Cronaca&Dossier13

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I segreti della Balistica: come risolvere casi complessi

STATO-MAFIA INDAGINE AL CUORE DEL

41 BIS

Investigative Statement Analysis: capire chi si ha di fronte

I sindacati italiani chi rappresentano oggi? La nostra inchiesta

COPIA OMAGGIO

anno 2 – N. 13, Marzo 2015

L’inchiesta che fa luce sulla presunta “Trattativa”, dalle origini del “carcere duro” alle ragioni delle discusse modifiche


Indice del mese 4. Inchiesta del mese

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STORIA DI UNA TRATTATIVA MAI NATA?

10. Inchiesta del mese IL PROCESSO DI INGROIA

14. Inchiesta del mese

TRATTATIVA O RAGIONI GIURIDICHE? AL CUORE DELL’INCHIESTA SUL “41 BIS“

20. Sulla scena del crimine

INTRIGO MORTALE ED ERGASTOLO

26. Sulla scena del crimine

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OCCHI ELETTRONICI SULLA MORTE DI “DON PATRIZIO“

32. Criminalistica

I SEGRETI DELLA BALISTICA

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36. Dossier da collezione

PLACIDO RIZZOTTO, QUANDO LA VERITÀ SCIVOLA TRA LE DITA

I segreti della Balistica: come risolvere casi complessi

COPIA OMAGGIO

anno 2 – N. 13, Marzo 2015

STATO-MAFIA INDAGINE AL CUORE DEL

41 BIS

42. Memorabili canaglie

MOSTRO DI FIRENZE, LA PAROLA FINE È LONTANA?

48. Dossier società

I SINDACATI ITALIANI CHI RAPPRESENTANO OGGI?

52. Diritti e minori

I DIRITTI DEI FIGLI DEI DETENUTI IN ITALIA

Investigative Statement Analysis: capire chi si ha di fronte

L’inchiesta che fa luce sulla presunta “Trattativa”, dalle origini del “carcere duro” alle ragioni delle discusse modifiche

I sindacati italiani chi rappresentano oggi? La nostra inchiesta

ANNO 2 - N. 13 MARZO 2015

Rivista On-line Gratuita Direttore Responsbile Pasquale Ragone Direttore Editoriale Laura Maria Gipponi

58. Storie di tutti i giorni

Articoli a cura di Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Nicola Guarneri, Francesca De Rinaldis, Gianfranco Marullo, Dora Millaci, Paolo Mugnai, Gelsomina Napolitano, Katiuscia Pacini, Paola Pagliari, Mauro Valentini.

62. Indagare se stessi

Direzione - Redazione - Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com

SPORT E DISABILITÀ, UN BINOMIO ANCORA TUTTO DA SCOPRIRE

INVESTIGATIVE STATEMENT ANALYSIS

66. Media crime

LIBRO, FILM, PROGRAMMA TV E RADIO CONSIGLIATI

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Grafica e Impaginazione Giulia Dester Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione. Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1411V.G. dal 29 ottobre 2013


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Storia di una “ trattativa” mai nata??

Dal 1975 al 2009, le radici dell’articolo 41 bis 4


«Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’Interno, il Ministro della Giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4 bis, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza». Questo è il testo del secondo comma dell’articolo 41 bis, centro di un tema delicato e all’ordine del giorno come presunto motivo fondante della cosiddetta “trattativa Stato-mafia”. Per comprenderne l’importanza è bene fare alcuni passi indietro. Tutto ha inizio con la sottoscrizione, nel maggio del 1977, del decreto ministeriale intitolato Per il coordinamento dei servizi di sicurezza esterna degli istituti penitenziari, che relega definitivamente in un angolo l’insuccesso legato al vecchio art. 90 della Legge n. 354/1975 (anche detta “Ordinamento Penitenziario”). Con il decreto è attribuito al generale dei Carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa, il compito di coordinare attivamente le politiche di sicurezza interna ed esterna di tutti gli istituti penitenziari sul territorio, individuando precise sedi da destinare ai detenuti più pericolosi. Il compito delle Amministrazioni penitenziarie sarebbe stato quello di or-

dinare, ai Direttori di ogni istituto, l’obbligo di stilare e inviare un elenco nominativo di tali soggetti. Il regime penitenziario, applicato nelle carceri speciali, cominciò a caratterizzarsi per una notevole quantità di limitazioni a carico dei reclusi, in relazione ad ogni tipo di attività giornaliere (i carcerati speciali non potevano collaborare alla preparazione dei pasti, veniva loro negata la possibilità di frequentare scuole, biblioteche e attività di culto o l’esclusione da

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qualsiasi attività lavorativa). I colloqui con i familiari avvenivano attraverso un pannello divisorio ed era severamente vietato il contatto fisico e la custodia era affidata a un reparto specializzato della Polizia penitenziaria, il GOM (Gruppo Operativo Mobile). Nonostante le restrizioni, il vero insormontabile problema riguardava la totale assenza di criterio nella definizione del trattamento e nel controllo giurisdizionale sulla decisione di pericolosità riguardante un detenuto, con il rischio che molti finissero erroneamente nelle carceri a regime speciale. Un passo indietro per la tutela dei diritti fondamentali. A fronte di ciò, nel 1983, viene presentato al Senato un disegno di legge approvato nell’ottobre del

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1986, che riforma l’intera disciplina: la legge Gozzini. Il progetto definisce un’attenta analisi del sistema di “massima sicurezza” esistente all’epoca e ridimensiona il potere, sproporzionato, stretto tra le mani del Ministro di Grazia e Giustizia, rilevando la necessità di tutela di tutti i diritti essenziali. La Legge Gozzini si pone l’obbligo di contrastare la discrezionalità amministrativa che operava senza criteri sicuri e verificabili nell’individuazione dei detenuti da sottoporre al regime carcerario. Tali ostacoli sono superati dall’introduzione dell’articolo 14 bis che intende ridefinire alcuni punti della materia, obbligando alla classificazione dei casi in cui il Ministro può disporre il trasferimento alle carceri di massima sicurezza, rappre-


sentando, dunque, una prima importante garanzia. Le circostanze necessarie al trasferimento in un carcere di massima sicurezza si riferiscono, soprattutto, a comportamenti riguardanti la vita interna dell’istituto penitenziario. La Legge n. 663/86 ha il grandemerito di definire una forma d’individualizzazione del trattamento dal carattere preventivo basata sulla personalità del soggetto e sulla sua pericolosità. In alternativa al vecchio art. 90 la nuova legge inserisce formalmente l’art. 41 bis che ne ripercorre in grandi linee la strada, per garantire l’ordine e la sicurezza. La ratio è quella di arginare problemi interni generali. Pochi anni più tardi l’articolo in questione sarà rimodulato, come conseguenza degli agghiaccianti fatti di cronaca dei pri-

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mi anni ‘90. Il 23 maggio 1992, a seguito di un attentato tristemente famoso per opera della mano mafiosa persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della sua scorta. Introdotto dal Decreto antimafia Martelli-Scotti, nasce dunque il secondo comma dell’art. 41 bis, noto come “carcere duro”. Si parlerà per la prima volta di «gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica», quindi fatti estranei alla vita del carcere. Una norma esplicitamente indirizzata alla lotta della criminalità organizzata e alla tutela del bisogno di sicurezza della società. Secondo le linee guida dei tribunali di sorveglianza, l’esigenza dell’art. 41 bis nasce a seguito dei ripetuti fatti di cronaca, costatando anche l’inutilità della sorveglianza particolare (ex art. 14 bis O.P.), poiché «i detenuti che hanno consistenti interessi da curare all’esterno, tanto più se illeciti, si attengono con il massimo scrupolo alle regole di

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ordinaria convivenza in carcere». Si sentì la necessita di un intervento forte e deciso che potesse ricreare un regime senza spiragli che consentisse un controllo serrato sui soggetti invischiati nell’imponente organizzazione criminale. Nonostante la norma avesse carattere di temporaneità fu prorogata per tre volte (una prima volta fino al 31 dicembre 1999, poi fino al 31 dicembre 2000 e infine fino al 31 dicembre 2002). La Corte Costituzionale si è pronunciata più volte sulla costituzionalità dell’art. 41 bis, 2º comma O.P. e, nonostante non abbia mai accolto le istanze che gridavano all’incostituzionalità, si è sempre adoperata nel cercare di restare sempre dentro il recinto dei principi costituzionali. L’ultima modifica degna è la Legge 15 luglio 2009 n. 94 con l’ulteriore estensione dei reati per il carcere duro.


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Il processo di Ingroia Rinviate a giudizio le paure di boss e politici

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In principio fu “Il Papello”. Quel documento, lista di 12 richieste che la mafia avrebbe inoltrato a uomini dello Stato attraverso le misteriose (molto misteriose) mani di Vito Ciancimino, è il centro dell’inchiesta che turba e scuote le fondamenta del nostro ordinamento democratico. A leggerli, questi 12 punti sembrano quasi una provocazione, un metodo di avvicinamento più formale che reale: davvero Totò Riina credeva di poter chiedere alcune cose che sono in questo documento contenute come per esempio «arresto solo in flagranza di reato» o la «defiscalizzazione della benzina in Sicilia»? No, il Papello ha un centro, un cuore e se

Dott. Antonio Ingroia.

la trattativa inizia e ha qualche motivo per esistere non può che essere per annullare gli effetti del 41 bis. Quello è davvero il provvedimento che può detronizzare i boss. Del resto, la loro paura non è il carcere, ma la perdita di potere durante il regime di isolamento assoluto. Dentro tre mura di cinta, emarginato da tutto e da tutti non sei più nessuno, non comandi più nessuno. Sei un criminale e basta. Quella era la preoccupazione che i boss avevano. E su quella forse si trattò. Le nuove indagini, concluse nel 2012 dal pm della Procura di Palermo Antonio Ingroia (con il coadiuvo dei suoi colleghi Antonio Di Matteo, Francesco Del Bene e Lia Sava), cercano di fare luce sulle possibili connessioni tra “attivismo” di uomini dello Stato e relazioni con eventuali “concessioni” circa l’applicazione del 41 bis. Il risultato è il rinvio a giudizio per 12 imputati. Ci sono tutti gli attori di questa presunta “trattativa”. Della lista degli indagati infatti fanno parte, tra gli altri, l’ex vicepresidente del Csm, Nicola Mancino (accusato di falsa testimonianza), il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri e il deputato Calogero Mannino. Assieme a loro anche gli ex ufficiali dei Carabinieri Mario Mori, Giuseppe De Donno, Antonio Subranni (accusati di avere fatto parte della catena di contatti) e il figlio dell’ex sindaco di Palermo Massimo Ciancimino (accusato di calunnia nei confronti dell’ex prefetto Gianni De Gennaro e di concorso esterno in associazione mafiosa). Sul fronte non istituzionale i rinviati a giudizio sono

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i mafiosi Bernardo Provenzano, Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonio Cinà e Giovanni Brusca. L’impianto accusatorio dei Pm palermitani si basa sul ruolo decisivo che sarebbe stato giocato a partire dal 1992 da Calogero Mannino (ex Ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno). Sarebbe stato proprio lui, all’indomani della strage di Capaci, l’artefice dell’avvio della presunta “trattativa” tra le istituzioni e apparati della mafia, chiedendo a ROS e DAP di concedere il più possibile ai mafiosi per non finire assassinato. Lo sconquasso politico prodotto dal processo è incredibile, non tanto per il fatto in sé (l’opinione pubblica può considerare un male minore trattare segretamente con una belva che seminava bombe e morte ad altissimi livelli) ma per il coinvolgimen-

to di personalità che ruotavano intorno al presidente della Repubblica emerito, Giorgio Napolitano. Del resto, che ci siano state azioni di scambio tra crimine e Stato ne era già convinto addirittura il gip di Caltanissetta, Alessandra Bonaventura Giunta, che lo scrive proprio in una delle sue relazioni riguardo le richieste di giudizio: «Deve ritenersi un dato acquisito quello secondo cui a partire dai primi giorni del mese di giugno del 1992 fu avviata la cosiddetta trattativa tra appartenenti alle istituzioni e l’organizzazione criminale Cosa nostra». Il processo si apre nel maggio 2013 a Palermo, una sfilata di pentiti, tutti pezzi da novanta che sembrano particolarmente loquaci e dettagliati quando si tratta di raccontare come Cosa nostra sia stata a tu per tu con uomini dello Stato o, come

L’ex presidente Giorgio Napolitano.

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L’ex ministro Calogero Mannino.

per Francesco Onorato, di portare in aula la rabbia di Riina, a parer suo «unico che sta pagando il conto, mentre lo Stato non sta pagando niente». Nino Giuffrè, altro pentito, a novembre di quell’anno parlerà apertamente di quella che era stata indicata come “la salita sul carro” di Forza Italia: «Non è che la mafia sale su un carro qualsiasi. Scegliemmo di appoggiare Forza Italia nel 1993 perché avevamo avuto garanzie». Poi c’è Brusca. Lui è dettagliato, è ascoltato soprattutto. L’assassino di Giovanni Falcone e del piccolo Giuseppe Di Matteo parla, spiega: «Venti giorni dopo la strage di Capaci, vidi Riina, a casa di Girolamo Guddo. Mi disse che aveva fatto un papello di richieste, per fare finire le stragi e mi spiegò che avevano risposto, fecero sapere che

le richieste erano assai. Ma non c’era una chiusura. E a questo punto Riina mi fece il nome di Mancino. La richiesta era finita a lui, così mi fu spiegato». Dove porterà questo processo? Quale sviluppo potrà esserci se non quello amaro di un ricatto subito, di una Nazione ferita dal profondo? Il 28 ottobre del 2014 l’ex presidente Giorgio Napolitano risponde alle domande dei Pm, quelle domande vuole che siano trascritte e pubblicate subito nel sito della Presidenza. Vuole lasciare come ultimo atto un segno di trasparenza, lui con quella “trattativa” non c’entra e lo spiega nella sua testimonianza. Quella telefonata intercettata di Mancino che lo chiama per chiedere consiglio, seppur marginale nel mare magnum del processo, ha avvelenato il suo mandato, lo ha incupito nell’animo. A lui, uomo da sempre in prima linea nella lotta contro quel male incurabile che è stata ed è la mafia in questo martoriato Paese.

L’ex generale Mario Mori.

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Trattativa o ragioni giuridiche? Al cuore dell’inchiesta sul

“41 bis”

Nell’attesa del responso sulla “trattativa Stato-mafia”, l’approfondimento di Cronaca&Dossier Se vi sia stata mai trattativa e perché è cosa complessa da definire. I timori per gli effetti del 41 bis, la paura di qualche ministro di essere assassinato sulla scia delle stragi ‘92-’93 oppure giochi di potere nella politica di quegli anni, sono tutti argomenti validi, oggetto di inchieste giornalistiche e del processo attualmente in corso a Palermo. Proprio perché tema estremamente vasto e complesso, la presente inchiesta vuole per ora soffermarsi sul 41 bis e chiedersi: davvero le “correzioni” al “carcere duro” sono state il frutto di una trattativa fra uomini dello Stato e della mafia?

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IL POMO DELLA DISCORDIA: LA REVOCA PER 334 DETENUTI Nel corso del 1993, a partire da luglio, si pone la questione della prima proroga al 41 bis. Il caso riguarda circa 1.000 decreti emessi nel 1992, di cui 334 delegati al DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) per il rinnovo, su concertazione con il Ministero di Grazia e Giustizia (Giovanni Conso, dal febbraio ‘93 a maggio ‘94). Racconta Sebastiano Ardita (già sostituto procuratore al Tribunale di Catania e componente della Direzione Distrettuale Antimafia) nel suo libro Ricatto allo Stato. Il «41 bis», le stragi mafiose, la trattativa fra Cosa Nostra e le istituzioni (Sperling&Kupfer, 2011): «La posizione concertata [...] fu quella di adottare una soluzione che stemperasse il clima di tensione che si era venuto a creare, senza smantellare del tutto l’istituto del regime speciale. […] Oltre alla sostanziale riconferma dei decreti emessi da Martelli, vennero seguite tre linee direttrici: non prorogare i 334 provvedimenti 41 bis delegati; operare una modesta riduzione del numero dei 41 bis decretati dal Ministro, alleggerendo le posizioni meno rilevanti; ridurre da un anno a sei mesi la durata dei decreti. Ma a questa

linea, che attenuava l’impatto del regime pur senza rinunciare allo strumento, non seguirono iniziative e proposte per migliorarne l’efficienza [...]». Il punto è che l’attenuazione decisa nel ‘93 non tiene conto del parere della Procura di Palermo e di alcuni organi di Polizia (entrambi fortemente contrari); attenuazione che porta all’uscita di personaggi di rilievo dal regime speciale. Tuttavia, uscire dal 41 bis non vuol dire finire in libertà. Tolte le misure speciali restano ugualmente le condizioni non facili in cui versano le carceri italiane. Inoltre 58 dei 334, sulla base di successive indagini, ritorneranno al carcere duro (di cui 18 ancora al 41 bis). Resta però ancora oggi la polemica sulla mancata proroga in blocco: è qui che nasce il forte dubbio che alla base vi sia stata una “trattativa”. Nel 2010 l’ex ministro Conso, in Commissione Antimafia, assume su di sé l’onere della scelta di non prorogare: «[...] Me ne assumo piena responsabilità, in un’ottica, diciamo così, non di pacificazione (con certa gente, con certe forze, non si può neanche iniziare un discorso in questi termini), ma di vedere frenare la minaccia di altre stragi». Nel frattempo alcune cose sono cambiate: Totò Riina è finito in carcere e il successore Bernardo Provenzano ha una strategia diversa, non stragista.

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LA QUESTIONE DELLE PROROGHE Quanto accade fra gli anni ‘90 e i giorni nostri, è un rincorrersi di proteste da parte dei detenuti, richieste, audizioni e proroghe. Sì, perché il 41 bis ha inizialmente la caratteristica di essere prorogabile dopo un anno (purché motivata) dalla prima applicazione, con la possibilità che un ricorso del detenuto possa renderla nulla. Tuttavia, nel frattempo che si pronunci la Cassazione, è già tempo di provvedere ad un’ulteriore proroga. E dunque il circolo vizioso non si arresta mai. Le modifiche fanno sì che sia il magistrato e non più il singolo Istituto Penitenziario a decidere dove inserire il detenuto in base alla pericolosità del soggetto. Come spiega il dott. Ardita, nei primi anni ‘90 «di 41 bis si parlava tanto ma si capiva poco. Prima ancora che scoppiasse la questione della possibile trattativa fra Stato e mafia, questo era già un argomento che divideva. C’era chi approvava che il regime speciale venisse usato per ripagare i mafiosi del tanto male che avevano fatto alla società. E chi, più o meno apertamente, lo contrastava, ritenendolo una tortura per indurre gli arrestati a collaborare con la giustizia». Chi sceglieva la non applicazione del 41 bis in realtà non faceva altro che tenere conto dei dubbi posti nel 1995 dal Comitato europeo per la Prevenzione della tortura e delle pene o Trattamenti inumani e degradanti (C.P.T.), il quale aveva sottolineato le pessime condizioni in cui versavano i detenuti a regime di carcere duro, addirittura citando alterazioni delle facoltà mentali e sociali. La vita nel carcere duro aveva ben poco a che fare con tutti quei diritti riconosciuti dall’O.P. 16

e dalla Costituzione. Avevano fatto eco, nel 1996 e nel 1997, le sentenze della Cassazione finalizzate a ridefinire alcuni parametri costituzionali da rispettare (pur confermando l’adeguatezza della norma in riferimento alla possibile pericolosità dei detenuti). La problematica sarebbe sorta nuovamente pochi anni dopo. A raccontarla dall’interno è ancora una volta il magistrato Ardita, ricordando l’inizio della sua esperienza al DAP nel 2002: «Mi convinsi che il regime speciale, a dispetto di quel che si credeva, era servito negli anni precedenti più a punire che a prevenire le comunicazioni con l’esterno e a impedire che gli ordini dei boss uscissero dal carcere […]. La sfida più ambiziosa era quella di trasformare il carcere duro e farlo diventare carcere intelligente e preventivo». Questo perché «mentre il 41 bis aveva attenuato il contatto tra i capi e il mondo esterno, aveva posto le basi per la creazione di una supercupola delle organizzazioni [nelle carceri, ndr]».


IL DILEMMA DELLA PERICOLOSITÀ A questo stato di cose va anche aggiunto il particolare, non da poco, che lo stesso 41 bis ad un certo punto imbriglia nella propria rete anche soggetti che con la pericolosità non hanno più nulla a che fare, come nel caso di terroristi attivi in Italia tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90. Come agire nei loro confronti? All’inizio la risposta è il carcere duro. Poi sempre più ci si rende conto, specie dopo la chiusura di due istituti penitenziari ad hoc per il regime carcerario (Asinara e Pianosa [nel 1998]), che è tempo di modificare ulteriormente il 41 bis anche alla luce delle ormai troppe proroghe accavallatesi negli anni. L’occasione si presenta nel 2002, a vent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio. Il secondo governo Berlusconi, con il plauso delle opposizioni, porta in Parlamento una legge che rende stabile e definitivo il 41 bis

Arresto del boss Giovanni Brusca

e apporta modifiche al 4 bis. Nella pratica, non sono più necessarie le proroghe, si estende la lista dei reati che porterebbero al carcere duro (annettendo anche fattispecie di terrorismo, eversione e traffico di stupefacenti), sono ridotte le possibilità di contatto fra detenuti, si danno più diritti di difesa al detenuto obbligando l’autorità giudiziaria a fornire nuove ragioni di detenzione (al 41 bis) in caso di bocciatura del Tribunale di sorveglianza.

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IL 41 BIS È SERVITO? A parte le considerazioni giuridiche sulla sua applicazione e le accuse di essere contrario ai dettami costituzionali, bisogna chiedersi se il 41 bis è servito davvero a combattere le organizzazioni criminali. Sicuramente la possibilità di contatti con l’esterno ha ridotto di molto il potere dei boss sulle organizzazioni, anche se di fatto arresti e processi contro le organizzazioni criminali di stampo mafioso continuano. Sicuramente i boss non possono più controllare come prima le carceri, minacciare il personale penitenziario e gli altri detenuti. Poco sembra avere influito sulla struttura della criminalità organizzata che, modificando il suo modo di operare e riducendo al massimo gli episodi di violenza, punta ad infiltrarsi con metodi da “colletti bianchi” nei sistemi economici e finanziari.

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FU VERA TRATTATIVA? Le modifiche al 41 bis avevano motivazioni ben radicate nelle problematiche interne alla gestione della detenzione. Che vi fosse stata anche la pressione dei mafiosi con accordi sottobanco per attenuare le pene ancora non è dato sapere. Servirà attendere la fine del processo sulla “trattativa”. Ma può davvero la scelta di Conso essere considerata la “prova” di una trattativa con la mafia, oppure è stata “semplicemente” una scelta dettata dalla situazione del momento per cui, cambiati i vertici mafiosi, si pensava fosse più opportuno attenuare le scelte detentive nei confronti dei mafiosi? Tanto più che quest’ultimi più volte avevano inscenato proteste, scioperi della fame, letture di comunicati durante le udienze, arrivando persino a giocarsi la carta del-

la “dissociazione” (ovvero esplicitamente dissociarsi dalla mafia) pur di avere agevolazioni che non giunsero mai. Al contrario, l’attivismo antimafia dello Stato all’indomani delle Stragi e la creazione di un sistema finalizzato a rendere vane le richieste di annullamento del regime carcerario danno l’impressione di contraddire le paventate ipotesi di accordi. Almeno per quel che riguarda l’applicazione del 41 bis, tutto sembra essere più facilmente riconducibile invece a piccole e grandi paure di uomini dello Stato che non se la sono sentita di appesantire un clima già complesso e teso, rendendosi perciò fautori di un’uscita soft senza però per questo intaccare gli strumenti di lotta alla mafia o stringere espliciti accordi con essa.

Tribunale di Palermo.

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Intrigo mortale ed ergastolo Uno strano caso fra viaggi, polizze, scomparse e vite misteriose

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Il Brasile, delle assicurazioni “rischio morte”, un architetto immobiliarista dalla polizza facile, una scomparsa misteriosa, una morte dallo strano movente. Un bel mix di ingredienti per una vicenda che sta vedendo forse le ultime fasi proprio in questi giorni, ma andiamo con calma. Partiamo dal Brasile: il 26 maggio del 2008 Michele Maggiore, 34 anni, lascia la casa dove abitava con i genitori per prendere un aereo con destinazione San Paolo del Brasile. È contento, dice alla mamma di andare per tre mesi nella città di Natal per costruire un asilo, lavoro procuratogli da Fabio Bertola, architetto-immobiliarista di Verdellino, 46 anni. È Bertola stesso ad accompagnarlo all’aeroporto. Michele, infatti, fa l’imbianchino e lavora su commissione per Bertola, che in quel periodo ha a Verdellino un’agenzia di compravendita case. Maggiore fa scalo a Madrid, manda un sms alla donna dicendole di non preoccuparsi e che il giorno successivo sarebbe arrivato a destinazione, ma da quel momento non dà più nessuna notizia. La madre di Maggiore non aveva mai visto favorevolmente il rapporto con l’architetto, specie dopo una frase che Michele le aveva detto pochi giorni prima di partire: «Se entro tre mesi non rientro in Italia, manda qualcuno, chi vuoi, da Fabio». Forse teme qualcosa: ma cosa? Michele ha con Bertola un debito di circa 100mila euro e risultano anche stipulate tre polizze «a rischio morte» a nome di Maggiore, per un totale di 500mila euro. I militari e il pm Carmen Pugliese, titolare del fascicolo per l’omicidio Puppo, stanno cercan-

do di accertare chi siano i beneficiari del premio. Roberto Puppo è infatti un altro protagonista di questa storia, anzi una vittima. È stato trovato morto, finito a colpi di pistola il 24 novembre del 2010 a Satuba, non lontano da Maceiò (Brasile). Secondo gli inquirenti, proprio Fabio Bertola avrebbe fatto sottoscrivere una polizza vita a Puppo, e poi gli avrebbe offerto un lavoro in Brasile. Un copione per molti versi simile a quella di Maggiore: Puppo ha grosse difficoltà economiche in Italia. Bertola si offre di aiutarlo, prospettandogli un ottimo lavoro guarda caso in Brasile, non prima di avergli però fatto sottoscrivere cinque polizze assicurative sulla vita per un totale di 1.150.000 euro con beneficiari Bertola stesso, Alberto Mascheretti (42 anni di Sorisole) e Valentino Masin (44 anni di Verdellino). Puppo parte ma, una volta in Brasile, il 18 novembre 2010 con viaggio e allog-

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gio pagato, viene accolto in aeroporto da Vanúbia Soares da Silva che, coincidenza, era stata fidanzata con Fabio Bertola, che lo porta a Maceiò. Una settimana dopo, durante un viaggio su un’auto con a bordo la stessa Vanúbia, Cosme Alves da Silva (vigilantes 42 enne) e un minorenne, viene simulato un guasto alla vettura lungo una stradina isolata di Satuba. Gli occupanti della macchina scendono e il ragazzo spara quattro colpi a Puppo che muore sul colpo. Il suo cadavere viene abbandonato sul ciglio della strada, in un campo di canne da zucchero: sarà ritrovato il giorno dopo.

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La sera stessa il giovane, che per l’omicidio incassa 330 euro, si reca in un bar per festeggiare, vantandosi di aver ucciso un italiano. Tempo dopo confessa e tira in ballo la donna che, a sua volta, parla della trappola organizzata dai tre italiani. La notizia arriva in Italia e inizia a fare il giro su giornali e siti internet. Bertola denuncia la brasiliana per calunnia. Scattano quindi le indagini degli inquirenti italiani, dirette dal procuratore capo Francesco Dettori e dal pubblico ministero Pugliese, che grazie anche ad una serie di intercettazioni telefoniche, in una delle quali Puppo veniva definito «un povero


sfigato», riescono a smascherare il piano criminale orchestrato nei minimi dettagli e diretto in prima persona da Fabio Bertola. Dopo aver subito una perdita di 200mila euro legata ad un bar, l’Hemingway Cafè di via Borfuro, a Bergamo, i tre avevano messo a punto una strategia: far firmare importanti polizze vita ad “amici” in difficoltà economiche, proporgli allettanti lavori in Brasile e là, con la complicità della Vanúbia Soares da Silva, eliminarli. Dall’indagine emerge anche che Puppo avesse almeno sei conti correnti in diversi istituti di credito, oltre a un finanziamento di 60mila euro dalla Provincia di Milano per nuove imprese. In aula proprio nei giorni scorsi, Bertola ha avuto una spiegazione per tutto. Faceva sottoscrivere le polizze dopo un’esperienza negativa subita con la morte del padre. Siccome i debitori non volevano riconoscere alla vedova quanto dovuto, aveva iniziato a stipulare questo tipo di assicurazioni: «Io stesso mi prestai come garanzia assicuratoria in passato». Poi, la prima, sulla vita del suo socio e a seguire quelle per i debitori. Esclusi gli amici: per loro le polizze venivano stipulate solo in caso di viaggi. E Roberto Puppo, seguendo questa logica, doveva essergli amico, considerato che aveva un debito verso Bertola di circa 70mila euro. Delle cinque polizze di Puppo lui non sapeva nulla, solo della polizza vita, quella che Puppo aveva sottoscritto come una fideussione per via dei debiti che aveva contratto proprio con Bertola, debiti che si aggirano tra i 60-70mila euro. Per l’accusa, l’architetto avrebbe commissionato il delitto per re-

cuperare i soldi persi con la società che gestiva il bar. Tra i beneficiari anche la moglie dell’indagato. Una volta espiati i debiti da parte di Puppo, la polizza sarebbe stata girata alla mamma della vittima. Una spiegazione l’ha data anche per il suo viaggio a Maceiò a metà 2010: per sistemare la questione della tumulazione del figlio avuto proprio con Vanúbia. Una stranezza: il biglietto era intestato a tale Fabio Bertolazzi, persona realmente esistente e inizialmente arrestata per sbaglio.

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Nella mattinata del 27 febbraio scorso nella requisitoria del Pm è stato chiesto per l’uomo la condanna all’ergastolo, mentre per parte civile la richiesta è stata di un milione di euro a testa per i genitori e la sorella di Puppo. Nel pomeriggio ha preso la parola il difensore che, al termine di un’arringa di quasi quattro ore, ha chiesto ai giudici di «restituire» Bertola alla sua famiglia, dalla quale, per la vicenda che lo vede coinvolto, «è stato lontano per troppo tempo». Bertola aveva nelle sue mani negli anni polizze vita, oltre a quelle dei dipendenti, su otto persone. Ma l’architetto immobiliarista ha sempre negato di sapere delle polizze (per un milione 250mila euro) di cui erano beneficiari Alberto Mascheretti, Valentino Masin (i quali hanno patteggiato per favoreggiamento) e la stessa moglie di Bertola. Ha inoltre affermato che, alla notizia della morte di Puppo, «inizialmente sui giornali brasiliani si ipotizzava una rapina.

Veduta di San Paolo (Brasile)

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E pensai a una rapina». Ma a questo punto si fanno pure evidenti i punti di contatto con la vicenda di Michele Maggiore, infatti in aula il pm Pugliese ha chiesto a Bertola se conoscesse Maggiore, se avesse dei crediti nei suoi confronti e se anche a lui avesse fatto firmare delle polizze vita. «Lo conoscevo, avevamo rapporti di lavoro, gli avevo anticipato dei soldi». Maggiore gli doveva 150mila euro e , stipulato il preliminare per l’acquisto di un appartamento, gli aveva fatto firmare due polizze vita (una da 70mila euro e una da 80mila euro) come garanzia. Dopo la partenza per il Brasile, Maggiore è scomparso. «Non so che fine abbia fatto». La pista pare proprio essere quella giusta e infatti il 6 marzo scorso la Corte d’Assise ha condannato Fabio Bertola all’ergastolo. Ci sarà il ricorso in Appello, già annunciato dai legali dell’uomo, e dunque una possibile nuova puntata dell’intricato giallo.


Crimine ai Raggi X articolo di Alberto Bonomo

La Circonvenzione

Recenti sentenze definiscono i confini e gli elementi della circonvenzione di un soggetto. La fattispecie è regolata dall’art 643 del codice penale. Nel caso in questione il reato potrebbe configurarsi perché si è presumibilmente instaurato un rapporto squilibrato fra agente e vittima con la contestuale possibilità di manipolare la volontà di quest’ultima, incapace di opporre alcuna resistenza. Il manipolatore ha indotto il soggetto a compiere un atto capace di produrre effetti giuridici dannosi e ha abusato dello stato di vulnerabilità consapevole che sfruttando quella debolezza avrebbe potuto procurare a se stesso un ingente profitto. Per ciò che attiene all’elemento materiale del reato, le condotte di abuso e d’induzione potrebbero, nel caso in questione, consistere nella pressione morale attuata in tutte le attività di sollecitazione e suggestione capaci di spingere la vittima a compiere l’atto giuridico dannoso. La pena per questa fattispecie di reato prevede la reclusione da due a sei anni e la multa da duecentosei euro a duemilasessantacinque euro.

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Occhi elettronici sulla morte di "don" Patrizio

Compaiono una misteriosa Dama e il suo esercito fantasma 26


È una notte particolare quella dell’8 Febbraio a Monte San Biagio, un piccolo paese in provincia di Latina. È la notte dell’ultimo giorno di festa in onore del Santo Patrono. Come ogni anno la festa di San Biagio, vissuta con fervore e partecipazione dalle 6 mila anime che abitano questo paese, richiama qui quasi 10mila persone tra Fondi e Terracina. All’Ottavario di San Biagio è molto devoto anche “don” Patrizio Barlone, ex diacono di 61 anni, ritrovato morto da un familiare la mattina del 9 febbraio 2015 nel salotto del suo appartamento in via Roma 11, in una palazzina situata di fronte la Stazione dei Carabinieri e poco lontano dal Palazzo Comunale. Il corpo di Barlone, immerso in una pozza

di sangue, ha mani e piedi legati con delle fascette, la testa avvolta in un telo colorato, una sciarpa in bocca e la nuca fracassata. Figura controversa quella di Patrizio Barlone, a lungo insegnante di religione, diacono negli anni Novanta, ma sospeso ed interdetto nelle esercizio di qualsiasi Ministero della Curia dall’Abate di Montecassino, con un passato legato anche agli ambienti malavitosi dell’usura, per il quale ha scontato una pena nel 2006. Anche se uomo molto “riservato”, Barlone amava ricordare spesso in giro le sue “presunte amicizie” altolocate in Vaticano e suoi “presunti appoggi” nell’Arma dei carabinieri. Proprio per questo gli inquirenti, dopo un primo intervento da parte

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della Scientifica di Latina, decidono di affidare i rilievi agli uomini del Ris di Roma, i quali accompagnati dal capitano della Compagnia di Terracina Margherita Anzini, dal comandante della Stazione Monticellana Michelangelo Nania e da quello della Municipale Aldo Filippi, passano al setaccio la palazzina di via Roma il giorno seguente il delitto, alla ricercadi eventuali impronte e ulteriori tracce presenti sulla scena del crimine. Tra il materiale repertato proprio dal Reparto Investigativo Scientifico vi sono alcuni fogli manoscritti. Fogli misteriosi, contenenti numeri e cifre, che potrebbero celare, secondo una prima lettura, il movente del delitto. Nel mentre, in attesa dei risultati dei rilievi effettuati, il sostituto procuratore di Latina Maria Eleonora Tortora ha conferito l’incarico per gli accertamenti medico-legali al

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Dottor Filippo Milano, il quale dopo quattro ore di autopsia, effettuata presso la camera mortuaria del cimitero di Terracina, in attesa dei risultati degli esami istologici e tossicologici richiesti dalla Procura, previsti entro sessanta giorni dall’autospia, sembra aver spostato la morte del Barlone verso le ore 20:00 e aver individuato la causa del decesso. Barlone sarebbe morto soffocato e non per le botte ricevute con un corpo contundente. Intanto le indagini degli inquirenti proseguono senza sosta tanto da trovare una possibile chiave di volta nei filmati registrati dagli occhi elettronici delle telecamere di videosorveglianza del Comune, della Municipale e del presidio locale dell’Arma dei Carabinieri. Telecamere che erano costate a Patrizio Barlone una denuncia poiché la scorsa estate si era presentato, nei pan-


ni di sacerdote, negli uffici dell’amministrazione del comandante provinciale dei carabinieri Giovanni De Chiara e del Garante della privacy, chiedendo, in nome della sua riservatezza, di rimuoverle. Proprio nei preziosi filmati visionati infatti gli investigatori hanno cominciato a ritrovare quelle piccole conferme a ciò che fino ad allora era stata solo pura teoria: non solo Barlone sarebbe stato ucciso da almeno 4 persone ma la vittima conosceva i suoi assassini, o almeno uno di loro. Una donna viene inquadrata dalla telecamera verso le 19:20 davanti alla porta di Patrizio Barlone. Una donna che la vittima probabilmente conosceva poiché quando ella suona alla porta, l’uomo le apre e la fa entrare senza alcun timore. In poco tempo la donna viene seguita daun individuo. Passano pochi minuti e la donna esce in strada e si dilegua nella notte senza lasciare traccia. Ancora pochi minuti e altri due uomini entrano in casa Barlone. Sono circa le 20:00 quando tutti escono dalla

casa della vittima dileguandosi nella notte senza essere “visti” dagli unici testimoni di questo atroce delitto: le telecamere di sorveglianza. Telecamere che inquadrano l’area intorno alla abitazione della vittima ma che, a causa dello spostamento dei mesi scorsi, voluto proprio da Patrizio Barlone, non riescono più ad inquadrare l’unico passaggio secondario che potrebbe essere stato usato dagli assassini per fuggire, ossia la scalinata che si trova sul lato sinistro della casa della vittima e collega direttamente il giardinetto di piazzale Saint Romain Le Puy al paese. Il puzzle in mano alla Procura si sta componendo di molte tessere che, grazie ai riscontri sui tabulati telefonici attualmente in esame, ai frammenti catturati dalle telecamere, agli esiti finali degli accertamenti medico-legali e ai nuovi rilevi tecnico-scientifici del Ris sulla scalinata potrebbero portare presto alla cattura dei responsabili. Intanto proprio dalle telecamere giunge un primo elemento: gli assassini sono fuggiti portando via con sé una busta. Cosa conteneva? Potrebbe trovarsi lì la chiave del giallo.

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Crimine ai Raggi X articolo di Alberto Bonomo

L ‘ Occhio Elettronico Sempre più spesso la tecnologia viene in aiuto delle Forze dell’ordine nell’arduo compito di tutelare la sicurezza dei cittadini. A volte questo compito è svolto in via preventiva e ha una funzione deterrente dopo la realizzazione di un evento criminoso. Il delitto perfetto non è poi così perfetto ad esempio se un occhio nascosto che non dorme mai e guarda sempre riesce a cogliere e conservare attimi decisivi, un volto o anche solo un indizio. È vero, il rischio di vedere limitato il proprio diritto alla privacy è alto ma in tanti casi, come in quello trattato questo mese da Cronaca&Dossier, le telecamere a circuito chiuso piazzate lungo le vie della città sono state fondamentali sotto l’aspetto criminodinamico per tracciare una strada investigativa da seguire attraverso l’analisi dei filmati h24. Il circuito chiuso opera diversamente dalle normali telecamere di uso amatoriale. È in grado inviare immagini a colori o in bianco e nero direttamente a un monitor oppure a un set di monitor, a loro volta muniti di appositi sistemi di registrazione a cassetta vhs con durata di 960 ore, o anche di registratori digitale su hard disk. I più avanzati possono essere dotate di sistemi di movimento sui due assi, di sistemi a infrarossi per la visione notturna.

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I segreti della

Balistica Lo studio di armi, proiettili e ferite per risolvere i casi più difficili

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Nel campo delle Scienze Forensi lo studio delle lesioni procurate da proiettili di armi da fuoco riveste un ruolo di notevole importanza a partire dal primo sopralluogo, dove la scena del crimine viene congelata per permettere poi la ricostruzione dei fatti, fino alle prove sperimentali svolte dai consulenti tecnici, al fine di accertare la verità sui fatti accaduti. Lo studio di tali lesioni può dare utili indicazioni per distinguere eventi di tipo doloso da eventi accidentali o suicidiari e richiede l’impegno congiunto di due discipline complesse: la Medicina legale e la Balistica terminale. Quella “terminale” è la branca più recente della Balistica (scienza che studia il moto di un proiettile ed i relativi fenomeni ad esso connessi). In particolare si occupa di studiare gli effetti che un proiettile provoca sul bersaglio nel momento dell’impatto, ed i conseguenti fenomeni che si producono dopo la penetrazione in un corpo o su un bersaglio in genere. Quando il proiettile attinge un corpo umano o animale, la Balistica terminale si identifica con la cosiddetta “Balistica del trauma”. La lesione più comune che un proiettile produce su un corpo è un foro di ingresso, il quale può presentare delle caratteristiche peculiari (diametro e forma del foro) che dipendono da un insieme di fattori come la tipologia di arma utilizzata, il tipo di cartuccia, l’angolo di incidenza, la distanza di sparo e l’interposizione di bersagli intermedi; ai quali si aggiunge la presenza di fumi e particelle formatesi durante la combustione. Grazie ad una solida preparazione basata sull’esperienza pratica, il perito balistico

L’importanza delle Scienze forensi è fin troppo evidente nelle dinamiche investigative. È per questo motivo che Cronaca&Dossier ha scelto di offrire ai propri lettori la rubrica “Criminalistica” grazie alla collaborazione del prof. Martino Farneti, direttore del corso pratico “Esperto in Balistica Forense e Scena del Crimine”, partendo dallo studio delle tracce per risolvere un crimine. Le fotografie pubblicate nel presente articolo sono state cortesemente concesse dal “Centro Balistica Forense”.

Prof. Martino Farneti.

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Sparo a breve distanza. Si noti il tatuaggio provocato dalle particelle incombuste.

che si trova davanti ad una ferita di arma da fuoco sarà in grado di ricostruire l’esatta dinamica dell’evento, capire se è stato utilizzato un proiettile unico (come ad esempio una cartuccia da carabina o da pistola) oppure una munizione a proiettile multiplo come quelle comunemente utilizzate per usi venatori. Quando si osserva un piccolo foro con un contorno piuttosto irregolare, con segni di affumicatura ed ustione, vuol dire che siamo dinanzi all’utilizzo di un’arma di piccolo calibro a proiettile unico. Se ne deduce che il colpo è stato esploso direttamente a contatto con la cute della vittima, producendo un foro di ingresso bruciato e annerito a causa della fiammata e dei fumi sviluppati dalla combustione. Inoltre, in uno sparo a contatto, i gas di combustione che penetrano all’interno dei tessuti possono trovare resistenza sul tavolato osseo e ritornare verso l’esterno, scollando i tessuti e provocando la

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tipica forma stellata ed estroflessa come nel caso in esame. Un altro caso tipico è la lesione prodotta da un proiettile unico sparato a breve distanza. In questo caso la vittima è stata attinta da un proiettile di pistola. Il foro di ingresso ha contorni rotondeggianti, non si hanno più i segni di ustione, mentre compare il “tatuaggio” ovvero la proiezione sulla cute di piccole particelle semicombuste che vanno a disporsi come una sorta di rosata attorno al foro d’ingresso. In questo caso per capire le distanze di sparo sono state condotte delle prove sperimentali su porzioni di carne di provenienza animale, effettuando numerosi spari a varie distanze ed esaminando e comparando le ferite ed i tatuaggi prodotti, direttamente con la ferita della vittima, attestando quindi la distanza di sparo a circa 10-15 cm. L’attività sperimentale dei casi che abbia-


Sparo a distanza di 10 cm su carne animale. Foro d’ingresso rotondeggiante con tracce di affumicatura e tatuaggio.

mo esposto è stata condotta dagli allievi del Corso biennale in Esperto Balistico diretta dal professore Martino Farneti, uno tra i massimi esponenti della Balistica Forense in Italia. Lo stesso prof. Farneti afferma: «Per una buona interpretazione dei dati a disposizione è necessaria una seria sperimentazione svolta da personale qualificato, poiché solo attraverso il bagaglio esperienziale si possono acquisire le conoscenze necessarie per affrontare un tema delicato come la Balistica e le Scienze Forensi. Per questo – continua Farneti – si è sentita l’esigenza di istituire il primo corso in Esperto Balistico e Scena del Crimine, perché attraverso rigidi protocolli prettamente pratici si possano restituire nel panorama italiano ed internazionale dei veri esperti nella disciplina delle attività di indagini difensive ed investigative».

Sparo a contatto. Tipica forma stellata ed estroflessa, con bordo ustionato ed affumicato.

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Placido Rizzotto,

quando la verità scivola tra le dita Il 10 marzo del 1948 il sindacalista veniva fatto sparire, la verità coperta e gli assassini liberati

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Placido Rizzotto fu il trentacinquesimo sindacalista a cadere sotto i colpi della mafia. In un periodo complicato come il Secondo dopoguerra, con le istituzioni in riorganizzazione e uno Stato impegnato a uscire da una crisi postbellica particolarmente pesante, la mafia trovò terreno fertile per crescere rigogliosa. L’omicidio di Rizzotto, e ancora di più il successivo iter giudiziario, è emblematico della situazione. Rizzotto era un sindacalista della CGIL, iscritto al Partito Socialista Italiano, e il suo impegno più grande fu quello al fianco dei contadini, in lotta per l’occupazione delle terre. Una presa di posizione che ovviamente andava contro il feudalesimo imposto da Cosa Nostra, che la sera del 10 marzo 1948 decise di agire. Rizzotto uscì dalla sede della Camera del lavoro insieme a Vincenzo Benigno e Giuseppe Siragusa. I due amici, consci dei rischi che correvano allora i sindacalisti, fecero compagnia a Rizzotto che doveva incontrarsi con il Dott. Michele Navarra, un medico condotto con il quale aveva un rapporto di lavoro ma che sarebbe stato sospettato di essere il mandante dell’omicidio (anche se il suo nome non uscirà mai nell’inchiesta). All’appuntamento si presentò infatti Pasquale Criscione, uomo di Cosa Nostra. In seguito alle insistenze di Criscione, Rizzotto restò solo e in men che non si dica si ritrovò circondato da alcuni personaggi poco raccomandabili, tra cui Luciano Liggio.

Dott. Michele Navarra.

Secondo un testimone oculare (intervistato dal quotidiano La Sicilia il 6 marzo del 2005) nacque una discussione molto animata, in seguito alla quale Rizzotto fu “invitato” a salire sull’auto di Liggio, una FIAT 1100. Anche ciò che successe dopo è noto: il sindacalista venne trasportato verso una fattoria di contrada Malvello, dove venne percosso violentemente prima di essere giustiziato dallo stesso Liggio con tre colpi di pistola. Alla scena assistette un ragazzino di 13 anni, tale Giuseppe Letizia. In chiaro stato di shock corse a perdifiato verso il paese, dove venne immediatamente fatto ricoverare all’ospedale in preda ad un’altissima febbre. Solo che ad occuparsi di lui fu proprio quel Michele Navarra, sospettato di essere il mandante del delitto Rizzotto, e che di professione faceva il medico: una puntura letale avrebbe posto fine alla

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giovane vita di Giuseppe e alle immagini che aveva visto nella fattoria di contrada Malvello. Torniamo, appunto, alla contrada. «Nessun corpo, nessun reato» era il triste “motto” della Lupara bianca, diventata successivamente marchio di fabbrica dei Corleonesi. Così il cadavere di Rizzotto venne gettato in una foiba profonda più di 50 metri. Le indagini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa furono rapide e impeccabili: Liggio e Criscione furono incriminati e Dalla Chiesa ottenne anche una confessione, con tanto di ubicazione del cadavere. In seguito ad una discesa nel sottosuolo di svariate decine di metri

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si riuscirono anche a recuperare i resti di Rizzotto, che nonostante le condizioni vennero riconosciuti dai familiari. Gli sforzi risultarono comunque vani: in sede processuale infatti Liggio e Criscione ritrattarono la confessione, i giudici credettero all’ipotesi dell’estorsione della confessione e giunsero le assoluzioni. A nulla valsero le testimonianze dei familiari sui resti


del corpo del sindacalista corleonese, che quindi venne giudicato come scomparso e non come assassinato. Solo il 9 marzo del 2012, sessantaquattro anni dopo i fatti, i resti di Rizzotto vengono identificati grazie alla prova del DNA. Pochi giorni dopo il Consiglio dei Ministri decide per i funerali di Stato che si svolgono a Corleone il successivo 24 maggio alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La notizia della riapertura del caso non faccia comunque gridare alla verità: dopo 64 anni e il ritrovamento dei resti la riapertura ha solo “ragioni tecniche”. La verità ormai è scivolata via.

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MOSTRO DI FIRENZE: LA PAROLA FINE È LONTANA? Pietro Pacciani fa ancora notizia

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Ha destato interesse la notizia di soli pochi mesi fa della richiesta di conservare il DNA di Pietro Pacciani, il contadino di Mercatale Val di Pesa (Firenze) morto nel 1998, da molti ritenuto essere il cosiddetto Mostro di Firenze, il serial killer che tra il 1968 e il 1985 si è macchiato della barbara uccisione di otto coppie di giovani amanti nella campagne fiorentine. Sono infatti i legali di Pietro Pacciani a richiedere che le ossa del contadino, destinate all’ossario comune del cimitero di San Casciano, vengano invece conservate poiché potrebbero risultare utili per qualunque ipotetica evenienza investigativa. In realtà il DNA di Pacciani è conservato, e già disponibile per eventuali comparazioni con tracce di sangue o saliva dell’autore dei delitti, grazie ai reperti trattenuti dalle vittime ancora in archivio presso l’istituto di Medicina Legale di Firenze, dopo che la Procura di Firenze lo fece prelevare a seguito della riesumazione della salma nel 2013. È il 1985 quando, nella Campagna di San Casciano Val di Pesa, in frazione Scopeti, all’interno di una piazzola attorniata da cipressi, che il “Mostro” commette il suo ultimo duplice omicidio, il più efferato, il conclusivo della serie. Le vittime sono due giovani francesi, Jean-Michel Kraveichvilj, musicista 25enne e la 36enne Nadine Mauriot, commerciante, madre di due bambine piccole, recentemente separata dal marito, entrambi provenienti da Audincourt.

Pietro Pacciani negli anni ‘80.

Le vittime sono accampate in una piccola tenda canadese a poca distanza dalla strada. L’omicidio è stato fatto risalire alla notte di domenica 8 settembre 1985, o quanto meno questa è la data ammessa al processo a carico dei “compagni di merende”, e tutt’oggi considerata la data del delitto. Tuttavia i due turisti potrebbero essere stati uccisi precedentemente, nella notte tra sabato e domenica, come i rilievi tanatologici, fatti eseguire dall’avvocato Nino Filastò al professor Maurri, uno dei massimi esperti del campo, sembra-

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no suggerire. Il Mostro sembra mettere in atto lo stesso modus operandi degli altri delitti, anche se stavolta le vittime non si trovano in macchina, bensì in una tenda da campeggio: dopo aver reciso con un coltello il telo esterno della tenda, sulla parte posteriore, si sposta verso l’ingresso della tenda e spara, sempre con la stessa pistola, mai ritrovata, poiché i bossoli ritrovati sulla scena del delitto appartengono a cartucce calibro 22 Long Rifle Winchester serie H, le stesse dei sette duplici omicidi precedenti. La donna muore all’istante il giovane compagno, ferito non mortalmente, riesce a fuggire attraverso il bosco ma viene raggiunto dal Mostro, che lo finisce a coltellate e poi ne occulta il corpo cercando di nasconderlo in una pila di rifiuti poco distante dalla tenda. Il Mostro torna poi nella tenda per dedicarsi

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al corpo della donna: lo estrae dalla tenda e pratica l’escissione del pube e del seno sinistro poi si cura di risistemare il corpo all’interno della tenda in modo che non sia visibile. Tale manovra dell’assassino lascia supporre che egli, così facendo avesse voluto ritardare la scoperta dei corpi, magari il tempo necessario perché il brandello di seno sinistro escisso alla ragazza e spedito alla Procura della Repubblica di Firenze, in una busta con l’indirizzo composto da lettere di giornali ritagliate, indirizzato alla dottoressa Silvia Della Monica, pm incaricato delle indagini sul Mostro, arrivasse a destinazione prima del ritrovamento dei corpi. È questo l’atto conclusivo della seri omicidiaria dei delitti attribuiti al Mostro di Firenze. L’inchiesta sugli otto duplici omicidi, avviata dalla Procura di Firenze, ha portato alla


condanna in via definitiva di due uomini identificati come autori materiali di 4 duplici omicidi, i cosiddetti “compagni di merende”: Mario Vanni e Giancarlo Lotti mentre il terzo, Pietro Pacciani, condannato in primo grado a più ergastoli per 7 degli 8 duplici omicidi e successivamente assolto in appello, è morto prima di essere sottoposto ad un nuovo processo di appello, da celebrarsi a seguito dell’annullamento nel 1996 della sentenza di assoluzione da parte della Cassazione. Beretta mod. 71 in cal. 22.

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Dott.ssa Francesca De Rinaldis.

Il parere dell’esperta, dott.ssa Francesca De Rinaldis (psicologa forense) Quella del “Mostro di Firenze” è una delle più sanguinose e controverse vicende di cronaca nera degli ultimi cinquanta anni. Una vicenda alla quale non è ancora stata scritta la parola “fine”, una vicenda che lascia ancora aperti tanti interrogativi in attesa di risposta, uno su tutti il nome del colpevole di quegli otto efferati duplici delitti. Si perché la condanna dei cosiddetti “compagni di merende”, appare incongruente con le peculiarità di un omicida seriale, quale appunto è stato il Mostro di Firenze. Quali sono queste peculiarità? Una su tutte, che ci allontana dall’ipotesi del “Gruppo Criminale”, è il fatto che il Serial Killer sia principalmente un omicida solitario che sceglie di agire da solo, spinto soprattutto dal bisogno che nulla si possa frapporre tra lui e il suo piacere personale e intimo bisogno di poter decidere quando e come privare un essere umano della sua vita. Inoltre è molto più probabile che un “Gruppo Criminale”, piuttosto che un singolo, possa commettere degli errori o lasciare tracce di sé sulla scena del crimine, quelle tracce che invece, almeno ad oggi, non sono mai state trovate sui luoghi dei delitti del Mostro di Firenze. Inoltre il profilo di Pietro Pacciani, contadino delle campagne fiorentine, non si concilia con quello che appare essere il più probabile profilo comportamentale del Mostro di Firenze, ossia un persona dotata di un’elevata intelligenza, acculturata e caratterizzata da agilità fisica, grande abilità pratica e astuzia. Pietro Pacciani, come i due “Compagni di merende”, sono noti alla storia e alla cronaca, per essere rozzi, scarsamente intelligenti e culturalmente ignoranti. Sicuramente il loro modo di vivere dedito alla frequentazione di prostitute e alle abitudini voyeuriste e alle condotte antisociali come il bere, nonché i precedenti giudiziari di Pacciani, condannato già in giovane età per omicidio volontario dell’amante dell’attuale fidanzata, si sono offerti in maniera molto appetibile per essere considerati i motivi e le caratteristiche che hanno spinto i tre ad uccidere, e dunque all’individuazione del colpevole, di quel “Mostro” che da troppi anni tormentava la tranquillità sociale e teneva in scacco gli inquirenti. Tuttavia, la singolarità di questo controverso caso, mai risolto, del Mostro di Firenze si appresta ad essere, ancora oggi a quasi 50 anni di distanza dal primo duplice omicidio del 1968, uno dei più avvincenti casi investigativi della nostra storia criminale e fonte di inesauribile stimolo, confronto e discussione per gli esperti di Criminologia.

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I sindacati italiani chi rappresentano oggi? Cifre e statistiche nell’inchiesta di

Cronaca&Dossier

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Al mondo esistono paesi in cui i rapporti di lavoro sono più conflittuali ed altri in cui risultano più armoniosi. L’Italia è uno dei paesi con i più alti indici di conflittualità, ma le cause delle divergenze non sono le stesse di venti o dieci anni fa, quando scioperi e proteste rappresentavano le forme di lotta più comuni. Con il passare degli anni, i conflitti in ambito lavorativo sono aumentati, ma sono cambiate anche le cause. Mentre prima si scioperava per ottenere dei diritti, una maggiore retribuzione o una riduzione delle ore lavorative, oggi si protesta per riavere quello che a fatica hanno conquistato i nostri nonni. Molti diritti del lavoro sono stati sciupati nel tempo con assenteismo, poca organizzazione e scarsa responsabilità politica e sociale. Queste inefficienze e tante altre ancora si sono perpetrate nel tempo; le stanno pagando tutti, in misura maggiore i disoccupati, gli inoccupati, gli stagisti e gli eterni precari: categorie in aumento e sempre più a rischio.

Oggi le discussioni relative al mondo del lavoro sono all’ordine del giorno. Si parla di crisi lavorativa e si sprecano milioni di parole e fondi pubblici per portare avanti progetti a breve scadenza, il più delle volte privi di continuità. Questi appaiono come un semplice contentino, affidato solitamente al precario, allo stagista o al disoccupato di turno che si ritrova in una sorta di limbo. Quella dei precari è la categoria meno tutelata ed il ruolo dei sindacati, nati con lo scopo di sostenere e tutelare datori e lavoratori, non riscuote più la fiducia di una volta. Il maggior numero di iscritti ai sindacati, oggi, è costituito dai pensionati. Secondo la Treccani, al 2010 la loro percentuale sul totale degli iscritti è pari al 52% per la CGIL, al 48.5 % per la CISL e al 30% per la UIL. L’età dei lavoratori italiani iscritti al sindacato è la più alta in Europa e il lavoratore iscritto al sindacato ha in media quarantaquattro anni, quattro in più rispetto alla media europea.

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I sindacati hanno rappresentato per anni una risorsa collettiva con carattere difensivo, tesa a riequilibrare i rapporti di potere e ad evitare che i lavoratori fossero schiacciati. Le tendenze difensive si evidenziano ancora oggi, ma i sindacati non sembrano avere un ruolo propositivo uguale pertutti. La percezione generale è che ci siano categorie e persone più tutelate rispetto ad altre. Da un’indagine condotta nel 2012 dall’Osservatorio sul Nord Est con metodo CATI, l’immigrato appare il più tutelato; seguono i lavoratori con contratto a tempo indeterminato, donne, pensionati, lavoratori atipici e per finire i giovani. Nel mare delle trasformazioni della società, i sindacati sembrano avere perso il consenso che avevano una volta. A suggerirci quest’interpretazione è

anche un recente sondaggio condotto da IPR Marketing il quale dice che il 67% degli italiani non ha più fiducia. In effetti un disoccupato di lunga durata, un precario, un lavoratore che risulta stagista sul contratto, pur lavorando più di un dipendente fisso, da chi è tutelato? Quale beneficio può offrirgli l’iscrizione ad un sindacato? Oltre all’impegno delle associazioni di categoria, occorrono politiche serie ed efficaci che prendano realmente in considerazione il dramma economico-sociale che stanno vivendo gli italiani.

Dati forniti dall’Eurobarometro.

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I diritti

dei figli dei detenuti in Italia Gli effetti traumatici della detenzione familiare

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Per la società i detenuti sono soltanto trasgressori della legge e per tale motivo devono essere puniti con il carcere che dovrebbe avere una funzione rieducativa. I detenuti vengono costantemente giudicati per le loro scelte di vita e le loro “colpe”, ma raramente si riflette sul fatto che siano anche padri e madri e che i loro figli, seppur innocenti, paghino cara la loro detenzione, in quanto sono doppiamente vittime: non solo esperiscono la mancanza del genitore detenuto, ma si confrontano quotidianamente con lo stigma, il sospetto, la sfiducia, l’isolamento, il rifiuto sociale e la vergogna. Sono 100 mila i bambini in Italia, e circa 900 mila in Europa, che diventano “orfani

di fatto” quando i genitori entrano in carcere. Questi minori, se non viene permesso loro di mantenere il legame con i propri genitori, a loro volta, rischiano di intraprendere condotte devianti da adolescenti o adulti, per rabbia, povertà, assenza di strumenti di sostegno, portandosi dietro, per tutta la vita, tanta sofferenza e un’incapacità a migliorare il loro futuro. Non solo in Italia, ma anche in una prospettiva internazionale, sempre poca attenzione è stata data a questo argomento, e il focus è stato prettamente rivolto alle madri detenute con bambini molto piccoli. Da evidenziare, però, che i figli maggiormente coinvolti sono i ragazzi più grandi e che la maggior parte dei genitori detenuti

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sono i padri; le donne rappresentano solo una piccola minoranza della popolazione carceraria (intorno al 5%). Generalmente, i figli di genitori reclusi vanno a vivere con altri membri della famiglia, di solito sono i nonni o gli zii, ma quando ciò non è possibile il Tribunale per i Minorenni dispone l’affidamento a persone differenti dalla famiglia di origine, arrecando così numerosi e traumatici cambiamenti al ragazzo, che viene costretto a cambiare casa, abitudini, scuola e amicizie. Molto spesso, tuttavia, anche le famiglie stesse (nonni e zii), sebbene si facciano carico dei nipoti, non riescono a favorire la continuità dei rapporti tra figli e genitori detenuti, dopo l’arresto. Ciò è dovuto anche al fatto che sovente

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l’esperienza detentiva è una delle tante situazioni di disagio, vissute dal nucleo familiare. In molti casi, dalle ricerche sociologiche condotte sul campo e dalle interviste fatte ad alcuni figli di detenuti, è emerso che sono presenti altri fattori complicanti: i genitori vivono spesso in contesti caratterizzati da disadattamento sociale, appartengono a famiglie poco coese e sono frequenti esperienze di violenza o, ancora, situazioni di tossicodipendenza da abuso di alcol e sostanze stupefacenti, che portano a numerosi conflitti causati dall’instabilità caratteriale dei soggetti affetti da dipendenza. Altri fattori influenti sono la precarietà lavorativa dei genitori - che determina conseguentemente lo status economico dell’intera famiglia - e il rapporto


di coppia dei genitori. È ormai un assunto ampiamente dimostrato che una vita familiare soddisfacente e, in particolare, una buona relazione con i genitori sono elementi fondanti per la crescita intellettiva e sociale dei bambini; a tal proposito, la Convenzione dei diritti dell’infanzia delle Nazioni Unite ha stipulato, in particolare negli articoli 3, 9 e 12, che il bambino deve poter mantenere un legame con i genitori detenuti. E lo stesso si può dire per il detenuto: affinché effettivamente la pena abbia una funzione rieducativa, egli deve poter conservare i legami familiari, altrimenti, come risulta da alcuni importanti studi criminologici sulla reiterazione del comportamento criminale, rischia in una percentuale tre volte superiore la recidività rispetto a un

detenuto i cui legami familiari non sono stati interrotti. Solo mantenendo salde le relazioni dei detenuti con i loro cari è possibile immaginare un reinserimento nella società al termine della pena. Perché una società possa fattivamente definirsi civile e sana, è importante che venga limitato quanto più possibile il danno arrecabile al minore e al genitore detenuto. In che modo? Innanzitutto, facendo attenzione ai bisogni del bambino e alla sua protezione da eventi traumatici, quali l’arresto. Poi, favorendo lo sviluppo e facilitando le visite del bambino all’interno del carcere, creando aree specifiche per i minori negli istituti penitenziari; sviluppando la comu-

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nicazione tra il bambino e il genitore attraverso agevolazioni e il superamento di ostacoli spaziali al contatto diretto; dando importanza alle responsabilità genitoriali del detenuto al momento dell’arresto e nelle fasi successive, offrendo un programma di riabilitazione che includa anche una formazione su questo tema; fornendo supporto emotivo e psicologico ai partner dei detenuti, soprattutto su come informare e aiutare i figli durante questo evento drammatico. All’interno di questa cornice, pare opportuno che i figli di genitori detenuti non debbano essere discriminati a causa dello status dei loro genitori e

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che le Istituzioni si assumano il compito di ottimizzare le relazioni di cura. Tutto ciò è utile non solo per il benessere psicofisico del bambino o per la riabilitazione del genitore, ma anche come prevenzione del crimine. A tal proposito, in Italia sono tre i tipi di supporto che risultano essere molto carenti e che lo Stato dovrebbe, invece, garantire: assistenza post-penitenziaria dei detenuti che escono dal circuito penale, aiuto economico alle famiglie dei detenuti e programmazione integrata dei servizi sociali, al fine di tutelare i diritti di queste creature che sono state private di quella vicinanza e di quell’affetto fondamentale per lo sviluppo di un bambino.


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Sport e disabilità, un binomio ancora tutto da scoprire La passione per l’attività fisica nelle persone diversamente abili 58


Il termine sport deriva dal francese e significa letteralmente “svago” e può essere praticato singolarmente oppure in gruppo, anche senza fini agonistici ma solo per puro divertimento. Da diversi anni lo sport è entrato di prepotenza anche nel mondo della disabilità, benché qui in Italia se ne parli ancora decisamente poco, e non tutti sanno che lo sport per disabili non è cosa recente, perché nato dopo la Seconda guerra mondiale grazie al Dott. Ludwig Guttmann. Ci troviamo in Inghilterra, esattamente in una cittadina di nome Stoke Mandeville. La guerra è appena terminata e ha lasciato nell’ospedale del paese moltissimi reduci feriti, ormai rimasti disabili. Il Dott. Guttmann cerca di trasmettere il suo pensiero positivo e così fa in modo che questi uomini trovino una nuova dimensione, uno scopo, un obiettivo che possa aiutarli ad uscire dalla profonda crisi nella quale sono caduti. Lo fa spronandoli e spingendoli verso lo sport. I giochi di Stoke Mandeville saranno i pre-

cursori dei Giochi Paralimpici ufficiali, che inizieranno a Roma nel 1960. L’attività fisica per una persona che ha subito un trauma, un incidente o che ha una disabilità, diviene un lasciapassare per tornare a vivere una vita normale a tutti gli effetti. Tantissimi sono difatti i benefici che lo sport regala a chi lo pratica, non solo fisici ma anche psicologici, perché tante volte aiutano a non cadere nel circolo vizioso della depressione. Possiamo immaginare come una persona disabile tenti di isolarsi, pensando di non poter fare più nulla, di non essere in grado di svolgere alcuna attività e questo porta a deprimersi. Al contrario, praticare una qualsiasi attività fisica e sfidando i propri limiti, incoraggia le persone a rimettersi in gioco. Naturalmente prima di cominciare sono determinanti le indicazioni medico scientifiche, perché in base al tipo di invalidità, e quindi al danno che la persona ha subito, si possono indirizzare verso un’attività

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piuttosto che un’altra. Da un’analisi effettuata risulta che circa il 67% delle persone disabili pratica almeno uno sport e quello maggiormente scelto è il nuoto. Queste discipline devono tener conto di molti fattori quali: accessibilità degli impianti, disponibilità degli ausili, centri di riabilitazione e palestre, personale specializzato. In Italia però, non tutte le regioni sono attrezzate adeguatamente per svolgere le tante discipline che oramai si possono fare, come per esempio: tennis da tavolo, scherma, basket, peso, giavellotto, nuoto, tiro con l’arco, equitazione, canoa, vela, atletica, judo, curling. Andando avanti con gli anni aumentano gli sport a cui un disabile si può avvicinare. Certo è che nel nostro Paese sono ancora poco seguite le competizioni. Inoltre, un altro dato da sottolineare è che gli stessi disabili, forse per un fattore culturale, sono restii a buttarsi nell’avventura sportiva. Invece dovrebbero comprendere che quest’ultimo è un terreno fertile dove valorizzare le proprie potenzialità e

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le loro diversità. Ricordiamo che lo sport è una finestra aperta, per far conoscere al mondo una nuova realtà, dove l’obiettivo principale è l’integrazione e l’abbattimento delle barriere culturali e sociali. Ringraziamo persone come Alex Zanardi che da anni porta avanti la sua battaglia per far comprendere come un disabile resti sempre e comunque una persona in grado di compiere ciò che più gli piace. Basta mettere il cuore in quello che si fa e con spirito di sacrificio si può raggiungere il proprio obiettivo. Qualsiasi esso sia.


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Investigative Statement Analysis Come capire la persona di fronte

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Negli Stati Uniti, come in alcuni paesi d’Europa, una tecnica emergente per raccogliere efficacemente informazioni dalle persone e per valutare la loro veridicità e completezza, è il processo di Investigative Statement Analysis. Si tratta dell’analisi sistematica delle parole usate da un individuo, siano esse scritte che rilevate in una dichiarazione orale. L’analisi del testo di una dichiarazione si basa su studi e ricerche che hanno avuto inizio negli anni Settanta e che comportano lo studio del linguaggio, l’uso della grammatica e la sintassi che un soggetto utilizza per descrivere un evento, con l’obiettivo di rilevare eventuali anomalie. In primo luogo, gli esperti di Linguistica determinano ciò che è considerato “tipico”, “normale” in una dichiarazione veritiera. In secondo luogo, cercano deviazioni dalla norma. Questo tipo di analisi si basa sul presupposto che quando si comunica un’informazione o un concetto, il modo più diretto che si ha per farlo è utilizzando le parole e, secondo quanto si ha intenzione di comunicare, ci si impegna a scegliere quelle più adatte, inconsapevoli che quelle stesse parole possano rappresentare il punto debole del discorso. Ciò accade perché in realtà sarebbero le sensazioni e la conoscenza della realtà dei fatti a decidere come articolare una frase e quali parole scegliere. Infatti, a una determinata domanda si possono dare due risposte diverse a seconda se si risponde sapendo di dire la verità o sapendo di dire una cosa falsa. Questo avviene perché non esiste una sola parola o un solo modo per costruire una frase, ma lo stesso concetto si può esprimere in modi differenti e per un esperto di questo tipo di analisi, alcune strutture del discorso possono insospettire e richiamare l’attenzione. Ad esempio, la dichiarazione “sono una persona onesta” ha un suono diverso

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rispetto a “non sono un disonesto” e, nonostante il concetto sia praticamente uguale, le due scelte raccontano due storie differenti. Si ritiene che la parte ID psicologica della nostra personalità, la parte primitiva, tenda a essere sincera in ogni momento. Se vogliamo mentire, si verifica un conflitto con il nostro ID e questo crea stress. Vrij e Winkel (1994) hanno dichiarato che il quadro dell’inganno include componenti sia emotivi sia cognitivi: “Quando una persona mente, questo causa un conflitto dentro di lei e crea stress emotivo che spinge il sistema nervoso simpatico ad agire, esattamente come quando ci troviamo in situazioni in cui dobbiamo vincere la paura”. La risposta allo stress del sistema nervoso simpatico attiverà la parte cognitiva del processo ingannevole e la persona è quindi consapevole del suo nervosismo “e tenderà quindi a limitare e controllare eventuali indizi comportamentali che percepisce come fattore di stress.” Questo diventa evidente attraverso le dichiarazioni verbali e il linguaggio del corpo. Le persone sincere, che non fingono, tendono a usare parole come: furto, frode, criminale. Le persone che mentono, saranno molto più controllate e tenderanno a usare parole come: mancanti (al posto di rubate), persona (al posto di criminale), ecc. e spesso usano un linguaggio che riduce al minimo i riferimenti a se stessi. Un modo per ridurre gli auto-riferimenti è quello di descrivere gli eventi in forma passiva. Esempio: “L’allarme è stato lasciato disinserito” piuttosto che “ho lasciato l’allarme disinserito”. “La spedizione è stata autorizzata” piuttosto che “ho autorizzato la spedizione.” Anche analizzando i pronomi, sarà ciò che si discosta dalla norma ad attirare l’attenzione. Esempio, in caso di aggressione: “Mi ha obbligata a seguirlo nel bosco” risulta essere la norma mentre “Siamo andati nel bosco” catturerà l’attenzione in quanto, in caso di aggressione, la vittima crea distacco dall’assalitore e non vicinanza o intimità. Don Rabon, del North Carolina Criminal Justice Academy a Durham, NC, e autore di Investigative Statement Analysis afferma: “Le analisi delle dichiarazioni sono analoghe alla scena del crimine. Per chi non è esperto, la scena del crimine potrebbe apparire solo come una normale stanza. Per l’occhio allenato, tuttavia, ci possono essere le prove che ci raccontano quanto è successo”.

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LIBRO E PROGRAMMA TV

CONSIGLIATI a cura di Mauro Valentini

Charles “Satana” Manson. Demitizzazione di un’icona satanica «Tutte le mie donne sono streghe e io il demonio» (C. Manson). Non un saggio qualunque. Questo di Biancamaria Massaro (edito da Edizioni Nero Press), al suo primo libro-inchiesta dopo un passato da autrice noir, è il completamento di una rilettura necessaria della figura di Charles Manson, spietato e saccente criminale dell’America degli anni ‘70. Necessaria perché, come spiega nella prefazione il criminologo Ruben De Luca, occorreva che si ristabilisse la verità attorno a Manson, alla sua “Famiglia” (setta) ai suoi ordini assoggettata e alle sue fantasiose visioni di un mondo nuovo. Soprattutto ad una rilettura delle loro terrificanti azioni viste con il distacco degli anni e il rigore scientifico che l’autrice ha saputo metterci con passione e duro lavoro.Un criminale asciugato dell’alone mistico, inadatto ad uno del suo calibro, una demitizzazione che lo riporterà pagina dopo pagina ad un ruolo più “terreno”, paradosso di se stesso e del suo voler volare in alto (e in basso) oltre ogni limite.Analizzandone la vita, i suoi strazianti primi passi in una società che si trasformava così velocemente, percorrendo i suoi reticoli mentali più truci, le azioni violente e spietate di un uomo che dirige un manipolo di pazzi pronti a tutto, arrivando alla fine del percorso, al processo straordinariamente mediatico, il tutto scritto e raccontato in maniera efficace da Biancamaria Massaro. Il crimine dunque indossa di nuovo quel vestito più banale ed atroce, allontanato da una visione enfatica e mitizzante di un uomo che ancora oggi a 80 anni cerca da una cella dove è rinchiuso di far parlare di sé.Tante sono le curiosità e le novità che scorrendo le 200 pagine di questo lavoro certosino si scopriranno, in un libro che si rende necessario per gli studiosi del caso e affascinerà gli amanti del crimine. Tra tutte, la composita spiegazione dell’Helter Skelter, del momento così denominato da Manson per definire la “confusione” del mondo che avrebbe portato ad una razza migliore di cui chiaramente lui sarebbe stato il nuovo messia. La pietas per le vittime, i Beatles, l’inutilità della tragedia, tutto in un libro dal grande impatto emotivo.

In televisione Diritto di Cronaca, la nuova rubrica di politica ed attualità in onda ogni martedì e giovedì su “Teleromauno” (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.

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PROGRAMMA RADIOFONICO E FILM

CONSIGLIATI a cura di Nicola Guarneri

Al cinema

Focus - Niente è come sembra Con quasi due milioni di euro incassati nel primo weekend italiano, Focus – Niente è come sembra mantiene le promesse hollywoodiane. Il ritorno di Will Smith sul grande schermo è un successo annunciato, perché in Focus ci sono tutti gli ingredienti giusti: c’è una storia di truffe e truffatori, tanto cara al pubblico americano (da Slevin – Patto Criminale a American Hustle) e c’è una femme fatale in ascesa, una Margot Elise Robbie che conferma il suo buon momento dopo The Wolf of Wall Street. Come in una gigantesca mossa Kansas City, “Niente è come sembra” e lo spettatore non può far altro che attendere la fine dell’avventura, tra la storia d’amore dei due personaggi e truffe a ripetizione, per scoprire di essere stato abbindolato fin dall’inizio. Ma in fondo non è quello che cerchiamo?

In radio

Nun te Radioreggae più, ideato e prodotto da Claudio Caruso, in onda ogni lunedì dalle 22:30 alle 00.00 su “Radio Libera Tutti” (www.radioliberatutti.it) o app RLT, è un’ora e mezza di puro intrattenimento con la conduzione di Claudio Caruso e Federico Mancini, per dire finalmente cosa non sopportiamo, parlando di attualità ma sempre con una vena ironica. La Radio lavora anche alla rubrica Dalla parte di chi non c’è ispirato a tutte quelle persone che sono vittime dello Stato o della mafia.

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