Milano/S.Francisco

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Milano/S.Francisco La stampa underground di Ettore Sottsass e Fernanda Pivano e lo scenario globale

Indice 3 Room East 128 26 Edizioni East 128 40 S. Francisco Oracle 48 Pianeta Fresco 60 Mondo Beat (e dintorni) L’intenzione di questo approfondimento, che parte dal caso Room East 128, rivista realizzata da Ettore Sottsass e Fernanda Pivano nel 1962, è quello di dare uno spaccato della complessa situazione sociale e culturale di quegli anni, in cui rivoluzioni di costume, arte, ideologia e cultura hanno trasformato completamente il quadro sociale, soprattutto quello giovanile. Tra Milano e S.Francisco, le influenze letterarie della nuova poesia americana (Kerouac, Corso, Ferlinghetti, McLure), trovano terreno fertile nel personaggio di Fernanda Pivano, autrice italiana impegnata soprattutto nella traduzione dei romanzi beat americani e nella lotta per farli pubblicare dalle case editrici italiane. Accanto a lei Ettore Sottsass, architetto, fotografo e disegnatore italiano, nelle quali opere (che siano esse edifici, ceramiche, disegni, fotomontaggi o computer), egli riversa le sue suggestioni ed esperienze personali, raggiungendo una fusione totale tra professione e vita. A causa di una grave malattia di Sottsass, i due sono costretti a trasferirsi a S.Francisco, la culla della letteratura beat e campione perfetto del trionfante benessere americano. Da qui inizia il viaggio che da Room East 128 porterà alla realizzazione di Pianeta Fresco, esemplare unico della stampa underground italiana.

Ricerca a cura di Maria Roberta Cramarossa / Biennio in Comunicazione e Design per l’Editoria / Corso di Tecniche di produzione grafica / Prof. Leonardo Sonnoli / A.A. 2012/2013


Room East 128 Ettore Sottsass, Fernanda Pivano Palo Alto, California 1962

tratto da Scritto di notte, Ettore Sottsass, Adelphi, 2010

nella pagina a fronte, particolare di una pagina di Room East 128 #2

La mia prima piccola rivista però l’avevo fatta mentre ero all’ospedale di Palo Alto a curarmi da un’infezione renale che il dottore italiano aveva dato per inguaribile: “Può fare testamento” aveva detto. In quel periodo lavoravo con Roberto Olivetti e Mario Tchou al progetto del primo grande calcolatore elettronico italiano. Io ero stato chiamato dall’ingegner Adriano Olivetti per il design, mentre Mario Tchou dirigeva il gruppo degli ingegneri e Roberto Olivetti era il presidente della “Divisione elettronica Olivetti” appena fondata. Io ero il meno impegnato e il meno responsabile, ma mi venivano idee. Roberto, Mario Tchou e io siamo diventati molto, molto amici. Con responsabilità diverse eravamo impegnati in un progetto talmente nuovo che nessuno dei tre aveva idee già pronte: tutto era sempre da inventare e da rischiare, tutto era entusiasmante, e anche richiedeva grande stima e fiducia reciproche. La stima e la fiducia, non so come, sono venute subito, sono venute da sé, e insieme abbiamo passato un tempo bellissimo. Quando Roberto ha saputo che stavo morendo è rimasto molto male; stentava a crederlo e ha cominciato a cercare affannosamente qualche soluzione, finchè è venuto a sapere che a Milano era in corso un convegno internazionale di endocrinologia e che a quel convegno partecipava un professore mezzo svizzero e mezzo americano, il Doktor Lutscher, candidato al Nobel per le ricerche sulla malattia che avevo io. Il Doktor Lutscher mi ha dato ‘fifty-fifty’ chances di sopravvivenza. Era meglio di zero. Ma dovevo sbrigarmi. Roberto in persona è andato al consolato americano per farmi avere un passaporto di validità immediata, poi ha messo in moto un funzionario Olivetti a San Francisco perchè prenotasse una stanza all’ospedale dell’università di Stanford a Palo Alto, al piano terra con una grande, grande vetrata che dava sul parco e piccoli uccelli colorati che volavano da un albero all’altro. Ero circondato da dottori che mi facevano domande, mi guardavano le unghie, mi guardavano dentro gli occhi, mi guardavano la pressione e tutto. Mi hanno anche messo dentro una specie di tubo che girava, per farmi, credo, radiografie tridimensionali. Non so. Poi tutti sono spariti senza dire niente. Dopo più o meno mezz’ora 2


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è arrivata un’infermiera a portarmi le medicine, tutte con la data e l’ora alla quale dovevo prenderle, così nessuno poteva sbagliarsi. L’infermiera non era una suora ma una donna più o meno sotto i trent’anni, una bella ragazza con il camice bianco abbastanza trasparente. Un po’ consolante, data la situazione. Le medicine contenevano soprattutto prednisone, che sarebbe un cortisone ma più efficace. Siccome il prednisone agisce anche sul cervello, il Doktor Lutscher ha detto a Fernanda, che dormiva su una branda nella mia stanza: “Se si comporta in modo strano ci avverta subito”. E Fernanda “Lui si comporta sempre in modo strano”. Fine del colloquio. In effetti con il prednisone non riuscivo a dormire, il cervello funzionava sempre, continuavo ad avere idee, scrivevo, disegnavo, mi eccitavo a qualunque novità mi venisse proposta. Il prednisone era per me la droga perfetta, la più perfetta che potessi immaginare, meglio della morfina. La morfina ti spedisce in qualche tipo di nirvana, il prednisone accelera il cervello e la cosiddetta creatività a velocità supersoniche. Molti parenti e amici mi scrivevano lettere per sapere come stavo, lettere molto preoccupate e gentili e non potevo rispondere a tutti. In quella stanza del senatore, qualche giorno dopo la visita dei medici, è entrato un signore di una certa età accompagnato da un ragazzino sui dieci, undici anni, con una chitarra. Quel signore mi ha detto che il suo cognome era Van Volkenburg. Gestiva un negozio di materiale per uffici e aveva saputo che in una stanza dell’ospedale era ricoverato un senatore italiano. Pensava sarebbe stata una bella cosa se suo figlio avesse suonato una canzone americana per un senatore italiano. Io ho detto che sarei stato molto contento di ascoltare una canzone americana suonata con la chitarra da suo figlio. La canzone aveva a che fare con un viaggio a cavallo verso Laredo. In quella stanza dell’ospedale il suono di quella voce di ragazzo si diffondeva stranamente: un po’ voce di morte, un po’ voce di melanconica nostalgia. Ho ringraziato il ragazzo che sorrideva imbarazzato, e il padre mi ha detto che se volevo una copia delle parole della canzone poteva farmela avere in un’ora: il tempo di andare e tornare dal suo negozio perchè lì aveva una macchinetta nuova che poteva “stampare” qualsiasi colore fogli formato standard americano. Quanti si voleva, a gran velocità. La lampadina del prednisone si è immediatamente accesa. Ho pensato che potevo domandare al signor Van Volkenburg di stamparmi una specie di giornaletto a colori e con figure, formato standard americano, da mandare a tutti i miei amici in risposta alle loro lettere, con notizie del mio stato di salute, con il nome delle medicine, con il nome di chi mi veniva a trovare e tutto. Un notiziario che si doveva chiamare East 128 Chronicle — 4


East 128 come il numero della camera. Il signor Van Volkenburg si è mostrato entusiasta, forse perchè il giornaletto finiva per essere un giornale italiano e a quel tempo a molti americani gli italiani erano simpatici. Uscivano con bei film, le attrici e gli attori erano belli e simpatici; sembravano gente che potevi trovare per strada. Non ricordo quanti numeri di East 128 sono stati stampati. Io intanto continuavo con il prednisone e i dottori ricorrevano a tutta la loro sapienza per farmi guarire. Il prednisone mi faceva gonfiare e le gambe erano diventate così gonfie che quasi non riuscivo a scendere dal letto. Però il giornaletto mi occupava molto. Quando mi portavano i giornali, quei giornali americani che pesano da cinque a dieci chili e forse più, non per articoli ma per pubblicità, mi eccitavo sempre moltissimo. Su quei giornali c’era l’esauriente rappresentazione della più o meno disperata vita quotidiana americana, dagli abitanti delle lunghissime roulotte a quelli delle bianche villone dei ricchi nei quartieri eleganti, verdi, alberati e silenziosi. A tutti loro nella pubblicità si offrivano divani e poltrone in stili diversi, dal Rinascimento immaginato e adattato da uno scenografo di Hollywood, al Settecento, all’Art Decò, al Western, fino al moderno, a Ginger Rogers con Fred Astaire; sui giornali da cinque e forse più chili c’era tutto riguardo a divani, letti, lampade, lampadari, tappeti, poltrone, tavoli e tavolini, cucine e qualunque cianfrusaglia potesse riempire un qualunque spazio dove vivere, chiamato appartamento. Quegli enormi pacchi che odoravano di carta stampata — sarà stato il prednisone — mi affascinavano, anzi forse mi ipnotizzavano, e continuavo a ritagliare le figure del sogno e dell’abitudine americana. Poi incollavo le figure sulle pagine bianche dell’ East 128, un lavoro che potevo fare stando a letto. Alla fine davo i collage al signor Van Volkenburg che a tutta velocità li stampava con la sua macchinetta. Quand’era pronto il giornaletto lo spedivo agli amici e così potevano sapere in che mondo stavo vivendo. Intanto il tempo passava: io diventavo sempre più grosso e dal letto lavoravo sempre di più. Dormivo sempre meno, le giovani infermiere con il camice bianco abbastanza trasparente mi trattavano sempre meno da senatore, ma sempre più come un qualunque signore strano, simpatico e importante finito con la moglie nell’ospedale per aspettare. Mentre aspettavo con gli occhi spalancati, ero sempre più affascinato dalla carta stampata di quei giornali americani; non soltanto dalle illustrazioni del muto metafisico quotidiano invaso dalla pubblicità, anche dalle strutture puramente tipografiche che sostenevano l’impaginazione: righe grosse e sottili, tratteggiate verticali, tratteggiate orizzontali, punti grossi, linee di puntini, gradazioni 5


di punti o retini dal quasi nero al grigio chiaro, al grigio chiarissimo quasi bianco, e naturalmente cerchi e dischi anche loro di tutte le gradazioni e sfumature. Facevo collage immaginando le calme, le tempeste di luce, le esplosioni cosmiche, le oscurità impenetrabili, la morte cosmica, le albe cosmiche, la morte e la vita eterna, esplosioni senza confini nè di spazio nè di tempo. La rappresentazione immaginata potevo “vederla” incollando pezzi di tipografia senza senso o meglio, di qualche senso ignoto, irriconoscibile. Usavo una colla che si chiamava Cow Gum. Dopo un anno, ho scoperto, si seccava. Non teneva più: i collage diventavano mucchietti di ritagli di giornale senza tempo nè spazio. Destino appropriato. Stando a letto facevo anche disegni a colori su carte grandi, usando pastelli a cera per non sporcare. Non so quanti ne ho fatti, credo di averli dati a Fernanda e forse li ha ancora lei. È passato molto tempo. Intanto anche l’idea del giornaletto East 128 si allargava. Mi era venuto in mente che i miei amici poeti e scrittori americani avrebbero potuto scrivere con la loro calligrafia, e io avrei stampato in serigrafia sottili e rari quaderni con i loro testi. Ci abbiamo provato e tutto è andato bene, ma evidentemente fare l’editore non era il mio mestiere e l’idea è sfumata. Nessuno comprava i nostri bellissimi e rari quadernetti, e avevano ragione: o hai bisogno di poesia, di poesia nuova, poesia che ti riguarda, che riguarda la tua vita, o sei un collezionista di libri preziosi stampati a mano in serigrafia. A San Francisco in periferia, in una stradina oscura e abbastanza sporca, c’era un piccolo negozio che vendeva cultura cosiddetta beat; manifesti, libri; anche libri dei grandi padri della poesia americana, il cui vasto respiro poetico poteva avere spiegato ai giovani americani che cosa significa appartenere, nel bene e nel male, ai destini di una così grande, complicata e forse per sempre incomprensibile nazione. In quel piccolo, disordinato negozio della periferia di San Francisco si trovavano anche i libretti della nuova poesia, poesia americana, stampati non in serigrafia su carta opaca di ‘garantito cotone’, ma su carta forte e normale e con quel formato che puoi infilarlo nella tasca dei jeans. Quei libretti si vendevano in continuazione e in continuazione nelle università e ovunque si leggeva la nuova poesia americana.

le foto proposte di seguito sono state scattate presso la Fondazione Benetton Studi Ricerche, Biblioteca Riccardo e Fernanda Pivano di Milano. 6


Room East 128 #2 Brossura 28x21,5 cm 16 pagine fascicolo interamente illustrato con disegni stampati in nero a mimeografo (ciclostile) tiratura di 90+10 esemplari #3 Brossura 28x21,5 cm 28 pagine fascicolo interamente illustrato con disegni stampati a colori e in bianco e nero a mimeografo (ciclostile) tiratura di 140+10 esemplari

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#2 19 giugno 1962

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#3 19 luglio 1962

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intervista tratta da Abitare 479, febbraio 2008

Ettore Sottsass: Sono malato, ma di un male relativo, per cui per lunghi periodi è quasi come se stessi bene. Qualche volta invece il male alla schiena diventa così forte che il mio cervello è come imprigionato nel dolore… Stefano Boeri: La presenza della malattia non è una novità nella tua vita. Nei primi anni Sessanta ho avuto una grave forma di nefrosi. Ricordo che un medico italiano mi aveva invitato a fare testamento. Eppure non provavo dolore: morivo e basta. Finché un giorno, nella primavera del 1962, Roberto Olivetti non mi convinse ad andare a farmi curare negli Stati Uniti, a Palo Alto, dove lavorava il Nobel della medicina che aveva inventato il prenesone, la prima forma di cortisone. E lo usava per curare le nefrosi… E così in poche ore ti sei trovato nella mitica stanza 128 del Medical Center della Standford University a Palo Alto (California). Roberto mi aveva aiutato in tutto. Ero nella senator room, la più bella, con vista sul Parco dell’Università. I dottori mi studiavano: infilandomi in grandi macchine che ruotavano per fare fotografie tridimensionali oppure scrutando per decine di minuti le mie unghie… Una volta mi misero in carrozzella al centro di un palcoscenico… Eppure tutto questo non ti ha impedito di inventare, proprio in quella stanza, una piccola rivista ciclostilata che è diventata un riferimento per tutto il movimento pop e underground dei decenni successivi… Il prednisone mi faceva funzionare il cervello a velocità supersonica; riuscivo a non dormire per 3-4 notti… disegnavo, scrivevo, ero pieno di idee… Nel frattempo ricevevo lettere dagli amici italiani e non sapevo come rispondere a tutti, o forse non avevo voglia di rispondere a tutti. Finché un giorno è venuto a trovarmi un signore che aveva costruito un ciclostile a colori e così mi sono detto: “faccio un giornaletto e lo mando agli amici”. E così è nato Room East 128 Chronicle, oggi un mito nella storia delle riviste culturali di avanguardia. In queste settimane a Londra, presso l’Architectural Association c’è una piccola mostra sulle riviste Radical e Underground, curata da Beatriz Colombina e da un gruppo di ricercatori di Princeton, che raccoglie le copertine di una cinquantina di riviste capaci negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso di sovvertire i format dei principali periodici internazionali di cultura, arte e architettura. E come generatrici di questo ciclone di ossigeno editoriale, l’esposizione colloca tre riviste: Polygon, celebre 23


pubblicazione underground inglese fondata nel 1956; la rivista dell’Internazionale Situazionista e la tua Room East 128 Chronicle. All’inizio è nata come una specie di lettera collettiva per gli amici. Ci mettevo tutte le notizie della mia vita quotidiana: dall’elenco delle medicine, ai nomi dei dottori, al resoconto delle visite degli amici che mi venivano a trovare. E poi ci incollavo i collage che facevo coi giornali americani. Ritagliavo e montavo la pubblicità dei quotidiani per costruire un discorso pop sulla noia della famiglia media americana… Abbiamo fatto tre numeri diffusi tra gli amici: il primo in poche decine di copie. Poi Room East 128 Chronicle è diventata la sigla di un’altra serie di piccole pubblicazioni fatte a Milano in cui stampavamo in serigrafia le poesie calligrafiche, che hanno poi dato vita a Pianeta Fresco… E non uscivi mai? Accanto a me, in una branda, dormiva Fernanda (Pivano). Che di giorno usciva per trovare i suoi amici poeti, come Allen Ginsberg e Gregory Corso, che poi venivano a trovarmi per chiacchierare… È lei che mi ha introdotto a questo mondo straordinario. Un giorno un loro amico mi promise che mi avrebbe portato in stanza Marilyn Monroe, che però proprio quel giorno si suicidò… Un altro giorno scappai dall’ospedale con Ginsberg e un gruppo di motociclisti degli Hells Angels (che lo adoravano) per andare a incontrare Bob Dylan che suonava a Berkeley… Ricordo la straordinaria varietà dei vestiti degli studenti americani – chi aveva la pelliccia, chi le piume, chi una palandrana – una folla pazzesca di individui vivi, complessi e unici. E ognuno aveva qualcosa di diverso da raccontare sulla vita. Questa immagine di una folla ricca di individualità irriducibili, di una folla che dunque non ha niente a che vedere con una massa di persone, mi ricorda la teoria del Grande numero, che anche Giancarlo De Carlo portò con sé in Italia dopo un periodo di studi negli Stati Uniti e che poi ispirò la Triennale del 1968… Beh quella folla era bellissima e non era politica, nel senso che allora nessuno parlava di ideologie. Al nostro ritorno in Italia cercammo in un certo senso di farla rivivere. Nella nuova casa in via Manzoni, tutte le sere Fernanda invitava dei ragazzi a raccontare la loro vita e a portare dei testi: chi lavorava in fabbrica, chi studiava, chi era sottoproletario, chi montava le scene alla Scala. Non c’erano professionisti dell’arte o dell’architettura. Ci sedevamo, fumavamo insieme e ognuno cominciava a mostrare agli altri i propri disegni o a recitare le proprie poesie… Così è nato Pianeta Fresco, che veniva venduto accompagnato da una rosa.

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Insomma, quella stanza di ospedale a Palo Alto è un po’ una metafora della tua vita. In fondo tu hai sempre prodotto cose straordinarie facendole scaturire dalle relazioni interpersonali. Da Pianeta Fresco a Memphis, da Global Tools a Terrazzo, sei riuscito a condensare idee, emozioni, esperienze di gruppi ristretti di amici realizzando opere universali… Sì, ma è anche la malattia che ti spinge a pensare alla tua vita, alla tua morte, al futuro, al tempo. Perché in una malattia c’è sempre una zona di solitudine assoluta; anche se sei assistito meravigliosamente, come mi accade in questi giorni grazie all’aiuto straordinario di Barbara (Radice), anche se vengono a trovarti molti amici… in fondo, la malattia è un colloquio continuo con te stesso, su cosa sei e cosa sarai. Ma a volte, per un architetto, la malattia, può aprire una prospettiva diversa sugli spazi della propria vita… A volte succede… per esempio quest’estate, per andare nella nostra casa di Filicudi, ho dovuto prendere un elicottero. Con Barbara abbiamo volato sull’arcipelago delle Eolie e sull’isola di Vulcano. E mentre guardavo dall’alto i crateri ho cominciato a pensare ai cataclismi geologici che hanno sconvolto il Mediterraneo milioni di anni fa… sono cose che ti danno il senso dell’universo, ma anche della nostra fragilità e piccolezza… Che ti fanno anche pensare come in fondo la vita animale non sia poi così diversa dalla vita di un territorio… siamo soggetti a fenomeni improvvisi e imprevedibili che determinano stati di cose che invece hanno durate lunghissime… Ci sono dei momenti in cui mi viene da piangere a pensare come è stata bella la mia vita. Con Barbara siamo stati in posti incredibili, abbiamo navigato in canoa in Nuova Guinea in mezzo a persone che soltanto cinque anni prima erano ancora cannibali, abbiamo fatto cose pazzesche… Io penso che la vecchiaia non sia altro che nostalgia…Io avevo una tale voglia di possedere il mondo che oggi sto dando nutrimento a questa nostalgia… Elaborare il sovraccarico delle esperienze vissute – questa è forse la cosa formidabile di una vita colma di esperienze come la tua… una vita che tutti vorremmo vivere. È anche per questo che sto scrivendo un’autobiografia. Con molta fatica, perché ho bisogno di vedere la scrittura e le sue fasi, gli errori, le cancellazioni, magari tornare indietro… Insomma: non mi va di usare il computer e non posso certo dettarla… Perché io sono un disegnatore.

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Edizioni East 128 Ettore Sottsass, Fernanda Pivano Milano, Italia 1963

tratto da I libri di Ettore Sottsass, Giorgio Maffei, Corraini, 2011

Conclusa felicemente l’esperienza umana ed editoriale di Palo Alto, Sottsass e la Pivano tornano a Milano. L’occasione per riprendere l’attività delle Edizioni East 128 è la realizzazione delle Ceramiche delle tenebre progettate nei giorni della malattia. Questo diventa il primo fascicolo di una serie che si sviluppa disordinatamente tra il 1963 e il 1970. Su questo modello si struttura l’intera collana che alterna preziose tavole serigrafiche a testi letterari dei poeti beat americani accompagnati spesso da elaborazioni grafiche dei ritratti fotografici dello stesso Sottsass. Alcuni fascicoli sono composti per circostanze precise: i mobili della Poltronova, una mostra di gioielli, un omaggio ad uno stilista. Con vistosi cambi di veste grafica per gli auguri natalizi o per il resoconto di una conferenza. Il rigoroso e preordinato piano editoriale subisce le variazioni dovute alle inadempienze degli autori e al mutare degli interessi dei curatori. Il naturale epilogo della collana coincide con il riaccendersi del desiderio di una nuova rivista - Pianeta Fresco - che meglio interpreta il gusto e i bisogni del momento.

le foto proposte di seguito sono state scattate presso la Fondazione Benetton Studi Ricerche, Biblioteca Riccardo e Fernanda Pivano di Milano. 26


Edizioni East 128 Le ceramiche delle tenebre, di Ettore Sottsass, 1963 Brossura a fogli sciolti 27x21,5 cm 8 pagine + 1 tavola testo stampato su carta riciclata color carta da zucchero, tavola illustrata con una serigrafia a tre colori

The Geometric Poem, di Gregory Corso, 1966 Brossura muta 28x22 cm 46 pagine e 2 doppie ripiegate con ritratti fotografici scattati da Ettore Sottsass

Monday in the evening, di Philip Whalen, 1963 Brossura 28x22 cm 19 pagine + 2 tavole con ritratti fotografici scattati da Ettore Sottsass copertina serigrafica 309 esemplari

Le belle ragazze, di Fernanda Pivano e Ettore Sottsass, 1965 Brossura 28x21,4 cm 48 pagine 300 esemplari

Auguri per sempre, di Ettore Sottsass e Fernanda Pivano, 1963 Brossura 28x22,5 cm 40 pagine + 11 serigrafie a colori copertina tipografica 309 esemplari

Fernanda Pivano e Ettore Sottsass (abitanti in via Manzoni 14) 20121 Milano invocano..., 1967 Brossura a fogli sciolti 14x10,6 cm 16 pagine fascicolo interamente illustrato con disegni stampati in azzurro

Thirteen Mad Sonnets, di Michael Mc Clure, 1964 Brossura 28x22 cm 28 pagine + 2 doppie ripiegate con ritratti fotografici scattati da Ettore Sottsass copertina tipografica 315 esemplari

Notes from the Genetic Journal, di Stephen Levine, 1969 Brossura muta 28x21,5 cm 40 pagine 420 esemplari

Lui (Sottsass) e gli ornamenti per le donne, di Fernanda Pivano, 1964 Leporello a tre ante 28x21,3 cm

Smoking Grass Reverie, di Lawrence Ferlinghetti, 1968 Brossura muta 28x21,4 cm 38 pagine 420 esemplari

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Monday, in the evening, Philip Whalen 1963

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Auguri per sempre, testi di Fernanda Pivano, serigrafie di Ettore SOttsass 1963

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Thirteen Mad Sonnets, di Michael Mc Clure, 1964

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The Geometric Poeam, di Gregory Corso, 1966

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Fernanda Pivano e Ettore Sottsass (abitanti in via Manzoni 14) 20121 Milano, di Ettore Sottsass e Fernanda Pivano, 1967

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Smoking Grass Raverie, di Lawrence Ferlinghetti, 1968

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San Francisco Oracle Ron Thelin, Jay Thelin San Francisco, Calfornia 1966

tratto da Diari (1917-1973), Fernanda Pivano, Bompiani, 2008 pp. 1025-1026

nella pagina a fronte, una pagina del San Francisco Oracle #1

Al nostro ritorno dal viaggio incantato del marzo 1967 nelle Isole dei Mari del Sud avevamo trovato nella posta una copia del numero 7 del San Francisco Oracle uscito nel febbraio; altre tre copie spedite da varie città d’America all’inizio di maggio erano poi arrivate nel settembre, poco prima della notizia che, dopo aver stampato il dodicesimo numero, la rivista (fino ad allora più o meno mensile), aveva sospeso le pubblicazioni. Il San Francisco Psychedelic Oracle, poi abbreviato in San Francisco Oracle, era stato fondato da Ron e Jay Thelin nello spazio che era stato del loro Psychedelic Shop. L’esplosione grafica del San Francisco Oracle, in parte derivato dalla mostra dello Jugendstil allestita nel novembre 1965 alla University Art Gallery di Berkeley, in parte ispirato alla cultura orientale sempre più diffusa fra i giovani e sempre più convincente col suo misticismo purificatore, la sua calma rasserenante e la sua contemplazione liberatrice, era stata indimenticabile. L’Oracle era diventato il più tipico organo espressivo del momento e insieme aveva rivoluzionato la grafica contemporanea di tutto il mondo dei giovani. Attraverso l’esperienza psichedelica, che dà della realtà una nuova immagine quando distrugge il tradizionale mondo tridimensionale (mettendo in movimento oggetti sovrapposti, mescolati, intersecati o creando rapporti nuovi, per esempio quello del colore che diventa odore, dell’esterno che diventa interno, del liquido che diventa solido e in generale vivificando e concentrando l’intensità cromatica della visione), l’Oracle era riuscito a distruggere l’impostazione statica della tipografia rimasta quasi intatta da quando nel 1455 l’aveva inventata Johann Gutenberg, e aveva creato un giornale le cui pagine non erano più pagine tipografiche ma disegni, nei quali la composizione tipografica era soltanto un elemento del gioco. Nell’Oracle i caratteri dei titoli non erano di macchina ma disegnati, i testi non erano composti a blocchi ma si insinuavano nei disegni che a loro volta invadevano le pagine l’una accanto all’altra, il nero tradizionale era sostituito da colori sfumati: la rivista non era più soltanto un pacco di carta che trasferiva comunicazioni letterarie e politiche ma diventava un oggetto da 40


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guardare, un’immagine da vivere; insomma, come diceva Timothy Leary, diventava un trip. Tecnicamente questo era reso possibile, in una specie di contraddizione, dal favoloso perfezionamento delle macchine di stampa, per cui con costi minimi si potevano realizzare effetti inimmaginabili, resi obsoleti vent’anni dopo dalla diffusione dei computer, ma con la loro poeticità rimasta intatta. tratto da Diari (1917-1973), Fernanda Pivano, Bompiani, 2008 pp. 1113-1114

Lo Oracle era nato nel 1966 con la vaga promessa di essere quindicinale e l’invito a “udire la voce dell’oracolo”. Era il periodo della grande voga di Ken Kesey e di Timothy Leary, quando i pensieri di Allen Ginsberg si erano ormai realizzati in due generazioni passando dagli strati della cultura secessionista a quelli della sottocultura volontaria, voglio dire di studenti che si erano sottratti al monopolio universitario e al controllo della sua burocrazia rifiutandosi di continuare gli studi e creando una crisi che aveva condotto alle organizzazioni politiche di protesta. Sotto lo stimolo della cultura orientale sempre più diffusa e convincente col suo misticismo purificatore, la sua calma rasserenante e la sua contemplazione liberatrice i giovani avevano respinto i falsi idoli del denaro e del potere, del successo e della competizione e avevano cercato scampo nella creatività dall’alienazione che stava bloccando la società occidentale. In questo clima si era delineata la Haight Ashbury Street, la strada di San Francisco che aveva permesso a tanti cronisti di guadagnarsi qualche lira con articoli di colore e il cui punto di riferimento era un ex negozio di elettrodomestici dove erano accumulati oggetti via via sempre più impolverati come fornelli o stufe, e oggetti sempre più rappresentativi dello sforzo di decondizionamento: manifesti e collane di chicchi colorati, flauti e piume, indumenti orientali e africani, e naturalmente, la stampa underground. I giornali underground non erano ancora molti: diciamo che ce n’erano una decina. Ormai nei tre anni, da quando era nato il primo, erano diventati circa centocinquanta, già coordinati da un sindacato che regola alla meglio lo sfruttamento degli articoli, e tutti assieme costituivano una rete che i giornali dell’Establishment non potevano più ignorare, per esempio quando dovevano trovare notizie su fatti che avrebbero preferito dimenticare (come forse la dimostrazione di Chicago del 25-30 agosto 1968). Ma ai tempi dello Oracle la metodologia della contestazione non era violenta e si articolava soprattutto in forme creative che potessero ristabilire la perduta comunicazione: una volta al mese veniva affittata per qualche giorno una vecchia tettoia e i gruppi anonimi lavoravano in comunità a fare manifesti e giornali, finanziati per le poche lire che costavano da amici seminseriti. L’Oracle aveva tirato subito 150000 copie. Più o meno negli stessi mesi erano nati giornali studenteschi non psichedelici, 42


come il Los Angeles Free Press (che si era affermato con una precorritrice inchiesta sulla situazione razziale) e il Berkeley Barb entrambi legati alla Vecchia e Nuova Sinistra e ambientati in California. Ma nel 1967 le testate si erano moltiplicate fino a diventare un centinaio e erano passate anche all’Europa occidentale (molti conoscono IT e Oz, Pianeta Fresco, Witte Kraut, e ormai si era già costituito uno European Underground Sindacate). tratto da The Underground Press in America, Robert J. Glessing, Indiana Univ Press, 1970

Per comprendere come la rivoluzione grafica si evolse è necessario tracciare la diffusione della stampa offset nel 1966. Allora la riproduzione offset con i suoi numerosi ed economici centri di stampa e la composizione a freddo semplice da gestire, avevano reso la pubblicazione dei piccoli giornali finanziariamente accessibile per chiunque avesse poche centinaia di dollari e una causa politica o personale. Negli ultimi anni 40 o metà anni 50, un laureato in giornalismo o scienze politiche che voleva entrare nel buisness dei quotidiani come editore doveva solitamente sfogliare gli annunci in Publishers’ Auxiliary o Editor & Publisher per trovare una tipografia morente per 2000 o 3000 dollari. I finanziamenti bancari per le pubblicazioni emergenti erano molto limitate e un editore giovane e avventuroso doveva avere sostanziosi fondi liquidi, una manna dal cielo o uno zio molto ricco per poter dar via alla propria attività. Ci sono due essenziali differenze tra la tipografia a caldo e la composizione offset che si relazionano alla produzione della stampa underground. La prima è la relativa semplicità nell’apprendere le tecniche richieste per stampare un giornale in offset. La seconda è il relativamente ridotto investimento necessario per iniziare una produzione di una rivista realizzata in offset. Il San Francisco Oracle trasse vantaggio dalla colonna non giustificata o a bandiera facendo sì che il testo si mantenesse attorno le figure, i disegni e le illustrazioni psichedeliche. È interessante notare che pochi anni dopo che le riviste underground sperimentarono questo metodo, testate commerciali sofisticate come Vogue, Playboy e Cavalier iniziarono a impaginare i testi non giustificati, inbandierati a sinistra per ottenere un effetto artistico. Allan Cohen e il suo staff di poeti, artisti e profeti, volevano rendere il San Francisco Oracle “l’espressione grafica dei maggiori ideali dell’uomo: musica, arte, idee, profezie, poesia e l’espansione della coscienza attraverso l’uso delle droghe”. Graficamente, l’Oracle fu realmente un’esplosione di colori. La rivoluzione nella grafica della stampa underground appariva sempre più come un arcobaleno psichedelico.

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“Ogni pagina dell’Oracle è progettata prima di tutto come composizione. L’area della decorazione è affidata ad un’artista, mentre la prosa, o la poesia, va al tipografo, che le inserisce pazientemente con la Varitype all’interno del pattern disegnato. Il testo fluttua sulla pagina in bolle. Oppure esplode in fontane. I colori irradiano la pagina.... Se solo i quotidiani cittadini apparissero così, li avrei letti”. Ethel Romm “(le riviste psichedeliche) fanno sembrare un quotidiano normale, almeno per me, eccitante quanto le pagine dell’elenco telefonico”. Ethel Romm “Ogni giorno milioni di fogli di stampa grigia vengono diffusi dalle grandi testate di quotidiani americane. Ogni giorno questi fogli grigi sono recapitati nelle case americane, nelle menti americane. Ma dentro questo mare di grigio c’è un’esplosione di colori, la stampa underground”. Thorne Dryer

nelle pagine precedenti, una doppia pagina del San Francisco Oracle

La necessità è sempre la madre dell’invenzione e la maggior parte della grafica innovativa nella stampa underground deriva dalla mancanza di fondi. All’interno dell’editoria underground vigeva la legge non scritta secondo cui una rivista non poteva essere efficiente politicamente e fisicamente rassicurante allo stesso tempo. Il problema della libertà dalle considerazioni economiche era che solo le pubblicazioni indiscutibilmente ben fatte rimanevano nel mercato più di un anno o due. Molte non arrivavano neanche al secondo numero. Non tutte le pubblicazioni underground sono graficamente bilanciate o attraenti. Anzi, il contrario. La maggior parte delle riviste di questo genere erano come il Barb di Berkeley che è stato definito “il pù brutto giornale del mondo”. Pubblicazioni come il prestigioso Village Voice, l’aggressivo (dal punto di vista giornalistico) Los Angeles Free Press, o l’estremamente ben scritto Hard Times continuavano a comprimere la parola stampata ed erano graficamente poveri e carichi di testo come il New York Times. Altre riviste underground che non avevano nulla della brillantezza letteraria del Voice, Freep o Hard Times, si presentavano come se gli editori fossero sotto l’effetto di una droga scadente o di un alcohol trip nel momento in cui avevano preparato il materiale nella stampante. Errori di ortografia, numeri di pagina mancanti o posizionati in maniera sbagliata sono elementi comuni a molti dei giornali underground. Il fatto importante, comunque, non è che queste riviste erano graficamente brutte ma piuttosto che erano graficamente possibili. 46


Alcune testate underground The Village Voice Norman Mailer USA 1955

Oz, Martin Sharp, Austrialia/UK 1963

East Village Other Allan Katzman USA 1965

Witte Krant, Netherlands 1967

Berkeley Barb Max Scherr USA 1965

International Times, vari autori, UK 1966

Los Angeles Free Press Art Kunkin USA 1964

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Pianeta Fresco Ettore Sottssass, Fernanda Pivano, Allen Ginsberg Milano, Italia 1967

tratto da Diari (1917-1973), Fernanda Pivano, Bompiani, 2008 pp. 1026-1029

Quando il 12 settembre 1967 Ginsberg ci aveva fatto tirare gli I Ching per decidere se fare o non fare Pianeta Fresco, la sentenza diceva: “Il pozzo. Si cambi pure città, / ma non i può cambiare il pozzo. / Non cala e non cresce. / Essi vengono e vanno e attingono al pozzo. / Se si è quasi raggiunta l’acqua del pozzo, / ma non si è ancora ben giù con la corda. / Oppure se si infrange la brocca, questo reca sciagura”. Avevamo deciso di farlo, questo Pianeta Fresco, e Sottsass si era divertito a inventare una grafica indimenticabile. Era una grafica che si rifaceva a immagini eclettiche di civiltà figurative antiche e recenti legate ad avventure dello spirito (come quella indiana) o del preraffaellitismo o della magia o della favola o del sogno o della metafisica; tutto veniva mescolato senza quelle strutture portanti che nella stampa tradizionale sono determinate dalle esigenze di composizione tipografica per linotype o dal taglio dei blocchi dei clichés: le nuove possibilità dell’offset aprivano anche nuove possibilità alla creazione delle immagini. Tuttavia Pianeta Fresco era diverso dal San Francisco Oracle, perché anche nella grafica le origini mitteleuropee e la discendenza dai movimenti dell’avanguardia storica moderna non erano rinnegate del tutto, non fosse altro che perchè il materiale iconografico a disposizione era molto diverso da quello a disposizione in California nelle biblioteche e dagli antiquari che avevano alle spalle un’archeologia anglosassone e di fronte, al di là dell’oceano, memorie giapponesi e indiane. La rivista era uno shock grafico ma anche il contenuto non scherzava. C’era la poesia Whom to be kind to di Ginsberg, una delle sue più belle e allora ancora inedita, c’era il Prajna Paramita Heart Sutra in edizione giapponese, inglese e italiana (ci avevamo lavorato con Ginsberg per quasi un mese), c’era una serie di disegni con titoli struggenti di Sottsass, per esempio un cimitero di guerra con la scritta “Siano lodate le patrie, quelle sbagliate e anche quelle giuste” una pagina bianca con una goccia di sangue sotto la scritta “Buon Natale” e sopra il titolo “Una goccia di sangue di quelli che saranno ammazzati nelle guerre giuste e ingiuste del 1968”, l’etichetta “veleno” su un articolo intitolato “La civiltà razionale” che riportava le cifre di miliardi di dollari spesi 48


nelle guerre e c’era il Dialogo di Sausalito tra Alan Watts, Timothy Leary, Allen Ginsberg e Gary Snyder ricavato dal numero 7 del San Francisco Oracle. Su Pianeta Fresco il dialogo era stato pubblicato in due puntate ed era illustrato da composizioni e collages del Capo dei Giardini Ettore Sottsass, al quale si deve, al quale devo, la felicità di questi numeri di Pianeta Fresco. Alla fine di quell’anno 1967, il 17 dicembre eravamo andati in tipografia, alla Kosmos Press di viale Papiniano 36 di Giovanni Lana e Arcaini, a impaginare la rivista insieme ai ragazzi: giorni felici, ritornando giovane con loro, di corsa intorno ai tavoli ciascuno con una pagina maliarda da aggiungere ai fascicoli, in uno scompiglio che aveva creato non pochi problemi nella rilegatura delle più creativa rivista nata in quegli anni in Italia. I ragazzi intorno a quei tavoli erano i più intimi, Poppi (poi diventato docente universitario di scenografia), Graziella, Renzo, Roberto, Walter, cari, dolci, generosi compagni indimenticati. Avevamo messo insieme duecentosettantacinque copie, esaurite in poche ore, mentre Graziella con le treccioline alla Verushka le portava agli amici nella mia sporta di Bangkok offrendo un fiore di carta smagliante a chi ne comprava più di una copia e noi a casa guardavamo i mucchietti diminuire sempre più in fretta, finchè non ne sono rimasti più e mi è rimasta soltanto una copia, che ho fatto firmare ai ragazzi-autori: questo 1967 così ricco di idee e sogni, correi chiuderlo narcisisticamente proprio col nostro Pianeta Fresco. tratto da Underground italiano, (dal volume L’Oggetto libro 2000, edizioni Sylvestre Bonnard, Milano), Claudia Salaris

Dall’incontro fra giovani beat e intellettuali esperti delle realtà culturali americane nasce a Milano Pianeta Fresco di Fernanda Pivano e Ettore Sottsass, sotto l’ala protettrice di Allen Ginsberg. Rappresenta un esempio di miracoloso equilibrio tra spontaneità e raffinatezza, tra il colore controculturale italiano e i big della beat generation. È il primo giornale underground a porsi, con la sua proposta di comunicazione e decondizionamento culturale, anche il problema della composizione grafica e delle leggibilità ottica, optando per la libertà dalle tradizionali regole tipografiche. Non a caso un simile compito è svolto da un professionista del calibro di Sottsass, certamente influenzato dalle altissime prove già date da Jon Goodchild, l’impareggiabile art directori di Oz e del San Francisco Oracle, due picchi assoluti dell’inventività grafica underground, il quale, oltre ad infrangere le rigidità tipiche della stampa, ha rivoluzionato l’uso del colore, introducendo nelle sue pubblicazioni l’oro, il turchese, l’arancio, lo zafferano, il magenta con accostamenti e sovrapposizioni sorprendenti che tendono a creare vere e proprie vibrazioni cromatiche. Il primo numero di Pianeta Fresco (dicembre 1967) ha la copertine muta in carta rossa lucida e si apre con alcune pagine su cui sono 49


riprodotti motivi floreali del tipo carte da parati, una scelta che ricorda certe pubblicazioni sul futurismo russo, come il Tango con le mucche di Vasilij Kamenskij (Mosca 1914). Il testo è stampato in vari colori, secondo il suggerimento marinettiano di utilizzare diversi inchiostri, che per altro trova un’applicazione ne La prose de le Transsiberien (1913) di Blaise Cendrars. Ricorrente è l’utilizzazione di cornice in stile art noveau, assai rivisitato nell’underground. Ai disegni si alternano fotocollage colorati. La lettura non procede a senso unico, da sinistra a destra, dall’alto in basso, ma si dipana a sorpresa, costringendo il lettore al gesto interattivo di rigirare il fascicolo più volte tra le mani, come avveniva per Zang Tumb Tuuum di F.T. Marinetti (1914). Leggere non è più un atto passivo, ma diventa azione, scoperta, gioco. Pianeta Fresco trae ispirazione immediata dal San Francisco Oracle, la cui grafica è una riuscitissima mescolanza di reminescenze indiane, psichedelia californiana, visioni simboliste, contaminazioni pop, un incrocio tra Oriente e Occidente, incursioni multimediali e allusioni metafisiche. La sterzata indiano-psichedelica si evidenzia nella grafica e nei testi del secondo fascicolo di Pianeta Fresco (1968), destinato a non avere seguito, anche per la crisi che investe il mondo beat con il sopravvenuto clima di iperpoliticizzazione.

le immagini che seguono sono ricavate dal sito http:// pianetafresco.blogspot.it (aggiornato al febbraio 2013) 50


Pianeta fresco #1 1967 Brossura Copertina psichedelica a colori, volume interamente illustrato con testi, disegni, fotografie e fotomontaggi a colori. 28x21,5 cm 120 pagine #2/3 1968 Brossura Copertina psichedelica a colori, volume interamente illustrato con testi, disegni, fotografie e fotomontaggi a colori. 28x21,5 cm 162 pagine 275 esemplari

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#1 1967

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#1 1967

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#2/3 1968

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#2/3 1968

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Mondo Beat (e dintorni) l’Underground in Italia prima del 1968

tratto da Underground italiano, (dal volume L’Oggetto libro 2000, edizioni Sylvestre Bonnard, Milano), Claudia Salaris

Nati per contestare delle cose e delle idee, i fogli della controcultura hanno indubbiamente segnato un’epoca, costituendo un paragrafo a sé nella storia della rivoluzione tipografica. Figlia della cultura di massa e dell’era industriale avanzata, la controcultura si manifesta con un carattere internazionale nei paesi più sviluppati: in America e in Inghilterra con le suggestioni della beat generation e della musica rock, in Francia dove si evidenzia la componente artistico-politica del situazionismo, in Olanda con i provos. Ma il fenomeno beat costituisce anche in Italia la prima forma di contestazione con le manifestazioni per la pace, l’obiezione di coscienza, la difesa dei diritti civili, l’emancipazione sessuale. Lo scenario globale è quello del dopo Hiroshima, che vede il mondo vivere nell’incubo della catastrofe atomica amplificato dall’irrigidimento della guerra fredda. Orizzonte cupo, a cui la controcultura internazionale reagisce, come scrive Richard Neville in Play Power, accettando la “politica come gioco ovvero come fottere il sistema, il rock come il quotidiano in un futuro cibernetico”. Neville disegna i lineamenti d’una rivoluzione radicale, non solo materiale, ma soprattutto culturale, dello stile, dei linguaggi e della percezione, sullo sfondo dei primi segnali della mutazione informatica. L’automazione sta cambiando la produzione e al tempo stesso l’esistenza. Macchine d’ogni genere entrano nella vita di tutti, provocando mutamenti nelle abitudini e nella psicologia. Per la prima volta nella storia una generazione è cresciuta davanti allo schermo televisivo, traendone le prime nozioni e imparando solo in un secondo momento a leggere e scrivere. La televisione stimola l’elemento visivo, educando alla velocità e alla simultaneità. Forse per questo - osserva Marshall McLuhan - i ragazzi nati nell’era televisiva sono portati naturalmente verso l’azione, il movimento, la vita in branco. Per i giovani degli anni Sessanta la cultura della comunicazione assume in effetti un ruolo cruciale. Lo dimostrano le lotte degli hippy o degli studenti contro il potere dell’informazione, l’uso beffardo e ironico dei mass media fatto dai situazionisti e dai provos. In Italia, dalla metà degli anni Sessanta col fenomeno dei primi capelloni, già si registra la nascita di nuclei che si muovono sul 60


terreno della comunicazione e spesso producono giornaletti dove l’impegno pacifista si intreccia all’interesse per la poesia beat, la musica e quelle sostanze che possono modificare le strutture psichiche e percettive. La critica al mondo dei padri comporta il rifiuto della sinistra ufficiale, considerata ormai integrata e asservita al sistema. Comunque si tratta quasi sempre di una protesta non violenta, allegra, straniante, come documenta anche quel brano parodistico, pubblicato da Mondo Beat, che mima il linguaggio di Carosello, dove leggiamo che “una frizione mattutina di Neo-Marxismo complex: rivitalizza gli uomini - li nutre alla radice - ne favorisce la sana crescita… e li tiene integrati tutto il dì”. Una tecnica di rovesciamento, in cui i situazionisti sono maestri, che ritroviamo anche in certi slogan ironici, basati su giochi di parole (“L’amore everte, l’astinenza perverte”, “Viva gli eserciti che non esercitano”). Se ne fa portavoce per primo il foglio milanese Mondo Beat (1966-67), che tra l’altro organizza un campeggio di capelloni, battezzato dalla stampa conservatrice “nuova barbonia”, ottenendo però l’appoggio di Giangiacomo Feltrinelli, che con le sue librerie diventa una sponda per tutte queste nuove realtà, tra libri a basso costo, collane mirate e vendita di bottoni, gadget. A Mondo Beat collaborano i ragazzi dell’Onda Verde, che organizzano manifestazioni-spettacoli sulla scia di certe dimostrazioni americane, a loro volta ispirate dagli happening artistici di Allan Kaprow: stazionano al centro di Milano con cartelli che dicono: “Correte a casa, fra poco c’è Carosello”, “Amico, la guerra è un buon affare: investi tuo figlio”, “Il presidente Johnson vi invita a una vacanza gratuita nel Vietnam. Emozioni garantite”. Diffondono un volantino invitando la popolazione a fare attenzione ad aprire le uova di Pasqua, poichè alcune, destinate al Vietnam, contengono del Napalm. Ne apprezza la capacità di navigare nel mondo delle comunicazioni Umberto Eco sull’Esperienza, dove tiene una rubrica che ha come logo il simbolo della pace: “[...] questi giovani che ‘si impegnano’ (ed è impegno anche questa proposta di alternativa all’impegno politico propriamente detto) sono gli stessi cresciuti davanti agli schermi dei televisori, nutriti sulle strisce dei fumetti, imbottiti di comunicazioni visive a scapito della pagina stampata, sedotti giovanissimi dagli slogan pubblicitari, assordati dalla radio e dai grammofoni, immersi in un bagno di comunicazione indistinta che - a detta degli esperti doveva renderli insensibili ai valori, ottusi alle distinzioni, negati al discernimento tra la Moda e la Verità [...]. Chiamati in giudizio, giorno per giorno, quali corresponsabili di un mondo che sfila sotto i loro occhi, i nostri contemporanei reagirebbero così in due 61


modi: alcuni non riescono a decifrarlo, e chiudono gli occhi di fronte al caos, riponendo ogni speranza nell’uomo interiore; altri ‘sanno leggerlo’, come pare sappiamo fare i più giovani: ed elaborano una loro risposta”. La conoscenza della controcultura d’oltreoceano si va diffondendo tra i giovani anche grazie a pubblicazioni come Poesia degli ultimi americani, l’antologia curata da Fernanda Pivano per Feltrinelli nel 1964, lo stesso anno in cui a Berkeley in California esplode la prima rivolta studentesca con il Free Speech Movement (Movimento per la libertà di parola). Va però detto che i primi giornaletti beat italiani - Mondo Beat (1966-67), Urlo Beat (1967), Grido Beat (1967), Urlo e Grido Beat (1967), Mai (1968), Voce Beat (Cinisello Balsamo 1968), E noi la pensiamo così... e via (Lucca 1967), Esperienza 2 (Lucca 1967) ecc. - graficamente sono piuttosto modesti, privi di quel forte impatto visivo che caratterizza invece i fogli underground angloamericani. Questi ultimi infatti sono spinti dalla penuria di mezzi a scovare soluzioni più libere e fantasiose. L’impossibilità di utilizzare tipografie grandi e attrezzate fa sì che le colonne dai margini non allineati — quelle che i tipografi chiamano a bandiera — costituiscano una piacevole alternativa al rigido stile giornalistico, mediante l’abbandono delle colonne fisse, delle gabbie e della fusione dei titoli col testo. Queste libertà si riallacciano più o meno consapevolmente alla rivoluzione tipografica inaugurata dai futuristi e da questi trasmessa ai dadaisti, che, utilizzando le tecniche per la produzione di massa, concepivano il giornale proprio come un quadro, un oggetto visivo. Ma a fianco delle sperimentazioni che possono risentire l’eco delle vecchie avanguardie (per esempio: l’abolizione della simmetria, l’uso del fotocollage), i maggiori giornali underground americani e inglesi tendono ad essere vivacemente cromatici: al nero si sostituiscono le tinte psichedeliche (dall’oro al verde brillante, dal rosa schoching al blu elettrico) e frequente è l’inchiostratura arcobaleno, ottenuta con una distribuzione volutamente casuale dei colori nelle macchine offset. La stampa diventa così uno strumento flessibile, ideale per far udire la propria voce, per diffondere un pensiero stridente, irriducibile, che non troverebbe una sponda nelle istituzioni culturali date. Per quanto riguarda invece la controcultura italiana, un certo gusto grafico nell’uso dadaista del collage si può rintracciare nella rivistina degli studenti milanesi S (che sta per situazionismo), dove ironia e gioco sono proposti quali strumenti d’intervento politico. I giovanissimi redattori chiamano la loro azione decultura: per esempio analizzano e smontano un discorso dell’onorevole Aldo Moro, rivelandone significati che a una prima lettura sfuggono. Oppure promuovono una campagna 62


contro il ‘lurido grembiulone nero’, ancora imposto alle ragazze proprio mentre giunge da Londra la moda della minigonna, che rivoluziona immagine e comportamento femminili. Nell’immediata vigilia del ‘68 gli essisti approdano alla consapevolezza di dover creare delle strutture di contropotere studentesco, ma criticano chi resta vittima dell’ideologia e del mito operaio. tratto da http://www.musicaos. it/interventi/2005/120_beat_ astremo.htm (aggiornato al 11/02/2013)

Il primo esempio di stampa underground in Italia fu rappresentato dalla rivista Mondo Beat, il cui primo numero uscì nel novembre 1966. Quel primo numero fu scritto, quasi tutto, da Renzo Freschi, uno studente che sarebbe diventato una Guardia Rossa, in attesa di organizzare un fiorente commercio di oggetti orientali in un negozio di Milano : la collaborazione intensa a Mondo Beat lo portò a prendere parte ad alcuni processi per oltraggio. Mondo Beat era diretto da Vittorio di Russo, eroe dell’underground milanese. La stampa dell’Establishment lo definiva pittoresco; era aggressivo, straripante, ma un galantuomo onesto e schietto, che, finita la vague dell’underground, riprese la sua attività di pittore e, quando si sposò ed ebbe un figlio, si adattò a fare l’imbianchino. Per il primo numero di Mondo Beat la Pivano venne invitata a scrivere l’articolo di fondo che non venne accettato ancora prima che lei l’avesse fatto, nell’insopportabile ipotesi che lo facesse ‘paternalistico’ e non in linea con la loro ‘ideologia’. In realtà, scrive la Pivano : “La mia vita con questo tipo di sottocultura (che in verità era sottoproletariato) d’Italia non fu certo facile e non si dovrebbe fare molta fatica a capire perché non fosse facile; non credo neanche il caso di cercare giustificazioni o analisi più o meno sociologiche o sofisticate, dato che io non venivo dal sottoproletariato, non appartenevo alla sottocultura e soprattutto non ho mai cercato di travestirmi da sottoproletaria o da proletaria o da sottocolta. In fondo anche i miei entusiasmi o quelli che furono chiamati i miei fanatismi non erano né per le persone che stavano davanti a me né per quello che mi poteva succedere intorno ma per quello che persone ed eventi, parole e canzoni, costumi e fallimenti potevano significare nel presente e nel futuro, culturalmente (voglio dire politicamente e sociologicamente) oltre che esistenzialmente. E il mio lavoro non consisteva nel dar manate sulle spalle, neanche nel far fumate di hashish o scopate in tenda, ma consisteva nel capire e trasmettere (quando ne ero capace) i significati politici e sociologici, le speranze e anche le delusioni e i disastri esistenziali delle energie generazionali che mi circondavano. Ma lo scarto tra hardware e software, che oggi si chiamerebbe tra prassi e teoria, non c’è dubbio, è sempre stato molto faticoso, pericoloso, e difficile da riempire. Continua ad esserlo ancora adesso e mi 63


tocca vivere in questo scarto cercando in permanenza equilibri molto sottili, relazioni molto sotterranee, comunicazioni molto esoteriche. Il mio hardware, la mia immagine di intellettuale borghese, riusciva quasi insopportabile ai ragazzi che pagavano così caro per averne una ‘liberata’; ma il mio software, la mia speranza e la mia fiducia in un mondo liberato, era così incalzante che alla fine ci ritrovammo tutti abbracciati contro ‘gli altri’, quelli che non avevano dicotomie tra software e hardware nella loro solida esistenza, quelli che le dicotomie le avevano annullate nell’accettazione di tutte le condizioni imposte dai grandi giochi dell’Establishment”. tratto da L’orda d’oro, Nanni Balestrini, Primo Moroni, Feltrinelli 2008

le immagini che seguono sono ricavate dai siti http://www. vafusex.com/it/mondo-beat/ mondo-beat-15-marzo-1967.html, http://www.nelvento.net (aggiornato al febbraio 2013)

Molte delle tematiche della cultura underground sono tendenzialmente una componente radicata delle cutlure giovanili (si pensi alla cultura punk, all’uso degli spazi sociali urbani), ma hanno anche profondamente influenzato e contribuito a consolidare la pratica della critica alle ‘istituzioni totali’, la ribellione contro l’autoritarismo, il rifiuto della mercificazione del quotidiano, l’eccesso di ideologizzazione settaria dei gruppetti stalinisti. Nel periodo che precede il ’68 i beathippies si troveranno spesso fianco a fianco nelle lotte del nascente movimento studentesco (soprattutto per ciò che riguarda gli studenti medi) contribuendo a complessificare le dinamiche esistenziali di rifiuto dell’‘autoritarismo’ che andavano formandosi. La loro scelta di condurre una vita ‘provocatoria’ e separata dal sistema dominante non poteva non esercitare un fascino profondo nell’area del malessere giovanile. Il loro modello di vita utopico e comunitario che ipotizzava nello sperimentare vari e complessi modelli di vita in comune, la possibilità di ottenere in anticipo sezioni di una possibile e diversa società futura, costringeva a confrontare in modo radicale la ‘miseria del vissuto quotidiano’ e delle piccole rivendicazioni con il bisogno di separatezza dai poteri e la necessità di una nuova cultura. ‘Hip’ significa ‘esperto’ ‘in gamba’. Gli hippies americani lo avevano ripreso dal gergo dei musicisti neri di jazz. “Il termine racchiudeva l’esperienza negra del carattere oppressivo della società bianca, e insieme esprimere la volontà di lottare, come esistenza ai margini del sistema, contro la repressione in atto: io sono più in gamba e finirò con l’avere la meglio. Gli hippies lo fecero proprio e si ritirarono dal sistema”. Ma la scelta di dare vita a una ‘controsocietà’ e di produrre di conseguenza una ‘controcultura’ si incrocia profondamente anche con l’esigenza degli studenti medi e universitari impegnati nella contestazione dei contenuti borghesi del sapere e dei valori dominanti della società del capitale. Da questa affinità elettiva di fatto, pur nella parziale separatezza dei percorsi, nascono in continuazione immaginari comuni e percorsi di 64


identificazione. Se in Italia l’arretratezza del quadro intellettuale ufficiale non avvertiva l’importanza di questa sostanziale alleanza tra l’area del rifiuto e quella della contestazione nel resto del mondo la questione era molto più chiara. Hal Draper nella sua interpretazione della rivolta di Berkeley parla di un ‘underground’ che si è stabilito negli Stati Uniti come una specie di controsocietà, Rudy Dutschke (leader degli studenti tedeschi) vuole che “il campo antiautoritario diventi sempre più grande cominciando a darsi una organizzazione, a trovare forme di vita proprie in comune” (Der Spiegel, 1967) e i situazionisti francesi già nel 1966 parlano “de la misère en milieu ètudiant” con l’obiettivo di forzare verso scelte esistenziali più radicali. Nel breve arco di tempo che va dal 1964 agli inizi del 1968 i beathippies sono diffusi in tutta Europea (da una ricerca del 1967 si ricava che sono: 1200 in Svizzera, 2500 in Austria, 3000 in Belgio, 6000 nella Germania occidentale, 7000 in Italia, 18000 in Inghilterra, 20000 in Olanda, 26000 in Francia, 30000 negli stati scandinavi) e nella frequente intersecazione con la ribellione studentesca rappresentano il primo movimento comunista organizzato. Mentre negli Stati Uniti una qualsiasi separazione tra movimento hippie e rivolta studentesca è senz’altro arbitraria, in Italia la rottura avviene rapidamente nel corso del ‘68 ed è il risultato della forte politicizzazione ideologica, sia del ‘ceto politico’ che si va formando nelle università sia dalla gigantesca offensiva operaia. Troppo profonda e complessa era la cultura politica italiana per lasciare ‘spazio’ ad altre forme di rivolta. Poteva, come in effetti è avvenuto, produrre una dura diaspora rivoluzionaria (ml, operaisti, anarco-consiliari, ecc.), ma in quella fase lasciava poco spazio al proseguimento di una rivolta esistenziali che per altri sentieri della storia sarebbe continuamente riemersa negli anni successivi attraverso la pratica delle donne, nell’area della ‘critica radicale’, in quella dell’ ‘autonomia diffusa’ e del movimento del ’77. L’area dell’underground proseguirà, come corrente parallela, una propria strada di ricerca (per esempio con il giornale Re Nudo almeno fino al 1976), ma al suo interno, e ancora prima del ’68, si era già formata una scissione di notevole complessità che faceva riferimento all’esperienza dei situazionisti francesi. […] qui occorre osservare che dopo la sostanziale conclusione dell’esperienza di Mondo Beat o a cavallo con quella, molti dei membri dei primitivi gruppi underground, come ad esempio Onda Verde, avevano dichiarato la morte del movimento beatprovo elaborando il progetto della rivista S (Situazionismo) con l’obiettivo di dare vita a “un solo settimanale per gli studenti di tutte le scuole, che pesa perchè pesa sempre di più l’insieme dei giovani tediati da ciò che continua indisturbato a invecchiare” e dove si dichiara: “S è un metodo; il situazionismo non è un’ideologia; elabora metodi e la loro consapevolezza, lo scopo si 65


determina di situazione in situazione”. Certamente in S (che viene diffuso in migliaia di copie) non c’è ancora la complessità che caratterizzerà le successive pubblicazioni dell’area della ‘critica radicale’ situazionista, ma è chiaro il tentativo di passare dall’area del rifiuto a quella della critica ironica e distruttiva. […] Con l’esperienza del giornale S compare in Italia o perlomeno diventa di uso abbastanza comune il termine ‘situazionista’. In realtà questa corrente culturale rivoluzionaria esisteva in Francia sin dal 1958. Inizialmente legata a correnti di avanguardia artistiche e letterarie come il lettrismo, il surrealismo e il dadaismo, incrocia il suo percorso con l’esperienza di Socialisme ou Barbarie dentro la riflessione sulle vicende del consiliarismo tedesco, del comunismo di sinistra (Linkskommunismus) e dei comunisti libertari. […] In realtà l’Internazionale situazionista era stata creata in Italia a Cosio d’Arroscia (Cuneo) nel 1957. In quell’occasione sono presenti: Pinot Gallizio, Asgen Jorn, Piero Sismondo, Elena Verrone, Walter Olmo del Movimento internazionale per una Bauhaus immaginista, Guy Debord e Michele Bernstein dell’Internazionale lettrista e Rulph Rumney del Comitato psicogeografico di Londra. Il documento programmatico è stato scritto da Guy Debord (che diventerà uno dei principali riferimenti dell’Is) ed è particolarmente centrato sulla necessità di “costruire situazioni” all’interno delle quali operare in una prima fase il superamento dell’arte per poi porsi in termini più complessivi nei confronti della critica del vissuto quotidiano. […] Intorno al 1967 escono quasi contemporaneamente il Traité de savoir vivre à l’usage des jeunes générations di Raoul Vaneigem e La société du Spectacle di Guy Debord. Questi testi, insieme alla rivista Internazionale situazionista che uscirà fino al 1969, hanno un immediato riscontro dentro il clima di insubordinazione che porterà al Maggio.

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Underground in Italia Mondo Beat, Milano, 1966

Urlo Beat, Milano, 1967

Internazionale Situazionista, Milano, 1969

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Mondo Beat #2, pg.1/2

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Mondo Beat #2, pg.6/7

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Internazionale Situazionista #1, pg. 12/13

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Internazionale Situazionista #1, pg.143/144

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Ettore Sottsass (1917-2007)

Figura eclettica e poliedrica, difficilmente inquadrabile secondo i canoni di un’estetica, più e più volte messa in discussione, in sessant’anni di carriera Ettore Sottsass è stato designer, architetto, urbanista, pittore, viaggiatore, fotografo. La sua ricerca artistica, etica ed esistenziale, l’ha portato a contatto col Razionalismo, il Movimento Arte Concreta, lo Spazialismo, la cultura Pop. Architetto e designer, nasce a Innsbruck nel 1917. Laureato in architettura al Politecnico di Torino nel 1939, inizia la sua attività a Milano, dove nel 1947 apre un proprio studio di design, campo nel quale opera, quasi esclusivamente, dal 1958. In questi anni inizia la sua collaborazione con la Olivetti (con quattro macchine da scrivere Olivetti ottiene il Compasso d’oro nel 1970), per la quale, nel 1972, progetta un sistema di mobili e di attrezzature per uffici, funzionalmente correlato all’uso delle varie macchine esistenti. Artista di molteplici interessi, svolge la sua ricerca e le sue esperienze in campi diversi dell’espressione. Pittore, fa parte del MAC (Movimento Arte Concreta), partecipando nel 1948 alla prima rassegna collettiva a Milano. Nello stesso anno è tra i promotori della mostra tenuta a Roma sull’Arte astratta in Italia; quindi, aderisce allo Spazialismo. Attivo nel settore della ceramica, dello smalto su rame, del gioiello, del vetro, nel 1975 ha disegna originali forme di vetro colorato, eseguite, in limitata tiratura, dalla vetreria muranese Vistosi (per Artemide). È soprattutto nella progettazione dei mobili che la forza innovativa dell’ingegno di Sottsass non conosce ostacoli, facendo dell’architetto una figura centrale del design internazionale. In anticipo sugli anni della contestazione, egli aveva indicato il design come strumento di critica sociale, aprendo la via alla grande stagione del radical design (1966/1972) e all’affermazione della necessità di una nuova estetica: più etica, sociale, politica. Deluso da un’industria sempre più vorace, Sottsass programma l’unione delle coeve suggestioni avanguardiste, Pop, poveriste e concettuali, con l’dea di un design ‘rasserenante’, sostenitore di un consumismo alternativo a quello imposto dalla ‘società della pubblicità’. Quindi Sottsass passa all’esperienza del gruppo Alchimia, che concretizza il lavoro ideologico e progettuale svolto negli anni del radical design: un’alchimia di for-

http://www.archimagazine.com/sottsass. htm (aggiornato al 11/02/2013)

ma, colori, materiali che sconvolge i canoni estetici e il modo di concepire il design contro l’ornamento. Tra i mobili presentati nella prima mostra del gruppo, al Design Forum di Linz, nel 1979, si ricordano: la Seggiolina da pranzo (in ferro cromato e laminato Abet Print), la lampada da terra Svincolo (con neon rosa e azzurro), il tavolino Le strutture tremano (in legno, laminato, metallo smaltato e cristallo). E ancora l’esperienza straordinaria di Memphis, gruppo che Sottsass fonda con Hans Hollein, Arata Isozaky, Andrea Branzi, Michele de Lucchi ed altri architetti di caratura internazionale che cambiano il volto del mobile contemporaneo. E’ il caso della sottsassiana Carlton, una libreria che si pone a metà strada tra un totem e un video game. Una “risposta ludica alla necessità di avere forme solide e godibili: un modo per raccordare, non senza ironia, il sacro e il profano, la storia e l’attualità, l’archetipo e le sue manifestazioni”. Questi mobili - Beverly, Casablanca, ecc disegnati tra il 1981 e il 1985 sono tra i suoi progetti più noti, vere icone della modernità. L’attività successiva di Sottsass è rivolta esclusivamente alla collaborazione con Gallerie d’Arte ed ormai lontana dalle problematiche dell’industrial design contemporaneo; esempi sono i mobili realizzati per la Galleria Blum Helman di New York e per la Galleria Mourmans. L’attività di Ettore Sottsass architetto va dai primi lavori in collaborazione con il padre agli inizia degli anni Cinquanta, al periodo dell’architettura radicale - momento di forte critica nei confronti del contesto culturale contemporaneo, in cui il progetto di architettura tradizionale viene sostituito da progetti concettuali e utopici, dalla forte carica ironica - sino ai progetti realizzati con lo studio Sottsass e Associati e a quelli attualmente in corso. Quella di Sottsass è un’architettura disegnata attorno all’uomo: una creatività e una progettazione antropocentrica - pensiamo a Casa Wolf, Casa Olabuenaga, Casa Cei, Casa Bischofberger, Il Museo dell’Arredo Contemporaneo a Ravenna, Casa degli Uccelli, ecc. - tesa a stabilire un contatto organico tra la natura e la costruzione, seguendo un’ideale di saggezza contadina ed interpretando i dettami del genius loci. “Sottsass - scrive Hollein - è un maestro del non quantificabile nell’ar77

chitettura”. “Per Sottsass i passaggi tra le espressioni artistiche sono fluidi, non esistono linee di demarcazione tra scultura, pittura, architettura e design: Sottsass ha da tempo superato questi confini”. Insomma, un maestro dalla straordinaria, ironica, fresca creatività, che continua a stupire. “…La mia opinione è che, invece, il problema non sia quello di avvicinarsi al ‘buon design’ ma di fare design, di avvicinarsi il più possibile a uno stato antropologico delle cose, il quale, a sua volta, deve essere il più vicino possibile al bisogno che la società ha di un’immagine di se stessa. Se è vero che viviamo in una società che programma obsolescenza, l’unico design possibile che duri, è quello che ha a che fare con l’obsolescenza, un design che le si adatti, magari accelerandola, magari confrontandola, magari ironizzandola, magari andandoci d’accordo. L’unico design che non dura è quello che in una società che programma l’obsolescenza, cerca invece il metafisico, cerca l’assoluto, l’eternità. E poi, non capisco perché il design che dura debba essere migliore del design che scompare. Non capisco perché le pietre debbano essere migliori delle piume di un uccello del paradiso. Non capisco perché le piramidi siano migliori delle capanne di paglia birmane. Non capisco perché i discorsi del presidente siano migliori delle parole d’amore sussurrate di notte in una stanza. Da giovane ho raccolto informazioni solo da riviste di moda o da civiltà molto antiche, dimenticate, distrutte, polverose. Ho raccolto informazioni o da quelle zone in cui la vita stava germogliando appena, oppure dalla nostalgia per la vita, ma mai dalle istituzioni, mai dalla solidità, mai dalla realtà, mai dalle cristallizzazioni, mai dalle ibernazioni. Per me, l’obsolescenza è lo zucchero della vita. Per me, il design è un modo di discutere la vita. È un modo di discutere la società, la politica, l’erotismo, il cibo e persino il design. Infine, è un modo di costruire, una possibile utopia figurativa o di costruire una metafora della vita. Certo, per me il design non è limitato dalla necessità di dare più o meno forma a uno stupido prodotto destinato a un’industria più o meno sofisticata; per cui, se devi insegnare qualcosa sul design, devi insegnare prima di tutto qualcosa sulla vita e devi insistere anche spiegando che la tecnologia è una delle metafore della vita”.


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Fernanda Pivano (1917-2009)

Addio a Fernanda Pivano, voce italiana della nuova America Con le sue traduzioni ci ha fatto conoscere gli autori americani del ‘900, da Edgar Lee Masters a Hemingway, dalla beat generation a Dylan. Aveva 92 anni MILANO - È morta all’età di 92 anni la scrittrice e giornalista Fernanda Pivano. A lei, nata a Genova nel 1917 ma trasferitasi presto a Torino con la famiglia, si deve la conoscenza in Italia dei grandi autori della letteratura americana. Da Edgar Lee Masters a Hemingway, dai poeti e gli scrittori della «beat generation» a Bob Dylan, i più grandi e rappresentativi autori della nuova America sono stati portati ai lettori italiani dalla sua capacità di interpretare, capire, raccontare e descrivere un mondo ancora sconosciuto al pubblico italiano. Di quasi tutti questi autori, Fernanda Pivano è diventata amica e confidente, riuscendo a trasferire nelle versioni italiane delle loro opere, lo spirito più vicino possibile a quello dell’originale. Scrittrice e anche giornalista, è stata a lungo collaboratrice del Corriere della Sera, cui ha regalato interventi e scritti di grande. Il suo ultimo testo scritto per il Corriere in occasione del suo 92 esimo compleanno, il 18 luglio scorso, era una nostalgica ma anche serena riflessione sulla vecchiaia con tanti ricordi degli scrittori conosciuti nella sua vita. La Pivano si è spenta martedì sera in una clinica privata di Milano, dove era ricoverata da tempo. I funerali si svolgeranno probabilmente venerdì prossimo, a Genova. «È stata una protagonista della cultura italiana» ha scritto il capo dello Stato Giorgio Napolitano in un messaggio di cordoglio alla famiglia. DALL’ANTOLOGIA DI SPOON RIVER AL PRIMO VIAGGIO NEGLI STATES - La prima parziale traduzione della Pivano della Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters (per Einaudi) risale al 1943. Cinque anni dopo l’incontro a Cortina con Ernest Hemingway, cui la Pivano resterà legata a vita da un rapporto umano e professionale a un tempo. Negli anni seguenti infatti la scrittrice curerà la traduzione dell’intera opera di Hemingway, intensificando l’amicizia con lo scrittore americano. Nel 1949 sposa Ettore Sottsass jr, autore delle foto più belle di tanti viaggi indimenticabili e incontri con gli scrittori beat Allen Ginsberg, Jack

http://www.corriere.it/cultura/09_agosto_18/pivano_morte_7c20f61e-8c19-11dea273-00144f02aabc.shtml (aggiornato al 11/02/2013)

Kerouac e Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Neal Cassidy. Ciò che nella letteratura americana la attrae di più, rispetto a quella europea, è la “vecchia, tradizionale differenza fra letteratura pragmatistica e letteratura accademica, fra i fatti della vita e una letteratura libresca basata su indagini psicologiche”. Così diceva: “Mi hanno attaccata per non aver mai valutato i libri, ma io mi sono limitata ad amarli, non a valutarli: questo lavoro lo lascio ai professori”. Nei sei anni che vanno dal 1949 al 1954 la Pivano si dedica alla traduzione dei principali libri di Francis Scott Fitzgerald (da Tenera è la notte a Il grande Gatsby). Il 1956 è l’anno del primo viaggio negli States. BOB DYLAN E CHARLES BUKOWSKI - Non solo letteratura,però. La Pivano infatti, che nel 1959 scrive la prefazione a Sulla strada di Jack Kerouac, cura nel 1972 l’introduzione alla prima raccolta di testi e traduzioni italiane di Bob Dylan Blues ballate e canzoni. All’inizio degli anni Ottanta esce la sua intervista a Charles Bukowski (Quello che mi importa è grattarmi sotto le ascelle). La lista degli scrittori americani contemporanei che abbiamo imparato a conoscere grazie al suo contributo è lunga: ci sono gli autori del “dissenso negro”, come Richard Wright, e quelli del dissenso non violento degli anni Sessanta (Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs, Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti) fino a giovani autori come Jay McInerney, Bret Easton Ellis, David Foster Wallace, Chuck Palahniuk e Jonathan Safran Foer, passando appunto da Charles Bukowski e senza dimenticare la sua amicizia con Hemingway. DE ANDRÈ - Nel 1995 la Pivano pubblica la raccolta di saggi Amici scrittori. Bisognerà aspettare ancora sette anni per leggere uno scritto su Fabrizio De Andrè pubblicato all’interno del volume De Andrè il corsaro assieme a Michele Serra e a Cesare G. Romana. Diplomata al decimo anno di conservatorio, pianista, la Pivano (che è stata amica di molti musicisti: Bob Dylan, Lou Reed, Jovanotti) instaura proprio con De Andrè un rapporto speciale (lei considerava lui enfaticamente e con affetto il più grande poeta italiano del secolo e gli ha dedicato un testo che ha il titolo di una canzone del cantautore, La guerra di Piero, con interprete Judith Malina). Nel 2005 raccoglie tutti i suoi testi di letteratura, più di 1.500 pagine, in Pagine americane: nar79

rativa e poesia 1943 - 2005 da Frassinelli. Nel 2008 arrivano in libreria i suoi Diari 1917 - 1971, prima parte della sua autobiografia (Bompiani). L’AUTOBIOGRAFIA SUL SITO - Nell’autobiografia sul sito ufficiale di Fernanda Pivano si legge: “Quando negli anni ‘50 Fernanda Pivano si reca per la prima volta negli Stati Uniti è una giovane studiosa innamorata dell’America di quegli anni e desiderosa di incontrare dal vivo, sul campo, i maestri di una narrativa che in Italia si era appena cominciato a conoscere, grazie a Cesare Pavese ed Elio Vittorini. Immediatamente scopre un mondo, di sogni, ideali, valori, che non si stancherà più di celebrare: dal pacifismo di Norman Mailer, maestro riconosciuto della narrativa americana, amato e contemporaneamente odiato dalla beat generation degli anni sessanta, che a lui e al suo antiimperialismo si rifece, all’esempio di inesausta sete di nuovo e di autenticità del mito vivente Ernest Hemingway. Dai guru della beat generation Ginsberg, Kerouac, Corso, Ferlinghetti, uomini che in nome di un’idea di ritorno all’essenzialità dell’Uomo, in contrasto con i pregiudizi del consumismo capitalistico, hanno vissuto e scritto senza distinguere fra arte e vita, a Don DeLillo e ai minimalisti. Un nuovo viaggio americano, insomma, fra le contraddizioni e le speranze segrete di quel grande, osannato e temuto paese che è, da sempre, l’America”. 18 agosto 2009


Conclusione I casi-studio di Room East 128 e Pianeta Fresco rappresentano l’esemplare maggiore di stampa underground italiana. Se in America esiste lo sdoppiamento tra corrente hippy-pacifista e movimento radicale, entrambe filosofie che utilizzano l’oggetto-rivista come promulgazione dei propri principi e diffusione di nuove idee (quelle rifiutate o ignorate dalla stampa ufficiale), in Italia la situazione sociale ancora più complessa e problematica (dalla rivolta operaia alla critica alla famiglia e alla scuola, alla richiesta di abolizione del carcere), tende sempre più velocemente a politicizzare le tematiche ispirate dal fenomeno europeo e americano. La divisione tra Nord e Sud, inoltre, fa sì che le iniziative culturali si concentrino nelle grandi città come Milano, Genova, Torino, Roma, Bologna. L’urgenza di agire concretamente per manifestare il dissenso verso le istituzioni non sempre riesce a incanalarsi anche in nuovi modi di intendere l’oggetto-rivista (sperimentazioni visive e tipografiche). Nella maggior parte dei casi si punta più al contenuto (il fotocollage e il fumetto rimangono gli strumenti prediletti per quanto riguarda l’immagine), ma solo in Pianeta Fresco si raggiunge una complessità e innovazione formale tale da interpretare i nuovi atteggiamenti culturali e sociali. Va detto anche che il background di Sottsass e della Pivano è tale da permettere un certo grado di sofisticatezza e ricercatezza formale che inevitabilmente pone l’accento sul contrasto con la situazione milanese e italiana. Il contatto approfondito e diretto che entrambi i personaggi hanno avuto con i grandi nomi della poesia

beat ma anche con personalità molto coinvolte nell’underground americano (Allan Katzman di EVO, Ed Sanders di Fuck you), ha consentito di assimilare i nuovi linguaggi della psichedelia e farli propri, tanto da sentire il bisogno di realizzarli all’interno di un prodotto nuovo vero e proprio, tutto italiano. Come in molti altri casi, si trattava di tirature molto ridotte, perchè autofinanziate. Nel caso specifico di Pianeta Fresco (così come delle Edizioni East 128), la cerchia ristretta di pubblico ha reso il tutto un fenomeno elitario, tale da permetterci di collocare questa esperienza a cavallo tra la stampa underground e il libro d’artista. In Room East e Pianeta Fresco è infatti evidente la predominanza dell’autore, che sia nelle illustrazioni di Ettore Sottsass o nei testi di Fernanda Pivano. Se Fernanda Pivano ai tempi di Room East (1962) era già fortemente informata e coinvolta nella nuova letteratura beat, è stato grazie all’urgente ricovero di Sottsass che quest’ultimo ha conosciuto di persona Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Michael Mc Clure, rimanendone molto positivamente colpito, tanto da voler pubblicarne i manoscritti in Italia, più tardi. Si può quindi dire che il distacco che i due autori hanno mantenuto dallo scenario politicosociale italiano, parallelo all’apertura e all’interesse verso la rivoluzione culturale mondiale e in generale nei confronti delle diverse culture (sia Sottsass che la Pivano hanno avuto occasione di girare il mondo), è stato fondamentale per la realizzazione delle due riviste, che rimangono un importante riferimento nella storia della grafica italiana.


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