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INTERVISTA A VITO GRASSI, VICEPRESIDENTE CONFINDUSTRIA E PRESIDENTE

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BRADO

BRADO

Del Consiglio Delle Rappresentanze Regionali E Per Le Politiche

Di Coesione Territoriale

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GRASSI: «INDIVIDUARE LE COMPETENZE DA DECENTRARE ALLE REGIONI»

Auspicabile una devoluzione focalizzata su “ambiti di materie” funzionali alle peculiarità territoriali e all’effettiva capacità delle rispettive amministrazioni di esercitarle di Raffaella Venerando

Mentre l’Europa scommette sul mettere insieme le potenzialità dei differenti paesi, nel nostro torna in agenda l'autonomia differenziata. Quali potrebbero essere gli impatti sul Mezzogiorno e, più in generale, per l’economia italiana?

Per rispondere a questa domanda è doverosa una premessa. L’autonomia differenziata costituisce un principio costituzionale, in sé meritevole di attuazione. Se ben calibrata, essa può rappresentare un’occasione per rafforzare la competitività e valorizzare le specificità dei territori. In Confindustria guardiamo quindi con interesse a un’attuazione del regionalismo differenziato che, senza aumentare i divari tra le Regioni, rafforzi i territori nel solco dei principi di sussidiarietà, unità, efficienza e solidarietà. Inoltre, il dibattito attuale potrebbe e dovrebbe essere l’occasione per riaprire il confronto sul Titolo V della nostra Costituzione, che a distanza di 22 anni dalla sua riscrittura, mostra ormai con chiarezza alcune “crepe”, tra contraddizioni e lacune normative, incertezze interpretative e inattuazioni. Si pensi soltanto, ad esempio, che solo ora sembra avviarsi il percorso per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e che non ha ancora trovato attuazione quanto previsto dall’art. 119, vale a dire la creazione del fondo perequativo che dovrebbe compensare gli squilibri “sofferti” dai territori con minore capacità fiscale. Peraltro, il superamento di queste due lacune rappresenta, a mio avviso, una condizione necessaria per avviare il percorso verso un’autonomia differenziata “giusta”.

Quanto potrebbe rivelarsi inefficace, se non dannoso, che scelte strategiche per l’economia nazionale, come quelle nel campo dell’energia e delle infrastrutture, vengano decentralizzate? E quelle relative a sanità e istruzione? Se da un lato il regionalismo differenziato può costituire un’opportunità per i territori, dall’altro è necessario porre grande attenzione alle materie - o agli ambiti di materie - che saranno oggetto di devoluzione. Per noi c’è un punto irrinunciabile: alcune materie strategiche, che contribuiscono a creare le condizioni per la competitività e lo sviluppo debbono essere “gestite” a livello nazionale, se non addirittura europeo, per garantire efficienza, ma anche omogeneità normativa e amministrativa e condizioni di partenza più simili, a tutela del mercato. Mi riferisco, per citare gli esempi più eclatanti, alle infrastrutture energetiche e di trasporto e, più in generale, ai servizi a rete, nonché al commercio con l’estero. Materie che necessitano di meccanismi di coordinamento, volti anche a superare veti o inerzie, che possono essere assicurati solo da una gestione unitaria, strettamente connessa, peraltro, agli orientamenti europei. Sarebbe opportuno, poi, individuare le attribuzioni devolute alle Regioni secondo un approccio graduale. Infatti, modifiche massive delle competenze legislative e amministrative potrebbero impattare in negativo sull’as- setto delle organizzazioni regionali, a danno della loro stessa efficienza. In quest’ottica, sarebbe auspicabile una devoluzione focalizzata - più che su intere materie - su “ambiti di materie” (come peraltro previsto dal DDL Calderoli) funzionali alle peculiarità territoriali e all’effettiva capacità delle rispettive amministrazioni di esercitarle, individuando, quindi, specifici spazi di competenza regionali e spazi, invece, lasciati alla competenza statale.

Della rivendicazione regionale del residuo fiscale cosa ne pensa?

Credo sia un tema da ricondurre a una logica di rivendicazione politica, più che alla costruzione di un percorso equilibrato di attuazione della norma costituzionale in tema di autonomia differenziata. Si tratta, infatti, di un tema sensibile, molto discusso sia a livello politico che tra gli esperti, ma che non risulta, a oggi, all’ordine del giorno della discussione sull’autonomia, tant’è che non è richiamato, né regolato dal “DDL Calderoli” in quanto, su un piano generale, il trattenimento del residuo fiscale può rappresentare una soluzione disallineata rispetto alle esigenze e ai principi di perequazione, che a loro volta, com’è ormai chiaro a tutti, rappresentano alcuni dei criteri cui deve uniformarsi l’attuazione della norma costituzionale sul regionalismo asimmetrico.

L’attuazione del PNRR potrebbe essere ostacolata da questo processo di riforma?

Il PNRR è un piano di riforme e di investimenti caratterizzato, sin dalla sua ideazione, da un forte protagonismo del livello nazionale. Per assicurare il raggiungimento degli obiettivi del piano, quindi, ritengo che l’attuazione dell’autonomia differenziata dovrebbe tener conto anche del fatto che un passaggio di competenze dal livello centrale a quello regionale potrebbe, in questa fase storica, generare incertezze nell’attribuzione delle competenze e, di conseguenza, potenziali ritardi nell’attuazione. È uno dei motivi per cui riteniamo vada privilegiato un approccio graduale e al tempo stesso flessibile nell’individuazione delle materie, per garantire un “passaggio di consegne” fluido e coordinato, anche nell’ottica del rispetto degli impegni presi con l’Unione Europea.

INTERVISTA A GIANFRANCO VIESTI, DOCENTE DI ECONOMIA APPLICATA

PRESSO IL DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE DELL'UNIVERSITÀ DI BARI

VIESTI E LE RAGIONI DEL NO ALL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA

«Opportuno prevedere la possibilità di un referedum confermativo da parte dell’intero corpo elettorale»

di Raffaella Venerando

Professore, è tornata in agenda l'autonomia differenziata da lei definita «una grande questione politica, che riguarda tutti gli italiani» e che, in particolare, pone il Sud a nuovi rischi di marginalizzazione. Partiamo dalla forma: quali sono i nodi procedurali del ddl Calderoli?

La materia è talmente importante che deve essere necessariamente da sottoporre ad analisi approfondita da parte del Parlamento, unica sede che dovrebbe avere il potere di concedere o meno nuove competenze alle Regioni. Sareb- be anche opportuno prevedere la possibilità di un referedum confermativo da parte dell’intero corpo elettorale.

Parlamento che, però, è messo ai margini nell’attuale disegno di legge.

Sì, nell’attuale ddl Calderoli il ruolo del Parlamento è decorativo, può formulare soltanto un atto di indirizzo del quale il governo può non tenere conto e poi deve formulare l’approvazione finale a scatola chiusa, con un inevitabile effetto di coesione della maggioranza politica.

Estromesso anche dal processo che deve defi- primo piano | autonomia differenziata nire i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) per tutti i cittadini italiani, ma la determinazione non doveva essere un primo passo per sanare gli attuali squilibri regionali? Come mai ancora non sono stati definiti?

Non li abbiamo non da ora, ma da 22 anni perché la politica nazionale non ha svolto il suo compito e gli interessi dei cittadini delle aree più deboli non sono stati tenuti sufficientemente in considerazione.

Definire i Lep è un compito primario del Parlamento perché significa decidere di quali diritti sociali e civili deve godere ogni cittadino italiano e perché - dato che si tratta di raggiungerli - vanno stanziate le relative risorse a favore dei territori nei quali la realtà è molto peggiore dello standard che si vuole raggiungere.

Nessun limite di competenze da delegare non è di per sé un limite?

È una scelta politica cui sono chiamati Governo e Parlamento. La Costituzione offre alle Regioni la possibilità di chiedere ma pone su Governo e Parlamento l’onere di decidere se è nell’interesse nazionale, in un determinato periodo storico, è opportuno o meno concedere alcune competenze. Si tratta quindi non di un aspetto giuridico ma politico di primaria importanza.

Quanto potrebbe rivelarsi inefficace, se non dannoso, che scelte strategiche per l’economia nazionale, come quelle nel campo dell’energia e delle infrastrutture, vengano decentralizzate? E quelle relative a sanità e istruzione?

Assolutamente sì, in tutti i casi non è opportuno e per motivi diversi. Per infrastrutture ed energia dobbiamo puntare sempre più su politiche europee o quanto meno nazionali, e quindi mi sembra controproducente spezzettare le scelte su base territoriale.

Per istruzione e salute è un aspetto prettamente politico, i due grandi sistemi nazionali dell’istruzione e Ssn sono le architravi della cittadinanza italiana ed è a mio avviso profondamente sbagliato dare, nel primo caso, un potere concorrente alle Regioni e, nel secondo, un potere esclusivo alle regioni. Nel report della Fondazione GIMBE emerge chiaro il rischio di una doppia fuga da Sud a Nord: non solo per farsi curare ma, per chi lavora in sanità, anche la strada per ottenere migliori condizioni lavorative. Un pericolo concretizzabile secondo lei?

Penso di sì, il Ssn si deve basare sull’assunto che tutti i cittadini hanno diritto a prestazioni che sono anche ben individuate perché si chiamano Livelli essenziali di assistenza (Lea, ndr). Il punto sta nello stanziare le risorse necessarie e nel controllare l’operato delle Regioni affinché siano effettivamente garantiti su base territoriale.

Mettere in atto, quindi, dei meccanismi che creano ulteriori squilibri al sistema credo vada in direzione opposta e sbagliata. In prospettiva cosa crede accadrà? Potrebbe accadere di tutto. Ce l’hanno insegnato le vicende del 2019. È molto importante che la società civile e i cittadini, ma anche le associazioni di rappresentanza, facciamo sentire continuamente la propria voce per impedire un esito - a mio avviso - molto negativo per l’intero Paese.

INTERVISTA A NINO CARTABELLOTTA, PRESIDENTE FONDAZIONE GIMBE

CARTABELLOTTA, GIMBE: «IL SSN, PILASTRO DELLA NOSTRA DEMOCRAZIA»

Per rilanciare un servizio sanitario pubblico, oggi equo e universalistico solo sulla carta, bisogna rivedere le modalità di finanziamento, programmazione, organizzazione e integrazione dei servizi sanitari e socio-sanitari

di Raffaella Venerando

Presidente, mentre l’Europa scommette sul mettere insieme le potenzialità dei differenti paesi, nel nostro torna in agenda l'autonomia differenziata. Quali potrebbero essere gli impatti sul mondo della sanità?

Concedere alle Regioni maggiori autonomie in materia di “tutela della salute” darà il colpo di grazia al Servizio Sanitario Nazionale. Aumenteranno le diseguaglianze regionali, legittimando normativamente il divario tra Nord e Sud e violando il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini nel diritto alla tutela della salute. Infatti, nonostante i livelli essenziali di assistenza (LEA) siano definiti dal 2001 e monitorati ogni anno dallo Stato, persistono inaccettabili diseguaglianze tra i diversi sistemi sanitari regionali. Peraltro, le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi (Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto) sono proprio quelle che erogano i migliori servizi sanitari e hanno maggiore capacità attrattiva sui pazienti del centro-sud, alimentando il fenomeno della “migrazione sanitaria”.

Nel vostro recente report vengono sottolineate le disuguaglianze regionali in sanità tenuto conto dei Lea (livelli essenziali di assistenza). Qual è la fotografia attuale e a cosa servono? Garantiscono ad oggi l’universalità delle cure?

Ogni anno il Ministero della Salute valuta l’erogazione dei LEA che le Regioni devono garantire ai cittadini gratuitamente o attraverso il pagamento di un ticket. Il Report GIMBE sugli adempimenti nell’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza nel decennio 2010-2019 dimostra che nella prima metà della classifica si posizionano solo due Regioni del centro (Umbria e Marche) e nessuna Regione del Sud, a riprova dell’esistenza di una “questione meridionale” in sanità. Anche la successiva analisi GIMBE delle nuove “pagelle” relative al 2020, ovvero nel corso della pandemia, non vede nessuna regione del meridione ai vertici (ad eccezione della Puglia che si trova tra le 11 Regioni adempienti) dimostrando innanzitutto che il gap Nord-Sud non si è ridotto nonostante molte Regioni del Nord siano state colpite in maniera drammatica dalla prima ondata e, al tempo stesso, quelle del Sud siano state risparmiate grazie al lockdown; in secondo luogo, le Regioni settentrionali più colpite dalla pandemia hanno mostrato una differente resilienza, inevitabilmente condizionata dalla qualità del servizio sanitario regionale pre-pandemia; infine, la “sorella povera” della sanità, ovvero la prevenzione, è stata quella che ha pagato il conto più salato, in termini di erogazione di prestazioni essenziali.

Ma a cosa, o a chi, sono imputabili le drammatiche differenze tra servizi sanitari regionali? È un problema di sole risorse o anche di capacità amministrativa?

Le Regioni del Centro-Sud, dopo la riforma del Titolo V del 2001, non sono state in grado di organizzare adeguatamente i propri servizi sanitari, generando al tempo stesso enormi buchi nei propri bilanci. Di conseguenza, fatta eccezione per la Basilicata, tutte le Regioni del Centro-Sud sono finite in Piano di Rientro (e la maggior parte non sono ancora uscite) o addirittura commissariate (ad oggi lo sono Molise e Calabria). D’altronde, le nostre analisi indipendenti documentano la grave crisi di sostenibilità del SSN ben prima dello scoppio della pandemia. L’imponente definanziamento pubblico di circa 37 miliardi di euro nel decennio 2010-2019; l’incompiuta del DPCM sui nuovi LEA che aveva ampliato prestazioni e servizi a carico del SSN senza copertura finanziaria; gli sprechi e le inefficienze; l’espansione incontrollata delle assicurazioni. Oltre alla non sempre leale collaborazione Stato-Regioni e alle aspettative spesso irrealistiche di cittadini e pazienti. In questo contesto la pandemia COVID-19 ha confermato il cagionevole “stato di salute del SSN” e se nel pieno dell’emergenza tutte le forze politiche convergevano sulla necessità di potenziare e rilanciare il SSN, progressivamente la sanità è stata nuovamente messa all’angolo. Intanto nel Paese è in atto da tempo quella che da più parti è stata definita la “desertificazione sanitaria”. Nel vostro report emerge chiaro il rischio che, oltre alla fuga da Sud a Nord per farsi curare, migliori condizioni lavorative potrebbero essere la sirena seduttiva per moltissimi giovanispecialisti e non - del Mezzogiorno. Nei fatti cosa potrebbe accadere?

La questione delle condizioni di lavoro del personale sanitario riguarda tutta l’Italia. Pensionamenti anticipati, burnout e demotivazione, licenziamenti volontari e fuga verso il privato lasciano sempre più scoperti settori chiave del SSN, in particolare i Pronto Soccorso, e deserti i numerosi concorsi. Per far fronte alla domanda di personale si ricorre così a insolite modalità: cooperative di servizi, reclutamento di medici in pensione e chiamate di medici dall’estero. Considerato che i consistenti investimenti per nuovi specialisti e medici di famiglia daranno i loro frutti non prima rispettivamente di 5 e 3 anni, il nodo del personale sanitario è entrato nella sua fase più critica che richiede soluzioni straordinarie in tempi brevi. Tuttavia, tornando all’autonomia differenziata, la richiesta del Veneto di contrattazione integrativa regionale per i dipendenti del SSN, oltre all’autonomia in materia di gestione del personale e di regolamentazione dell’attività libero-professionale, effettivamente rischia di concretizzare una concorrenza tra Regioni con “migrazione” di personale dal Sud al Nord, ponendo una pietra tombale sulla contrattazione collettiva nazionale e sul ruolo dei sindacati

Non solo rilievi ma anche proposte: quali riforme e azioni per la Fondazione GIMBE sarebbero indispensabili a garantire il diritto costituzionale alla tutela della salute a tutte le persone?

La politica deve saper cogliere le grandi opportunità per rilanciare il SSN: fine della stagione dei tagli alla sanità, PNRR, trasformazione digitale, approccio One Health. Se vogliamo rilanciare un servizio sanitario pubblico, oggi equo e universalistico solo sulla carta, bisogna rivedere le modalità di finanziamento, programmazione, organizzazione e integrazione dei servizi sanitari e socio-sanitari.

Ma questo richiede un piano pluriennale di rifinanziamento della sanità pubblica e coraggiose riforme “di rottura”. Ma ancor prima, un patto politico che, prescindendo da ideologie partitiche e avvicendamenti di Governi, metta al centro il SSN nella consapevolezza che rappresenta un pilastro della nostra democrazia e la più importante conquista sociale.

INTERVISTA A CHIARA SARACENO, SOCIOLOGA

SCUOLA, LEP NON SOLO QUANTITATIVI

Occorrerà ragionare su quali tipi di risorse educative è necessario rendere disponibili per contrastare le disuguaglianze e mettere tutti in grado di sviluppare appieno le proprie capacità, investendo di più la dove le disparità sono maggiori

di Raffaella Venerando

Il Consiglio dei ministri ha di recente approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata che, entro fine anno, dovrebbe avere piena attuazione. Anche la scuola potrebbe rientrare nelle competenze da decentralizzare. Crede sarà così? Quali sono gli aspetti da non trascurare?

La possibilità è reale in quanto la autonomia sulla scuola (e la ricerca) è prevista tra le 23 materie elencate nell’articolo 117 comma 3 della Costituzione, anche se non è chiaro che cosa significhi esattamente in termini concreti. Lo si può dedurre dalle richieste in questo campo avanzate da Lombardia e Veneto. Riguarderebbe molti aspetti cruciali: organizzazione scolastica per quanto riguarda sia la distribuzione delle scuole sul territorio, sia l’attuazione ed eventuale integrazione dei curricula, reclutamento degli insegnanti, remunerazione degli stessi, collaborazione con le imprese. Non è ben chiaro se e come questa autonomia rafforzerebbe, o viceversa indebolirebbe, l’autonomia scolastica così come è definita dalla legge n. 59/1997 e dal DPR 275/1999. Queste due normative, infatti, già concedono alle singole scuole ampia autonomia organizzativa e didattica, per rispondere alle specificità dei contesti in cui operano, anche se purtroppo spesso è lasciata lettera morta o utilizzata “ai margini”, quando non fortemente scoraggiata.

È certamente opportuno che a livello locale ci si occupi della scuola, per individuarne le necessità e la loro dislocazione, perché solo a livello locale si conoscono le specificità dei contesti, dei loro bisogni e potenzialità. Ma vale per i comuni o le associazioni di comuni, più che per le regioni. Inoltre, in una situazione in cui già esistono forti diseguaglianze territoriali nella offerta scolastica, con l’autonomia differenziata queste si cristallizzerebbero ulteriormente, ledendo il diritto costituzionale all’accesso paritario all’istruzione indipendentemente da dove si vive e dalla propria condizione sociale.

Da questo punto di vista, occorrerà discutere in profondità su che cosa debbano essere i LEP applicati ai servizi educativi per la prima infanzia e alla scuola. Se hanno il compito di garantire a tutti pari opportunità nell’apprendimento, non ci si può accontentare di indicatori esclusivamente quantitativi, come i tassi di copertura, che pure oggi non sono pienamente garantiti ovunque. Occorrerà ragionare su quali tipi di risorse educative è necessario rendere disponibili per contrastare diseguaglianze sociali e territoriali, per mettere tutti in grado di sviluppare appieno le proprie capacità, investendo di più là dove le disuguaglianze sono maggiori. Per questo è stato sbagliato lasciare agli enti locali o alle singole scuole l’iniziativa in risposta ai bandi del PNNR nel settore dell’istruzione (e probabilmente non solo), come se si trattasse di scelte opzionali, senza verificare preliminarmente e puntualmente (non solo genericamente per macro-aree) dove mancano alcune strutture e dove sarebbe più necessario integrare l’esistente.

Se l’istruzione rientrasse nel disegno dell’autonomia differenziata, si acuirebbe anche la fuga degli insegnanti migliori verso il Nord del Paese?

Non è detto. Dipende dal grado di discrezionalità che verrebbe concesso per reclutare su base locale, ponendo barriere a chi viene dall’esterno. Stipendi maggiorati possono essere utilizzati per incentivare “gli autoctoni” a percorrere la strada dell’insegnamento là dove attualmente c’è carenza di insegnanti. Inoltre, non è detto che stipendi più alti (ma anche costi della vita più alti) incentivino i “migliori”.

Possono incentivare chi vuole fuggire da situazioni difficili che richiedono maggiori investimenti di energie e capacità di innovazione didattica, o semplicemente non trova lavoro in loco. Il rischio vero è che dando il via ad una differenziazione salariale non sulla base dell’impegno richiesto e profuso, ma solo del luogo di insegnamento, ci sarà chi lavorerà moltissimo senza modifiche di stipendio e chi lavorerà il minimo necessario avendo una integrazione stipendiale. Succede già ora, anche per resistenze sindacali, che non si faccia differenza tra chi lavora tanto (e bene) e chi lavora poco. Con l’autonomia differenziata si potrà avere il paradosso di un riconoscimento salariale al contrario.

Durante la pandemia tutti erano concordi sulla necessità di rimettere l’istruzione al centro. Poi...cosa è successo?

Come per la sanità, si è tornati al punto di partenza e si è proseguito nei tagli al finanziamento della scuola in base a considerazioni demografi- che, invece di cogliere l’occasione del calo demografico per utilizzarle per migliorare la scuola. Il PNRR è una grande opportunità, ma va colta in modo efficace, cosa che non sembra avvenga. Un esempio parzialmente positivo è l’aver introdotto il livello di copertura del 33% come LEP nel caso dei nidi, prevedendo anche un finanziamento adeguato per la loro gestione. Ma si è lasciato che molti comuni del Sud non partecipassero ai bandi vuoi per disinteresse, vuoi per mancanza di tempo e/o delle professionalità necessarie per partecipare ai bandi, con il risultato che non sono stati allocati tutti i fondi destinati al Mezzogiorno e in molti comuni non sarà garantito neppure questo livello minimo. Un esempio negativo sono i fondi per il contrasto alla dispersione scolastica. Invece di individuare aree ad alta intensità di povertà educativa nelle quali creare reti collaborative tra scuole e tra queste e i possibili attori di una comunità educante, si è scelto di individuare singole scuole sulla base di alcuni (troppo) semplici indi- catori di disagio, distribuendo poi i fondi a pioggia. Furto di istruzione: secondo la SVIMEZ un bambino di Napoli che vive nel Mezzogiorno frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel centro-nord che coincide di fatto con un anno di scuola persa per il bambino del Sud. Proprio con l’emergenza sanitaria sono cresciute anche dispersione scolastica e povertà educativa, specie al Sud. Quali azioni sarebbero necessarie per contrastarle fin dalla prima infanzia?

Occorre ampliare l’offerta nidi e rendere i nidi economicamente accessibili, estendere il tempo pieno (di qualità) in tutta la scuola dell’infanzia e anche nelle scuole primaria e secondaria di secondo grado, non come semplice raddoppio delle ore di lezione, ma come arricchimento sia curriculare sia extracurriculare, in collaborazione con i soggetti locali - associazioni civiche, terzo settore, istituzioni culturali, servizi sociali - disponibili a cooperare in una comunità educante.

ROSSI DORIA: «PARI DIRITTI E OPPORTUNITÀ IN MATERIA D’ISTRUZIONE»

L’Italia è complessa e il tema delle perequazioni è decisivo per la tenuta complessiva della Nazione, molto di più di quello del regionalismo differenziato di Raffaella Venerando

Il Consiglio dei ministri ha di recente approvato il disegno di legge sull’autonomia differenziata che, entro fine anno, dovrebbe avere piena attuazione. Anche la scuola potrebbe rientrare nelle competenze da decentralizzare. Crede sarà così? Quali sono gli aspetti da non trascurare?

Non so se così sarà. Dipenderà dal consenso o meno di comuni organizzati entro l’ANCI, regioni, Parlamento e pubblica opinione. Vi è un grande dibattito democratico in corso. Vedremo. In generale, l’esperienza della storia repubblicana insegna che altro è un testo presentato in Consiglio dei Ministri e altro è la sua definitiva approvazione e i contenuti che la connotano. Il testo iniziale mostra una spinta a regionalizzare l’istruzione pubblica fortemente - anche nei contenuti educativi e negli indirizzi culturali, il che, tuttavia, potrebbe smentire l’art. 1 della Costituzione, che garantisce l’unità della nazione e uguali diritti ai cittadini ovunque essi vivono. Inoltre non tiene conto dei divari come oggi si presentano e tende a “congelare” la situazione così com’è senza fin qui aver elaborato chiare procedure atte a garantire i livelli minimi di prestazione e le necessarie perequazioni sulla base dei divari presenti, favorendo, cioè, chi parte con meno per consentire, progressivamente, il supe- ramento dei divari, come prescrive il comma 2 dell’art. 3 della nostra Costituzione. Insomma vi è il tema dell’equità delle risorse di fronte a situazioni diverse. Dare cose uguali tra disuguali non è equità. Poi, decentralizzare è una cosa e attribuire alle regioni gli indirizzi generali in tema di istruzione pubblica ne è un’altra. Peraltro, decentralizzare molte funzioni è già possibile, si pensi alla formazione professionale che è materia esclusiva propria delle regioni ben prima di questo testo o l’autonomia funzionale che le scuole già hanno o la possibilità per le regioni di esprimere contenuti ulteriori rispetto alle norme nazionali. Insomma: in Italia non siamo di fronte a un impianto accentratore che ha bisogno di decentramento. Perciò, direi che, in quanto a decentramento, la prima cosa da non trascurare è l’attuazione delle autonomie che già esistono. La seconda e più importante cosa da non trascurare è la garanzia, per tutti i bambini e ragazzi d’Italia, di avere pari diritti e opportunità in materia d’istruzione. Oggi l'Italia presenta forti differenze territoriali in termini di accesso ai percorsi di istruzione, a partire dai primi anni di vita di bambine e bambini. Lungo tutto il percorso di studi, la situazione penalizzata del Mezzogiorno è spesso l'elemento ricorrente anche se, inoltre - attenzione! - vi sono penalizzazioni anche entro le stesse regioni, comprese quelle del Nord, che riguardano per esempio piccoli centri nel confronto con grandi città, molte aree interne rispetto alle aree metropolitane, le periferie urbane nel confronto con le aree più protette delle città e questo è ovunque e non solo nel Sud. L’Italia è complessa e il tema delle perequazioni è decisivo per la tenuta complessiva della nazione. Ma ritornando al confronto Nord/Sud, ci tengo a partire da alcuni dei dati che l’Impresa sociale Con i bambini ha tenuto a documentare insieme a Openpolis. Sono divari che dovrebbero preoccupare ogni forza politica in Parlamento. L’offerta per la prima infanzia espressa in posti nido e in servizi per l’età tra 0 e 2 anni vede oggi, per ogni 100 residenti, la media italiana che esprime 26,9 posti ma - attenzione! - solo le regioni meridionali sono sotto la media con Campania a 10,4, Calabria a 10,9, Sicilia a 12,4, Puglia a 18,9, Basilicata a 20,5, Molise a 22,7 e Abbruzzo a 23,9. La domanda cruciale è: può l’offerta pubblica non garantire una uguale o almeno comparabile buona partenza all’inizio della vita per tutti (come invitano a fare le Nazioni Unite e ogni studio internazionale) e che consente alle donne di poter lavorare e al reddito famigliare di crescere? Vi sono forti divari sul tempo pieno sia tra grandi comuni (60% delle classi a tempo pieno) e piccoli comuni (15% del totale delle classi a tempo pieno), sia tra regioni, non solo tra Nord e Sud con Molise, Campania e Puglia sotto al 20% di bambini della scuola primaria con il tempo pieno, mentre la media nazionale è quasi il 40%, con il Veneto al 32,5%, l’Emilia Romagna al 48,6%, la Lombardia al 53,4 e il Piemonte al 51,7%. La domanda fondamentale è: può un bambino nato in un piccolo comune avere in media un quarto delle possibilità di accesso al tempo pieno rispetto al coetaneo che vive in città più grandi e può un bambino del Veneto tra 6 e 10 anni avere, in media, meno ore di scuola di uno dell’Emilia o del Piemonte che, a loro volta, hanno più del doppio dei coetanei di Campania o Puglia? Il 12,7%, in media, di giovani italiani sono usciti prima del diploma o di una qualifica dal sistema educativo, ma nel Mezzogiorno la quota media raggiunge il 16,6%. La domanda cruciale è: può rimanere uno scarto così ampio nei tassi di fallimento formativo senza curare una via d’uscita concordata a livello nazionale? Cosa non trascurare? Bisogna non trascurare più queste domande cruciali. Se l’istruzione rientrasse nel disegno dell’autonomia differenziata, si acuirebbe anche la fuga degli insegnanti migliori verso il Nord del Paese? La risposta è molto difficile da dare perché il “patern” delle cause che hanno spinto gli insegnanti verso il Nord nella fase di attuazione delle legge detta “buona scuola” è davvero complesso. Questa migrazione è stata dovuta, infatti, a più con-cause che si combinano tra loro secondo traiettorie complesse.

Atteso che vi è stata una spinta alle sicurezze derivate dalla stabilizzazione del ruolo docente che la legge prevedeva, vi è stato un mix:

• fattori demografici che hanno visto una maggiore tenuta del numero di nascite e perciò di iscrizioni e dunque di classi in varie aree del Nord (non in tutte),

• maggior numero di cattedre derivate da maggiore offerta di tempo pieno o/e da migliori procedure di assegnazione delle cattedre di sostegno grazie al migliore funzionamento di Asl o anche alla maggiore consapevolezza dei genitori coinvolti,

• divario generale tra popolazione del Nord (2/3 circa del totale) e del Sud (1/3 del totale) in relazione alla diversa situazione del mercato del lavoro che vede il Nord molto più dinamico in termini di offerte di impiego (le più diverse) rispetto alla povera offerta di lavoro al Sud, entro un paesaggio che vede crescere la povertà multi-dimensionale.

Voglio sperare nella buona riuscita del PNRR e degli altri investimenti in istruzione: se vi saranno perequazioni atte a superare, anche in parte, i divari sopra descritti o anche misure (v. gli ingenti fondi di cui dico più avanti) - che prevedano occupazione in campo educativo - vi potrebbe essere un avvio di inversione di tendenza. Altrimenti, purtroppo, è prevedibile una stabilizzazione o un aumento del flusso di migrazione interna da Sud a Nord anche in campo educativo, in triste coerenza con quanto già da anni avviene in quasi ogni settore.

Durante la pandemia tutti erano concordi sulla necessità di rimettere l’istruzione al centro.

Poi…cosa è successo?

Come presidente di Con i Bambini a me piace stare ai fatti e documentarli e devo dire che l’istruzione ha un peso. Infatti, in questo momento vi sono, per l’istruzione, finanziamenti nel bilancio di ministeri, regioni e comuni, diciamo consuetudinari, che derivano dalla legge di stabilità. A questi vanno aggiunti finanziamenti derivati dalla programmazione dell’Unione Europea 2021-2027, con una innovativa attenzione ai minori in povertà, con il lancio del programma UE chiamato Child Garantee.

E poi vanno aggiunti gli ulteriori investimenti del PNRR la cui entità, finalità e le cui problematiche abbiamo voluto documentare, nel dicembre

2022, con una estesa documentazione che ci racconta, in dettaglio, misura per misura, dove e come cadranno i fondi che, complessivamente - attenzione! - sono ben 19,44 miliardi di euro destinati dal PNRR al potenziamento dei servizi di istruzione, cui si aggiungono altri interventi trasversali alle diverse missioni. Sono una quantità di soldi per l’istruzione che può essere paragonata al piano Marshall dopo la guerra o agli investimenti del primo centro-sinistra negli anni sessanta dello scorso secolo. Dunque, gli investimenti previsti in istruzione ci sono. E sono un segno di cambiamento di prospettiva rispetto al quadro ereditato dal periodo 2009-2015 che ha conosciuto il disinvestimento più grande di tutti i paesi OECD e il più massiccio nella storia dell’Italia unita, dal 1861! Vi sono ora risorse ingenti. Il vero tema - come Con i Bambini segnala in modo documentato nel suo dossier curato insieme a Openpolis - è che l’Italia riesca a evitare sprechi e a usarli bene, sostenendo le comunità educanti che operano nei territori, che sono capaci di riunire comuni, scuole, terzo settore, a partire dalle aree più fragili, secondo modelli operativi flessibili e fondati su criteri di prossimità con i bambini e ragazzi e anche con i genitori secondo modalità di efficacia/efficienza e, dunque, prevedendo la rigorosa valutazione dei risultati.

Proprio con l’emergenza sanitaria sono cresciute anche dispersione scolastica e povertà educativa, specie al Sud. Quali azioni sarebbero necessarie per contrastarle fin dalla prima infanzia?

Ritorno sulle comunità educanti. Perché, a partire dai 420 partenariati finanziati dal Fondo di contrasto della povertà educativa e da Con i Bambini (ma non solo), sono migliaia le buone pratiche in Italia (e molto diffusamente nel Mezzogiorno) che dimostrano, appunto, che si può contrastare dispersione scolastica e povertà educativa se si creano alleanze tra enti locali, scuole e organizzazione del terzo settore e del volontariato. Il compito che abbiamo è quello di rendere stabili queste spinte positive e queste esperienze.

Oggi si tratta di far dialogare, in modo operativo, i finanziamenti messi in campo da Italia e Europa, a partire dal PNRR e le esperienze che, sul campo, hanno funzionato. È possibile. Il mondo del terzo settore è attivato su questa prospettiva. E vi è anche attenzione, da parte di molti decisori, per questa prospettiva. Dal suo osservatorio, i “ragazzi del Sud” hanno ancora quella che l’antropologo indiano Arjun Appadurai chiama “capacità di aspirare”? E a scuola c’è chi gliela insegna?

Penso di sì. E mi spiego, a partire da una lunga personale esperienza sul campo, con i ragazzi. La mia esperienza mi dice, però, che la capacità di aspirare è sia parte di una co-costruzione di prospettive positive lì dove si vive, sia emigrazione come una forma di resilienza di chi è spinto a reagire andando via, in risposta a una situazione di difficoltà, esclusione, mancanza di prospettiva lì dove vive. Spesso, per i ragazzi del Sud, si traduce con l’emigrazione.

Si pensi - faccio un solo esempio - ai 43mila laureati napoletani che se ne sono andati via dalla loro città negli ultimi 10 anni, nel Nord, in Europa, nel mondo. È un’enormità! È anche - certamente - "capacità di aspirare a..." Ma segnala anche uno squilibrio dolorosissimo e una perdita di risorse. Perché non sono venuti altrettanti ragazzi a Napoli dal resto del mondo. E perché queste migliaia di ragazzi di Napoli non sono partiti per scelta libera ma per poter far valere competenze che non possono fare valere nel loro territorio per la pauperizzazione del territorio, che non è solo responsabilità nazionale ma anche delle cattive classi dirigenti nel Sud.

Viceversa se si creano occasioni resilienti lì dove si vive - penso, ad esempio, al quartiere Sanità di Napoli ma anche di tante altre esperienze positive nel Sud - allora si apre la via allo sviluppo locale.

Tante scuole, anche al Sud, partecipano a quest’ultima prospettiva costruendo iniziative di attivazione civica, tessendo alleanze territoriali con imprese, terzo settore, comuni, ecc.

Altre scuole sono più chiuse in sé.

Poi - va detto - esistono anche altre realtà...ed è quando, purtroppo, tanti e tanti (troppi!) ragazzi stanno chiusi in casa o intrappolati da povertà ed esclusione multidimensionale e non riescono a esprimere le proprie aspirazioni, non partono e non partecipano neanche a co-costruire speranze nei propri quartieri.

Le politiche pubbliche devono potere agire per favorire aspirazioni, come proprio Appadurai ci ricorda. Non riescono oggi a farlo quanto si dovrebbe e potrebbe fare.

INTERVISTA A CESARE MIRABELLI, PRESIDENTE EMERITO CORTE COSTITUZIONALE

MIRABELLI: «CLAUSOLA DI SUPREMAZIA PER ALCUNE COMPETENZE»

Per il presidente emerito della Corte Costituzionale, può esserci autonomia differenziata ma solo per alcune materie e lo Stato dovrebbe poter egualmente intervenire nonostante il trasferimento e senza ricorrere a contenziosi di Raffaella Venerando

Autonomia differenziata, partiamo dalla forma: quali sono i nodi procedurali del ddl Calderoli?

Si tratta di un tema di particolare rilievo costituzionale, che non può essere ridotto semplicisticamente all’adesione alla richiesta di alcune Regioni di trasferire loro competenze oggi attribuite allo Stato. Va inserito, infatti, in un quadro generale in cui si sviluppa il principio autono- mistico, sancito dall’articolo 5 della Costituzione, promuovendo l’operatività e la più ampia tutela delle autonomie territoriali nel rispetto, però, di un contesto statale unitario e indivisibile, in cui il mantenimento dell’unità nazionale equivale anche a una identità di diritti, di condizioni di equilibrio nello sviluppo economico e sociale tra le diverse aree e territori.

La Costituzione prevede anche, sempre nella rifor- ma del Titolo V, un elemento finanziario di forte riequilibrio in favore delle aree svantaggiate, e cioè che siano attribuite risorse speciali ai territori che hanno minore sviluppo con interventi di sostegno anche dello Stato, oltre tema della garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (Lep) non ancora definiti. C’è un’eredità del passato da rimuovere. Mi riferisco alla necessità innanzitutto di uniformare i servizi essenziali offerti ai cittadini - sarebbe inammissibile, ad esempio, generare tutele sanitarie differenziate in aree territoriali diverse, tanto più che determinerebbero ovviamente anche un trasferimento di persone per godere di buone prestazioni sanitarie - ma anche di non attribuire più le risorse sulla base della spesa storica perché -diversamente - chi finora è stato svantaggiato rimarrebbe tale e non avrebbe accesso a migliori condizioni. Ciò non significa che non possa esserci autonomia differenziata. Il punto è il come, e in quali materie. Non è detto infatti che tutte e 23 le materie di competenza concorrente debbano essere trasferite. Su questo punto, sarebbe utile un metodo gradualistico, non una risposta passiva dello Stato rispetto alle richieste delle Regioni non ancorate a specificità locali. l'opinione

Andrebbero individuati quali “stock” di competenze può essere opportuno trasferire anche per saggiare validità ed efficacia di questa riorganizzazione istituzionale. La Costituzione fa riferimento a ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia: mi chiedo: può lo Stato - nel trasferire alcune di queste competenze - porre delle condizioni, inserendo una clausola di supremazia per cui in condizioni di necessità, quando si verifica una esigenza unificatrice o un interesse nazionale, lo Stato possa egualmente intervenire nonostante il trasferimento di tali competenze alle Regioni senza ricorrere a contenziosi costituzionali?

Ritengo possa essere efficace anche per ragioni di chiarezza. Laddove, per esempio, si tratta di grandi reti, per evitare che ci siano contenziosi tra le parti, lo Stato si spoglierebbe e concederebbe ma trattenendo a sé una leva di emergenza.

Tornando al disegno di legge Calderoli, pur essendo stabilita la necessità di una maggioranza particolarmente qualificata per validare il passaggio di materie, il Parlamento resterebbe comunque ai margini del processo di approvazione. La mera ratifica del Parlamento pertanto non sarebbe plausibile?

No, anzi. Dovrebbe essere necessario un atto di indirizzo del Parlamento, non una discussione ex post per giunta da concludersi in tempi brevi e con un prendere o lasciare.

Il ddl Calderoli è costruito analogamente a quello che si è fatto per l’applicazione dell’articolo 8 della Costituzione nei rapporti tra Stato e confessioni religiose non cattoliche.

Ma si tratta di due situazioni profondamente diverse. In quest’ultimo caso si è verificata una larga parlamentarizzazione delle procedure, del “prima”, sulle bozze di accordo transitate la discussione c’è stata ed è restata la possibilità da parte del Parlamento di richiedere modifiche da negoziare con l’altra parete o di apportare modifiche di carattere non sostanziale, quali quelle dirette ad integrare o chiarire il disegno di legge.

Nessun limite di competenze da delegare alle Regioni non è di per sé un limite?

Si tratta di una valutazione politica, ma a mio avviso sanità, istruzione e grandi reti non possono che essere nazionali e, queste ultime, in prospettiva europee. La clausola di supremazia, che richiamavo pocanzi, semplificherebbe di molto le scelte da adottare, potendo lo Stato comunque intervenire se motivato. Un ultimo elemento: forse sarebbe opportuno fare una sorta di prova di resistenza, una valutazione di quali benefici e costi in chiave di gestione amministrativa e di possibili risultati di semplificazione si avrebbero con il trasferimento, se davvero migliorerebbe l’efficienza, se davvero ci sarebbero costi inferiori per i cittadini. Utile sarebbe lavorare per avere una modellistica di tipo organizzativo, capace di ispirare anche le scelte da fare sulla base del principio di sussidiarietà che muove sia verso il basso, sia verso l’alto. La sussidiarietà, ricordiamolo, non può essere solo devolutiva.

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