opere e delle forme strutturali delle istituzioni umane nel tempo. Proprio ciò che, pur essendo razionale in quanto ragione dell‟esistenza, ma non oggettivabile in senso universale, perché appartiene alla singola coscienza in maniera unica e irripetibile, è il luogo della trascendenza dalla finitezza della realtà, in cui l‟uomo partecipando intuitivamente della realtà infinita, trova il senso autentico, perché unitariamente totale, della sua esperienza esistenziale. E la trova in sé stesso, nella sua coscienza trascendentale, che, venendo prima di ogni giudizio, permane al di là della finitezza contingente di ogni sua opera. Nella elaborazione di questo pregiudizio si consuma quella personale aderenza alla verità che Platone rappresenta come il porto di approdo della “seconda navigazione” della coscienza, ma che è lo stesso dal quale essa era, più o meno inconsapevolmente, salpata. Ed è questa totalità singolare che il Mito rappresenta a mezzo di simboli, la cui trascrizione razionale è l‟oggetto del pensiero filosofico. In carattere simbolico del Mito nasce proprio dalla impossibilità di oggettivare in senso logico-universale la rappresentazione dell‟esperienza totale-singolare, la quale perciò può esser soltanto immaginifica, allusiva e metaforica, ossia appunto simbolica. In riferimento alla rappresentazione della civilizzazione offertaci dalla sociologia storica, allorquando il processo di razionalizzazione della civiltà occidentale è inteso, alla maniera di Elias, come un movimento di integrazione socio-politica relativo alle dinamiche dei gruppi o unità sociali, sicuramente essa registra una situazione reale, documentandola con dovizia di elementi documentali, il cui indubbio interesse però non supera la circolarità ermeneutica di una spiegazione dei fenomeni storici del tutto tautologica, in cui il significato degli avvenimenti è riportato alle loro stesse dinamiche, che a loro volta li spiegherebbero. In realtà, la genesi storica dei fenomeni sociali non ne è la spiegazione,

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ma soltanto la loro rappresentazione sociologica, ossia, appunto, la descrizione delle dinamiche e delle relazioni che ne costituiscono l‟orizzonte avvenimenziale. Ciò che l‟analisi storico-sociologica trascura è la considerazione meta-empirica delle forze spirituali che sottostanno a quelle dinamiche di natura economica e politica, e che le legittimano su un piano di coscienza che non coincide con il piano di realtà oggettiva sul quale si muove l‟analisi storica. Nel caso, forse il più significativo a riguardo, della giustificazione razionale delle organizzazioni di potere monopolistiche, la tendenza riscontrata storicamente da Elias lascia impregiudicata la questione della loro legittimazione etica, facendola coincidere con la loro stessa effettualità, ossia con la loro possibilità di sussistere storicamente. Ma questa trascuratezza, in realtà, è una adozione, inconsapevole o meno, della ricordata teoria hegeliana della razionalità del reale, che a sua volta costituisce la versione teoretica della necessità storica espressa nell‟apologo ateniese del diritto del più forte riportato da Erodoto a proposito della vittoria sui Melii. Questa ragione della forza, rappresentando la dinamica storica dei fatti, assegna alla stessa forza il criterio di giustificazione di se stessa, assegnando il merito dei fatti, come il Callicle platonico, alla loro stessa fattualità. Ma l‟adozione di tale criterio trova la sua validità razionale nel presupposto che l‟evento racchiuda in sé la sua stessa ragion d‟essere, per cui basta illustrarne la genesi per portarlo alla luce. Ed è questo procedimento che infatti adotta la storiografia razionalistica, la quale pertanto non considera mai la possibilità, che anima invece la ragione dei deboli, che l‟esito della forza, pur essendo reale sul piano effettuale dei rapporti socio-politici, possa apparire negativo su un piano di coscienza diverso da quello del vincitore, e dunque possa giustificare la resistenza di chi non l‟approvi, senza apparire perciò stolto e velleitario come il duca di Montmorency rievocato dal Ranke appare a Elias, il quale dalla sua vicenda trae la legge storico-sociologica generale per cui “la mutata struttura della società, ormai, condanna ad una sicura rovina le esplosioni emotive e le azioni che non sono guidate da una adeguata previsione”, per cui “dai i rapporti ormai dominanti, chiunque non approvi il potere assoluto del re deve procedere ben diversamente”399 rispetto al proprio

399 N. Elias, Loc. cit., pagg. 364. Si noti la reiterata notazione avverbiale, che sottolinea

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statuto deontologico. L‟inadeguatezza della rappresentazione realistica della Storia consiste nella rimozione dell‟essenza della dinamica storica, quel “Negativo” che l‟universalità del giudizio di realtà esclude in quanto non rappresentabile in ciò-che-è. L‟onto-logia di una Storia positiva non rende la ragione del Tutto, ma solo dell‟universale affermazione. Da qui il carattere iniquo del Potere, che non con-prende la ragione del Negativo, la concretezza dell‟esperienza esistenziale della coscienza umana, trascendente la finitezza delle cose del mondo. Dalla coscienza trascendentale nasce l‟istanza filosofica di una “chiarificazione dell‟esistenza”. Di contro, l‟intersecazione delle relazioni socio-economiche che hanno portato al “legame indissolubile” tra “i monopoli della costrizione fisica e dei mezzi di consumo e di produzione”, formando in tal modo “il lucchetto delle catene che tengono legati gli uomini tra loro”,400 non spiegando le ragioni essenziali della sua costituzione, non fa alcun riferimento alla dinamica sotterranea che anima la stessa struttura di potere monopolistica e che la rende perciò instabile e precaria. La descrizione infatti dello “schema delle costrizioni di interdipendenza”, per cui “ogni monopolizzazione di chances trasmesse ereditariamente in determinate famiglie provoca certe tensioni e certi squilibri nel contesto sociale implicato”, non spiega le ragioni delle tensioni se non riferendole alla loro stessa “causa” che le avrebbe originate, “ossia alla loro genesi”.401 Un cane che si morde la coda. E‟ pur vero che i pochi hanno sempre cercato di frenare gli impeti dei molti, in considerazione di quell‟ ordine virtuoso di cui si è detto citando il Gorgia platonico, e che oggi anzi appare più evidente come le “costrizioni dell‟interdipendenza premano per provocare modificazioni nel carattere e nella struttura psichica degli uomini”,402 ma se essa è una tendenza sociologica costante, se non proprio una legge, ciò non spiega le ragioni né della sua persistenza né tanto meno

l‟irreversibilità dei processi storici analizzati, e l‟accentuazione del carattere razionalmente costrittivo del dovere di accettazione dello status quo da parte del dissidente 400 Ivi, pagg. 413-414. 401 Ivi, pag. 417 402 Ivi, pag. 418.

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della sua contingente negazione. Ciò che la rappresentazione dei fenomeni sociali non considera è esattamente il dato di realtà non oggettivabile delle loro dinamiche, cioè i diversi livelli di coscienza interni a un comune orizzonte di senso ontologico, cui corrispondono le forme simboliche di rappresentazione della realtà relative alle istituzioni espressive e prescrittive di quelle modalità culturali sulla base delle quali agiscono i singoli. Questo piano di realtà non oggettivabile costituisce, delle forme istituzionali oggettive, non soltanto il sostrato volitivo e psichico costitutivo della mentalità dei gruppi sociali, ma anche la destinazione teleologica dell‟esistenza umana, cioè il senso della vita che legittima le forme di comportamento sociale. In questo senso, la saldezza o la debolezza di una struttura di potere è legata tanto alla detenzione minoritaria degli ambiti di potere, quanto alla credenza maggioritaria nella loro legittimità morale. Il mondo aristocratico europeo fondato sul rapporto signorile tra nobili e contadini “non è mai un mero rapporto di potere”, e dunque sarebbe riduttivo pensarlo “come arbitrio”, in quanto ispirato a un‟ideale “ordine” fondato sulla giustizia, dalla quale “l‟idea autentica di „signoria‟ non è separabile”.403 L‟intreccio delle relazioni sociali, non suffragato da un comune movente legittimativo, di per sé non garantisce della stabilità delle strutture istituzionali all‟interno delle quali prendono forma quelle relazioni, poiché la forma istituzionale, anche quando fortemente prescrittiva, per espletare la sua funzione normativa razionale secondo lo scopo, deve essere supportata dalla adesione di chi ne fruisce, ossia di un elemento di credibilità legato al riconoscimento del suo significato sociale. Ed è a questo livello di coscienza noetica - prepolitica in quanto fideistica e meta-politica in quanto morale - che si pone il ruolo essenziale del Governo etico della società, che i processi di civilizzazione tendono a rimuovere dal piano della rilevanza sociale, proprio in considerazione della sua natura trascendente i rapporti di

403 O. Brunner, ALeG, pag. 75. “In questo mondo aristocratico-contadino, evidentemente, vi furono in larga misura abusi, sfruttamento, oppressione e perciò molte lotte che ne determinarono la dinamica interna. Ma tutte le lotte furono condotte appunto per amore del diritto e non hanno mai intaccato l‟ordine fondamentale in quanto tale”: Ibidem.

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forza sociale, rispetto al cui contingente equilibrio, esso costituisce il limite non valicabile di legittimità del Potere, che perciò tende ad incorporarlo all‟interno della sua struttura normativa in termini di legalità, ossia di relazioni formali, prodotte dalla storia e quindi modificabili ad libitum. Ed è questo il piano di coscienza in cui si pone l‟analisi storico-sociologica di Elias, per il quale la questione della educazione spirituale dell‟uomo (paideia), così essenziale nella formazione (Bildung) aristocratica europea e per la stessa tenuta della struttura istituzionale dello Stato pre-moderno, diventa uno “schema di comportamento sociale”, i cui contenuti, egli avverte con toni marxiani, “inculcati al singolo fin da piccolo in modo da diventare una seconda natura, e la cui permanenza è consolidata in lui da un potente controllo sociale sempre più rigorosamente organizzato, non debbono essere intesi in base a finalità umane universali e al di fuori della storia, ma come un prodotto della storia”, appunto. Ma donde è sorto tale prodotto e quale ne sia il senso, non è detto. Ciò che l‟Autore dice è che “esso è scaturito dalle specifiche forme relazionali che si sono venute creando nel corso della storia”, quasi per spontanea partenogenesi all‟interno di quello che egli indica come “il contesto globale della storia occidentale”, e in particolare, per sortilegio magico, “dalle costrizioni delle interdipendenze che le modificano e le sviluppano” . 404 Insomma da una determinazione esterna alla coscienza, intesa come una tabula rasa, il cui equilibrio armonico con i “compiti sociali”, non ancora raggiunto per insufficiente civilizzazione, potrà comunque essere conseguito in maniera “permanente” in futuro. Ma in che modo? Ed ecco la risposta, come al solito tautologica, fornita dal profetante sociologo: “soltanto quando la struttura delle relazioni interumane sarà tale, quando la cooperazione fra gli uomini funzionerà in modo che tutti coloro i quali operano nella complessa catena dei compiti comuni possano almeno trovare questo equilibrio” e diventare perciò finalmente “civili”,405 rimanendo sottinteso, e neanche poi tanto, che il processo di civilizzazione sia tanto necessario per l‟uomo quanto fatale per l‟umanità, e dunque irreversibile. Ed è esattamente questa

404 N. Elias, Loc. cit., pagg. 419-420. Le parole in corsivo sono state da noi evidenziate. 405 Ivi, pag. 429.

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rappresentazione razionalistica della storia che, rimuovendo l‟elemento mitico che l‟ha generata, sfocia nel mito ideologico, in cui necessità e wishfull thinking si confondono sostenendosi a vicenda.

10. Chiaramente diversa da quella di Elias è l‟impostazione storiografica di O. Brunner, che sottolinea come “la vita spirituale è una parte connaturale della struttura complessiva dell‟essere umano e delle forme di associazione degli uomini”,406 per cui, considerando il concetto etico cardine delle relazioni feudali, afferma che “il peculiare concetto della fedeltà in quanto impegno reciproco, che viene a cadere se da una delle parti viene violato il diritto”, fa sì che, in caso di confitto di interessi, “da entrambe le parti questi interessi non sono mai intesi come contrasti di potere bensì sempre come una lotta per il diritto, per la giustizia […] oggettiva, che in ultima analisi si fonda su Dio”. E infatti, come lo storico austriaco non manca di sottolineare, l‟abbinamento di diritto soggettivo e diritto oggettivo, non soltanto “conferisce all‟azione politica una compattezza straordinaria”, ma costituisce anche un “correttivo interno” di carattere morale che funge da limite alle pretese della ragione di parte, rendendo così “impossibile di battersi per sostenere un punto di vista basato meramente sul potere”.407 Ed esattamente sul diritto regale di stabilire la giustizia, ossia sul diritto del re “a decidere ciò che è giusto”, che successivamente il potere assolutistico tese ad affermare le sue prerogative anche in materia religiosa.408 Quanto la questione religiosa abbia inciso nella costituzione dello Stato assolutistico non dipende soltanto dalle vertenze teologiche e dalle lacerazioni ecclesiastiche interne ai territori riformati, ma anche dalla posizione politica assunta dalla nobiltà in conseguenza della sua professione. Infatti il conflitto religioso, che si concluderà con la pace di Westfalia del 1648, va inteso, in relazione al principio di sovranità, nei termini di un riconoscimento di legittimità del suo esercizio, poiché il forte legame tra il Potere e la sua

406 O. Brunner, Adeliges Landleben und Europaischer Geist (1949), tr. it., Bologna, 1972, pag. 59. Da ora ALeG 407 O. Brunner, ALeG, pag. 20. 408 Ivi, pag. 24.

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legittimazione religiosa influenzava considerevolmente, e a volte decisamente, il rapporto di fedeltà al sovrano imperiale da parte dei vassalli, i quali, pur nella diversità di condizione economica, “erano tutti uniti da uno spirito comune e da un comune mondo culturale”, dominato dal sentimento, prima che dal concetto, della “virtù”.409 All‟interno di questo orizzonte di coscienza della Cristianità occidentale, è possibile indicare, attraverso le dinamiche sociopolitiche in cui si articola la loro relazione, nell‟ordinamento secolare – inteso come ceto nobiliare e sistema di vita feudale - e nella Chiesa –“intesa come organizzazione e comunità spirituale che raccoglie tutto l‟Occidente, clero e laici” – le “categorie essenziali che servono a descrivere la struttura dell‟Europa medievale”, poiché è dalla loro tensione e dalla loro contrapposizione che “nasce la dinamica decisiva della storia europea”, e segnatamente la “storia dell‟ethos e del mondo culturale della nobiltà europea”, che nell‟eredità classico-cristiana di “virtù” ritrova la “costante struttura aristocratica di fondo dell‟Europa”.410 L‟unità etico-politica del mondo medievale poté conservarsi nei termini e nei limiti della articolazione particolaristica della struttura feudale, che consentiva quel rapporto organico tra autorità spirituale e autorità secolare che fu disintegrato dalla pretesa assolutistica dello Stato di riordinare quella struttura in senso centralistico e tale da ledere la libertas ecclesiae. Il contrasto delle signorie locali al centralismo assolutistico non verte dunque soltanto sulla opposizione di forze sociali minoritarie, religiose e secolari, a un potere sovrano fagocitante, poiché la tendenza “monopolistica” a ingrandire i possedimenti locali è una riconosciuta costante sociologica legata al contesto economico di tipo naturale, che interessava tanto le acquisizioni familiari dei nobili che i patrimoni ecclesiali; il contrasto allo Stato assolutistico verte essenzialmente sulla pretesa che il Potere razionalizzato in senso normativo e burocratico potesse fondare la legittimità sovrana, non più sul fondamento religioso della corrispondenza alla lex Dei, ma sulla funzionalità politica della struttura istituzionale. L‟assolutismo può manifestarsi come tendenza economica monopolistica politicamente

409 O. Brunner, ALeG, pagg. 53 e 59. 410 Ivi, pagg. 60 e 72.

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accentratrice ma essenzialmente consiste nell‟auto-legittimazione del suo Potere sovrano. “La conseguenza” di questa posizione ideologica statalistica “è un fondamentale mutamento di struttura della cristianità” nel senso del “parallelismo” e della “contrapposizione” tra gli Stati e la Chiesa intesa, non più “come Corpus Christi mysticum, come cristianità, ma come una Chiesa di chierici, ordinata giuridicamente e basata sulla gerarchia”,411 ossia come una istituzione di Potere. Ciò che è mutato nelle relazioni tra le due autorità, a partire dal sec. XII, non è in primis la loro struttura interna, o il nomen juris, bensì la loro reciproca considerazione in base alla propria posizione ideale. In altri termini, il Potere statuale è intervenuto a incidere i rapporti vassallatici e quelli ecclesiastici tradizionali in conseguenza della sua auto-determinazione razionale, dalla quale è dipesa la legittimazione della sua istanza universalistica, che implicava l‟esclusione di ogni sua limitazione, ergo i suoi rapporti con l‟autorità morale della Chiesa, detentrice e custode dei valori morali, cattolici per definizione. La tendenza alla “fuga dal modo”, ossia l‟istanza escatologica, del cristianesimo era stata già neutralizzata ab antiquo dalla teologia politica alessandrina, per cui il rigurgito integralistico della “volontà di agire nel mondo” in vista della sua nuova “cristianizzazione”, ossia della affermazione esistenziale dei valori cristiani,412 nasceva dall‟esaurimento di quella “unità spirituale” che l‟Impero cristiano aveva costruito e tentato di preservare storicamente, ma che si fondava teoricamente sul connubio di sapere profano e di sapere sacro che entra in crisi già nel Medioevo e che si manifesterà alle soglie della modernità già all’interno dell’universo teologico, e quindi all‟interno della cristianità. Il fenomeno della radicalizzazione delle posizioni religiose nel senso della “interiorizzazione” del messaggio evangelico, che svilupperà l‟opposta “tendenza alla mondanizzazione, secolarizzazione, razionalizzazione che contraddistingue la nuova Europa”,413 è possibile in quanto gli elementi del radicalismo religioso e profano sono interni alla teoresi sincretistica della teologia cristiana,

411 O. Brunner, ALeG, pagg. 61-62. 412 O. Brunner, ALeG, pag. 62. 413 Ivi, pag. 63.

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che recepisce l‟universalismo razionalistico antico in chiave antropologica cristiana. L‟universalismo razionalistico di matrice greca, declinato in chiave antropologica, si trasforma in messianismo etico, ossia in una istanza redentrice di carattere religioso, in cui viene a perdersi il senso cristiano della redenzione individuale a favore di una prospettiva soteriologica onnipervasiva del mistico logos cosmico interpretato come ratio divina, la “parola di Dio”. La matrice idealistica del razionalismo, comune sia alla cultura laica che a quella religiosa, è il fondamento filosofico del rispettivo universalismo teologico-politico, cioè il “monoteismo metafisico”col quale sia la Chiesa che lo Stato giustificano teoricamente la loro pretesa assolutezza, cioè reciproca autonomia e indipendenza sovrana. Infatti, tanto l‟unità mistico-religiosa della Chiesa che l‟unità misticopolitica dello Stato costituivano due ambiti universali ugualmente partecipi della volontà ordinamentale divina, ognuno dei quali era sovrano in regno suo. La contesa politica tra imperium ed ecclesia, condotta con armi filosofiche e avente per posta l‟egemonia sulla società intesa come popolo di Dio, produsse un contenzioso di carattere squisitamente ideologico che rappresentò il modello paradigmatico di ogni costrutto ideologico moderna. La filosofia aveva perduto, già in parte con Platone ma decisamente con l‟innesto cristiano, il suo originario carattere contemplativo, per diventare uno strumento tecnico-dialettico di rappresentazione della realtà funzionale al suo controllo culturale e al suo dominio politico. La deriva ideologica della filosofia non fu però accidentale ma legata al suo stesso postulato gnoseologico intellettualistico, che emancipandola da ogni relazione con la fonte mitica, la potentia Dei absoluta di Occam, la costituiva come teoria scientifica del mondo. Da questa pretesa prese origine, con la ricezione di Aristotile, per un verso la sistemazione scolastica, e per l‟altro e più decisivo verso lo studio di purificazione del pensiero filosofico da ogni tradizionale connessione teologica. E fu contro tale razionalismo che insorse il misticismo religioso e le correnti pauperistiche ed escatologiche dello spiritualismo cristiano. Ma la conseguenza più rilevante della separazione delle sorti della Chiesa da quelle dell‟Imperium fu la crisi della visione escatologica del Potere, strettamente connessa alla confluenza della “fine dell‟imperium come fine del mondo”. Ciò privò la struttura imperiale della sua sacralità religiosa, schiudendo la strada allo statalismo nazionalitario e alla

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“concezione della storia delle singole nazioni europee”.

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Ma la tensione tra naturalismo e spiritualismo si produce anche all‟interno dell‟universo teologico cristiano come contrasto tra l‟intellettualismo obiettivistico del tomismo e il volontarismo nominalistico di Ockham, il quale ultimo tendeva a separare la fede dalla ragione e il pensiero dall‟essere, concependo gli universali concettuali di valore puramente simbolico. Le “summe”, ovvero le sintesi filosofico-teologiche, dell‟alto Medioevo lasciano il posto all‟esame critico delle cose concrete (res in rerum natura), non più filtrate dalle determinazioni generali (res apparens in intellectu), prodotto della nostra conoscenza, mentre acquistano crescente rilevanza contro l‟autorità umana e magisteriale la gnoseologia e la logica formale. Il nominalismo, con la preminenza del formalismo in logica, provocò una scienza dei concetti distante dall‟essere, con la conseguenza che “quanto più i concetti perdevano contatto con l‟essere, tanto più facilmente si lasciavano manipolare”, con una ricaduta sul piano etico nel formalismo e sul piano politico nell‟intransigenza, mentre la teologia, allontanandosi dal piano della storia della salvezza, “diventa un campo di esercitazione dell‟abilità logico-dialettica”.415 Prevalse nella Chiesa una concezione, ancora una volta, sincretistica tra le posizioni tomiste e quelle agostiniane, il cui “nucleo centrale è aristotelico”, destinata a essere una filosofia scientifica del mondo “ma fatta da chierici per chierici”, e perciò orientata esclusivamente alla “sfera ecclesiastica”, lasciando ad altre correnti di pensiero laiche di perseguire la libera ricerca teoretica, e operando nel mondo esterno solo nei termini di un impegno pratico di testimonianza religiosa.416 Con la rinuncia della teologia a ripensare in termini filosoficamente aggiornati, e soprattutto unitarii dopo la Riforma, la storia del mondo e l‟esistenza dell‟uomo, e ripiegando in una concezione ecclesiastica e vagamente culturale della cristianità, la Chiesa segna quel divorzio tipicamente moderno dalla Storia, che è stato tanto devastante per

414 O. Brunner, ALeG, pagg. 66-68. 415 Ved. E. Iserloh, Il nominalismo. Le università fra “Via antiqua” e “Via moderna” (1968), in Storia della Chiesa dir. da H. Jedin, tr. it. Milano, 1993, vol. V/2, pagg. 6569. 416 O. Brunner, ALeG, pag. 71.

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l‟Europa politica quanto prevedibilmente per la sua civiltà, determinando la scissione esistenziale tra virtutes theologicae, di stretta natura religiosa, e virtutes cardinales, che sostanziano l‟etica mondana e aristocratica.417 Il divorzio tra le due forme di etica non ridimensiona la tradizione aristocratica risalente alla saggezza greca, ma la concentrazione teologica in un sapere esclusivamente ecclesiastico sicuramente depriva il senso eroico della virtù classica di quel finalismo soteriologico che la cultura cristiana le aveva moralmente assegnato e di cui la Chiesa si faceva, se non depositaria, quantomeno garante istituzionale. Lasciare alla sapienza mondana la cura della filosofia dopo averla esaltata quale ancilla philosophiae comportava delle conseguenze pratiche nella formazione civile delle classi dirigenti europee in conseguenza del venir meno della trasvalutazione cristiana dell‟etica eroica antica, per la quale l‟agire virtuoso era indissolubilmente legato alla conoscenza del Bene, e quindi all‟orizzonte del sapere teoretico. La trascrizione in chiave universale di humanitas dell‟antica virtù aristocratica greca fu operata, attraverso la Stoa, dalla filosofia politica romana, segnatamente da Cicerone, da Seneca e da Boezio, le cui opere, “conosciute e diffuse dappertutto, hanno mantenuto in vita una ininterrotta tradizione antica della humanitas”, che il cristianesimo inserì nella sua dottrina morale, soprattutto grazie all‟opera di S. Ambrogio, per il cui tramite “l‟etica dell‟antico mondo nobiliare divenne apertamente una solida componente della dottrina della Chiesa di Roma”. 418 Il processo di cristianizzazione della società europea interessa soprattutto il rapporto di potere dei nobili verso i loro sudditi, i quali, in quanto deboli, vanno protetti e difesi da parte dei loro signori. Ed è appunto questo “intersecarsi del potere spirituale e di quello secolare” a caratterizzare “il carattere sacrale della monarchia” altomedievale, fino alle lotte per le investiture, allorquando “i due poteri si disgiungono”.419 Prima di allora, la politica non era intesa, come invece

417 Ivi, pag. 72-73. 418 O. Brunner, ALeG , pagg.76-77 419 Ivi, pag. 77.

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avverrà dopo con Machiavelli, come una tecnica di conquista e conservazione del potere, ma era ab antiquo inserita entro la filosofia pratica come arte di governo, legata cioè a principi di ordine morale. Era la tradizionale destinazione morale a consentire alla cultura cristiana di pacificare i rapporti tra gli autonomi signori feudali conferendo al loro potere guerresco, il “diritto”, una destinazione comune trascendente, la “pace di Dio”, e scaricando verso mete militari esterne la tensione territoriale. Fu così che “attraverso le crociate, [la Chiesa] prese direttamente nelle sue mani la guida del mondo feudale dell‟Europa occidentale dalla Spagna alla Siria, proponendogli uno scopo”.420 All‟interno, quindi, di una dimensione etica normativizzata nel senso del “diritto”, si inseriva il servizio alla causa cristiana, alla cui luce le stesse imprese belliche acquistano valore di servizio morale a Dio: gesta Dei per Francos. Dall‟ “impasto” di ambizioni profane con scopi religiosi nasce una “cultura cristiana dei laici”, interpretata dalla nobiltà europea come cultura cavalleresco-cortese, che ruota intorno all‟etica di ceto della virtù signorile, ossia quella “dignità cavalleresca, che collega in una unità ideale l‟infinita stratificazione dei signori, dai re e principi fino agli „scudieri‟ semi-contadini”, divenendo un “modello umano vincolante”. 421 L‟aspetto grandioso di questo spirito cavalleresco, che lo rese affascinante per lunghi secoli, fino alle estreme propaggini della sensibilità romantica, risiede nella forza morale scaturita dalla sublimazione degli istinti vitali dell‟uomo virtuoso, che non iscaccia la sua forza naturale, rimuovendo il loro carattere virile, ma li sottomette volontariamente, per libera e consapevole dedizione mistica, a una destinazione trascendente, perseguita in campo terreno dal miles christianus come viatico post-mortem. Ed è proprio la destinazione ultronea e trascendente del servizio umano al “Dio cortese” a rendere la paideia cavalleresca una forma di virtù più sublime e raffinata rispetto a quella dell‟areté classica, circoscritta all‟ambito mondano e sociale della vita politica; a farne insomma una vocazione essenzialmente poetica, la cui aura ammantava tanto le

420 Ivi, pag. 78. 421 Ivi, pagg. 79-80.

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rappresentazioni ludiche ed equestri che i resoconti letterari di gesta d‟armi e d‟amore in lingua volgare ma d‟intento didascalico, tesa a rappresentare “una immagine ideale del modo di vivere della nobiltà” che “trova la sua più efficace espressione nella poesia” . 422 Questo carattere essenziale dello spirito cavalleresco, a un tempo sociale-religioso e poetico-letterario, in quanto modello antropologico non declina in senso culturale ma in senso sociologico, essendo espressione di un‟etica aristocratica che poteva trovare una sua interpretazione esistenziale solo a seguito di determinate condizioni storiche che preservassero i suoi esponenti, nella lotta per la sopravvivenza, da quelle forme più acri di competizione per il dominio che li avevano caratterizzato un tempo ma dalle quali si erano culturalmente emancipati per raffinamento “cortese”. Ciò non toglie niente al valore personale della nobiltà europea, che fino al sec. XVIII conservò il suo stile di vita e la mentalità aristocratica, ma è la sua posizione di ceto sociale che verrà minata, sia dallo Stato assolutistico che, definitivamente, dalla Rivoluzione francese. In altri termini, se il modello culturale sopravvisse come ideale antropologico ai destini della nobiltà europea, venne a mancare, con l‟eversione della feudalità, le condizioni della sua attualità storica, sicché, col mutare delle condizioni politiche del suo dominio, anche la rilevanza ideologica di quel modello sociale di vita e di pensiero ebbe il suo declino inevitabile. 423 La questione storica essenziale non è propriamente la “inevitabile contraddizione tra ideale e realtà”,424 in quanto l‟ipotesi di una corrispondenza dei due piani è essa stessa elemento idealistico, che può disarmare la causa perorata ma il più delle volte sospinge verso il superamento delle contraddizioni contingenti; nel nostro caso, storicamente, è rilevante la distanza che il mutamento degli assetti politico-economici della società europea provocati dall‟assolutismo ha prodotto tra l‟ideale aristocratico e la conduzione degli affari politici,

422 Ivi, pagg. 81 e 82. 423 Significativa a riguardo la sorte della grande letteratura politica controrivoluzionaria dei Chateaubriand, dei De Maistre, dei Donoso Cortes, a fronte della più modesta ma più attuale letteratura dei Tocqueville e dei Constant. 424 O. Brunner, ALeG, pag. 84.

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ossia la dissociazione tra etica e politica, che nell‟ orizzonte di coscienza razionalistico è stata salutata come una conquista del moderno spirito scientifico, mentre essa ha segnato i destini della civiltà cristiana. A seguito di tale dissociazione, infatti, la civiltà europea viene a perdere la sua precipua identità cristiana per manifestarsi come semplice “processo di civilizzazione”, ossia di razionalizzazione delle strutture del Potere, delle forme di convivenza sociale e degli stili di vita. Ed è questa perdita dei fini trascendenti dell‟azione civilizzatrice a essere indicata come “progresso” culturale della coscienza moderna. D‟altro canto, la decadenza della civiltà signorile, che si sviluppa nell‟arco di cinque secoli, per i processi di lungo periodo che segneranno infine l‟affermazione politica della ideologia borghese, non è riducibile alle sue dinamiche socio-politiche, ma coinvolge i fondamenti di pensiero che sorreggevano la sua etica e il connesso sentimento della vita. Non è casuale infatti l‟esito poetico della mentalità cortese, il quale non va interpretato come un tentativo di “evasione” dalle contraddizioni della realtà, per cui “la funzione psicologica e sociale della poesia [sarebbe stata] quella di creare le illusioni che celano il contrasto con la realtà”,425 ma semmai come la declinazione culturale in ambito mondano della spiritualità cristiana, centrata sull‟agapè, che poneva al centro dell‟atteggiamento virtuoso la “misura”, cioè il sentimento del limite verso il debole, anziché sul polemos, incentrato invece sulla superiorità della forza del Potere. La poesia, infatti, che ammantava la letteratura cavalleresca e lo stile personale di vita dei più veraci cavalieri, era il modo di conciliare esistenzialmente l‟etica delle virtù signorili con il mondo della vita; il modo, cioè, di colmare la distanza tra l‟ideale e il reale attraverso la vita vissuta. Era, se vogliamo, la risposta laica alla istanza di coerenza avanzata dalla spiritualità cristiana più consapevole, che trova sul versante religioso l‟espressione non meno poetica della proposta francescana e gioachimita. Se ci chiediamo le ragioni essenziali della impraticabilità dell‟etica cavalleresca nell‟ambito civile, come per altri versi della spiritualità francescana e gioachimita in ambito religioso, esse vanno trovate nella

425 O. Brunner, ALeG, pagg. 86-87.

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destinazione aristocratica dei suoi contenuti di valore, la cui esclusività elettiva non poteva godere di quella portata universale che invece caratterizzerà le forme di pensiero razionalistiche. Dello stesso potenziale espansivo che avvantaggiò il messaggio cristiano rispetto a ogni etica particolare o aristocratica, fuirà l‟ideologia politicistica moderna, che porrà come fine virtuoso dell‟agire pratico non più la salvezza dell‟uomo, proprio dell‟ideale di ceto cavalleresco, ma il Potere del sovrano assolutista, potenzialmente infinito e che interessava chiunque. La virtù cavalleresca era il pendant civile della santità in ambito religioso: vocazioni elettive inevitabilmente destinate a pochi prescelti, che presupponevano una organizzazione di vita fortemente gerarchica nei valori, e soprattutto autarchica nella gestione; aspetti che mal si conciliavano con la struttura di potere sia della Chiesa che dello Stato centralistico. E su questi aspetti essenziali prevalse la logica universalistica e accentratrice delle rispettive ideologie assolutistiche, che concepivano l‟unità della fede e rispettivamente l‟unità della legge come il criterio stesso sia della sovranità che dell‟ordinamento cosmico. Ed è questo il senso essenziale della corrispondenza sociologica del “monoteismo metafisico” di cui parlava Dilthey con il “monoteismo giuridico” di cui parlava Schmitt. La norma formale del cosmo cavalleresco è l‟ordine del discorso, in cui lo strumento della ragione agisce nella espressione simbolica della parola. Quest‟ordine presuppone l‟ordinamento naturale, ossia la fede nella giusta ripartizione dei ruoli cosmici destinati dalla volontà divina, nel cui ambito stabilito l‟uomo virtuoso deve mantenere il suo diritto, senza eccedere, senza smodare squilibrandolo in favore della insania. Lo squilibrio dell‟ordine cosmico produce infatti “follia”, che si manifesta nell‟uomo come villania, atteggiamento opposto a quello cortese. Nondimeno, la condizione della preservazione dell‟ordine cosmico non dipende solamente dall‟ atteggiamento virtuoso del nobile signore, ma anche dal suo riconoscimento da parte dei suoi subordinati. Presume, cioè, una condizione di equilibrio naturale di rapporti sociali che invece naturale non è ma è politico, cioè legato a reali condizioni di forza sociale. Questa presunzione naturalistica è sempre storicamente indizio psicologico di decadenza sociale delle aristocrazie, le quali hanno perso la memoria degli sforzi umani per raggiungere la loro

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posizione di dominio, adagiandosi sul loro presunto consolidamento tradizionale. Esse trascurano di considerare che lo sforzo di contenimento delle spinte eversive dal basso, una volta conseguito il successo sociale, le élites devono indirizzarlo in senso culturale, ossia applicarsi a diffondere la propria mentalità gerarchica anche nei subalterni per farne un patrimonio ideale comune. Ma esattamente questa spinta divulgativa veniva impedita da un‟etica di censo destinata a una casta sociale divisa dal popolo da una barriera antropologica insormontabile. Finquando la sfera nobiliare viveva in un‟aura culturalmente rarefatta e inaccessibile al contadiname analfabeta e rozzo, occupato col suo lavoro faticoso a garantirgli l‟agio di una vita priva di impegni per la sopravvivenza, la distanza sociale era sigillata da un vincolo morale di tipo religioso, che faceva della comune appartenenza cristiana l‟organico orizzonte esistenziale. Ma da quando la stabilità del cosmo feudale fu compromessa dal potere sovrano, che prese a scardinare la struttura stessa di contenimento dell‟ordine tradizionale, la massa subalterna divenne oggetto di contesa tra opposti universalismi ideologici, il cui tratto ideale comune era quello di rimuovere ogni mediazione sociale che potesse rappresentare un ostacolo alla propria affermazione di potere. In questo processo di mutazione dell‟impianto strutturale della società feudale, la religione finì per perdere il suo carattere di collante morale per diventare uno strumento culturale di legittimazione del Potere della istituzione ecclesiastica in lotta contro altri poteri concorrenti. E divenendo da patrimoni morale comune alla cristianità, a strumento ideologico di legittimazione del Potere mondano della Chiesa, lo stesso uso improprio della religione legittimò la ricerca di una altra fonte di legittimazione del Potere politico, che fino ad allora aveva inteso se stesso come una diretta emanazione della potestà divina. La crisi della unità cristiana, della fede nella comune appartenenza all‟unica cristianità, e la crisi del monoteismo metafisico sono correlate, ma solo sul piano religioso, mentre il principio metafisico dell‟unità come valore morale venne conservato, ma declinato in senso politico e non più religioso. Dalla molteplicità gerarchica della struttura politica interna all‟unità di fede cristiana (omnia potestas a Deo), si passò gradualmente alla molteplicità religiosa interna all‟unità politica, in cui il criterio unitario era costituito non più dalla fede comune ma dalla coerenza politica (ciuius regio eius religio). E‟

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sempre opportuno ribadire che il principio politico, per definizione, è conflittuale, e quindi l‟ordine politico stabilito da un Potere superiorem non recognoscentem è essenzialmente contrario all‟ordine sociale, che si basa sul riconoscimento dei ruoli. In tal senso, il Potere politico non può essere il garante dell‟ordine sociale, ma semmai il suo eversore. Ciò comporta che l‟unità dei gruppi sociali non può mai essere politica, essendo politici i conflitti sociali; l‟unità sociale può essere solo di tipo morale, ossia conseguita mercé un principio etico accomunante, rappresentato dal Governo. Non a caso, lo Stato politico moderno, non soltanto non ha eliminato la conflittualità sociale, ma l‟ha eletta a principio discriminativo delle relazioni sociali. La condizione per la quale lo Stato può dominare la società è dunque quella di annullarla nel suo essere costitutivo, strutturalmente gerarchico, attraverso l‟imposizione di un ordine artificiale, quello di dipendenza universale dal suo Potere, fondato su una unità fittizia di carattere giuridico-formale. L‟ordine politico si fonda pertanto sul disordine sociale, il quale a sua volta è generato dalla rimozione del principio di legittimazione morale della convivenza,di natura spirituale e religiosa. E pertanto l‟assunto razionalistico per cui l‟unità sociale possa conseguirsi attraverso lo Stato, e dunque etsi Deus non daretur, è essenzialmente errata, poiché l‟unica unità conseguibile per via politica è quella appunto politica, mentre l‟unità che possa unire quanto è strutturalmente diverso, è di natura trascendente le forze sociali, e appunto morale. Nello stesso senso, l‟affermazione storica del Potere statuale assolutista, se ha dissolto l‟unità morale della cristianità europea, non è pervenuto ad alcuna unità alternativa a quella etico-religiosa della “civiltà” in senso umanistico, aprendo la strada al perenne conflitto tra le nazioni e interno ad esse. Solo il genio di Dante, “l‟unico laico che possedette pienamente l‟intera cultura del suo tempo”,426 intese che l‟unità civile dell‟Europa (humana civilitas) non potesse conseguirsi coi soli mezzi politici, ma necessitava della confluenza del Potere entro l‟alveo monarchico del Governo etico, fondato sulla morale cristiana (communio sanctorum). Era l‟unità culturale vagheggiata dal Petrarca ma di portata universale e non circoscritta al ceto dei letterati. L‟intera

426 O. Brunner, ALeG, pag. 95.

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tradizione umanistica neo-platonica ricerca l‟armonia perduta dell‟uomo col cosmo naturale e morale dell‟universo che chiamava “magia”, che altro non era che la corrispondenza di ogni cosa col Tutto. La figura del “cortegiano” italiano, emulo del quale è il gentleman inglese e l‟honnete homme francese, ha dismesso le sue vesti guerresche, brandisce la penna ed è armato solo di sapere. Non confligge più con la corte ma vi vive entro la sua “società” aristocratica, intesa in senso moderno come un “settore della vita pubblica”, costituito non più da ceti ma da “un aggregato di individui”, legato da un consensus comune di carattere morale che sarà il fondamento dello Stato rinascimentale. 427 La versione dichiaratamente religiosa di questo umanesimo è quella di Erasmo, il cui proposito è di “rinnovare la cristianità attraverso la restaurazione dell‟antichità: vetera instaurare” a opera del principe cristiano, al quale dedica la sua Institutio. Ciò che lega l‟esperienza rinascimentale italiana di impronta nazionale all‟umanesimo universale erasmiano è la tendenza alla rappresentazione letteraria del mondo che nella cultura trovi quell‟armonia esistenziale in vano perseguita dalla politica e dalla religione ecclesiastica ormai separate e in conflitto. In guise diverse, ma animate dallo stesso stupore per l‟uomo e per le sue divine qualità, l‟intera produzione letteraria delle generazioni a venire disegna un progetto epico di rinascenza spirituale dell‟Europa che si mantiene a un livello solo apparentemente estetico, ma che in realtà, dietro la “visione estetica della vita e al culto della forma”428 coltiva l‟intento grandioso di una rifondazione morale della civiltà attraverso l‟elaborazione di un archetipo mitico di carattere radicalmente umanistico, e perciò epico ed eroico. Nella rappresentazione mitico-letteraria di un mondo ben incardinato sui suoi fondamenti ontologici, e perciò fascinoso e incantato, l‟uomo trova naturalmente il suo ruolo mediatore tra cielo e terra in una realtà di mezzo, quella della dimensione spirituale, in cui storia e desiderio si intrecciano nel disegnare un‟esistenza armonica, che si riflette nella vita di corte e nelle gesta dei romanzi cavallereschi

427 O. Brunner, ALeG, pag. 106. 428 O. Brunner, ALeG, pag. 111.

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quanto in quella rurale dipinta dalla poesia arcadica e dai romanzi pastorali. Questa letteratura, se da un lato conferma l‟esistenza di una “coscienza unitaria della cultura aristocratica europea”,429 per altro verso delinea un percorso dichiaratamente letterario che non ha il suo epicentro nella ragione, ma che non è neppure solamente estetico, ma bensì tende a una complessiva rappresentazione dell‟esperienza esistenziale dell‟uomo (singolare, nazionale e universale) che anticipa, in chiave eroica e virtuosa, quella del romanzo borghese. Era il modo spiritualistico di rappresentare l‟unità umanistica dopo la dissoluzione di quella feudale e di quella religiosa, una respublica christiana ma culturale e letteraria, alternativa all‟unità sovrana degli Stati del sistema politico europeo, in reciproca lotta per il potere; una unità perciò universale rispetto a quella particolare degli Stati nazionali. Nella nuova mitografia letteraria del periodo umanistico e rinascimentale la Storia non è sicuramente più una rappresentazione allegorica del piano della salvezza divina che attraversa popoli e secoli dagli albori della civiltà sino al giudizio universale. Questa historia mundi di carattere teologico era già stata abbandonata dall‟alta scolastica,430 e verrà invece recuperata solo da Dante con la Monarchia in una inedita chiave umanistica che fonde l‟antica virtus romana con il disegno escatologico cristiano e aspira a una rinascenza spirituale e non meramente politica e statalistica, come quella propugnata da Machiavelli. La frantumazione politica dell‟Italia era però compensata dalla unità universale cristiana e dall‟autorità della Chiesa, che perciò dovevano entrare nel disegno complessivo proposto da Dante di una Monarchia cristiana universale, fondata appunto sulle antiche e cristiane virtù. Rispetto alla libertà cittadina e della stessa unità nazionale, il disegno dantesco era di ben altra e più alta missione. Ma l‟elemento più pregnante di quel disegno era la preminenza accordata al disegno politico imperiale di istituire il diritto razionale, inteso però non in senso meramente etico ma soteriologico e non giusnaturalistico, opposto diametralmente dunque a quello che sarà interpretato dall‟assolutismo politico e che “minò i fondamenti del mondo

429 Ivi, pag. 116. 430 O. Brunner, ALeG, pag. 118.

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aristocratico”.431 L‟età moderna non inaugura ma porta a compimento una rottura ontologica, un paradigma metafisico su cui poggia la struttura aristocratica della civiltà europea e la sua immagine del mondo, per cui a tramontare non è solo il Medio Evo o il feudalesimo ma una Weltanschauung che “aveva dominato per più di due millenni”.432 Tale visione del mondo era quella greca, che in Platone trovava il suo massimo rappresentante filosofico, colui che aveva “scritto opere d‟arte per esporre della filosofia”, ossia si era servito di immagini artistiche per iniziare alla verità (philìa) ed educare la coscienza all‟uso della ragione (sophìa) “indirizzata alla conoscenza delle potenze irrazionali della vita”.433 Il livello di coscienza noetico, quello proprio della intelligentia spirituale, solo all‟interno di un più vasto e originario orizzonte, rappresentato in forma artistica, riesce a pervenire, per mezzo della sua visione ideale, a una conoscenza concreta della realtà. Ma la concretezza della realtà risiede nella sua molteplicità e dunque nel suo divenire, ossia nella sua storia, sicché la vera conoscenza consiste nella armonia, cioè bellezza, tra i due momenti, che non fanno confusi. A

431 O. Brunner, ALeG, pag. 121. “La vittoria dell‟assolutismo distrugge le premesse di un atteggiamento autenticamente aristocratico”: Ivi, pag. 125. La novità e originalità del disegno dantesco, non colto neppure dal Brunner, fu la portata universale del motivo etico nobiliare, liberato di ogni connotazione particolaristica, di censo o di nazione, e affidatario di una missione redentrice di portata mondiale. In questa prospettiva, infatti, veniva superata la cogente limitazione dell‟etica di ceto aristocratico medievale, la sua dipendenza sociologica dal potere, dal quale non veniva emancipata attraverso un piano di evasione estetica, ma mercé un progetto eticopolitico grandioso che Dante faceva coincidere con la stesse sorti della civiltà cristiana. Solo un Impero cristiano avrebbe potuto rivalutare il ruolo delle aristocrazie virtuose della società feudale, che lo Stato assolutistico minacciava e la Chiesa trascurava a pro della sopravvivenza della istituzione ecclesiastica. Solo all‟interno di un ordine cristiano, politicamente garantito, sarebbe stato possibile coltivare ed affermare le antiche virtù aristocratiche. Tornava sotto aggiornate spoglie l‟istanza di fondo che aveva animato la teologia politica alessandrina e che propiziò l‟incontro dell‟universalismo imperiale romano con l‟universalismo etico cristiano, che aveva piegato il logos storico verso una missione etica terrena. 432 O. Brunner, ALeG, pag. 129. 433 E. Hoffmann, Platonismus und christliche Philosophie (1960), tr. it., Bologna, 1967, pag. 32.

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questo compito è preposta la ragione, la quale distinguendo rigorosamente i due momenti, ha la funzione kantiana di determinare il limite che separa la verità (cioè la distinzione armonica) dall‟errore (la confusione degli elementi ontologicamente diversi). Questo duplice carattere dell‟Essere, ideale e a un tempo fenomenico, attribuisce anche alla sua conoscenza una qualità paradossale, “ma il paradosso, ineliminabile per il pensiero platonico, mantiene tuttavia in grazia di esso il suo significato: la frattura esistente fra la sfera ideale e quella fenomenica non significa nient‟altro che il principio di tutta la coscienza dell‟umano pensiero”.434 La consapevolezza di questa “frattura” metafisica genera il senso del Limite, che è razionale, in quanto individuato dalla ragione, ed è etico, in quanto conseguente alla ragionevolezza dell‟agire pratico. La rappresentazione di questa totalità, distinta e conflittuale, non può essere meramente logica, ossia dialettica e polemica, ma deve essere inclusiva anche dell‟esperienza della finitezza del divenire, la cui coscienza non è intellettualmente astratta ma esistenzialmente sofferta dall‟uomo. E proprio perciò il principio della coscienza, che è quello stesso della struttura dell‟Essere, richiede una rappresentazione che sia a un tempo simbolico-poietica e logico- razionale, che soltanto la narrazione filosofica può offrire come mito-logia, ossia come racconto archetipo (Mythos) della verità nel suo divenire se stessa. 435

11. La tradizione platonica. Se il luogo del confronto della forza –personale, nella civiltà eroica; sociale, nella civiltà politica – è lo spazio pubblico di esercizio della politeia, lo spazio, del tutto privato, della “corrispondenza di sentimenti”, è la philìa, che univa in modo elettivo e disinteressato gli uomini che la coltivavano. Questo carattere di disinteressata spontaneità donava alla relazione filetica un‟aura di

434 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 35. 435 Secondo Hoffmann, “Platone ha creato delle allegorie con cui descrive il modo come raggiungiamo prima e dopo la vita, al di fuori del mondo fenomenico determinato dallo spazio e dal tempo, la chiara contemplazione delle idee, che per noi quaggiù sono concepibili solo in quanto insufficienza, enigma e riflesso. Egli ha mitologizzato il modo con cui Dio dona la partecipazione al mondo nell‟atto in cui, da architetto, configura i cosmo secondo il modello delle idee”: Op. cit., tr. it., pag. 54.

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moralità, che faceva del sodalizio amicale un modus vivendi acconcio al livello di coscienza dell‟uomo virtuoso, a cominciare dal filosofo. Questi insegnava per il piacere di donare la sua sapienza agli amici che lo circondavano, senza alcuna ricompensa, tanto che “le grandi comunità che furono fondate da Platone, da Aristotele, da Zenone e da Epicuro, non sono pensabili senza philìa”. E perciò dovette suonare così stridente alle orecchie del filosofo la pratica del sofista “mercante di sapere”.436 Il sapere, quale ricerca di ciò che trascende la dimensione della vita puramente naturale destinata alla morte, e quindi di ciò che resiste all‟edacità del destino di morte che involge l‟esistenza anche dell‟uomo, è il compito della filosofia, ma è altresì l‟aspetto morale della sua coltivazione da parte della coscienza razionale. La particolare philìa coltivata dalla filosofia è appunto tesa alla verità trascendente, alla cognizione morale, e pertanto a valori iper-individuali che legano gli uomini al di là della loro particolarità empirica. Tale legame morale che lega gli amici è quello proprio della comunità volta al bene. Essa è dunque il modello ideale della convivenza umana che dovrebbe tradursi in realtà esistenziale non lacerata dal polemos. Una polis fondata sulla philìa sarebbe una comunità duratura fondata sul Bene, coincidente dunque con la relazione umana disinteressata e volontaria.437 Un altro modello di socialità, rispetto a quello politico. E se la convivenza politica è definita dalla misura sociale della forza, ossia sulle possibilità offensive degli uomini verso gli altri uomini coesistenti nello stesso ambito territoriale e urbano, la convivenza filetica consiste nella comune ricerca di superare la condizione politica, di cui misura è appunto la forza, coltivando il philein, l‟amicizia, l‟aspirazione comune al Bene, che diventa pertanto principio (aitìa) comunitario. Ma la ricerca del Bene fondativo della comunità filetica dei sapienti, è indirizzata anche alla definizione razionale del Bene, del principio morale inteso “come arché, da cui derivano solo delle copie in tutti i casi particolari dell‟amabilità”. Il fondamento dell‟essere è

436 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 72. 437 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 75.

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morale, e il fondamento morale è razionale. Il Bene è dunque fondamento di ragione, “dialetticamente sufficiente”, che interrompe il caos dei rimandi simbolici del pensiero, e dunque dell‟infinita incomunicabilità legata all‟esercizio irrazionale della volontà, e nel quale fondamento perciò “il pensiero è in grado di posarsi”.438 Come sempre, l‟originalità della posizione teoretica platonica non consiste nella scoperta della philìa, la quale agiva da modalità relazionale già nella rappresentazione epica degli eroi (si pensi solo ad Achille e Patroclo); la novità in Platone è l‟averla posizione all’inizio della vita comunitaria, in sostituzione dell‟archetipo politico tradizionale, il polemos, che Eraclito aveva posto a fondamento di tutte le cose e sulla base del quale Tucidide aveva giustificato eticamente i soprusi della guerra. Il parricidio platonico non si rivolge al solo padre spirituale della Grecia, ma alla stessa tradizione di cui il pensiero eracliteo era espressione, e la cui mentalità consegnava la coscienza alle tenebre. Questa tradizione di pensiero e questa mentalità consistevano nella credenza eleatica che “tutto è immerso nel divenire” (panta rèi). A questa credenza, che condanna l‟opera umana, e la sua stessa convivenza, alla finitezza dell‟imperfezione, Platone oppone la Verità, non una mera opinione tra tante, ma un fondamento epistemico, nel quale “il pensiero è in grado di posarsi”. Un terminus a quo a partire dal quale inaugurare una nuova tradizione, per cui la lotta contro il Mito perseguita dalla filosofia aveva dunque il significato di una confutazione “de‟ primi ed oscurissimi incunaboli della società” (Leopardi) finalizzata alla nuova forma di convivenza. Con Aristotile, l‟afflato aristocratico platonico, che caratterizza la comunità filosofica solidale nella contemplazione della verità insita nel Bene, viene a stemperarsi a favore di una esigenza pedagogica universale, che sostituisce al ruolo degli interpreti filosofi, mediatori tra il cielo delle idee e la prassi concreta, la funzione sociale dell‟etica, intesa come virtù generalizzata attraverso il metodo della ragione, che “come rende teoricamente generale il particolare per mezzo del concetto, così procede anche sul piano pratico: essa vuole anche che il sommo bene dell‟individuo (la felicità), diventi proprio di tutta l‟umanità, e pone

438 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 78.

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questa comune felicità al sommo del sistema dei beni”.439 Ciò comporta che l‟elemento concretamente esistenziale della mediazione, l‟aristocrazia di spirito, diventi elemento astrattamente intellettuale, legato al metodo pedagogico universalmente fruibile, la cui adozione generalizzata è consentita dalla stessa potenzialità, socialmente neutra, della ragione, con la quale l‟etica stessa va a coincidere. La stessa ragione, per il suo carattere universale, è etica e dunque chiunque ne adotti il metodo può applicarlo nella prassi come agire virtuoso. Mentre la concezione etica di Platone si basava sulla elettività del sentimento filetico, che era la condizione stessa della ricerca noetica della verità per mezzo del ragionamento metodico, e che costituiva il presupposto fondamentale e non naturalistico del modus vivendi improntato filosoficamente al Bene, la democratizzazione dell‟etica operata da Aristotele si fonda sul presupposto di credenza che “la morale è „generale‟ e innata in ogni intelletto”, ossia è un dato di natura collegato alla stessa socialità antropologica, per cui il perfezionamento etico consiste, sul piano logico, nella estensibilità universale del principio di ragione, e sul piano sociale dalla sua generalizzazione cetualmente indiscriminata, la quale diviene il criterio stesso della sua qualità. Il passaggio da una visione etica aristocratica a una democratica, eliminando la mediazione del ruolo specifico del filosofo, identifica la virtù con la ragione, ossia lo strumento con il suo fine. Se, dal punto di vista logico, l‟esaltazione del metodo filosofico priva la ragione di ogni intrinseca limitazione morale, spostando il problema della Giustizia () all‟interno della dimensione del diritto, interpretando il limite del Potere nei termini ottativi della “moderazione” (), cioè di una modalità di esercizio equo della forza (); dal punto di vista sociologico, rende superfluo il ruolo pubblico della aristocrazia sociale, le cui funzioni vengono assorbite dai funzionari della ragione, i cittadini virtuosi (). La trascrizione della soggettiva philìa in termini di astratta epieikeia, socializza i contenuti della equità del Potere, ossia la forma del diritto, ascrivendola alla sensibilità comune, anziché a un intangibile principio metafisico, superiore alla stessa ragione, la quale pertanto in Aristotile diventa onnipotente e

439 E. Hoffmann, Loc. cit., pag. 86.

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incoercibile, e dunque facoltà autarchica, non abbisognevole di alcuna limitazione che non sia interna alla stessa opinione razionale condivisa. Una dòxa razionale, la cui credibilità è pur sempre legata alla coscienza comune, che resta politica e diventa criterio sociale del Bene. Con la rimozione della soggettività morale, e dunque del fine trascendente l‟utilità comune, questa stessa utilità, intesa nel senso del bene sociale, diventa il fine politico ricercato dalla filosofia, quale metodo razionale di gestione del Potere. Il ripiegamento politico della ragione, in nome di un‟istanza realistica del pensiero che indirizza l‟attività filosofica in direzione pragmatica, crea le premesse teoretiche della ideologia razionalistica totalitaria. Platone, prospettando un modo vero di convivenza, relativizzava la convivenza sociale tradizionalmente politica, contestandone il suo supposto carattere di necessità, che invece Aristotile riafferma assegnando alla socialità una costituzione onto-antropologica nel cui concetto sussume la philìa, l‟istinto naturale che la ragiona sviluppa in philanthropia.440 Il senso del rapporto filetico viene capovolto. Infatti, mentre in Platone era un sentimento elettivo che rendeva uguali in virtù del Bene ricercato, in Aristotile la philìa è una condizione naturale comune di partenza sulla quale si applica l‟enérgheia del dirozzamento razionale. La attività razionale la distingue dalla passività del pathos ma l‟agire etico risolve la differenza ontologica di essere universale ed ente singolare nella prassi razionale, in cui consiste la comunità regolata dal diritto, lo Stato. “Dove c‟è sempre „comunità‟, là c‟è sempre anche philìa e dike: è la stessa sfera [etica] cogli stessi limiti”. La differenza tra le comunità etiche particolari e quella statuale risiede nella circostanza che solo lo Stato persegue “l‟utilità comune”, che è la sommatoria degli interessi delle singole realtà sociali particolari.441 “Ogni amicizia si fonda sulla comunione”,442 la differenza è solo modale, non di qualità sostanziale, per cui anche all‟interno delle forme statuali, i sistemi degeneri sono deformazioni del modello empirico, sottospecie dei regimi idealtipicamente classificati, cui

440 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 90. 441 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 97. 442 Ivi, pag. 100.

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corrispondono altrettante manifestazioni di philìa. 443 Il realismo aristotelico consiste essenzialmente nella incredulità delle forme ideali poste da Platone come idoli di ragione alternativi agli idoli del Mito arcaico, ma non meno oggetto di questi a culto e dunque a essere venerati come “veri”. Nondimeno, il razionalismo aristotelico, ammettendo la realtà storica del male come degenerazione del bene ideale, rende questo una finzione idealtipica, smentita dalle forme reali di organizzazione politica. Ed è proprio questa distanza tra essere e dover essere che, smentita in teoria ma constata nella vita pratica, a rendere la enérgheia razionale un motivo opzionale che si rende necessario solo attraverso l‟appello alla ragione comunitaria, ossia a quella ragion di Stato dettata dall‟utile, sia pure comune, che sarà il paravento etico che maschererà ogni ideologia assolutistica. La rappresentazione, di origine medico-naturalistica, delle molteplici forme empiriche di regime politico contrasta con una concezione monoteistica del divino,444 sicché lo stesso pluralismo religioso impedì di concepire una koinonìa pan-ellenica di tipo politico. L‟etica aristotelica non poteva sopravvivere alla polis greca, proprio in quanto etica dello Stato. La ragione ordinatrice della vita politica, perduta la sua finalità empirica con la fine della libertà politica dei Greci a seguito dell‟occupazione romana dell‟Ellade, diventa strumento di potenza rivolto a contenere le passioni umane, e da ragione di Stato diventa ragione dell‟Io. E così come costituiva uno stato patologico la dipendenza politica da una forza esterna a quella della volontà etica dei cittadini della polis, così lo era la dipendenza della volontà soggettiva dalla forza delle passioni. Circoscritta la razionalità dell‟esistenza alla dimensione soggettiva e coscienziale, i processi fenomenici esterni alla coscienza razionale diventano moralmente ininfluenti se l‟uomo li considera accidentali, ossia “esteriorità indifferenti che l‟uomo deve accettare come essere animale, dato che sono presupposte, ma da cui, come essere razionale e morale, è libero”.445 La ragione nella filosofia

443 “Amicizie e organismi statali sono forme comunitarie che possono essere intese, per analogia, in modo da distinguere fra il genuino e l‟adulterato, la specie e la sua degenerazione”: E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 98. 444 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 120. 445 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 127.

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storica, come già in quella platonica, torna a essere indipendente dalle regole del mondo comune, le quali assumono valore sulla base del loro possibile significato razionale. “Gli oggetti esterni diventano pregevoli o cattivi se si pongono in relazione col vero bene o con l‟autentico male [i quali] si debbono cercare solamente nell‟uomo in se stesso”446 e non nei caduchi rapporti politici e nella relativa logica che li sostiene. Il logos della coscienza personale trova il suo valore nel suo essere parte di un valore universale, presente nell‟uomo ma che regge “la totalità del mondo”. In quanto manifestazione particolare di un ordine universale, “anche l‟uomo, in quanto animale, voglia o no, deve servire al fine del cosmo; come dice Eraclito, persino nel sonno”. E nel secondare questo destino cosmico, la volontà di essere partecipe del finalismo universale, risiede la libertà dell‟uomo.447 Si noti come, in questo estremo razionalismo stoico, l‟identità singolare ritrova attraverso la ragione la solidarietà di specie, la quale tradisce la profonda insicurezza culturale in cui è immersa la coscienza deprivata della sua antropologica socialità politica. La originaria mancanza metafisica del fondamento, propria del razionalismo autarchico, viene compensata dalla generalizzazione cosmica di quello che rimane pur sempre un metodo di conoscenza della realtà, una gnosi che diventa rassicurante esistenzialmente non perché vera in conseguenza di una ricerca personale elettivamente partecipata per philia, ma in quanto condivisa per supposizione antropologica. Infatti, un logos che sia universalmente comune perde il suo carattere aristocratico per assumerne uno naturalistico, sia pure di sola specie umana. Il cosmopolitismo stoico nasconde, dietro la facciata ottimistica, una profonda e insanabile angoscia esistenziale, un profondo senso tragico della vita privo dell‟antica redenzione religiosa. Una filosofia che si propone di conseguire la felicità, presuppone una condizione infelice dell‟uomo, che rimuove attribuendone la causa all‟ignoranza del Bene, che si suppone comunque agire nell‟ordine cosmico. Ciò che l‟intellettualismo greco non riuscì a spiegare non è l‟origine del male, che risiede nell‟ignoranza dell‟uomo, ma le ragioni della sua coesistenza con l‟ordine razionale del mondo. Se la civiltà

446 Ibidem. 447 Ivi, pag. 128.

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greca classica aveva inteso circoscrivere l‟ambito di razionalità umanamente possibile alla dimensione, grandiosa a tratti ma comunque ridotta, della polis, la concezione ellenistica della stoa ambì ad assicurare alla razionalità l‟intera umanità, fuori di ogni coordinamento politico. E su questa pretesa palingenetica fu arato il terreno di semina del Cristianesimo, che rappresentò la manifestazione più universale di civilizzazione intesa come “rinascita di antica saggezza in un animus non più antico”.448 Tuttavia, il cristianesimo delle origini, nella predicazione di Gesù di Nazareth, non era una filosofia ma una “pura religione dell‟intenzione, indipendente da ogni atro complesso di valori”, una religione del “sentimento”.449 Il contrasto tra l‟eros filosofico e l‟agàpe cristiana passa attraverso la differenza tra “l‟amore del sapere” filosofico e la “fede nel sapere” religiosa. Infatti, mentre la filosofia platonica è una “religione culturale”,450 la fede cristiana è una religione della fede, che ha un carattere del tutto fattuale, poiché in essa “tutto viene rapportato alla redenzione compiuta da Gesù di Nazareth”.451 I grandi mediatori che interpreteranno la parola di Gesù, in una forma “rimasta poi sempre decisiva”, saranno Giovanni e Paolo, due “Giudei di cultura greca”, che posero al “principio” il Logos, lo stesso “principio eracliteo, come veniva tramandato dalla stoa”.452 La forma greca fu essenziale alla definizione e diffusione del Cristianesimo, in quanto funse da modello spirituale da inverare attraverso la novità della Rivelazione. La relazione tra i contenuti del messaggio evangelico e la forma della recezione divenne quella tra il volontarismo cristiano (la fede) e l‟ intellettualismo greco (la comprensione di essa): fides quaerens intellectum. “Dalla congiunzione di Platonismo e di Cristianesimo uscirà un umanesimo quale non aveva prodotto la civiltà araba e giudea del tardo Medioevo”.453 La socratica

448 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 137. 449 Ivi, pagg. 138-139. 450 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 40. 451 F. Schleiermacher, Glaubenslehre (1821, 18302), tr. it. di S. Sorrentino, Brescia, 1981, vol. I, pag. 208. 452 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 143. 453 Ivi, pag. 146.

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consiste nella capacità umana di riconoscere l‟Essere, sia questo inteso in senso eleatico che idealistico o ebraico, che la filosofia porta a consapevolezza. Il Cristianesimo, prima di tale consapevole sapere, pone la certezza della fede nella realtà di ciò che diverrà oggetto di conoscenza. La fede, quale condizione di conoscenza della verità, resta distinta dalla verità stessa quanto dal sapere che la riguardi, sicché il fedele non è Dio e neppure il metodo con cui Lo conosce, ma senza la fede in Dio non c‟è né oggetto di conoscenza né metodo di apprendimento. E‟ questo il senso profondo della volontà di accogliere tale fede, cioè di convertirsi alla verità. La metànoia propriamente è un mutamento di prospettiva da cui avere la visione della realtà. La filosofia greca poneva la verità alla fine del processo dialettico, rimuovendo l‟archetipo mitico, mentre il Cristianesimo pone la verità all‟inizio della conoscenza, non facendone un suo prodotto, ma solo la sua giustificazione razionale. Il sapere è un posterius rispetto alla certezza della fede, che dunque è il prius della conoscenza, la sua condizione ontologica. La fede consente, pertanto, il libero sviluppo del sapere, il quae, però, senza la fede perde il suo fine trascendente, che è appunto anche il suo inizio. Lo smarrimento della civiltà antica è legato all‟oscuramento del sapere, privo della luce della originaria verità. La stessa frantumazione delle dottrine filosofiche riflette la mancanza di un principio comune che ne indirizzasse anche lo scopo teoretico. Questo principio comune a ogni sapere umano è appunto la fede ontologica che l‟Essere (Dio) è, e per i cristiani Egli, incarnandosi nell‟uomo, si è tradotto anche in esistenza, e dunque esiste nel Cristo storico. La fede nella Sua verità passa attraverso la certezza della realtà di Cristo. I pensatori greci avevano confutato la mitologia arcaica in quanto idolatrica e fantasiosa, ma il Principio della conoscenza che i cristiani pongono per fede ha anche un fondamento di certezza, e dunque è irrefutabile anche per via di esperienza sensibile, del tutto assente invece dalla narrazione mitica pagana. La lotta che la fede e in seguito anche la teologia cristiana condusse sin dalle origini contro l‟idolatria, condannata aspramente d‟altronde dalla stessa catechesi vetero-testamentaria, aveva per oggetto non già il fondamento della verità, come invece per i razionalisti greci, ma bensì i suoi contenuti fideistici. Ma questa giustapposizione di miti avrebbe condotto al relativismo delle verità religiose, e dunque a ciò che

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Nietzsche chiamò il “nichilismo storico”, se il Cristianesimo non avesse concepito il fondamento divino oggetto della sua fede come la stessa Verità, ossia intendendo la verità, non più alla maniera filosofica come il concetto del ragionamento metodico, ma come il Mistero di Dio. Se porre il Mistero all‟inizio e alla fine della ricerca sapienziale, significava relativizzare il sapere privo della Verità unica, che è Dio, porre la fede a fondamento epistemico della conoscenza umana significava fare di Platone l‟anello di congiunzione del sapere antico con quello cristiano. Platone infatti aveva compreso che il luogo della verità non coincideva compiutamente con la realtà, incrinando la sicurezza esistenziale nata dalla identità eleatica di Essere e mondo. In quella crepa si era insinuata la coscienza metafisica dell‟alterità. Il limite culturale della sapienza greca fu quello di surrogare la fede rimossa nel Mito con l‟idolo politico, con un prodotto tutto umano, la cui perfezione era affidata al metodo razionale di costruzione. Anche la costituzione politica, come ogni altra opera umana derivava il suo grado di perfezione tecnica dal criterio col quale era stata eseguito il suo modello ideale, ossia dalla sua maggiore o minore razionalità. Non vi era differenza tra l‟opera artigianale e l‟opera politica, se non quella relativa alla fama che ne aveva presso gli uomini. Ma la fama stessa era una qualità umana, contingente e accidentale e finita come ogni qualità umana. Una volta che la civiltà politica, che era la realtà vivente della religione filosofica greca, aveva mostrato la sua fragilità storica, si dissolse anche la fede idolatrica che quella civiltà aveva animato, lasciando il pensiero, già orfano del Mito, anche senza oggetto. E la crisi dell‟oggetto trascinava con sé inevitabilmente il pensiero che a esso si era applicato, lasciando angoscia e smarrimento nelle coscienze, propense alla piega religiosa del filosofare e al misticismo.454 Su questo terreno morale e psicologico agì efficacemente la predicazione cristiana. Porre infatti come oggetto di pensiero e fondamento eterno e stabile, non una realtà mondana legata alla fragilità della finitezza umana, ma Dio stesso, significava rassicurare l‟uomo e la sua coscienza a una esistenza e a una fortezza inviolabili, che rivelò la sua ulteriore e maggiore efficacia spirituale al crollo dell‟Impero romano. Con la presa della spiritualità cristiana, la

454 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 155.

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tensione teoretica, l‟eros platonico, fu indirizzata verso l‟unio mystica, scompaginando e ricomponendo in guise diverse i problemi fondamentali della filosofia. Dalla prospettiva spirituale cristiana, l‟ con Dio sarebbe avvenuta attraverso l‟, che non è un “sapere”, non è una gnosi, ma una fede. La necessità insita nel sapere in senso razionalistico, per cui sapere qualcosa significa volerla, diventa nella prospettiva cristiana una volontà di sapere ciò che già si possiede (Agostino). Una questione di “buona volontà”, cioè un atteggiamento morale, liberamente assunto dalla responsabilità del singolo uomo. Ciò che è l‟ignoranza per il sapere greco, guaribile per mezzo del logos e della paideia, 455 diventa negligenza e malevolenza nella coscienza cristiana, redimibile con la grazia divina. L‟etica eudemonistica greca, è un‟etica salvifica per i cristiani. La conciliazione greca dell‟uomo col cosmo attraverso il logos, generatrice della serenità propria del filosofo, per il cristiano è un processo di avvicinamento a Dio che non ha termine nell‟aldiquà mondano, anche perché ogni contatto con l‟assoluto è di natura mistica e interiore, che non si esaurisce nella prassi. L‟intera vicenda evangelica del Cristo va interpretata sulla base di una lettura simbolica, di una fenomenicità che rimanda sempre a un altrove, a un altro piano di coscienza invisibile nel quale il significato degli avvenimenti vissuti assume un valore recondito e non determinabile verbalmente, quasi che la coscienza sia irretita dalla fascinazione dell‟imponderabile mistero della fede, entro il quale si esaurisce la portata intransitiva del thaumazein, entro il cui orizzonte di senso acquistano lo stesso valore esegetico le parole, le situazioni, lo sguardo, le emozioni, e tutto ciò che costituisce l‟esperienza esistenziale di Gesù. Ciò comporta che le parabole evangeliche, sulle quali si è esercitata l‟intelligenza millenaria dei teologi, non esauriscono nella letteralità la loro potenzialità ermeneutica, in conseguenza della definizione di una cifra esegetica ortodossa custodita dal dogma ecclesiastico, poiché il piano della convenzionalità può avere un significato socialitario, funzionale alla identità ecclesiale, ma in quella intuitiva  con Dio, stabilita da un dialogo che si pone su un piano di coscienza non comunicabile, e dunque non definibile nei termini del logos, in quanto aperto alla

455 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 166.

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discrezionalità graziosa di Dio. Nel riconoscimento spontaneo, cioè per volontà di fede, della predominanza dell‟Altro si apre lo spazio della dimensione morale, nel cui orizzonte di coscienza si compie la testimonianza della fede. La fenomenologia interna a questo orizzonte di coscienza, che sul piano della coscienza filosofica appare caotica e prodotto mostruoso, acquista il suo significato ontologico nel suo stesso fondamento, il  del Cristo, che è mitico per la ragione dialettica, ma che per la fede rappresenta il presupposto simbolico di ogni possibile rappresentazione razionale della Storia spirituale dell‟uomo ().456 Se consideriamo in paragone a questa coscienza fascinosa la condizione mitica rappresentata nella Repubblica dalla caverna, notiamo che la differenza essenziale tra le due condizioni di coscienza extra-razionale risiede nella volontarietà della fede di contro alla patologia della alienazione dalla verità logica. Nella condizione umbratile, infatti, è del tutto assente il consapevole consenso all‟Essere, costituito dall‟agàpe, l‟amore cristiano, la cui philìa rende superflua la funzione costrittiva del Potere, indispensabile all‟ordine politico, privo appunto di quel consenso, senza il quale il filosofo non può portare la luce nella vita umbratile. L‟ordo amoris vagheggiato da Platone attraverso l‟adozione politica della ragione, diventa il programma di fede del Cristianesimo, la sua sacra missione di volontaria conversione universale destinata a ogni uomo di buona volontà. Ciò che incatena l‟uomo al peccato originale di essere naturale è la sua mancanza di amore, non già la sua ignoranza del Vero. Se questa ignoranza è superabile attraverso il duro tirocinio della filosofia, l‟accidia della rilassamento morale può essere vinta da ogni uomo attraverso la sola volontà di riconoscere il sommo Bene che è in lui in quanto creatura divina. Il Logos iperuraneo del dialettico – posto che sia lo stesso adorato da Gesù - si è incarnato a exemplum di ogni uomo per la sua redenzione. La filosofia, liberatasi dal Mito, costituiva come suo polo dialettico la Natura, che diventò per la ragione il luogo del non-umano, della necessità da cui difendersi per mezzo della ragione, la cui funzione liberatoria è decantata dall‟epicureismo.457 Il Cristianesimo,

456 Ved. “La Parola e il Verbo”, in “Coscienza storica” n. 4. 457 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pagg. 169 sgg.

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di contro, assorbe la Natura nella creazione e la rappresenta il vincolo originario di finitezza peccaminosa sul quale agisce la fede per vincerne la resistenza alla comunione con Dio. Anche per Platone i vincoli naturalistici sono pregiudizi doxastici da confutare e lasciare agli ingenui, ma la charitas cristiana, diversamente dalla ragione, non opera a fini di perfezionamento della vita politica, ma per inaugurare una nuova visione del mondo, che ha il Cristo, Verbum caro, come modello esistenziale, e non il logos filosofico. La differenza, come spiega Paolo, nel suo inno all‟agàpe, è che “l‟amore non viene mai meno, mentre la profezia, le lingue e le scienze cesseranno”,458 perché esso rappresenta la condizione di perfezione. Se la filosofia è la turris eburnea in cui trova riparo la coscienza offesa dagli errori del mondo, la fede per il cristiano è sentimento vivificante di riconciliazione col mondo attraverso l‟atteggiamento agapico. “La lettera uccide, lo spirito vivifica”, come dice Paolo ai Corinzi. Non è il logos filosofico quella “salda pietra” della comunità umana che credeva Platone, ma l‟agàpe. L‟amore non esclude ma comprende anche il peccato. Per Agostino, “la coscienza del peccato è l‟inizio della saggezza”, non la sua negazione.459 Il Cristianesimo prese presto coscienza della sua “opposizione radicale alla civiltà greco-latina in seno alla quale si sviluppava”, ma anche della opportunità di trovare “in questa tradizione antica, qualcosa di buono che potrà utilmente assorbire nella propria cultura”,460 anche se, per quanto intrecciate in un sincretismo più o meno stretto, le due identità culturali, la greca e la cristiana, ebbero “una parte del tutto diversa nella costruzione dell‟umanità occidentale”.461 La differenza tra la disposizione agapica e quella razionalistica dei filosofi è nella inconseguibilità di una reale universalità da parte della conoscenza, la quale non coincide con il vero sapere, ma crea solo l‟illusione della differenza tra uomini eccezionali e quelli comuni. Il vero sapere non si consegue entro la dimensione della gnosi, che

458 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 180. 459 E. Hoffmann, Op. cit., tr. it., pag. 173. 460 H.I. Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique (1938), tr. it., Milano, 1987, pagg.325-326. 461 E. Hoffmann, Ibidem.

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distinguendo tra spirito e carne giunge all‟indifferenza morale, ma in quella della fede, per cui gli uomini veramente eletti non sono i sapienti ma i santi. “La gnosis fa dell‟uomo un essere gonfio, saccente, intimamente fiacco. L‟agàpe invece fa del cristiano la salda pietra per la edificazione della comunità dei santi”.462 La fede è dunque il vero orizzonte universale dell‟esperienza umana, sicché la comunità dei santi non è un sodalizio di eletti, al pari di un circolo filosofico, ma è la convivenza improntata ai valori morali, alla quale tutti possono partecipare, indipendentemente dalla loro posizione sociale, qualifica politica e origine etnica. La comunità cristiana, diversamente da quella politica, non esclude alcuno, perché l‟elemento unitivo dell‟amore è patrimonio di ogni creatura divina. Il piano della universalità morale supera le determinazioni sociologiche della vita politica e giunge alla condizione di con-pazienza, di partecipazione affettiva alle sorti del prossimo, che è la vera condizione etica della socialità, inconseguibile dallo spirito utilitaristico della socialità politica. Soltanto la solidarietà amorevole genera letizia (), perché inclusiva e volontaria, non certo la supposta serenità esclusiva e passiva del logos. 463 Il modello della comunità cristiana è chiaramente la famiglia, in cui l‟amore solidale è fatto di reciproco e spontaneo sentimento, nato dal semplice riconoscimento dell‟appartenenza. La sapienza profana, secondo Paolo, non indica “come bisogna sapere”, cioè la modalità giusta per pervenire alla conoscenza vera, che non è dettata dall‟uso tecnico della parola, come vorrebbero i dialettici, ma dall‟amore verso Dio, ossia dalla fede ontologica nella Sua realtà. E se si ama Dio, ossia lo si conosce per ciò che è, il Padre creatore, viene da Dio ricambiato e riconosciuto come figlio. Nel stesso passo della 1Cor, 8 Paolo allude significativamente alla conoscenza filosofica, “per idea” (), per indicare che quella “per immagine” non è la vera conoscenza di Dio, ma solo l‟aspetto enigmatico della verità. L‟ viene da Paolo riferito alla stessa conoscenza ideale, che com‟è noto per Platone era quella vera rispetto alle immagini riflesse dai sensi. Il decisivo “punto di separazione” () è che la gnosis è una conoscenza che non perviene alla verità, e come tale non rasserena

462 Ivi, pagg. 184-185. 463 Ivi, pag. 187.

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lo spirito umano.464 Pertanto la filosofia non può essere la risposta ricercata dall‟uomo di ogni luogo e tempo, quale invece per Paolo è la parola di Cristo, che può giungere a tutti i figli di Dio, indistintamente, ricercandola nel proprio cuore. Proprio perché singolare e comune, essa è vera e rappresenta il vero fondamento unitivo () della convivenza umana.465 Anche per Agostino”ogni perfezione procede dall‟amore, il quale è superiore a ogni ragione”. Ma l‟ impossibilità del cristiano di confutare il valore sapienziale della scienza profana, lo spinge a destinare il suo enorme prestigio in un ambito di realtà del tutto umano, la civitas terrena, segnato dal peccato della sua stessa finitezza. Il Cristianesimo ha scoperto, o meglio ha recepito la rivelazione di, un orizzonte di coscienza meta-fisico, intravisto dal sapere antico ma mai penetrato, il regno dello spirito, che “non è di questo mondo”.466 Nondimeno, l‟antitesi agostiniana è meno radicale di quella che può apparire in generale, in quanto il peccato non può mai scalfire il buon fine della creazione, sicché lo sforzo umano deve tendere ad “avvicinare la città terrestre alla condizione primigenia [della creazione divina] nonostante lo stato di peccato”, non già attraverso le istituzioni politiche, ma “una disposizione del cuore”.467 Infatti, per Agostino non si raggiunge la condizione di perfezione realizzando il modello ideale, alla maniera platonica o stoica, poiché la perfezione, ossia la verità,

464 E‟ giusto quanto affermato da Hoffmann sul “punto di separazione” tra la posizione di Platone, che consegue la conoscenza vera “per mezzo della dialettica”, e quella di Paolo, che la raggiunge “per mezzo dell‟agàpe” (Op. cit., tr. it., pag. 193), ma la polemica di Paolo è rivolta alla gnosi filosofica, e non solo all‟estasi, in quanto la filosofia pretende di raggiungere la verità attraverso lo strumento della ragione. Ma per Paolo la gnosis è fallace in quanto non è veramente universale, essendo riservata solo ai filosofi, e, diversamente dall‟agàpe, che tutti possono sentire, non soddisfa le esigenze dell‟ intera esistenza umana. 465 E. Hoffmann, Loc. cit., pag. 199. 466 “Non si tratta dell‟opposizione di stato „cristiano‟ e „non cristiano‟, né dell‟antitesi tra „Stato‟ e „Chiesa‟; si tratta piuttosto dell‟antitesi della „città divina invisibile‟ e dello „stato temporale visibile‟. La patria dell‟uno si trova nel mondo celeste, l‟altro ha le sue radici quaggiù”: E. Hoffmann, Loc. cit., pag. 201. 467 Ivi, pag. 205.

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non è nel processo storico ma nell‟evento trascendente, per cui la stessa civiltà, quale natura artificiale creata dall‟uomo, non può aggiungere alcunché alla condizione della sua antropologica finitezza, e dunque il theorein filosofico, che contempla la realtà visibile, non può giungere a quella “confidenza o fiducia incondizionata nell‟invisibile”, cioè in Dio, che è invece propria della pistis. 468 Il peccato, per Agostino, ha una funzione catartica, di punizione divina, sicché le stesse istituzioni politiche, quali lo Stato e le sue leggi, quando non si lasciano guidare dalla giustizia divina, sono rappresentative della collera di Dio. Questa posizione è stata interpretata come opportunistica e dettata dal bisogno di mantenere verso il Potere imperiale un atteggiamento moralmente limitativo, per cui la teoria della grazia divina sarebbe di tipo irrazionalistico rispetto alla dottrina del diritto naturale.469 In realtà, in quanto naturale il diritto non avrebbe potuto frenare la potestas temporalis del sovrano assolutista, l‟imperatore, in considerazione della sua funzione simbolica, rappresentativa della volontà di Dio, la quale soltanto poteva dunque limitare la volontà imperiale. La volontà teocratica, denunciata a proposito da Troeltsch,470 sorge allorquando la potestà spirituale si ponga come un Potere direttivo verso quello statuale, secondo un “rapporto formale di obbedienza, senza riguardo alla propria opinione sul valore o sul non-valore del comando in quanto tale”.471 Ma dalla distinzione del potere spirituale da quello secolare non deriva logicamente il controllo della Chiesa sullo Stato, che invece è il contenuto della pretesa ideologica di omologare la potestà spirituale, e dunque il Governo morale, alla potestà civile, ossia al Potere politico. Se “la cristianizzazione dell‟impero condusse a questo”,472 lo si dovette alla trascrizione in senso politico della gloria di Dio, cioè a una lettura platonica della Città di Dio quale modello ideale di quella terrena, che però non appartiene ad Agostino, per il

468 K. Loewith, Meaning in History (1949) , tr. it., Milano, 1979, pag. 186. 469 E. Troeltsch, Die Soziallehren der christlichen Kirchen und Gruppen (1923), tr. it., Firenze, 1969, vol. I, pag. 218. 470 Ivi, pag. 219. 471 M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, tr. it. cit. vol. I, pag. 209. 472 E. Troeltsch, Loc. cit., pag. 223.

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quale “c‟è solo una storia, perché Cristo è venuto una sola volta”, sicché “la civitas Dei non ha alcun rapporto con lo Stato di Platone. La dottrina dello Stato ha l‟intento di salvare la città empirica per mezzo di una partecipazione all‟idea della giustizia; la civitas Dei invece non vuol salvare la città terrestre, ma metter in guardia da essa”.473 Il limite della realtà terrena, della sua finitezza, è lo stesso del suo divenire, di natura ontologica, per cui sarebbe vano trovare in questa sua dimensione un rimedio che non sia esso stesso caduco e imperfetto. Per Agostino, come per Platone, la superiorità dell‟Essere sul divenire è la premessa metafisica per ogni correttivo, ideale per il greco, morale per il cristiano. Ed è questo convincimento, il dualismo metafisico, che farebbe di Agostino “un vero platonico”.474 In realtà, il dualismo caratterizza anche la visione gnostica, contro la quale Agostino ha polemizzato, e di per sé non chiarisce l‟elemento essenziale della sapienza greca, che è il suo razionalismo, entro il quale si pone la riflessione di Platone. Questi infatti sostiene da razionalista che “il vero pensiero consiste nell‟affermazione dell‟essere di ciò che è”; che poi, per Platone, sia “l‟essere delle idee, poiché viene pensato esistente solo ciò che viene pensato in quanto idea”,475 fa parte della sua mitologia, che verrà rigettata non a caso da Aristotile come inutile superfetazione fantastica. Ciò che rimane stabilito è che l’Essere sia identico al pensiero, comunque venga giustificato razionalmente questo assunto identitario, il quale, se accettato, comporta la esclusività del metodo razionale sulla conoscenza intuitiva o basata sulle sensazioni. Ed è questa determinazione metodica a creare le premesse del monismo intellettualistico, essenzialmente gnoseologico. Ma ciò che più rileva è che tale determinazione metodica è puramente postulatoria, ossia è una posizione di credenza, ipotetica, sul cui fondamento fideistico si basa la Weltanschauung razionalistica greca. Il suo accoglimento, eleggendo il metodo razionalistico a criterio di validità dei contenuti della fede, condizionerà l‟intero sviluppo della teo-logia cristiana, a scapito di altre correnti di pensiero, considerate eretiche, in quanto ritenuto l‟unico a poter giustificare il monoteismo. In questo

473 E. Hoffmann, Loc. cit., pag. 206. 474 Ivi, pag. 208. 475 Ivi, pag. 207.

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senso, lo stesso razionalismo greco poté essere considerato a giusta ragione dai teologi cristiani un preludio teoretico al monoteismo, poiché entrambi postulavano la ragione (il logos) come l‟unica via di accesso alla verità. Che l‟ente di ragione fosse indicato come agathòn o come Dio, e che al posto della polis ci fosse la Chiesa, era questione terminologica, in ogni caso l‟orizzonte di senso razionalistico veniva confermato, e con esso la visione monistico-universalistica, e dunque totalistica della realtà e dell‟ordine comunitario, consegnato anche dai cristiani alla logica politica, sia pure sacralizzata come lotta contro il male. Come “in Platone, anima e città sono connessi, così lo sono anche in Agostino anima e storia”, ed in questo senso è giusto affermare che “tutto il mondo dell‟antichità è ancora vivente in Agostino”.476 Nondimeno, “l‟impegno ecclesiale gl‟impose in tutta la sua urgenza il problema del significato e dei limiti di una cultura autenticamente cristiana”,477 non viziata dal politeismo e dall‟immoralismo pagani. La cultura profana doveva essere studiata non già per le sue intrinseche qualità teoretiche, ma in quanto servizio allo studio della Sacra Scrittura. Ed è questo atteggiamento sincretistico di Agostino a renderlo, se non il prototipo, quanto meno l‟interprete più significativo della “cristianizzazione della cultura antica”.478 Per comprendere i termini della diversitas tra i due orizzonti di pensiero, è essenziale riferirsi al loro rispettivo fondamento ontologico, determinante per le successive elaborazioni teoretiche, segnatamente nel campo delle relazioni sociali e politiche, che andranno a costituire i paradigmi del pensiero teologico-politico occidentale. La premessa ontologica della gnosi greca, che è la medesima di “ogni filosofia che osi aspirare ad essere una filosofia metafisica”, comporta la “tensione concettuale all‟afferramento di un Uno-Tutto in sé differenziato che determina la realtà nella sua totalità a partire da Un solo principio”.479 La pretesa totalistica della teoresi razionalistica è di ridurre al proprio principio uni-versale ogni realtà fenomenica della

476 E. Hoffmann, Loc. cit., pagg. 218 e 212. 477 M. Simonetti, Cristianesimo antico e cultura greca, Roma, 20103, pag. 94. 478 Ivi, pag. 96. 479 W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum (1998), tr. it., Milano, 2000, pag. 204.

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natura ed esistenziale dell‟uomo stesso, trascrivendola in termini di pensiero. Il limite empirico contro il quale si è venuta a scontrare il razionalismo sin da Socrate è costituito dall‟azione. Il pensiero speculativo trova il suo limite nell‟azione politica, o meglio nell‟agire politico, il quale è un fenomeno collettivo, cioè oggettivo, mentre il pensiero è sempre soggettivo e riferibile a una soggettività empirica o trascendentale. L‟attenzione riposta dal cristianesimo sulla volontà, fa della  l‟atto noetico fondamentale, che è fondativo della religione, in quanto genera una interpretazione () che istituisce il rapporto religioso.480 L‟agire politico considerato dalla filosofia, quale tecnica logica di portare alla luce ciò che è nascosto, non è l‟azione, cioè la volizione di potere, la libertà di realizzare il desideratum, ma la relazione. L‟azione, infatti, si dirige verso l‟altro, mentre la relazione è con l‟altro. L‟azione è atto imperativo, volizione tesa all‟obbedienza dell‟altro. La relazione è invece atto di riconoscimento dell‟altro come con-partecipe. La stessa dialettica è relazione dia-logica. Il Potere non ricerca dialogo ma obbedienza. La “virtù” politica coincide con la capacità di riconoscere l‟altro quale membro dell‟unità sociale. Il giudizio filosofico sull‟altro non verte sule sue singole azioni, ma sul rapporto di relazione che il cittadino ha nella vita sociale, dipendente dal suo modo di pensare. La filosofia si propone di correggere il cattivo pensare, non gli atti compiuti. La persona è unità razionale e spirituale, ma non sociale per i Greci. Dai singoli atti non si può pervenire all‟unità, che dunque incombe sugli individui-attori come Potere superiore esterno. La polis antica era lo spazio dell‟agire socializzato, pre-politico e politico. Il rapporto tra i due momenti dell‟agire è lo stesso che tra la socialità fondata sulla doxa e l‟agire razionale, quello appunto politico o del Governo. La superiorità assegnata dal filosofo al‟agire razionale determina la superiorità del Governo razionale su quello fondato sulle opinioni false. L‟equazione di politica e ragione consente il buon Governo, la cui qualità consiste appunto nell‟ispirazione razionale, e non nella efficacia della sua forza. L‟ammissione di un Potere fondato

480 S. Sorrentino, Introd. a M. Buber, Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana (1991), tr. it., Cinisello Balsamo, 19992, pag. 18.

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sulla dòxa consente la distinzione tra esso e il Governo razionale. La superiorità e bontà di questo sul mero Potere è fondata sulla coscienza razionale dei detentori, non sulla posizione di forza sociale. E poiché le posizioni di forza sociale pre-esistono alla costituzione di un Governo razionale, questo diventa il fine dell‟agire politico virtuoso, cioè razionalmente guidato. Platonismo e Cristianesimo pongono entrambi l‟Amore come mediatore tra gli uomini. L‟eros platonico è unità ideale; l‟agàpe cristiana è unità trascendente. L‟unità dell‟amore è alternativa all‟unità politica, fondata sulla necessità di unire il molteplice. La forza dell‟amore è desiderio di unità, di completezza metafisica. L‟unità ideale è universale, astratta dalle particolari relazioni. L‟unità trascendente è personale, concreta. Se l‟unità universale è immanente e perseguibile con la forza politica, l‟unità personale è trascendente e di natura spirituale, elettiva e non perseguibile normativamente. L‟unità politica è somma del molteplice ottenuta attraverso l‟obbedienza. Il principio unitivo di agàpe è la scelta (libertà ed elezione), non l‟obbedienza (necessità e convenienza). Il principio volontaristico sul quale è fondato tanto l‟attività del pensiero che della morale cristiana, produce l‟agire, il cui senso razionale + atto di ragione. Ma actus è anche scontro, attività è conflitto di atti, sicché l‟atteggiamento razionale della volontà è commisurare il mezzo al fine, l‟attività allo scopo da conseguire. Questo è il senso razionale dell‟agire politico, la cui essenza è la regolamentazione del conflitto: cruenta, con la guerra; pacifica, col diritto. Universalizzare normativamente il conflitto razionalmente regolato, non lo elimina. L‟eliminazione del conflitto avviene a livello di coscienza morale. L‟azione morale, infatti, è un agire contrario – e non semplicemente opposto – all‟atto politico conflittuale. Non è, come a partire da Socrate pensa la filosofia, il conflitto razionalizzato, ma il contrario del conflitto, ossia la non-azione, la rinuncia all‟azione, che sposta il piano dell‟agire da quello del diritto al piano morale. Razionalizzare il conflitto significa renderlo economico, non eliminarlo. Per tale fondamentale ragione, l‟azione morale non può contenere l‟azione economica. L‟agire morale rinuncia all‟azione. Morale è l‟azione che non si compie. Non è un altro fare, di tipo razionale, ma è rinuncia al fare. In questo senso, il limite che la morale oppone al Potere del fare non è un altro Potere, di tipo razionale

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rispetto a uno di tipo naturale, ma consiste nella rinuncia alla forza dell‟azione, ossia al diritto. Rinunciare al diritto è porre l‟altro (il prossimo) al posto del Sé, e dunque rinunciare alle ragioni del Sé significa trascendere la personalità per la Giustizia. Ed è in questo spazio di rinuncia alla ragione della prevalenza del Sé, propria della esclusività dialettica, che si stabilisce il con-loquio tra gli uomini, a partire da quello con Cristo, la “luce” divina che illumina la conoscenza. In essa, siamo oltre il soliloquio della coscienza intellettiva, incapace di conoscere “nulla di immutabile” finquando l‟intelletto “conosce ed ama se stesso”.481 Occorre trascendere il Sé nella luce della carità per l‟altro. Perché la Giustizia se c‟è l‟ordine? Solo se non consideriamo l‟ordine un bene in sé, in quanto conseguimento dell‟Unità sociale con la politica, possiamo porci la questione morale. E soltanto quindi se non consideriamo l‟Unità di Eros in sé possiamo intendere il valore dell‟Agàpe cristiana. E dunque, amare è bene? Se amiamo l‟esistente, è male. L‟esistenza (), dal punto di vista cristiano, non è un bene, in quanto fine di creature finite. La credenza nella immortalità porta a immaginare l‟esistenza come bene. L‟esistenza immortale per i Greci era la società politica, in cui vige il principio di obbedienza, che “libera dalla costrizione del presente permettendo di sopportarlo”.482 Sopportare non equivale a liberarsi. L‟unità che libera è armonia degli opposti. Non si può conseguire con la politica, che costringe i contrari alla pace per necessità, non per scelta. Gli opposti sono parti di una unità: simboli che si congiungono in un senso comune. I contrari sono elementi individui che polemizzano contendendosi il dominio. Il pòlemos nasce dalla “incapacità di assumere noi stessi come fine”, con la conseguenza di chiamare “bene una volontà che ci assume come fine. Il potere consiste nell‟essere un fine per le volontà degli uomini”.483 Solo i diversi possono incontrarsi nell‟Amore. Diversi sono l‟Assoluto e il relativo; l‟Infinito e il finito; Dio e l‟uomo. L‟Amore è la loro mediazione, il Logos in senso cristiano. Soltanto “ciò che è al di sopra

481 Agostino, De Trinitate, 9, 6, 9. 482 S. Weil, Cahiers, III (1941-„42), tr. it. Milano, 1988, pag. 304. 483 Ivi, pag. 311-312.

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del dominio è il punto di unità, cioè la limitazione del potere”.

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Mediazione è unità su un piano superiore a quello del conflitto. L‟unità politica, ossia modernamente il pactum civilis, rimane invece sullo stesso piano del conflitto e si può rompere. Il piano superiore a quello politico che genera conflitto è la devozione. Il piano del conflitto è il dominio, sempre reversibile, e quindi instabile. Il piano della devozione è l‟obbedienza (, con-sensus), cioè il riconoscimento volontario dell‟ autorità. Il dominio esige la sottomissione per affermarsi. La sottomissione dell‟altro è l‟effetto del dominio. L‟obbedienza, che per Agostino è “madre e istitutrice di tutte le virtù nella creatura ragionevole”,485 è la condizione dell‟autorità. Non c‟è autorità senza spontanea obbedienza, cioè devozione. Essendo la devozione obbedienza volontaria, non genera paura nell‟autorità, perché non fondata sulla forza cogente del Potere. Il piano della devozione è quello della legittimità morale. Non c‟è durata fuori della legittimità ma solo persistenza nel dominio, cioè resistenza del Potere al confitto. “E‟ necessario abbassarsi per elevarsi”,486 ossia riconoscere l‟autorità obbedendo e conseguire l‟umiltà. Questa la ragione fondamentale per cui lo Stato giusto debba essere “fondato sulla religione”,487 poiché la Giustizia è la mediazione tra Dio e gli uomini soggetti alla Sua autorità, che governa il mondo. La mediazione giusta è il Governo dell‟autorità. Il caos, così temuto dallo spirito greco, è la conseguenza del porsi l‟uomo come fine del mondo, perché allora il mondo diventa senza fine. Solo ciò che non dipende da un mezzo è fine. “Dio è l‟unico fine. Ma non è in nessun modo un fine, poiché non dipende da alcun mezzo. Tutto ciò che ha Dio per fine è finalità priva di un fine. Tutto ciò che ha un fine è privato della finalità”. [Ivi, pag. 346.] L‟obbedienza trasforma in libertà la necessità della finalità, facendo di questa il riconoscimento del Governo di Dio, e dunque della autorità morale, legittima, che ne viene ispirata. Andare oltre il piano dell‟unità politica, significa riconoscere il singolo come una unità esistenziale. l‟uomo concreto è una unità correlata ad

484 Ivi, pag. 332. 485 Agostino, Civitas Dei, XIV, 12. 486 S. Weil, Cahiers, III, cit., pag. 333. 487 Ivi, pag. 330.

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altre unità. L‟unità cristiana è spirituale, non razionale, sicché la communitas ecclesiale non è la società politica, la polis o l‟Imperium. Confondere la formale unità politica con la concreta coesistenza esistenziale è esiziale per l‟uomo. Gesù predica la distinzione. “L‟unione al di sopra della distanza è la molla del bello”. E dunque non l‟unità formale ma “la distanza è l‟anima del bello”, e ciò vale anche per la conoscenza. “La conoscenza delle distanze osservate mediante le cose ci insegna l‟obbedienza, strappa da noi l‟arbitrario, che è causa di ogni errore”.488 Arbitrario è ciò che nega la distanza, ossia la differenza, il limite tra l‟Unità spirituale e la collettività sociale tenuta insieme dal Potere; chi nega la differenza tra la realtà della coscienza e quella del mondo. Lo sforzo di Platone di trovare un fondamento di resistenza al divenire non può conseguire alcun risultato se permane all‟interno della ricerca di una astratta unità formale del molteplice, ossia all‟interno della sfera politica e del Potere. Solo trasferendo la coscienza dal piano politico a quello morale, da quello cioè della pretesa a quello dell‟obbedienza è possibile riconoscere il limite al Potere, e giungere alla differenza. La differenza è l‟invariante ontologica, e come tale non appartiene al divenire, ai rapporti empirici, alle variazioni soggette al Potere. Ma la differenza non è neppure la coscienza singolare, astratta dal divenire esistenziale. la coscienza astratta è una unità immobile, una Idea. L‟atto di coscienza astrae dal divenire delle cose. La differenza media e trascende l‟atto di coscienza e le variazioni che costituiscono l‟oggetto di coscienza che le porta ad unità. La realtà molteplice non va fissata al limite, altrimenti diventa un‟immagine astratta di realtà, priva di divenire, ossia di futuro. Il limite diventa modello e non più differenza. Il modello è l‟Idea di ciò che è, ossia l‟esistente astratto dal suo divenire, dalla sua imperfezione reale. L‟idealismo sopprime il divenire ponendo la realtà possibile al posto di quella attuale, facendone una “immagine dell‟immobilità”. Il limite non va neppure risolto nel divenire, cioè nel futuro, poiché il mistero legato alla libertà non può dominare la differenza, che lo trascende in quanto fine, il quale è la differenza stessa. Il fine è la differenza, non il divenire, il futuro, l‟avvenire. “Uscire dalla caverna

488 Ivi, pag. 349.

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significa imparare a non cercare la finalità nell‟avvenire”.489 La finalità non è né i presente (l‟unità della coscienza), né il futuro (il divenire), ma ciò che li trascende. E ciò che trascende il tempo della finitezza è l‟eterno, Dio. Il limite invariante, la differenza tra la coscienza e il divenire storico, è Dio. Più l‟uomo si pone vicino al limite, più è vicino a Dio, cioè riconosce la Sua realtà trascendente e Gli ubbidisce. Ubbidire a Dio significa riconoscere la realtà eterna, trascendente la temporalità del divenire, la dicotomia presente-futuro. Il razionalismo confonde l‟eternità con l‟universalità, che è la fissazione del presente in un modello ideale, astratto dal divenire e trasfigurato in idolo, in immagine ideale. L‟obbligo di considerare di valore comune tale immagine è la legge, che fissa una fattispecie valida erga omnes, per cui tra l‟evento concreto e quello ideale prevalga l‟ideale come realtà-che-deve-essere. Questa imposizione legale de-finisce al presente un processo in divenire, senza liberarlo della sua finitezza, ma solo astraendolo dalla sua concretezza. Il legalismo è all‟origine del razionalismo, ed entrambi sono logiche di Potere, semplificazione della realtà molteplice al modello unitario. Semplificare la realtà equivale a privarla del suo significato concreto, ossia della sua situazione in relazione, sostituendo questa con una fattispecie astratta. L‟astrazione immobilizza la realtà al presente idealizzato, al modello. Il legalismo romano e il razionalismo greco sono aspetti di una stessa visione idealistica del mondo, di uno stesso orizzonte di coscienza, costituendo la risposta della cultura pagana alla esperienza della finitezza dell‟esistenza umana. La coscienza razionalistica elabora una rappresentazione astratta della realtà, assumendone il modello come l‟unico “vero” rispetto ad ogni altra rappresentazione “falsa”. La realtà vera deve prevalere su quella falsa, sicché il mondo reale secondo la legge è quello stabilito dal Potere. la civilizzazione secondo questa visione del mondo non è che la progressiva razionalizzazione della realtà conforme alla sua rappresentazione ideale, stabilita dal Logos, ossia da colui-che-vuole perché può (ha la potenza di) volere. Ma cosa vuole il Potere? Dal punto di vista metafisico, il Potere tende a negare il valore simbolico degli eventi e delle opere umane del mondo

489 S. Weil, Loc. cit., pag. 352.

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a favore del significato univoco, stabilito attraverso i rapporto causale. Nel rapporto simbolico non c‟è nesso stabilito tra eventi predeterminati, cioè necessarii, ma solo corrispondenza tra eventi possibili, cioè liberi. Il rapporto causale stabilisce valida la domanda che ammette una sola risposta. Il rapporto simbolico sceglie invece tra le domande le possibili risposte. Il Potere dell‟Idea è il dominio della risposta unica sulle possibili domande: è ideo-logia. La risposta unica è perciò totalitaria. Porsi dalla parte della domanda, è parteggiare per il male sofferto dalla risposta unica. Stare dalla parte della sofferenza è cercare la risposta giusta alla domanda che la ragione giudica sbagliata. Questo significa redimere, salvare. Nella ragione non c‟è salvezza ma dominio del logos, cioè necessità, ordine. Il Dio che ordina il mondo è l‟Onnipotente: il Dio della Legge. Il Dio che salva il mondo è il Misericordioso: il Dio dell‟amore. I sofferenti sono gli esclusi dalla ragione del Potere, quelli a cui non serve la risposta della verità ideale a soddisfare la loro domanda esistenziale. infatti la risposta ideale è una, mentre le domande sono infinite. Dare una sola risposta alle infinite domande è ciò che il Potere chiama “ordine”. L‟ordine del Poter è la legge, la risposta unica di valore universale. La logica del diritto è la logica del Potere, il dominio, l‟imperium. Come può questo conciliarsi con la charitas? E dunque, perché la Giustizia se c‟è l‟ordine? Perché l‟ordine è selettivo, e perciò la sua universalità è parziale, ossia razionale. Solo la parte razionale della coscienza è soggetta all‟ordine, mentre la parte irrazionale è abbandonata al caos, priva di risposte. La parte razionale è quella astratta dal divenire delle emoioni e delle situazioni esistenziali dell‟uomo, cioè dalla processualità concreta della possibilità. La Giustizia corriponde alla possibilità, salvando dal caos ciò che viene escluso dall‟ordine razionale. Ciò che salva dal caos, dunque, non è l‟ordine razionale, cioè il Potere, ma la Giustizia, cioè il senso dl limite che nasce dalla coscienza della differenza e perciò della possibilità o libertà. Il Governo orale è pertanto il katechon che si oppone alla dissoluzione del caos provocato dal Potere astraente che ordina i soli enti razionali. Ogni Potere che ordina afferma negando e producendo disordine. Senza il Governo morale che limita l‟assolutezza del Potere ordinamentale, questo produce disordine. Limitare il Potere con la morale è limitare l‟errore che la ragione

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chiama verità. la verità è l‟errore senza limiti, unico e assoluto, non confutato. Tutto ciò che è portato all‟Unità è considerato vero. Ma la verità unica che non si distingue dalla sua falsa universalità, è falsa anch‟essa, è cioè un idolo.La convertibilità del Vero col Falso è l‟estremo approdo nell‟assurdo della ragione del mondo, che è “stoltezza di fronte a Dio”. La stolteza del razionalismo pagano è quella di considerare come proriamente umano ciò che nell‟uomo si lega alla natura, e perciò è universalizzabile alla stregua di una legge naturae. Ma l‟uomo non è sola natura, è anche spirito (), che non può essere governato idealisticamente col Potere razionale, ma solo con la convinzione della fede. Affermare la realtà dello spirito equivale ad affermare la differenza, e quindi l‟unità dei contrari, di spirito e natura. “Concepire l‟unità dei contrari è il movimento proprio della parte divina dell‟anima”.490 I due rispettivi orizzonti di coscienza, quello paganodella “cultura” e quello cristiano della “religione”, al di là della stessa dimensione escatologica del messianismo proto-cristiano, non erano facilmente componibili in una unità essenziale conseguibile con gli strumenti tradizionali della filosofia ellenistica, gli unici a disposizione oltre l‟area culturale semitica. Ciò comportò una inestinguibile tensione intestina al pensiero cristiano che, anche quando adottivo di paradigmi teoretici profani, persistette nei termini di un afflato trascendente, sia in senso mistico, quale l‟plotiniana, un distogliersi progressivo dall‟ambito del sensibile per un ripiegamento dell‟anima in se stessa,491 che nei contenuti della dottrina morale insiti nella reditio in se ipsum di Agostino, dove “lo scopo del ritorno pensante nell‟interiorità è „l‟essere in accordo‟ con l‟assoluto”, ossia “con la verità stessa che si realizza nel tempo”.492 L‟accordo con la ratio eterna di Dio è insieme una auto-riflessione, in quanto essa vive nel pensiero ed è premessa di ogni pensiero. Ed è questa “auto-concordanza” del pensiero con la verità di Dio a costituire per Agostino la “saggezza che sa se stessa e che appunto viene intesa, come l‟intellectus, nel senso di luogo delle

490 S. Weil, Loc. cit., pag. 358. 491 W. Beierwaltes, Platonismus im Christentum, tr. it. cit., pag. 210. 492 Ivi, pag. 217.

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idee”. Saggezza, intellectus e idee, intesi come momenti costitutivi dell‟Essere di Dio, riconducono a un’unica natura divina quanto il neoplatonismo aveva attribuito “a due distinte dimensioni dell‟essere divino (l‟Uno e lo Spirito)”, concependo il Dio cristiano insieme come unità e relazione, in cui il pensiero è nello stesso tempo manifestazione della volontà finita e dell‟amore infinito, e duenque nella conoscenza è insita la possibilità di “elevarsi a tale infinito”.493 Il movimento totale interno all‟Unità teo-logica non è teoreticamente esclusivo, ma concepisce la inclusività come trascendenza del sé nell‟Essere di “ciò che è”, in quell‟assoluto e immutabile. E “poiché questo essere è identico alla verità che pensa se stessa, esso è anche quanto vi è di più stabile e, quindi, è quella meta che inaugura l‟ascesa interiore stessa e in cui questa si acquieta”.494 L‟identità agostiniana di felicità con sapienza, e di sapienza con Dio, fa della conoscenza un percorso verso Dio non puramente intellettuale, ma accanto allo studium sapientiae occorre affiancare l‟aspetto morale e quello religioso o soprannaturale.495 L‟aspetto morale non viene affrontato da Agostino come ricerca del benessere pratico o della virtù civica, alla maniera ellenistica, ma come questione metafisica, ossia come conquista della verità razionale, ma suggerita dalla fede. “Il realismo del pensiero agostiniano si afferma in questa concezione: non possiamo raggiungere Dio direttamente se non per mezzo della fede, la sola realtà che ci sia immediatamente accessibile mediante la ragione è la nostra anima; è da essa che occorre partire e di essa servirsi per elevarsi a Lui”.496 Oltre la ragione, su un piano mistico, pur non disgiunto dall‟intelligenza intellettuale. Non vi è in terra all‟uomo concesso altro mezzo per giungere alla conoscenza di Dio che quello della ragione. In mancanza, all‟anima semplice non resta che l‟autorità della fede, che però svela la realtà misteriosa di Dio solo dopo la morte, diventando anch‟essa sapienza.497 L‟unità ricercata dalla filosofia diventa sapienza morale in senso

493 Ivi, pagg. 219-221. 494 Ivi, pag. 217. 495 H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pagg. 159-160. 496 Ivi, pag. 166. 497 Ivi, pag. 169.

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cristiano allorquando l‟intelligenza e l‟erudizione abbiano Dio come fine trascendente. "Una cultura strettamente e direttamente subordinata al cristianesimo”, cioè al “servizio della vita religiosa”, una sua “funzione”.498 Ed è questo carattere a distrarre il sapere dalla potenza mondana, dalla mera unità formale del molteplice empirico, e a indirizzarlo verso il valore trascendente, “l‟amore supremo di Dio”. come dirà in una epistola, “subordinata al fine della carità, la scienza è molto utile; in se stessa, senza questa subordinazione, si è rivelata non solo superflua ma addirittura perniciosa”, quando si cerca “più la scienza della santità”.499 Perché tale giudizio riduttivo della cultura pagana? Qual era il suo maggior difetto? La risposta va ricercata, per alcuni, nella perdita della sua “funzionalità” sociale, ovvero sul “carattere di disimpegno e di evasione” assunto dalla letteratura romana ed ellenistica, lontana ormai dalle reali esigenze comunitarie; funzionalità che invece costituisce “uno dei caratteri più distintivi della letteratura e dell‟arte cristiana”, dal quale “discende la loro, direttamente o indirettamente, larga accessibilità e perciò, in definitiva, il loro carattere popolare”.500 Ciò darebbe adito a una interpretazione della cultura cristiana in direzione della attività di propaganda missionaria e catechetica, che sicuramente coglie un aspetto rilevante della situazione, ma non quello decisivo. Esso va individuato nel carattere proprio del filosofare come confutazione razionale del Mito e dunque come teoresi auto-referente, metodicamente auto-noma, e priva perciò di quei fondamenti di fede teologica che invece costituivano l‟orizzonte di pensiero e di azione del cristiano. In altri termini, l‟accusa verso la cultura pagana era di essere fondamentalmente atea. Ma questa grave limitazione della cultura ellenistica non impedì l‟adozione dei suoi strumenti intellettuali, a cominciare dalla lingua greca, che divenne la lingua scritturale e della chiesa. E proprio l‟elaborazione razionalistica della lingua aveva condotto al pluralismo filosofico e alle altre eresie, come quella gnostica, fatte tutte risalire da Tertulliano e da Ippolito “all‟influsso

498 Ivi, pag. 285 499 Epistula 55, ed Enarratio in Psalmum 118, cit. da H.I. Marrou, Loc. cit., pag. 289. 500 M. Simonetti, Op. cit., pagg. 10-11.

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depravatore della filosofia greca”.501 Ma era “difficile, per non dire impossibile, a un cristiano impegnato nel campo delle lettere evitare il contatto e l‟influsso della cultura greca, anche se programmaticamente rifiutati”.502 Si pensi solo che nel Vangelo di Giovanni Cristo è presentato come Logos, cioè principio divino di razionalità universale, che secondo Giustino era presente anche se in forma parziale e impefetta nei filosofi, le cui dottrine, in ciò che di vero hanno, appartengono dunque ai cristiani, custodi della verità rivelata.503 Il più vicino al monoteismo cristiano era considerato senza dubbio Platone, anche se la sua distinzione rigorosa di anima e corpo si adattava meno della dottrina aristoteica del sinolo al dogma ebraico-cristiano della resurrezione dei corpi alla fine del mondo.504 In ogni caso, l‟elemento discretivo dalla tradizione ellenistica, e il più connotativo della cultura cristiana, fu la storicizzazione del Logos fattosi carne, che eliminava radicalmente ogni possibilità di incontro contenutistico con una cultura impregnata di mitologia politeistica. La battaglia cistiana contro il politeimo pagano, per i suoi tratti anti-mitologici, riabilitava paradossalmente la critica filosofica al Mito arcaico, perseguendone dunque in chiave cristiana il suo fine teoretico: la razionalizzazione del sapere, e di conseguenza della civiltà. La versione cristiana del processo filosofico di razionalizzazione del mondo consisteva nell‟assegnare alla ricerca della verità una meta precostituita dalla fede nel Christos-Logos, ossia un fine morale di senso religioso. Da qui la critica serrata di Agostino, tanto all‟orientamento estetico della cultura pagana tradizionale, propensa a godere delle sue spressioni letterarie e artistiche, anziché a servire la gloria di Dio, che alla mera e vana erudizione, “la tentazione più pericolosa, perché non porta ad altro che a una perversione radicale della mente”.505 Da qui soprattutto l‟orignalità paradigmatica della spiritualità agostiniana nel panorama dell‟intera tradizione patristica cristiana, il “valore eterno dell‟umanesimo” del suo “cupo ascetismo”, in grado di concepire

501 Ivi, pag. 28. 502 Ivi, pagg. 35-36. 503 Ivi, pag. 39. 504 Ivi, pag. 41. 505 H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pagg. 293 e 294.

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quanto agli altri scrittori cristiani era riuscito in parte: la “rottura profonda” con la tradizione ellenistica ormai irrimediabilmente decaduta, e l‟impegno alla ricostruzione di una “cultura nuova”, una cultura appunto cristiana. 506 Nondimeno, di questa nuova cultura di impronta cristiana bisogna bene intendere il senso, per comprenderne il successivo sviluppo in età medievale. Infatti, non può essere del tutto “nuova” una cultura che intenda rimanere filosofica, 507 sia pure solo in senso tecnico, mentre dal punto di vista dei fini teoretici dispiegarsi come del tutto cristiana, votata al sapere di Dio, anziché alla falsa felicità agognata dalle dottrine pagane. In ogni caso, anche per Agostino, la ricerca della sapienza rimaneva “il tipo di vita intellettuale più elevato che possa offrirsi all‟anima umana”.508 Sicuramente più elevata della vita activa dedita alla pratica delle virtù politiche. Ma la sapientia alla quale fa riferimento Agostino è la contemplatio veritatis, che trascende la verità filosofica, costruita sui sillogismi, e riposi nella speciale verità della fede, che viene prima di ogni ricerca razionale in quanto ne è il fondamento: “videatur mente quod tenetur fide”.509 Il senso profondo di questa tensione, che è teoretica e insieme morale, va rintracciato nel sentimento agapico di partecipazione spirituale di tutto l‟uomo allo spirito divino del mondo, che nell‟uomo è razionale. La “mente” è appunto la parte più ragionevole dell‟anima dell‟uomo, la cognitio intellectualis che ricerca il Bene “per se stesso e non come mezzo a qualche altra cosa”,510 come invece l‟ethica dei filosofi greci, protesa al bene politico. Il summum bonum al quale è votato l‟ardore teoretico è quello stesso che motiva l‟agire morale: l‟amore di Dio, la charitas. Infatti, come Agostino afferma, “nesun frutto è buono se non nasce dalla radice della carità”.511 Questo fondamento mancava alla sapientia pagana, che non riusciva,

506 Ivi, pagg. 296-297. 507 “Sant‟Agostino non ha mai rinunciato alla cultura filosofica”: H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 301. 508 Ivi, pag. 303. 509 Agostino, De Trinitate, cit. da H.I. Marrou, Loc. cit., pag. 305. 510 Agostino, De civitate Dei, VIII, 8. 511 Agostino, De spiritu et littera, 14, 26.

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né poteva, trascendere l‟orizzonte filosofico, al quale la fede cristiana aveva donato la luce eterna divina, che “non è soltanto un principio cognitivo, ma è anche fonte e guida di moralità” (lex est ratio divina et voluntas Dei).512 Ne deriva una duplice funzione (officia) della intelligenza umana: la sapientia, dedita alla contemplazione della verità eterna, e la scientia, dedita alle cognizioni pratiche utili alla vita sensibile e all‟ordine delle azioni temporali.513 Solo il primo officium è propriamente cristiano, mentre al secondo si è applicato il sapere filosofico tradizionale, che ha indirizzato la ragione verso scopi meramente terreni, senza arrivare al sapere di Dio, guidato dalla carità. Un sapere meramente terreno è una cognitio historica, inerente alla vita empirica dell‟uomo, la quale può assumere una sua funzione morale allorquando serve alla intelligenza della manifestazione sensibile della parola di Dio, cioè “in quanto si applica alla conoscenza del contenuto della fede”.514 Questa ammissione della importanza del sapere profano, così decisiva sulle sorti delle future elaborazioni teologiche del Cristianesimo, introduce surrettizamente nell‟ordine del discorso sacro un dato spirituale ineliminabile, relativo all‟unica possibilità umana di giungere alla comprensione della parola di Dio attraverso la scientia, la quale pertanto viene mondata del suo carattere negativo a seguito della sua fruibilità per la sapienza teologica. E su questa premessa gnoseologica l‟intero patrimonio culturale profano può essere riabilitato se concepito all‟interno del piano di salvezza cristiano. Ed è qui infatti la premessa teorica della teologia della storia agostiniana, la quale, mercé lo strumento tecnico filosofico, proietta in scala universale il percorso spirituale della coscienza cristiana, facendo della storia individuale il modello della storia dell‟umanità. Il suo concetto di “sapienza”, consistente nel “penetrare in ciò che si crede, ancorché, nell‟accostarsi alla sapienza, la ragione contribuisca a preparare l‟uomo alla fede”,515 accreditava l‟idea che uno strumento

512 B. Mondin, Etica e Politica, cit., pag. 18. 513 H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 309. 514 Ivi, pagg. 311-312. 515 F. Copleston, A History of Philosophy (1950), vol. II, Mediaeval Philosophy, tr. it., Brescia, 1971, pag. 67. Da ora HPh.

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teoretico, concepito per rispondere a questioni legate alla vita naturale dell‟uomo, ossia alla “scienza”, il cui fine è “l‟azione”,516 potesse servire a risolvere questioni legate alla sua vita spirituale, finalizzata alla beatititudine della visione di Dio, costituendo una petizione opposta, ma non meno aleatoria, di quella filosofica di voler conoscere l‟essenza della realtà rimuovendo dalla conoscenza i suoi fondamenti ontologici, ossia quella fede che il cristianesimo considera non solo l‟arché ma il contenuto stesso della gnosi religiosa. Inoltre, l‟ipotesi che l‟elaborazione razionale, ossia filosofica, del dato rivelato potesse giungere a giustificarlo scientificamente per rederlo credibile ai suoi detrattori (contra impios defendatur), implicava il sospetto dell‟inutilità della fede ai fini della conoscenza di Dio, sostituibile appunto con la dimostrazione razionale della Sua esistenza, col rischio di rendere vana la stessa Rivelazione. Questa profonda e lacerante contraddizione attraversa non soltanto il pensiero agostiniano ma l‟intera tradizione teologica cristiana che, come l‟anima per Agostino era “divisa tra autorità e ragione”,517 fu costellata di posizioni dogmatiche e di eresie, di infinite diatribe ermeneutiche e di cruenti scontri dottrinarii condotti in nome dei rispettivi convincimenti teorici. Da essa non si sortisce senza la disposizione morale alla charitas, non contemplata dal metodo razionalistico, adottato dallo storicismo universalistico agostiniano. La conseguenza più rilevante di questa teoria unitaria della Storia fu la revisione dei processi storici delle culture umane in chiave di compatibilità con il percorso soteriologico determinato dalla fede come l‟unico, vero e necessario percorso universale dell‟uomo, per cui i maggiori pensatori cristiani “si sono trovati d‟accordo col principio di respingere gli elementi incompatibili con la vita religiosa, scegliere e conservare quelli che possono in quache modo essere utilizzati da un‟intelligenza al servizio della fede”, e così operando, abbandonare “l‟uso empio della cultura” a favore del “solo buon uso”, quello funzionale alla “predicazione del Vangelo”.518 La figura ideale dell‟intellettuale cristiano tratteggiata da Agostino nella “carta

516 Agostino, De Trinitate, 12, 14, 22. 517 Agostino, De vera religione, 24, 45. 518 H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pagg. 327 e 328.

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fondamentale della cultura cristiana”,519 il De doctrina christiana avrà il compito di “insegnare il bene e distogliere dal male”.520 Stabilendo questo fine di salvezza e “rompendo con la tradizione antica”, il grande scrittore “pone le fondamenta di quella che sarà la cultura medievale”, compreso “il gusto per la ricerca scientifica, la curiosità per le conoscenze di ogni ordine e tutto ciò che, in una parola, doveva generare la nostra cultura moderna”. 521 Nonostante la “osmosi intellettuale” della cultura cristiana con la tradizione scolastica antica, il percorso della speranza mancava al pensiero naturalistico greco, per il quale lo sviluppo biologico che dalla nascita porta alla morte è intieramente inscritto nella sua necessità. Ciò che era convincimento e giudizio razionale per la scienza profana, diventà dovere morale e virtù teologale per la sapienza cristiana, sicché la saggezza del filosofo diventa “virtù mistica” nel fedele.522 Ma ciò che le due posizioni hanno in comune è l‟astrattezza della concezione della storia, dovuta alla razionalizzazione del suo oggetto di pensiero, consistente nella sottrazione dal fenomeno del suo principio ideale (arché), che è anche il fine (télos) del suo processo logico-esistenziale, in conseguenza della quale sottrazione l‟esistenza fenomenica diventa geneticamente misteriosa, empiricamente enigmatica. La Storia spirituale dell‟uomo, intesa come anticipazione di senso salvifico, è il processo stesso del Logos immanente ad essa, la sua fenomenologia nel tempo. L‟anamnesi platonica diventa in s. Agostino Storia del Logos. Che tale Logos sia pensato in senso greco come necessità razionale, o alla maniera cristiana come piano di salvezza, fuori del suo orizzonte di senso, ossia del suo fondamento ontologico, il suo piano avvenimenziale semplicemente non esisterebbe. L‟esistenza, la vita e la conoscenza sono per Agostino aspetti inseparabili della auto-coscienza. Col metodo emendativo da lui perseguito, il fenomeno culturale profano, privato del suo orizzonte di senso, e dunque della sua concretezza esistenziale, viene astratto dal suo principio fenomenologico, cioè dal

519 Ivi, pag. 342. 520 Ivi, pag. 334. 521 Ivi, pagg. 332 e 337. 522 Ved. K. Loewith, Significato e fine della storia, cit., pag. 191 n. 15.

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suo fondamento ontologico, e assolutizzato in senso funzionale al disegno soteriologico cristiano, rendendolo perciò disponibile a un fine apparentemente in-determinato, e quindi “aperto”, ma in realtà predeterminato a un destino opposto a quello indicato come libertà, caratterizzata da una fede consapevole e non presunta.523 Tale astratta determinazione oggettiva degli enti di ragione universalizzati, ossia recisi dal loro fondamento ontologico, li rende disponibili al fine desiderato, ossia oggetti della volontà umana. L‟aspetto più sconvolgente e inedito della razionalizzazione agostiniana della Storia è che l‟emendatio, pur avvenendo a posteriori, inerendo a processi storici passati, si applica sul senso teleologico della loro fine reale, che viene trasvalutata simbolicamente in un inizio cifrato, che l‟interpretazione teologico-apologetica porta alla luce. E così la crisi dell‟Impero romano diventa il luogo dell‟annuncio del Messia, e pertanto, astratto dal suo processo sociologico e culturale, viene interpretato come un momento del piano di salvezza divino. Ciò che valse per la vita di Cristo, quale compimento di un processo che annunciato dai profeti coinvolge “tutta la storia di Israele a partire dalla creazione e dalla caduta”,524 e ciò che Gesù stesso fece in riferimento alla fede particolare di ogni singolo uomo, sollevandolo dalla propria tradizione religiosa e assegnandolo al Regno di Dio, Agostino lo riferì all‟umanità intera, proiettando su un piano universale il percorso di salvezza di ogni singolo essere spirituale, oggettivandolo in senso razionalistico e costruendo una visione idealistica della Storia. Nell‟atto in cui il percorso soteriologico individuale diventa l‟espressione particolare di una ideale via di salvezza universale, la stessa fede perde il suo carattere di grazia individuale per diventare un postulato dogmatico presuntivamente comune al genere umano, anche quando razionalmente non ammissibile per le civiltà pre-cristiane. Il corollario di tale situazione teorica è, per un verso, la superfetazione dottrinaria, che va a investire ogni questione nata dalla esegesi teologica come dalla semplice lettura apologetica delle Scritture, tale da creare le premesse, attraverso la progressiva annessione di tutti i

523 Agostino, De Trinitate, 9, 6, 9; trad. it., Milano, 2013, pagg. 525-527. 524 H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 380.

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campi del pensiero, della scienza e dell‟arte,525 del monopolio ermeneutico della sapienza preteso dalla Chiesa di Roma, nato a seguito della “cristianizzazione della cultura antica”; per l‟altro verso, alla stretta connessione analogica del pensiero teologico con la sfera del politico. Con la visione idealistica della Storia di Agostino si inaugura, assieme alla intuizione metafisica della vita dell‟uomo avente una pretesa universale, anche la “contraddizione”, di cui parlava Dilthey, tra ogni visione metafisica e “la coscienza storica del presente”, fondata sul “fatto che, storicamente, si sia sviluppato un numero illimitato di tali sistemi metafisici, che essi, in ogni epoca in cui sono esistiti, si sono combattuti ed esclusi reciprocamente, e che fino a oggi non si sia potuto operare una scelta”.526 E‟ importante seguire il discorso di Dilthey al fine di evidenziare la portata metafisica dello storicismo idealistico di Agostino. Partendo dalla fattualità empirica della molteplicità dei sistemi metafisici quale indice della loro relatività valoriale, notiamo subito che il modello sottinteso a tale giudizio è l‟universalità del valore teoretico, che contraddice la molteplicità dei sistemi, e che tale universalità è intesa, non in relazione alla comprensine essenziale dei fenomeni oggetto del sistema, ma in senso spaziale, ossia come generalità totalizzante ed esclusiva. Per cui la semplice constatazione fattuale della loro molteplicità faceva scaturire un giudizio di relatività. Infatti, quando il sapere comparativo si ampliò a seguito delle scoperte geografiche e dei raffronti culturali, fino a comprendere tutto il mondo, prosegue Dilthey, “allora si diffuse irresistibilmente, nella maggior parte degli uomini, un atteggiamento di pensiero scettico nei confronti di ogni dogma; la forza della fede in un sapere trascendente scemò costantemente, […] e nessuna metafisica trascendente ottenne più il carattere di autorità come l‟avevano posseduto, una volta, quella di Platone, di Aristotele o di San Tommaso”.527 In altri termini, in virtù del principio di universalità, la fede in un sapere trascendente viene meno se limitata dalla semplice esistenza di altre fedi, a prescindere dal

525 H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 324. 526 W. Dilthey, Weltanschauungslehre, tr. it. cit., pag. 59. 527 Ivi, pag. 60.

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loro contenuto. Interessante notare che il criterio della universalità vale in positivo, ossia nel senso della validità della credenza, ma non in negativo, ossia in relazione allo scetticismo, che evidentemente non può comprendere la stessa generalità della fede, restando pur qualcuno che, nonostante lo scetticismo dilagante, ancora la coltivi. Stabilita la relazione empirica tra fattualità molteplice e preteso valore unico, sorge “l‟antinomia” storica tra, da una parte, la “variabilità delle forme umane di esistenza”, alla quale “corrisponde la molteplicità dei modi di pensiero, dei sistemi religiosi, degli ideali etici e dei sistemi metafisici”, e dall’altra parte, la “conoscenza oggettiva della realtà” da parte della metafisica, la cui validità riguarda appunto “l‟ampiezza” delle sue connessioni ideali “all‟intera realtà”. Solo questa conoscenza oggettiva, ossia universale, della realtà, come precisa Dilthey, “sembra rendere possibile per l‟uomo un atteggiamento sicuro in questa realtà, e per l‟agire umano uno scopo oggettivo”.528 Questo assunto però, volendo rimanere sul piano effettuale della molteplicità delle forme metafisiche, contraddice il criterio della dipendenza della loro validità dalla loro unicità, poiché la pluralità delle fedi non dovrebbe darsi, mentre questa pluralità è affermata come criterio della loro relatività. La confusione tra fede nella validità universale e pluralismo delle fedi, rende insolubile, come ammette lo stesso Dilthey, la coesistenza di fedi molteplici.529 Per comprendere i termini di tale incongruenza di Dilthey, basta seguire il suo stesso ragionamento. Il “tipo di collegamento del sapere di un‟epoca”, egli afferma, “è condizionato dall‟atteggiamento della coscienza”, che non è teoretico, ma psicologico, come Dilthey chiarisce precisando che “alla base dell‟ideale di vita e della visione del mondo vi è sempre uno stato d‟animo”, ossia un motivo irrazionale, che ne determina suo dire “l‟ambito storico di validità”; validità che dovrebbe essere per principio razionale. E all‟uopo chiama a conferma della sua teoria il caso della metafisica cristiana, la quale, egli afferma, “era fondata sullo stato d‟animo cristiano”.530

528 Ivi, pag. 62. 529 Ivi, pag. 65. 530 Ivi, pag. 63.

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Conoscendo l‟erudizione storica e la capacità teoretica di Dilthey si può anche comprendere la portata teorica della riduzione dell‟evento cristiano a uno “stato d‟animo” tra i tanti che fonderebbero i sistemi metafisici. E non già in quanto quel supposto “stato d‟animo”, che è l‟espressione con la quale Dilthey indica la credenza mitica, sia di chi scrive, ma in considerazione che la fede precipua della religione cristiana “non si fonda su un mito, ma su una storia”,531 ossia su un factum, un evento temporale oggettivo, assunto dalla fede come di valore significativo. Che sia pertanto la fede uno “stato d‟animo” è certo, altrettanto quanto l‟evento storico di cui è oggetto. Cosa cambia? Cambia che la molteplicità della fede soggettiva nell‟evento unico non ne determina il valore comune nel senso della sua relativizzazione, ma al contrario ne conferma la forza. Infatti, ogni singola esperienza di fede è fondamento di una elaborazione razionale (il credo ut intelligam di sant‟Anselmo), la quale resta funzionalmente distinta dal piano dell‟unità, originario e trascendente quello dialettico, proprio della teologia, che concepisce quell‟unità ipostaticamente trina. In questo senso può affermarsi giustamente che “l‟applicazione della ragione ai dati teologici, nel senso di dati della rivelazione, è e rimane teologia, non diventa filosofia”.532 Di conseguenza, l‟ambito di validità metafisica dell‟evento unico è un ambito ermeneuticamente ed esistenzialmente molteplice, costituito di una molteplicità singolare, e che questa molteplicità non ne inficia il valore universale ma semmai psicologicamente e razionalmente lo conferma. Ciò vuol dire che la fede, ossia lo “stato d‟animo”, è molteplice solo dal punto di vista esterno alla coscienza, empirico, mentre da quello interno ad essa, cioè sul piano della intima singolarità noetica, è unico e universale. A quale di questi piani si riferisce la relatività di cui tratta Dilthey? L‟universalità della coscienza trascendentale, o l‟universalità della coscienza empirica? Secondo Dilthey, la soluzione della contraddizione consisterebbe nella consapevolezza filosofica della “connessione della molteplicità dei sistemi con la vita” nella quale le “intuizioni del mondo” sono

531 H.I. Marrou, S. Agostino, tr. it. cit., pag. 380. 532 F. Copleston, HPh, pag. 12.

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“fondate”.533 In realtà, la “connessione” dei sistemi metafisici non va stabilita con la vita, poiché il loro fondamento, per ammissine dello stesso Dilthey, risiede nello “stato d‟animo”, ossia nella credenza che esso costituisca quel fondamento di realtà che consente alla vita di “essere”. Tra la vita e le forme della sua rappresentazione si interpone dunque la fede nella realtà della vita, senza la quale fede la vita stessa non avrebbe realtà ontologica. La caratteristica della fede cristiana consiste nella credenza che l‟evento cristico, che ha in sé una sua esistenza storica indipendente dalla fede, sia il senso (significato = verità e direzione = via) della Storia. La fede in Cristo non inerisce, quindi, alla Sua esistenza storica, ma alla realtà del significato di quella esistenza. Tale significato, oggetto di fede, solo allorquando venga razionalmente oggettivato assume dimensione metafisica nel senso di Dilthey, ma rimane comunque un significato di fede all’interno della coscienza del credente, indipendentemente dalla sua giustificazione razionale. Ma è in tale interiorità che si stabilisce il fondamento di fede nella oggettività del significato metafisico, che è razionale ma appunto fondato sulla fede. Orbene, Agostino, sulla scorta della gnoseologia razionalistica della tradizione filosofica, ha accolto all‟interno dell‟orizzonte di fede singolare la sua giustificazione razionale, la sua oggettivazione di senso universale, cioè metafisica, mettendola in relazione con altre visioni metafisiche. Il metodo comparativo, afferma Dilthey, semplificando la tipologia delle visioni del mondo, “mostra che queste forme fondamentali esprimono gli aspetti della vita in rapporto al mondo posto in essa”, sicché in quelle forme intuitive noi possiamo riconoscere “i simboli necessari dei diversi aspetti della vita nel loro rapporto”.534 Ciò significa che le costruzioni metafisiche interpretano i rapporti tra la vita, nei suoi varii aspetti, e la realtà in essa contenuta, cioè il mondodella-vita. Ma, come abbiamo visto, la vita e il mondo sono la stessa realtà, fondata ontologicamente sulla fede nella esistenza di quella realtà che costituisce la vita, per cui è tale fondamento di realtà della vita a costituire lo “stato d‟animo” tributario di validità all‟orizzonte

533 W. Dilthey, Loc. cit., pag. 65. 534 Ivi, pag. 66.

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della rappresentazione metafisica. Orizzonte che è “metafisico” solo dal punto di vista della oggettività scientifica, ma che è in sé nient‟altro che lo stesso mondo-della-vita. In altri termini, la distinzione tra il significato dell‟esistenza e quindi delle relazioni in cui consiste il mondo della vita, e questo mondo stesso, è un‟operazione intellettuale, ma non è la condizione della credibilità di quel mondo; credibilità che è preventiva alla realtà del mondo, e non conseguente, come lo è nvece dal punto di vista oggettivamente della scienza, dalla cui prospettiva è possibile la scomposizione della vita dal suo senso, ma non la loro unità, che è l‟oggetto invece dell‟intuizione metafisica. E difatti, è lo stesso Dilthey a precisare che “le contraddizioni sorgono attraverso il rendersi autonomo delle immagini oggettive del mondo nella coscienza scientifica”. E‟ pertanto tale coscienza che, oggettivando le immagini rendendole autonome, “rende un sistema metafisica” e stabilisce le contraddizioni come “scientifiche”, mentre, “se si vogliono considerare le forme principali come espressioni relative dei diversi aspetti della vita, allora in questi aspetti vi è solo una diversità, ma nessuna contraddizione”.535 L‟oggettivazione scientifica delle immagini razionalizzate consiste dunque nella loro autonomia dal divenire, entro il quale c‟è coesistenza di forme ed espressioni di realtà diverse. E duque i conflitto delle interpretazioni è il prodotto artificiale dell‟intelletto astraente che stabilisce le comparazioni dei valori astratti dalle rispettive fedi ontologiche. Dare valore rilevante alla rappresentazione scientifica rispetto a quella della fede, costituisce essa stessa una credenza di fede. L‟unità metafisica, infatti, non coincide con l‟unità organica dell‟orizzonte di fede, entro il quale ogni aspetto della vita e del pensiero si concilia in Dio, che diventa il topos della conciliazione universale, ossia di ogni diversità culturale ed esistenziale. Questa onnicomprensiva unità è ciò che Agostino chiama “verità”, alla quale la mente, che né la costituisce e né la può modificare, deve inchinarsi.536 La “diversità” dei diversi aspetti della vita è la molteplicità delle coscienze singolari che riflettono la loro fede individuale all‟interno di

535 Ivi, pag. 66. 536 Agostino, De libero arbitrio, 2, XII, 33; trad. it., cit., pagg. 337.

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un comune orizzonte di senso (che è metafisico, a parte objecti; ovvero esistenziale, a parte subjecti). L‟esito della trascrizione razionalistica della Storia spirituale del singolo uomo nei termini di un oggettivo percorso universale dell‟umanità, da parte di Agostino, è stato che la fede escatologica della coscienza spirituale è diventata il processo fenomenologico del corpus mysticum della Cristianità, la cui forma visibile è la Chiesa cristiana, nel cui “simbolo” si oggettiva la realtà della fede e della sua stessa rappresentazione metafisica. Ciò comporta che, se per un verso la fede diventa fondamento di senso di ogni conoscenza storica, per altro verso il contenuto oggettivato di tale Storia è la realtà empirica della Chiesa, la quale, come ogni fenomeno storico, diventa essa stessa oggetto di considerazione storica, il cui relativo valore metafisico va comparato alle altre forme metafisiche storiche. Quanto la scienza cristiana operò in relazione alla sapienza profana, la scienza moderna fece in relazione alla cultura cristiana: la rielaborazione di senso razionale dei suoi fondamenti di fede, i quali, entro l‟orizzonte di fede, sono “la verità in cui, da cui e per cui sono vere quelle cose che sono vere sotto ogni riguardo”,537 ma che, fuori di esso, appaiono mitici. Questa considerazione stabilisce la differenza tra una supposta verità teoretica, costituita mercè l‟uso di argomenti dialettici, e la verità conseguita dall‟anima in interiore homine. Ma perché allora fare uso della ragione per conoscere Dio? In una Omelia a commento del Vangelo di Giovanni, Agostino spiega che la presenza del Padre, creatore del mondo, fu disvelata dal Figlio ma,

in quanto è chiamato Dio da tutte le creature, questo nome non ha potuto rimanere del tutto ignorato neppure alle genti, anche prima che credessero in Cristo. Tale infatti è l‟evidenza della vera divinità, che essa non può rimenere el tutto nascosta alla creatura razionale che sia ormai capace di ragionare. Fatta eccezione di pochi, nei quali la natura è troppo depravata, tutto il genere umano riconosce Dio come autore di questo mondo. E così, come creatore di questo mondo che si offre al nostro sguardo in cielo e sulla terra, Dio era noto a tutte le genti, anche prima che abbracciassero la fede di Cristo. 538

537 Agostino, Soliloquia, 1, 1, 3. 538 Agostino, In Joannis Evangelium (416-17), 106, 4; tr. it. di E. Gandolfo, Roma, 2005, pag. 1080.

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Ciò significa che la conoscenza universale di Dio è possibile a ogni uomo in grado di collegare la realtà creata, che cade sotto i nostri sensi, col suo Creatore, ossia a ogni essere dotato di ragione, anche se non illuminato dalla Rivelazione. E pertanto è l‟uso della ragione la facoltà originaria e comune a tutti gli uomini, a prescindere dalla loro fede religiosa. Questa ammissione non stabilisce una equazione tra conoscnza razionale di Dio e verità, come abbiamo visto, ma in ogni caso accredita la ragione come lo strumento del consenso universale alla stessa fede in Cristo, la quale perfezionerà l‟acquisizione della verità entro la coscienza del credente.539 Ed è proprio questa ammissione a riabilitare la ratio pagana come strumento, sia pure imperfetto, di accesso alla verità cristiana, alla fides, facendo di questa una coscienza elettiva e minoritaria rispetto alla conoscenza naturale o filosofica, universale per tempo e per luogo, e perciò costitutiva del legame tra il popolo di Dio e l‟intera umanità. Da qui il recupero degli elementi di verità della sapienza pagana, compatibili cn la Rivelazione, ma da qui soprattutto la necessaria trascrizione razionalistica della fede ai fini del “consenso universale” delle genti alla verità cristiana. La questione del rapporto tra fede e ragione, non soltanto non è chiarita da Agostino (Harnack), ma il suo sforzo teoretico teso a provare l‟esistenza di Dio a partire dalle sensazioni per risalire alla consapevolezza della inanità del cimento razionale, sembra presentare la fede come l‟approdo finale e il coronamento della imperfetta conoscenza naturale, e non come la premessa della conoscenza razionale. Ciò vorrebbe dire che si può pervenire a Dio anche fuori della Rivelazione, ma soprattutto stabilirebbe un rapporto di necessaria complementarità tra fede e ragione, la quale rivaluta la sapienza profana come prodromica a quella cristiana. Da questa interpretazione nasce il modello di civiltà razionalistica ellenistico-cristiana come ideale e da proporre come universale. Eppure Agostino aveva asserito, commentando nel Vangelo di Giovanni il passo in cui Gesù invita a “rimanere nella parola” (Gv 8, 31-32), che “è grande ciò che comincia dalla fede”,540 intendendo dire che nella fede c‟è il fondamento della “verità” (Gv 8, 32). Infatti, chiosa Agostino a proposito degli apostoli,

539 F. Copleston, HPh, pag. 94. 540 Agostino, In Joannis Evangelium, 40, 8, tr. it. cit., pag. 663.

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“essi non credettero perché avevano conosciuto, ma credettero per conoscere”.541 La conoscenza per fede non è legata alla natura umana in quanto tale, ma alla volontà del singolo, pur nelle incertezze della condizione lapsa dell‟uomo. Gesù infatti, pur soggiornando in terra per riverlarsi all‟uomo, da tutti fu visto ma non da tutti riconosciuto. “Rifiutato dalla maggioranza, messo a morte dalla moltitudine, da pochi fu pianto, e tuttavia, anche da questi dai quali fu pianto, nn era ancora conosciuto per quel che esattamente era”.542 Se l‟eudemonismo etico della cultura pagana trovava il suo limite culturale e soteriologico nella cura di sé, esso fu rintracciato proprio dall‟uso della ragione, la quale deve trascendere sé stessa se vuole assurgere alla verità, per cui né l‟ideale dell‟epicureo né quello dello stoico possono dare la felicità all‟uomo, ma solo il desiderio della beatitudine, ossia il raggiungere Dio, che “è la beatitudine stessa”.543 La tensione morale verso l‟ascesa a Dio è per Agostino un dato antropologico, per cui l‟amore, che è lo strumento col quale l‟uomo si protende a Dio, non è un precetto dottrinario ma coincide con la ricerca stessa di Dio, che è il summum Bonum, e quindi con la volontà di partecipare di questo Bene. In questo senso, in Agostino “la dinamica della volontà è una dinamica d‟amore (pondus meum, amor meus)”.544 L‟amore è il fine, l‟obbligazione morale, cui deve sottomettersi la volontà, che i Greci destinavano alla felicità naturale. L‟orientamento morale è libero, sicché l‟uomo può o non perseguirlo, volgendo la sua volontà verso i beni terreni, distogliendosi dalla legge divina, ovvero verso il bene spirituale ispirato da Dio.545 La stessa illuminazione che la mente coglie teoreticamente, la coscienza morale coglie in senso etico. Ciò comporta che il dovere di amare Dio, in cui consiste l‟obbligazione morale, è la parte che spetta all‟uomo per raggiungere la

541 Agostino, In Joannis Evangelium, 40, 9, tr. it. cit., pag. 664. 542 Agostino, In Joannis Evangelium, 40, 9, tr. it. cit., pag. 664. 543 Agostino, De moribus ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum (388), 1, 11, 18. 544 Agostino, Confessiones, XIII, 9, 10; tr. it., Alba, 1979, pagg. 461-2; cit. da F. Copleston, HPh, pag. 108. 545 Agostino, De libero arbitrio, 2, XIX, 53; tr. it. a c. di F. De Capitani, Milano, 1987, pag. 363-65.

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beatitudine. L‟altra parte tòcca alla Grazia, l‟unica che possa guarirlo dalle infermità della legge umana. Una vita regolata senza l‟apporto della Grazia non può conseguire la vera felicità, e quindi l‟uomo vive nel male. Questo, però, non può essere inteso in senso positivo, poiché ogni cosa creata da Dio non può che essere benigna. Nello stesso tempo, l‟uomo che non persegue il suo fine morale vive nel male, per cui questo va inteso come una condizione negativa di allontanamento dal bene divino ed eterno legata alla volontà dell‟uomo.546 Questa concezione, di origine neo-platonica e risalente a Plotino,547 assegna razionalisticamente alla realtà una fisionomia aberrante, conseguente alla ipostatizzazione del modello morale come l‟unica vera realtà in senso ontologico, rispetto alla quale l‟esistenza profana è insana. A tal punto che è occorso l‟intervento divino per redimere l‟uomo. La storia pre-cristiana, caratterizzata dal sapere razionalistico, viene rappresentata da Agostino come una lunga vigilia di redenzione, che nell‟evento cristico trova la sua soluzione di continuità, il suo salto morale. La storia dell‟umanità è la storia della dialettica del principio dell‟amore meramente terreno dell‟uomo verso se stesso, e del principio dell‟amore dell‟uomo verso Dio. Col principio terreno, vòlto alla sola cura dell‟uomo a se stesso, si è edificata la città di Babilonia; col principio dell‟amore divino si è costruita Gerusalemme. Sono “due città, presentemente unite nel corpo ma separate nel cuore”.548 Il Potere politico, ossia la condizione per cui alcuni uomini comandino su altri, non è stabilito dall‟ordine naturale originario ma è una conseguenza del peccato originale.549 Se non interviene la Grazia, l‟esercizio del Potere è privo di luce divina, ossia di finalità morale, sicché la potestas di Dio di Rm 13, 1 viene intesa da Agostino in una accezione che trascende l‟orizzonte politico per significare in generale che se manca la direzione divina “l‟uomo può solo avere il desiderio (cupiditas) di compiere il male o il bene, ma l‟effettivo potere

546 Agostino, De libero arbitrio, 1, XVI, 35; tr. it. cit., pag. 287. 547 F. Copleston, HPh, pag. 112. 548 Agostino, Enarrationes in Psalmos, 136, 1, tr. it. Opera omnia, XXVIII/1, Roma, 1977; cit. da F. Copleston, HPh, pag. 113. 549 Agostino, Civitas Dei, XIX, 13-15; M. Rizzi, Cesare e Dio. Potere spirituale e potere secolare in Occidente, Bologna, 2009, pag. 92. Da ora CeD.

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(potestas) di realizzare l‟uno o l‟altro gli può essere concesso solo da Dio”.550 La ricerca di Dio, ovvero della beatitudine, non può essere solo umanamente condotta ma si sviluppa attraverso un colloquio con Dio che è il depositario della verità, senza il Quale ogni proposito umano non sussisterebbe. Ma la responsabilità dell‟intendimento umano non può essere di Dio, poiché Egli non agisce positivamente ma solo ispira la volontà umana nel caso concreto, in cui il dialogo avviene. Ciò vuol dire che che la libertà che fa da sfondo alla volontà umana è stata da Dio concessa ab origine, con la creazione stessa dell‟uomo, mentre il suo esercizio concreto, ossia la volontà umana, si esplica nei termini del coloquio con Dio, che può, per voler umano, anche mancare, ovvero, per volere di Dio, anche non esser esaudito. In questa facoltà va intesa la potestas divina, la quale consiste nella ispirazione morale, ossia nell‟esercizio della libertà dell‟uomo nel senso della volontà divina, della recta ratio. L‟ispirazioe morale attesta la realtà di quel colloquio con Dio, in mancanza del quale l‟esercizio del Potere si esaurisce nella mera potenza umana, nella cieca forza non illuminata dalla Grazia. Anche questa teoria agostiniana è di origine chiaramente platonica, ma ciò che la Repubblica lasciava in modo indeterminato alla facoltà del filosofo illuminato, Agostino lo attribuisce appunto alla Grazia, la quale aveva agito già prima dell‟avvento di Cristo, consentendo all‟Impero romano di sussistere, partecipando, sia pure inconsapevolmente, al disegno soteriologico divino. Tale inconsapevole partecipazione non significa irragionevolezza della volontà umana, ma soltanto che l‟ignoranza della Rivelazione rendeva l‟agire umano prettamente naturale, finalizato cioè a scopi materiali, non spirituali, ai quali gli stessi filosofi si applicavano pensando il bene come quello della città. Il senso della dicotomia tra scopi materiali, relativi al corpo, e beni spirituali, relativi all‟anima, va ravvisato nella differente condizione umana, in parte soggetta alla morte, in parte a partecipare dell‟eterno. per l‟essenza spirituale, ogni uomo, in quanto creatura divina, è uguale immagine di Dio, sicché “nell‟unità della fede, ogni differenza è esclusa”, mentre invece, per la condizione peccaminosa dell‟uomo, “le

550 M. Rizzi, CeD, pag. 94.

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differenze di nazionalità, di condizione sociale, di sesso […] rimangono durante la vita mortale”.551 Abbiamo così due livelli esistenziali, uno dominato dalle leggi di Cesare e determinato dalla nostra natura finita e materiale, l‟altro dipendente dalla Grazia divina e relativo alla nostra condizione spirituale. Nel primo livello va posto il Potere, ossia l‟intera organizzazione della vita politica diretta allo scopo eudemonistico di salvaguardare la specie umana. Questa è la dimensione della sapienza profana, incapace di trascendere la finitezza del suo orizzonte esistenziale, e dunque di pervenire al livello superiore in cui ogni differenza empirica perde il suo valore temporale e contingente a fronte della contemplazione beata della verità divina, conseguibile pero post mortem. Anche qui è palese la derivazione platonica e stoica dell‟anima rinchiusa nella gabbia materiale del corpo. Ma ciò che rileva, non è tanto la separazione delle due dimensioni esistenziali, quanto la diversa e relativa considerazione in chiave precipuamente cristiana del momento inerente rispettivamente alla vita comune degli uomini mortali, e alla vita spirituale di ognuno, la cui singlarità deriva in rapporto alla diversità di condizione materiale. In altri termini, l‟unità conseguibile solo nel livello spirituale, è infranta dalla diversità di condizioni materiali degli uomini, dalla loro condizione originariamente peccaminosa. E pertanto il trascendimento della finitezza relativa a tale condizione lapsa significa pervenire alla consapevolezza della propria individualità sprituale attraverso la conoscenza di Dio, la quale consente di riconoscere in ognuno ciò che ha in comune con ogni altra creatura, e dunque di amare in ogni altro simile il Padre comune che tutti ha generato. Il compito del principe (rex) cristiano è di “indirizzare” (regere) la volontà dei sudditi verso i fini divini,552 nel cui conseguimento consiste la volontà morale, l‟amore di Dio, la charitas, ovvero la “giustizia”.553 Le due città, essendo due regni ideali, relativi a due livelli di coscienza esistenziale, non sono realtà storiche, quali la Chiesa e lo Stato. Infatti, “se lo Stato coincidesse necessariamente con la città di Babilonia, nessun cristiano potrebbe legittimamente coprire

551 Agostino, Esposizione della Lettera ai Galati 28, cit. da [M. Rizzi, CeD, pag. 99. 552 Agostino, Civitas Dei, V, 12. Ved. M. Rizzi, CeD, pag. 102. 553 Agostino, Civitas Dei, IV, 4. Da ora CD.

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cariche nello Stato”.554 D‟altro canto, la stessa condizione morale, scaturendo da un dialogo intimo e singolare della coscienza con Dio, non può incarnarsi in una istituzione collettiva e impersonale quale lo Stato, anche se la sua conduzione può, e auspicabilmente deve, essere informata ai valori morali della carità cristiana. Il significato delle duae civitates è nella differenza dei duo amores: l‟amor sui è la naturale concupiscentia che spinge l‟uomo a padroneggiare l‟altro da sé (libido dominandi), l‟amor Dei è la tensione spirituale verso ciò che trascende il proprio Io, informata al sentimento della caritas. 555 La città terrena è dominata dalla necessità di lottare contro “il potere della morte” e dunque di “vivere secondo la carne”,556 ossia in armonia con la natura ma in dissidio con i doveri dello spirito (Gal 5, 9-21). Tuttavia, avverte Agostino, “non tutti i vizi della vita immorale si devono attribuire alla carne” in quanto tale, ma all‟uomo in quanto sola carne, che cioè “vive secondo se stesso”,557 ponendo l‟uomo come fine della vita, anziché Dio. E “quando l‟uomo vive secondo l‟uomo, non secondo Dio, è simile al diavolo”.558 Vivere secondo Dio è vivere nella verità, mentre vivere non secondo Dio equivale a “vivere secondo menzogna”.559 La menzogna consiste nel ritenere che la carne sia tutto l‟uomo. Come aveva già avvertito Paolo, “l‟uomo naturale non conosce le cose che sono dello Spirito di Dio, ritenendole sciocchezze”, non attribuendo a esse alcun valore. Ma l‟incapacità dell‟uomo naturale di valutarle nasce dall‟impossibilità di commisurare beni di natura diversa, in quanto le cose spirituali “devono essere giudicate spiritualmente” (1Cor 2, 14). Da qui l‟orgine di due dimensioni di vita, due “città”, diverse. La mancanza di discernimento del valore spirituale, pertanto, non è dovuta solo alla cattiva volontà dell‟uomo carnale, che vive solo secondo se stesso e lasua natura finita, ma alla circostanza che all‟interno dei criterio di valutazione naturali non sia possibile giudicare gli eventi della vita

554 F. Copleston, HPh, pag. 116. 555 Agostino, CD, XIV, 28. 556 Agostino, CD, XIV, 1. 557 Agostino, CD, XIV, 3.2. 558 Agostino, CD, XIV, 3.4. 559 Agostino, CD, XIV, 4.1.

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spirituale. Ma, a detta dello stesso Paolo, neppure le stesse opere carnali potranno essere “giustificate dalle opere della legge” umana (Rm 3, 20). Ciò non significa che “la natura della carne” sia malvagia, poiché ogni creazione divina è in sé buona, sicché anche la costituzione carnale “nel suo genere e ordine, è buona”.560 Agostino vule dire che ciò che va giudicato come malvagia è la destinazione che se ne fa della carne ovvero dello spirito. se la destinazione è puramente mondana e umana, allora si è fuori dell‟amore di Dio. Ed è questa la ragione per la quale è da rigettare ogni visione manichea della realtà, poiché “l‟anima non è condizionata soltanto dalla carne, […] ma può essere agitata da stimoli provenienti da lei stessa”.561 Il platonismo di Agostino si manifesta anche nella concezione dell‟uomo perverso per indole, il quale, se non ama il bene è perché “non è cattivo per essenza ma per difetto”,562 sicché amare il bene equivale ad amare la giustizia, mentre amare il mondo, giusto Giovanni, vuol dire non avere benevolenza di Dio (1Gv 2, 15). Non ogni tipo di amore è buono, dunque, ma solo quello giusto, l‟amore di Dio.563 La logica che presiede la “città di Dio” è dunque diversa da quella che regge la “città dell‟uomo”. Come è stato detto, “la civitas terrena pretende di essere possessio del divino nel saeculum, la civitas Dei confessa di essere peregrina in hoc saeculo”.564 Ma la differenza tra le due prospettive non è riducibile soltanto alla distinzione, pur significativa, tra concezine immanentistica del sistema teologicopolitico pagano, e concezione trascendente cristiana, “riconoscibile all‟interno della chiesa ma mai oggettivabile come certo”.565 Infatti, è ben vero che la pretesa secolaristica nasce in conseguenza della risoluzione dell‟esperienza spirituale in re, ossia nella “costruzione

560 Agostino, CD, XIV, 5. 561 Ibidem. 562 Agostino, CD, XIV, 6. 563 Agostino, CD, XIV, 7.2. 564 G. Lettieri, Riflessioni sulla teologia politica in Agostino, in P. Bettiolo-G. Filoramo, Il dio mortale. Teologie politiche tra antico e contemporaneo, Brescia, 2002, pag. 217. 565 Ibidem.

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storico-mondana” del divino, che, sacralizzando strutture secolari terrene, ambisce alla “assolutizzazione del suo essere, del suo conoscere, del suo amare tramite l‟intelligenza e la virtus naturale dell‟uomo (donde la filosofia greca e la politica romana come vertici della civiltà pagana), tramite gli sforzi eroici della civiltà umana nel suo progresso storico”, e dunque sacralizzando strutture secolari terrene. 566 Tutto ciò è vero; così come lo è che “la peculiarità del teologico-politico cristiano sia specificato non dalla connotazione trinitaria del proprio assoluto ontoteologico, ma dalla presenza dell‟atto di grazia come suo principio irriducibilmente escatologico, cioè del tutto eteronomo e antimondano”;567 ma la questione derimente che stabilisce la irriducibilità e inconfondibilità dell‟una dall‟altra dimensione esistenziale è di carattere ontologico, e non ideologico, sicché l‟errore ermeneutico, che ha dato origine alla diatriba tra Schmitt e Peterson, consiste proprio nel ridurre tale differenza a due diverse disposizioni culturali. La redenzione morale non si opera attraverso una conversione ideologica dall‟una all‟altra forma di vita comuntaria, ma a seguito del‟assunzione del principio spirituale che abita in interiore homine, e non nelle istituzioni politiche, e dunque neanche nella Chiesa come corpo mistico cristiano. In altri termini, l‟amor Dei, ossia l‟assunzione della grazia entro la propria vita spirituale, non è paragonabile all‟amore profano verso qualcosa o qualcuno determinabile dalla sua realtà finta, sia una persona fisica che ideale, un uomo o un impero, in quanto, a differenza di questo, esso consiste in una tensione alla trascendenza da ogni finitezza, da quella carnalità che limita e conchiude l‟esperienza umana in se stessa. E poiché alcuna creazione terrena, divina come umana, è immune dalla sua natura finita – tranne il Cristo – ogni dedizione esclusiva ai beni terreni è profana e idolatrica. Non in quanto non sia consacrata a Dio, ma in quanto ignora che tale consacrazione non può realizzarsi in externo, oggettivamente in opere umane, in un mondo per quanto razionale, ma solo all‟interno della coscienza, poiché, come si è detto, è nel dialogo interiore con Dio che si acquisisce la grazia redentrice. In questo senso, l‟intervento della Grazia divina non opera nella

566 Ivi, pag. 218. 567 Ivi, pag. 219.

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dimensione politica della socialità, ma bensì nella dimensione mrale della coscienza singolare. La civitas Dei pertanto, diversamente dalla città terrena, non è una comunità politica ma una comunità di individui singolari, ognuno dei quali portatori e testimoni di una personale storia spirituale, in cui consiste il “dinamismo della grazia”. La “imitazione perversa dell‟ordine divino”568 consiste nell‟assumere come soggetto morale una persona materiale, un corpus fisico, il quale, non potendo avere coscienza spirituale al pari dell‟uomo, imago Dei, ne fa le veci. In questo scambio, che è anzitutto un errore teoretico, consistente nell‟assunzione della parte (la “carne”) per il tutto (l‟uomo concreto), consiste l‟idolatria, “l‟adorazione della falsa divinità”, che è un errore teologico e morale, proprio della civiltà romana, la cui religio idoleggia la civitas come la vera divinità.569 La trascendenza verso il Bene attraverso l‟ausilio della Grazia consiste nel superare il livello di coscienza naturalistico, proprio della “società degli empi che non vivono secondo Dio ma secondo l‟uomo”,570 e pensare nell‟amore di Dio, cioè secondo il senso morale, la dimensione dell‟eterno, l‟unica veramente concreta. Il carattere psicologico di tale esistenza morale è il superamento del “timore e del dolore”, che caratterizza invece l‟esistenza politica, “l‟umana società” caduta nel peccato.571 L‟ “inizio di ogni peccato è la superbia”, che è atteggiamento contrario a quello dell‟obbedienza all‟ autorità legittima, sostituita con “l‟autorità a se stessi”, ossia alla posizione di sé, e non del “fine immutabile”, come fine. E‟ insomma l‟atteggiamento economico della ragione utilitaria e particolaristica, come quella di Adamo, che “ha anteposto il desiderio della moglie al comando di Dio”.572 Agostino distingue due tipi di volontà. Una finalizzata al bene naturale, secondo ledisposizioni di Dio, e l‟altra “depravata” dalla superbia. Ogni creazione divina, egli ricorda, è buona, ma può essere utilizzata in modo malvagio, “contro natura”, ossia contro la sua benigna destinazione naturale, a opera appunto della “depravazione della

568 G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 220. 569 Agostino, CD, XXII, 6.2. Ved. G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 225. 570 Agostino, CD, XIV, 9.6. 571 Agostino, CD, XIV, 9.5 e 10. 572 Agostino, CD, XIV, 13.1.

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volontà”. In cosa consiste questa volizione depravata dell‟uomo superbo? Nel fuoriuscire dall‟Essere divino, ossia dalla destinazione finale della creazione, con un atto volontario di altra natura rispetto a quella divina, una “natura creata dal nulla”. Vi è dunque l‟Essere, che comprende la creazione, e il Nulla, che è una natura che “defeziona dal suo essere” in quanto non prodotta dalla volontà divina. Ora, poiché la malvagità dell‟uomo che ripiega su se stesso è pur sempre relativa al suo essere creaturale, l‟avere abbandonato Dio lo rende “mno perfetto” ma non proprio un nulla, anche se lo avvicina al nulla. Ciò vuol dire che l‟uomo superbo e pervertito, abbandonando l‟Essere benigno nell‟atto di rifiutare di sottomettersi a Dio, “decade dall‟Essere”, affidandosi all‟amore di sé.573 Ed è appunto questo amore di sé che pone l‟uomo come fine a se stesso, a esporlo al dominio diabolico,574 per cui lo spirituale si converte in carnale, anziché il contrario.575 E da qui sorge ogni umana sofferenza, che in senso spirituale “si denomina tristezza”, e come bisogno della carne si denomina “libidine”. La libidine si esercita in molte guise, compresa quella che “influisce moltissime sulle coscienze dei tiranni” e che consiste nel “dominare” (libido dominandi).576 L‟aver “abbandonato Dio” ha fatto sì che l‟uomo fosse “lasciato a se stesso […] per essere fine a se stesso”. La tristezza di tale abbandono consiste nel fatto che l‟uomo, “non obbedendo a Dio non ha potuto obbedire neanche a se stesso”,577 proprio perché preda della disordinata volontà (libido) che, senza la guida dell‟autorità divina, gli impedisce di mirare, non solo alla felicità del bene.578 L‟onnipotenza divina non abbandonò l‟intero genere umano al poter del diavolo, ma parte di esso lo prescelse, destinò alcuni uomini “con la grazia e non per i loro meriti” alla Sua città.579 Nella “città terrena” la supposta sapienza che aveva abbandonato la via divina inorgogliva l‟uomo, che, dominato dalla superbia, scadeva nella sciocchezza di di

573 Ibidem. 574 Agostino, CD, XIV, 13.2. 575 Agostino, CD, XIV, 15.1. 576 Agostino, CD, XIV, 15.2. 577 Agostino, CD, XIV, 24.2. 578 Agostino, CD, XVIII, 41.1. 579 Agostino, CD, XIV, 26.

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sostituire alla gloria eterna di Dio “l‟immagine dell‟uomo soggetto a morire”,580 per dominare le masse. Nella “città celeste invece l‟unica filosofia dell‟uomo è la religione con cui Dio si adora convenientemente”, nel modo tale cioè che non siano solo alcuni sulla buona strada della beatitudine, ma “Dio sia tutto in tutti”.581 La religione non è la politica. Questa è guidata dall‟amor sui, né può assumere “la funzione ontologica di difendere e affermare il naturale conatus essendi dell‟uomo”,582 compito che spetta alla Grazia, in quanto l‟ordine del mondo inerisce alla carne e non all‟invisibile spirito singolare. La stessa teologia civile della città terrena, di cui trattava a proposito di Varrone, non può dare alcuna indicazione sulla natura di Dio, poiché “il vero Dio non è Dio in base a un modo di pensare ma per natura”, e la natura dell‟uomo, di cui è oggetto il pensiero della theologia naturalis, non è quella di un dio, sicché “tanto la teologia civile che la fabulosa [ossia la mitica] sono entrambe fabulose, entrambe civili”,583 finalizzate a idolatrare realtà immaginarie, create dagli uomini in funzione dell‟unità politica, della salus publica.584 La sfera politica, con la sua ratio essendi, è il primo gradino dell‟evoluzione umana verso la dimensione spirituale: “prima è nato il cittadino di questo mondo, dopo di lui l‟esule in cammino nel mondo e cittadino della città di Dio”.585 L‟evoluzione spirituale, mediante la grazia, non è pertanto una condizione di natura universale, ma elettiva, per “beneficio divino”586: “la natura pervertita dal peccato genera i cittadini della città terrena, la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste”, la quale non esiste in terra se non

580 Il riferimento palese è a Varrone (già cit. in VI 7.1) e implicito a Erodoto e alla da lui asserita superiorità della religione antropomorfa greca su quella di altri popoli, come gli Egizi, che veneravano gli animali: Storie 2, 35-37, 65-76. 581 Agostino, CD, XIV, 28. 582 Secondo la tesi di G. Lettieri, Riflessioni cit., pag. 222. 583 Agostino, CD, VI, 8.1-2. 584 Agostino, CD, XVIII, 54.2. 585 Agostino, CD, XV, 1.2. 586 Agostino, CD, XVII, 8.2.

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in “forma simbolica”.587 Questo perché la costituzione della città terrena, pur avendo in questo mondo il suo “ideale”, che è quello politico, “non sarà eterna”, ma alla fine dei tempi essa perderà la sua forma politica, che è il modello ideale di ogni città.588 Come dunque potrebbe avere una forma mondana la città eterna? Inoltre, la pace che viene conseguita nella città terrena a opera di conquistatori più forti, verrà persa prima o poi da lotte intestine o esterne, condotte in nome della prevaricazione, che mira al privilegio esclusivo. Fu così per Caino e lo stesso per Romolo, entrambi fratricidi per “invidia diabolica” pur di raggiungere il solitario successo. Il polemos, ossia la logica della scissione, domina la città terrena, in cui vige la legge dell‟esclusione del concorrente. Diverso il caso della comunità dei buoni. “La conquista della bontà non diminuisce affatto se si aggiunge o rimane un compagno, anzi la bontà è una conquista che la persoale carità dei compagni raggiunge con estensione pari alla partecipazione”.589 La bontà, infatti, mirante alla perfezione, non può escludere da essa altri che la ricercano ma solo chi la osteggia. E una volta raggiunta, non può escludere da sé il male che la impediva. L‟opposizione, afferma Agostino in senso platonico, interessa la condizione che diviene in quanto imperfetta, ma non ciò che è compiuto. Da questa compiutezza nasce il sentimento del perdono, cioè l‟agire per la conservazione della pace, “senza la quale non sarà possibile vedere Dio”.590 In altri termini, l‟intera vicenda storico-politica delle lotte umane va ascritta alla condizione di imperfezione naturale dell‟uomo. In tal senso Agostino accoglie l‟antropologia aristotelica, ma solo come il primo stadio dell‟evoluzione umana verso la compiutezza spirituale, la stessa perfezione della specie. Una volta conseguita, allorquando l‟elemento spirituale prevarrà su quello istintuale originario della comune costituzione naturale, l‟uomo non proverà più il bisogno di dominare né di escludere gli altri, realizzando la perfetta convivenza di

587 Agostino, CD, XV, 2. 588 Agostino, CD, XV, 4. 589 Agostino, CD, XV, 5. 590 Agostino, CD, XV, 6.

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esseri perfetti, che hanno raggiunto la santità, che è “immortalità” e non mera durata destinata a finire, ossia è “eterna pace” e non momentanea tregua bellica.591 L‟analogia con il tentativo dei filosofi di dominare le passioni, è esplicitata nello stesso tempo in cui viene ne viene reso il senso teologico del rapporto tra ragione e fede: la prima, tendente a reprimere le pulsioni malvage, la seconda a escluderle.592 La funzione terapeutica del metodo razionale è collegata alla repressione dell‟apparto politico coercitivo, quale momento provvisorio della condizione sociale dell‟uomo ancora immerso nel suo status naturae lapsae. Divinizzare tale condizione lapsa è dunque per Agostino una aberrazione, dalla quale la fede cristiana prende decisamente le distanze, stabilendo anche la differenza tra religio in senso ciceroniano di garanzia dell‟ordine sociale e divinizzazione delle istituzioni politiche (simulacra) e fede in senso evangelico.593 La fede realizza il passaggio da una condizione ideologica dell‟esistenza (falsitas) di esseri naturalmente polemici, a una condizione di esseri spirituali. Questo trapasso di mentalità (metànoia) non si esaurisce nell‟occasionale azione buona e caritatevole, pur apprezzabile, ma in un cambiamento di coscienza della vita, e quindi presuppone un itinerario soteriologico ben più risolutivo e radicale della classica paideia intellettuale greca o della salus rei publicae in senso romano. Il santo agostiniano non è un legislatore, alla stregua del filosofo pagano, in quanto egli, per stabilire rapporti di convivenza coi suoi simili in beatitudine, non ha alcun bisogno di un demiurgo che faccia le veci di un dio mortale. Il viaggio per la santità è all‟interno della città terrena, tra la Resurrezione e la parusia. Il caso dei gesti simbolici di Gesù è diverso, in quanto Egli era già santo. Ma, soprattutto, la comunità dei santi, non essendo una città se non simbolicamente, è una unità sprituale, non sorretta da istituzioni giuridico-politiche come invece la città terrena. Questa può essere assimilata alla ecclesia, ma solo, appunto, simbolicamente, in quanto in questo mondo la condizione di beatitudine può conseguirsi soltanto nella relazione con uomini della

591 Agostino, CD, XVIII, 2.1. 592 Agostino, CD, XV, 7.2. 593 Cicerone, De Legibus II, 27, 69; De natura deorum I, 2, 5. Ved. G. Letteri, Riflessioni cit., pagg. 224-225.

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carne, ossia immersi nella esistenza politica. La vita del non ancora santo in questo mondo, dunque, è una esistenza di relazione con uomini imperfetti, e dunque agenti secondo la logica polemica del potere e dell‟invidia. Questo giustifica la sottomissione del pellegrino alle leggi della città, che sono anche le sue in quanto cittadino, cioè di uomo imperfetto. Ubbidienza civile che si ferma alla pretesa idolatrica del Potere di assogettarsi anche la sua parte spirituale. Nei due casi, il senso della salus è diverso. Per il cives la salute pubblica coincide con la conferma dello status civitatis, ossia della stessa condizione politica, la quale dunque non si evolve se non all‟interno del suo orizzonte di coscienza dominato dal peccato e dall‟invidia, cioè dalla falsitas e dalla libido dominandi. Per il pellegrino, invece, la salus coincide con il superamento della sua condizione naturale, e dunque soltanto al percorso spirituale può assegnanrsi una storia che abbia un terminus a quo e uno ad quem, mentre le vicende che riguardano la storia profana sono tutte raportabili a uno schema di sviluppo circolare contrassegnato dalla nascita-vita-morte personale e dalla guerra-pace politica del collettivo. Tra le due dimensioni vi è la stessa differenza che tra ciò che permane nel suo stato naturale (regolabile col diritto) e ciò che che lo trascende (nel senso della bontà), per cui “quanto vi è nel presente di storia della redenzione nega e annulla ogni storia del mondo in quanto mondo”.594

594 E. Norelli, Il presente è storia?, in Il dio mortale cit., pag. 112.

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II

La dissoluzione del mondo cristiano

Nello svolgimento della storia umana sono soprattutto le aspettative religiose che ci forniscono il modulo più appropriato per misurare e valutare l'intensità e i momenti del divenire della civiltà

(R. MORGHEN)

1. Dalle ricostruzioni storiche della transizione dal Medioevo all‟evo moderno, che il più delle volte lasciano nell‟ombra la questione del senso ideale di essa, e quindi la stessa comprensione del fenomeno nel suo intrinseco sviluppo razionale, il XV secolo è generalmente visto come “secolo di preparazione” di una “epoca nuova”, soprattutto in campo religioso1. Visto come “un‟anticamera del Rinascimento”, si vede in esso solo una serie di “precorrimenti grevi e maldestri dell‟affinamento delle forme, degli armoniosi rapporti di forze e delle proporzioni ideali del XVI secolo, senza riconoscere loro una vita propria, potente ed appassionata”.2 Se invece “viene inteso come l‟altro polo di un raffinamento spirituale, ignoto al XVI secolo” e che coinvolge le rispettive “visioni del mondo”, cambia la “prospettiva” del nostro giudizio, essendo diversa la “visione d‟insieme” del fenomeno epocale. Infatti, “non si dà visione del particolare senza visione d‟insieme, e questa visione d‟insieme è determinata dalla

1 R. Stadelmann, Vom Geist des ausgehenden Mittelalters (1929), tr. it. Il declino del Medioevo. Una crisi di valori, Bologna, 1978, pag. 55. 2 Ivi, pag. 56.

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prospettiva” 3 in cui si pone lo storico. La quale è comunque “unilaterale”, anche quando corretta da altra visuale, mancando allo storico la possibilità di una “visione onnilaterale”. Per liberare un‟epoca dall‟

eccessivo collegamento teleologico delle cose e [dal]la demolizione del presente per mezzo del futuro […] ci sono due vie […] per comprenderla a partire da quel che è in sé stessa, interpretando il singolo momento nella unità strutturale in cui rientra. La prima via è quella di Ranke: è quella della considerazione universale della storia che, in base a questa conoscenza dello sviluppo totale, sa determinare per ogni caso la misura della crescita ed il luogo organico […] collocando la la sua immagine in uno spazio fisso e avviando la sua analisi con una suddivisione sistematica di questo spazio totale. [La] seconda via [è costituita dal] metodo storico-stilistico. Il suo presupposto è che i fenomeni caratteristici di un periodo siano attraversati, in tutta la loro estensione, da qualche cosa di comune e siano sostenuti, dal punto di vista psicologico, da una disposizione del sentire in essi dominante [quale] nota fondamentale sulla quale tutto il resto è accordato.4

Questa immagine del “ritmo interno dell‟accadere umano”, se in qualche modo riesce a dare un‟idea del senso complessivo del movimento storico di un‟epoca, orchestrato generalmente intorno a un motivo dominante, è però nient‟altro che una ripresa, magari più raffinata, della “vecchia esigenza della Einfuehlung, già fatta valere da Herder”,5 e quindi non si discosta da connotati di carattere empatico, soggettivistici e psicologici, che non rendono i caratteri oggettivi del tempo, ossia il senso storico e ideale delle sue forme storiche. Il Rinascimento portò qualcosa di nuove “da un duplice punto di vista”, obiettivo e soggettivo. Obiettivamente, il Rinascimento significò “lo spezzarsi della cultura unitaria chiesastica e l‟annuncio di una molteplicità di ambiti di cultura autonomi”. Soggettivamente, invece, significò “la conquista di una terza dimensione della personalità”, quella della “coscienza” e della “riflessione”, intesa come “il piacere ed insieme la volontà di potere, l‟attività che dà forma alla

3 Ivi, pag. 57. 4 Ivi, pag. 58. 5 Ivi, pag. 59.

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vita individuale, l‟affermazione dell‟io, con i quali si plasma la ricchezza interiore”.6 Questa duplice fisionomia impedisce di attribuire a un‟epoca un carattere univoco, tale da assumere come rappresentativo un aspetto a scapito dell‟andamento spirituale complessivo. Così è stato a proposito del periodo che dall‟alto Medioevo va sino al sec. XV, giudicato di “decadenza” in riferimento all‟aspetto politico, senza però considerare la sua “disposizione spirituale”. Infatti, ai fini della decadenza della cultura di un‟epoca, decisivo non è “il fatto che un‟istituzione di tipo politico o ecclesiastico sia oltremodo invecchiata”, ma il riscontro del suo “animo malato”, che si ha allorquando “sfugge alle mani dei dotti la funzione di guida, subentrando con ciò una straordinaria carenza di direzione spirituale”, con la conseguenza di “spingere il popolo alla disperazione rivoluzionaria”.7 Il termometro spirituale di un‟epoca, che misura le oscillazioni dei movimenti culturali, è costituito dalla “posizione consapevole degli uomini di cultura”, la cui testimonianza riflette l‟andamento dello stesso corso ideale del loro tempo, e perciò, “dal punto di vista di una storia dello spirito è il solo elemento decisivo”8 a cui si deve far riferimento. E nell‟ambito delle generali attività culturali, “in ogni epoca tarda” la sfera dell‟arte si presenta come “il campo privilegiato” di analisi della vita spirituale, poiché vi “operano nella maniera più libera le variazioni e le sfumature”.9 Ciò vuol dire che, a prescindere dal rapporto che l‟arte ha con il mondo dei valori di cui essa è espressione, la sua realtà d‟essere, ossia il carattere intuitivo della conoscenza, consente una libertà di rappresentazione della realtà non altrimenti conseguibile per altre vie intellettuali, e che fa dell‟attività artistica la frontiera più avanzata dei cambiamenti epocali. Infatti, l‟arte pittorica del sec. XV è dominata dal “senso di incertezza, di abbandono e di infelicità”, così come l‟arte scultorea dalla “incertezza, impazienza, fastidio e disperazione”, che denunciano “la mancanza di un‟elevata norma formale riconosciuta da tutti e il dissolversi di quei limiti entro cui si

6 Ivi, pag. 61. 7 Ivi, pag. 63. 8 Ivi, pag. 64. 9 Ivi, pag. 65.

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organizzavano la visione del mondo e la stratificazione sociale”, consentendo una “libertà e vivacità di sentimenti” proprie del “sentire delle epoche di transizione”, quando prevale “il gusto per ciò che è vigoroso e orribile”, tipico di “un periodo non classico”. Ed è allora che l‟impulso alla “caricatura della passione” apre “le porte dell‟attività artistica a una folla di talenti anche di secondo e terz‟ordine” priva di cultura, determinando una “proletarizzazione” dell‟arte che ne “deprime il livello”.10 Gli eccessi stilistici, che superficialmente potrebbero apparire come una condizione di fermento sperimentale di “poteri attivi” e di nuove forme artistiche e ideali, è in realtà il sintomo della “passività” spirituale del secolo XV,11 che risulta “inquietante” alle coscienze più consapevoli a causa del suo “demoniaco piacere di autodistruzione”.12

Questa unione di umor nero e di piacere, la ricerca del frivolo, del‟ambivalente, l‟irrisione della maestà e la demonizzazione del gioco: è questa l‟intima passione del medioevo, la sua forma del tragico. Anche la sfera del pensiero scopre la seduzione misteriosa del problematico, del paradossale, [tra cui, in primis, l‟idea dell‟] essere che non è, che sarebbe la morte […]: il niente, che pure ha realtà, la forza senza sostanza, il qualcosa tra spirito e materia [a cui] non si cerca di dare un ordine logico.13

In verità, come vedremo a proposito del Cusano, gli spiriti più consapevoli della crisi epocale tendono a proporre un nuovo ordine logico che tenga conto, assieme alla sensibilità del tempo, del valore pedagogicamente valido della tradizione, segnatamente di quella teologico-religiosa. Il problema è che, per addivenire a un “nuovo ordine”, occorre superare, assieme alla crisi, anche l‟ordine antico che l‟ha determinata, e, trattandosi della dissoluzione della civiltà cristiana, non bastava una semplice sistemazione inclusiva di fermenti innovativi interni al tradizionale orizzonte di senso religioso, ma occorreva rielaborarne i miti fondativi della sua metafisica.

10 Ivi, pagg. 71-73. 11 Ivi, pag. 74. 12 Ivi, pag. 75. 13 Ivi, pag. 77.

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Un freno alla sconcerto e alla deriva irrazionalistica è costituito dalla “riflessione morale”, alimentata dalla influenza religiosa e dagli ideali laici di progresso, che inibiscono lo spirito tedesco dell‟epoca a “un libero esplicarsi del pessimismo di fondo”, dove “il tragico è vissuto come grottesco” e il connesso “individualismo” esprime, diversamente dalla tendenza dell‟ideale umanistico all‟unità delle forze spirituali, “la consapevolezza della mobilità delle disposizioni dell‟animo” 14 propria delle situazioni di “dissolvimento” e di “insufficienza” che caratterizzano la concezione della vita del sec. XV, i cui caratteri estremi costituiscono anche “il punto di partenza interno per la comprensione del [suo] habitus mentale”, certamente ancora ammantato di “una veste di religiosità”, ma la cui “vibrazione” però stenta a contenere nel suo fine i mezzi “troppo volenti”, per cui “gli effetti collaterali hanno poco a poco tolto al centro il suo valore”.15 Ovviamente, il “centro” religioso era rappresentato dalla verità della Rivelazione, ossia dal Mito fondativo della metafisica cristiana, che la nuova coscienza razionalistica del mondo minacciava di credibilità. E‟ a questo punto che l‟orizzonte di fede tradizionale tende a comprendere la nuova coscienza naturalistica in termini di rielaborazione filosofica del Mito, cercando di includervi l‟elemento razionalistico come un distinto ma funzionale piano di coscienza, non sospettando la natura fondamentalmente anti-filosofica e meramente pragmatica della scienza moderna quale scheleriana “cultura di lavoro” e non di “sapere”. Secondo le parole di Stadelmann,

la visione medievale del mondo era stata il grandioso tentativo di mostrare l‟identità di scienza e fede e l‟accordo di ragione rivelazione. Nel momento in cui l‟irrompere del naturalismo aristotelico minacciò di infrangere questa unità, Tommaso d‟Aquino, proprio ricorrendo a strumenti aristotelici, […] rese pressoché inattaccabile la stabilità dell‟edificio, inserendo elementi eterogenei in una visione organica che, lasciando alla natura il suo ambito di validità, le toglieva ogni potere pericoloso, subordinandola alla totalità del sistema. Ricorrendo al carattere vincolante della disposizione gerarchica, all‟interno di questo edificio universale, non c‟era più bisogno di rinunciare ad alcuna delle posizioni dell‟antichità […]. Tutto questo dovette modificarsi

14 Ivi, pag. 79. 15 Ivi, pagg. 84-85.

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quando la tendenza critica non vide più nel rapporto di subordinazione del terreno al celeste un‟interna necessità delle cose, ma una semplice posizione arbitraria. Fu questo il risultato essenziale del nominalismo. Il regno della ratio e quello della fides non sono più cerchi concentrici, ma territori sovrani. La teologia non è più una scienza razionale e ciò che è razionalmente evidente non riguarda la fede.16

L‟arbitrarietà dei fondamenti ontologici, come sappiamo, è il portato della emancipazione razionalistica dalla fede nella verità della loro originaria intuizione del mondo, che viene quindi trasfigura dalla coscienza critica in un mero atto affermativo di volontà. E‟ a questo punto che l‟unità organica del tradizionale orizzonte di senso religioso viene infranta da un livello di coscienza razionalistico che destina i fondamenti metafisici della fede ontologica a un piano di realtà “mitico”, incompatibile con l‟esclusiva universalizzazione della metodica scientifica e la sua pretesa di costituirsi come l‟unico piano di coscienza epistemologicamente “valido”. Essendo i due universi di senso “incommensurabili”, l‟uomo può abbracciarli entrambi, anche decidendosi di non sceglierne alcuno a preferenza dell‟altro, per cui “si ritrova nel mezzo, libero di decidere per l‟una o per l‟altra [verità], o, come vuole Occam, per le due ad un tempo”.17 Si introduce così l‟idea di una “doppia verità”, priva di reciproca contraddizione, data la incommensurabilità dei due territori dell‟Essere. Conseguenza di questo dualismo è, da un lato, il “carattere concluso e prevalente dell‟ambito della fede”, e dall‟altro la apertura della filosofia “ad un progresso critico”, cui corrisponde per antitesi l‟intoccabilità della verità teologica e dei suoi dogmi, sicché “o la si accetta per intero o non la si accetta affatto”. Di fronte all‟erosione critica del pensiero religioso, l‟autorità della Chiesa oppone una “autodifesa pratico-pedagogica […] che si accorda pienamente con l‟essenza stessa del medioevo e che costituisce un‟operazione eccezionale del cattolicesimo”.18 Ma il ripristino del naturalismo greco produsse i suoi effetti a partire dalle idee

16 Ivi, pagg. 89-90. 17 Ivi, pag. 90. 18 Ibidem.

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politiche di Marsilio da Padova, che nel suo Defensor pacis pone il cristianesimo al servizio del momento politico e giuridico, essendo la lex divina, non valore sovra ordinato all‟ordinamento giuridico dello Stato, ma suo garante. Con il nominalismo “prende forma la dissoluzione del medioevo”. Infatti, “per la prima volta”, l‟uomo, “ormai privo dell‟antica sicurezza” metafisica e della “protezione” religiosa, “ha perduto la sua collocazione organica in un cosmo che unifica naturale e soprannaturale e deve faticosamente cercare nuovi rapporti tra soggetto e oggetto”. La “direzione comune” dell‟orientamento spirituale del tempo si può riassumere con due concetti: spiritualismo e docta ignorantia.

Se le si considera dal punto di vista del sistema contro cui partono i loro colpi, queste due posizioni sono in fondo la stessa cosa; ambedue comportano l‟allentarsi della forza che ha costruito le grandi sintesi, un‟inerzia a percorrere e padroneggiare spazi metafisici, un rientro nell‟individuale. questo e non altro è il senso del dissolversi della scolastica ad opera di una mistica scettica, che vuole la semplicità: il trapasso del senso religioso dall‟oggettivo al personale, dal sacrale all‟etico.19

In termini metodologici, però, spiritualismo e docta ignorantia, pur avendo “nell‟intimo la stessa radice”, producono esiti opposti, legati al “temperamento” intellettuale di chi percorre la nuova via della devotio moderna. Così, a fronte di una comunanza spirituale che configura “l‟unità storica” di un‟epoca, le sue diverse manifestazioni possono determinarsi “in una indipendenza reciproca” che però non inficia, con la persistenza dei motivi ideali, l‟appartenenza a uno stesso orizzonte di senso.

Considerato a grandi linee, lo sviluppo spiritualistico del XV secolo non è altro che una trasformazione della mistica, [la quale,] avendo preso le mosse dalla filosofia araba, dal nominalismo e dal neoplatonismo, avrebbe potuto condurre ad un allontanamento tanto dalla mistica autentica quanto dai dogmi dell‟alto medioevo. Come risultato di una visione disincantata e moralizzante del mondo si ha un vuoto che pare attenda di venir colmato solo da impulsi di

19 Ivi, pag. 93.

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tipo moderno, e che per di più, in conseguenza di una mentalità che ha esaurito le sue risorse religiose, è adatto a raccogliere lo spirito del razionalismo dell‟antichità [per cui] lo spiritualismo del XIV e XV secolo fornisce l‟elemento mediatore ed il passaggio dall‟alto medioevo all‟umanesimo.20

La configurazione di un comune orizzonte di senso che, seppure stia perdendo le sue antiche sicurezze metafisiche, costituisce ancora l‟ambiente spirituale della sua revisione teoretica, attesta che la “dialettica del pensiero” del tempo si svolge (ancora) entro un ambito prettamente “filosofico”, la cui sussistenza ontologica è a sua volta moralmente garantita dal carattere religioso di quella unità di senso. Questa si rompe allorquando, attraverso quella dialettica, si intende promuovere l‟autonomia gnoseologica della ratio filosofica dal suo fondamento di fede, sostituendolo con uno di tipo appunto filosofico, e tale da costituirlo come il fondamento razionale di un nuovo orizzonte di senso, autonomo dall‟orizzonte propriamente religioso. Ed è questa universalizzazione della coscienza filosofica a orizzonte di senso autonomo, e non già l‟astronomia e le scienze esatte, a provocare la spirituale “distruzione del medioevo”. L‟epicentro di questo sommovimento ideale è la dottrina di Cusano sull‟unità di tutte le cose e della loro complicatio in Dio, inteso idealisticamente come l‟Essere ideale, per cui, affermando che “ipsa creatura est esse Dei”, giunge a negare la subordinazione delle creature al Creatore.21 L‟atteggiamento moralistico, che esalta la volontà di fede in rapporto inverso al suo sentimento spontaneo, viene prodotto a seguito della destabilizzazione del potere del Dio creatore “di dirigere sovranamente il mondo”, che viene metafisicamente inficiato dalla necessità e non libertà delle sue azioni, al pari della “sua preesistenza e [del] suo primato nei confronti dell‟essere finito”. Infatti, “un Dio che ha uno sviluppo è in rigorosa opposizione con un Dio che crea”, per cui Egli viene, per così dire, “detronizzato”.22 La realtà di Dio viene trasfigurata nella realtà dell‟Idea platonica, il cui

20 Ivi, pagg. 97 e 98. 21 Ivi, pagg. 100-101. 22 Ivi, pag. 101.

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“compimento si realizza solo nel processo di ritorno del mondo diveniente nel suo principio” appunto ideale, giungendo per tale via alla “democratizzazione monistica del pensiero del divino”, in cui la creatura viene annullata nell‟infinito unico della sostanza universale, perdendo così la sua singolarità. Viene pertanto a mancare “il punto su cui orientare una sua scala stabile di valori”, ossia la stessa figura di Cristo, la eliminazione della cui posizione eccezionale inaugura “l‟umanizzazione e quindi la scristianizzazione della religione”.23 L‟ordo aristotelico è stato distrutto e il mondo è stato equiparato a Dio, ma senza un nuovo ordine valoriale: “omnia deificat, omnia annihilat, et annihilationem ponit deificationem”.24 Ma il panteismo preesisteva al Cusano, per cui la “singolarità” del suo pensiero va vista, secondo il Wenck, “nel secondo dei suoi principi distruttivi”, consistente nella “dichiarazione del fallimento del sapere”, nel senso della “impenetrabilità dell‟Assoluto”, di fronte al quale la ragione umana, finita, deve arrestarsi e dichiarare la sua filosofica impotenza. Ma questo era lo scotto che la stessa impostazione razionalistica doveva pagare per affermare la validità gnoseologica della ragione umana resasi indipendente dai fondamenti dogmatici. Cusano, come vedremo, non li nega affatto, ma li dichiara inconoscibili per via di ragione, sicché, nell‟atto di costituire il sapere filosofico come autonomo orizzonte di senso, ne limita la capacità gnostica proprio di fronte al suo oggetto più saliente, la conoscenza di Dio, introducendo surrettiziamente, accanto a uno scetticismo di tipo teologico, anche uno filosofico. Ed è proprio la dottrina della docta ignorantia che, “congiunta al principio panteistico, porta a conseguenze catastrofiche. Arrestarsi di fronte alla questione di Dio equivale, infatti, a una completa rinuncia a comprendere l‟essenza delle cose”.25 Una conoscenza infinita che non consegue mai il suo scopo è altrettanto distruttiva della asserita inconoscibilità definitiva di Dio, che segna, con l‟abbandono della logica aristotelica, “la fine di ogni speculazione teologico-scientifica”. Infatti, con la “eliminazione del principio di non contraddizione [e] con l‟introduzione del principio

23 Ivi, pag. 101 e n. 24 J. Wenck, cit. in Ivi, pag. 102 n. 32. 25 Ivi, pag. 102.

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della coincidenza degli opposti si rende problematica ogni conclusione e si sopprime ogni uso coerente della Scrittura”,26 per cui, senza più il supporto dei fondamenti ontologici della logica dialettica, il pensiero diventa “debole”. La stessa oscillazione in Cusano tra panteismo e teismo, tra verità di ragione e tesi pedagogica, tra ufficio curiale e libertà di pensiero, attesta la difficile determinazione storica del pensatore, che significativamente non coincide con la figura del politico. Ma è già di per sé significativo che, sia pure inconscia mete, possa sorgere un simile dilemma, che la volontà edificatoria favorevole al sistema ecclesiastico tradizionale entri in conflitto con la tendenza critica a riesaminarlo, giungendo a una mediazione di coscienza di tipo pedagogico, che rende estremamente complessa la situazione psicologica di Cusano, il quale, “anche là dove è consapevole di scostarsi dalla tradizione, crede semplicemente di sostenere e di far rivivere lo spirito del mondo passato”.27 Ossia di mantenere il livello di coscienza critica entro l‟orizzonte di senso religioso, ma non tradizionale. Il passaggio dalla antica alla nuova coscienza non è indicato tanto nel suo entusiasmo mistico, e neppure nel suo panteismo, quanto nella dottrina della docta ignorantia, la quale “presuppone una conversio, in quanto rappresenta il passaggio ad un livello di coscienza di tipo diverso”, a partire dal rapporto Dio-mondo. Il ricorso alla ignoranza quale punto di partenza, coincidente con la decisione di prescindere da tutta la sapienza passata e da ogni immutabile, è ricollegabile all‟atteggiamento socratico, il quale però affermava il punto di vista “dialettico” in senso critico verso la religione tradizionale, e non nel senso del suo inveramento. Ma all‟interno del cosmo religioso, definito dalla posizione fondamentale dell‟Essere divino, partire dall‟ignoranza ebbe il significato di “un orientamento fondamentalmente nuovo”, che, nella costruzione del nuovo “edificio” teoretico, pareva non utilizzasse “nessuna pietra di quello vecchio”, della tradizione teologica, anzi mostrando di disprezzarla per la sua ritenuta impreparazione a valutare la portata innovativa della nuova teologia.28 Ma come si poteva

26 Ivi, pag. 103. 27 Ivi, pag. 108. 28 Ivi, pag. 109.

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presumere un diverso atteggiamento intellettuale da parte di chi stava ingaggiando una strenua resistenza, o si apprestava a farlo, contro i fautori della dissoluzione del cosmo cristiano, i quali, assumendo una nuova coscienza critica, diversa da quella filosofica del passato, semplicemente tendevano a ridefinire in termini di verità scientifica ciò che sino ad allora era stato l‟universo di senso teologico, abbandonando, in questo innovativo cimento teoretico, ogni scrupolo di adattamento entro l‟antico orizzonte di fede. Di fronte a questa radicale alterità di vedute, non era possibile alcuna mediazione, ma solo una precaria e instabile coesistenza di duplici realtà in antitesi. E‟ opportuno aggiungere en passant che la presunta indifferenza religiosa della scienza, consustanziale all‟etica della sua neutralità verso i valori extra-sistemici, non è il portato di un recente atteggiamento psicologico di tipo nichilistico, portato in evidenza da Nietzsche, ma risale appunto agli albori dello scientismo razionalistico, sia classico che moderno, il quale si determina allorquando il fervore teoretico della critica mito-logica proietta la ragione in senso universalistico, facendo assumere al suo livello di coscienza un valore paradigmatico di un nuovo orizzonte di senso. E‟ a questo punto che l‟universo tradizionale appare un altro mondo rispetto alla nuova prospettiva universale, un mondo di sapere “mitico”, parallelo a quello scientificamente (in) fondato. Le due coscienze possono dividersi, ma anche convivere in uno stesso spirito, travagliato.

Le due direzioni fondamentali del suo [di Cusano] pensiero vivono in lui con la stessa forza senza che nessuna delle due si lasci sottometter all‟altra; perciò egli ha posto l‟uno accanto all‟altro l‟atteggiamento critico e quello speculativo come ambiti categoriali della sapienza suprema posti su uno stesso piano, come campi che non si toccano ma che esistono ciascuno in forza di un diritto proprio.29

La consapevolezza di questa condizione autonoma della ragione, che rinuncia al suo fondamento ontologico di fede in cambio della sua astratta universalizzazione metodica, certamente si determina storicamente attraverso singoli momenti di coscienza critica, riferibili a distinte epoche e discipline del sapere, e ai suoi relativi storici cultori:

29 Ivi, pag. 110.

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