COPIA OMAGGIO
anno 3 – N. 32, Dicembre 2016
ROBERTA RAGUSA, AD UN PASSO DALL’EPILOGO
L’avvocato Gentile a pochi giorni dalla sentenza: «Senza Logli difficilmente troveremo i resti» Carlotta Benusiglio, è stato davvero un suicidio?
Il caso Marta Russo, storia con troppe anomalie
Suicidi e minori in Italia, il dramma invisibile
Indice del mese 4. La finestra sul crimine CINQUE ANNI DI SILENZI: LE TAPPE DEL CASO RAGUSA
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10. Criminalistica
IL CASO DELLA GIOVANE DONNA DISSOLTA NEL NULLA
18. Crimini ai Raggi X
NICODEMO GENTILE: «SENZA LOGLI DIFFICILMENTE TROVEREMO I RESTI»
26. Media Crime
LIBRO, FILM E PROGRAMMA RADIO CONSIGLIATI
28. Memorabili canaglie FERDINAND GAMPER, L’ODIO DIVENTA TERRORE
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32. Sulla scena del crimine CASO MARTA RUSSO, STORIA CON TROPPE ANOMALIE
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40. Sulla scena del crimine CARLOTTA BENUSIGLIO, È STATO DAVVERO UN SUICIDIO?
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46. Dossier Società
SUICIDI IN ITALIA: IL DRAMMA CHE NESSUNO VUOLE VEDERE
ANNO 3 - N. 32 DICEMBRE 2016
Rivista On-line Gratuita
50. Diritti e minori
Direttore Responsbile Pasquale Ragone Direttore Editoriale Laura Gipponi
QUANTO È ALTO IL RISCHIO DI SUICIDIO NEI MINORI?
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54. Storie di tutti i giorni
Articoli a cura di Nicoletta Calizia, Francesca De Rinaldis, Nicola Guarneri, Dora Millaci, Paolo Mugnai, Gelsomina Napolitano, Paola Pagliari, Mauro Valentini
QUANDO UN GENITORE UCCIDE IL FIGLIO DISABILE
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Direzione - Redazione - Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com Grafica e Impaginazione Federica Bonini
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Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione.
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Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1/2014 Reg. Stampa dal 15 gennaio 2014
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CINQUE ANNI DI SILENZI Tutte le tappe del mistero sulla scomparsa di Roberta Ragusa alla vigilia della sentenza nel processo Logli
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La mattina del 14 gennaio 2012 San Giuliano Terme si sveglia come ogni sabato. La cittadina in provincia di Pisa desta lentamente, complice l’inizio del weekend. C’è tuttavia una casa che si sveglia solo per ripiombare in un incubo. È quella della famiglia Logli: quando il signor Antonio e i figli di 14 e 10 anni si alzano la mamma non c’è. Lei è Roberta Ragusa, 44 anni, titolare della scuola guida Futura e conosciuta da tutti nella piccola cittadina. L’avevano vista per l’ultima volta la sera prima, già in pigiama e pantofole, dedita agli ultimi mestieri di casa prima di raggiungere il resto della famiglia a letto. E invece Roberta Ragusa sparisce nel nulla, inghiottita da una gelida notte di febbraio senza lasciare traccia. La borsetta con gli effetti personali (documenti, carte di credito, contanti) è sul tavolo in cucina, i vestiti al loro posto nell’armadio.
Non manca nulla, solo Roberta non si trova. Nei primi giorni successivi alla scomparsa della donna si susseguono le segnalazioni, complici anche i tempestivi appelli del figlio che utilizza Facebook per la ricerca; il gruppo dedicato alle segnalazioni raccoglie in poche ore più di mille utenti, volenterosi di aiutare a ritrovare Roberta. Domenica 15 gennaio iniziano le prime ricerche da parte dei Carabinieri che utilizzano i cani per cercare la donna nelle zone limitrofe. Non si esclude una tragedia e si controlla meticolosamente anche la zona del fiume Morto, il cui corso passa lì vicino.
Roberta Ragusa
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Le Forze dell’ordine iniziano anche gli interrogatori: vengono sentiti i familiari, i vicini, addirittura gli autisti degli autobus notturni ma tutte le segnalazioni risultano infondate. Passano le ore e si fa largo nelle teste degli inquirenti una tragica fatalità: secondo i familiari Roberta avrebbe battuto la testa qualche giorno prima, mostrando alcuni vuoti di memoria, tragicamente sottovalutati. Non escludono che sia uscita in stato confusionale e si sia persa. A rendere ardue le ricerche è soprattutto la difficoltà a stabilire il momento in cui Roberta Ragusa è uscita di casa: il marito Antonio Logli sostiene di non averla sentita andare a letto, ma non lo esclude.
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San Giuliano Terme cade nello sconforto: non capiscono che fine possa aver fatto Roberta, una donna così a modo e rispettosa, tutta casa e lavoro. Passano i giorni e le ricerche infruttuose fanno acquistare mediaticità al caso, che a fine gennaio viene trattato per due volte da Chi L’Ha Visto; anche in questo caso le numerose segnalazioni non portano a nulla. Nei mesi successivi, mentre le ricerche brancolano nel buio, spunta un testimone che smentisce la ricostruzione del marito («Sono andato a dormire intorno a mezzanotte e mi sono accorto solo al mio risveglio, alle 06:45, che mia moglie non era in casa») fino ad allora ritenuta attendibile. Questo testimone avrebbe visto Logli allontanarsi da casa in auto intorno all’una di notte, smentendo di fatto la sua versione dei fatti. Logli viene quindi indagato per omicidio volontario e occultamento di cadavere. È un nuovo inizio per quello che diventa il caso Ragusa: nel gennaio 2013 il procuratore capo di Pisa Ugo Adinolfi invita chi ha notizie utili a parlare. A dodici mesi di distanza dalla scomparsa della donna gli inquirenti sono praticamente certi che sia stata uccisa e iniziano così le ricerche
del cadavere, ben diverse da quelle di una donna scomparsa. Centinaia di carabinieri, poliziotti, militari e volontari partecipano alla maxibattuta che setaccia quasi tutta la provincia di Pisa. Vengono chiamati in causa anche i sommozzatori per controllare il lago di Massaciuccoli (in provincia di Lucca) dopo la segnalazione di un pescatore mentre sulla terraferma si utilizza un super georadar in grado di controllare fino a tre metri di profondità (la stessa tecnica utilizzata nel caso di Yara Gambirasio, che tuttavia si rende inefficace). Roberta Ragusa ancora non si trova. Nell’ottobre 2013 la procura di Pisa chiede altri sei mesi per indagare sul caso. Sono certi che sia stato il marito ma non ne hanno le prove: solo nelle ultime settimane hanno infatti individuato il presunto super testimone che avrebbe visto «uscire da casa Logli una donna in vestaglia che salì su una vecchia jeep chiara parcheggiata in strada e poi partita in direzione di Pisa». È il vigile del fuoco Filippo Campisi, rimasto per quasi due anni nell’anonimato per paura del clamore mediatico e che inviò una lettera anonima in Procura riferendo quanto visto. La richiesta viene accettata e dopo l’identificazione di Campisi
spuntano altri due testimoni: il primo è un vicino di casa che sostiene di aver visto un uomo e una donna litigare in mezzo alla strada, il secondo è una donna che dice di aver visto Logli pulire del sangue in strada nella notte incriminata.
Tribunale di Pisa
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Passano i giorni e mentre la scadenza delle indagini, fissata per il 7 maggio, si avvicina, si delinea anche un ipotetico movente: Roberta Ragusa avrebbe scoperto la storia d’amore del marito con Sara Calzolaio, sua attuale compagna e all’epoca della scomparsa babysitter e segretaria dell’autoscuola. Un particolare che tuttavia Logli non ha mai nascosto, avendolo fatto mettere a verbale durante il primissimo interrogatorio dei Carabinieri, appena successivo alla scomparsa della moglie.
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Il cerchio rosso sul calendario in questo periodo è quello del 28 febbraio 2014: è il giorno del primo interrogatorio di Logli dal momento in cui è stato indagato. Un interrogatorio che non avverrà, perché l’uomo si rifiuta di presentarsi davanti al Pubblico Ministero. È l’ultima goccia: la Procura è decisa a chiedere il processo anche senza aver ritrovato il cadavere di Roberta. Le indagini si chiudono formalmente il 22 settembre: secondo il procuratore Ugo Adinolfi il colpevole è Antonio Logli, che il 14 gennaio 2012 costrinse «con violenza la moglie Roberta Ragusa a salire in auto» e poi la uccise volontariamente per poi sopprimerne il cadavere «al fine di assicurarsi l’impunità per l’omicidio» ed evitare «in modo permanente il ritrovamento del corpo». Inizia così un iter giudiziario lungo e tortuoso nel quale compaiono anche i
figli come parti offese nel processo contro il padre, accusato di omicidio volontario e soppressione di cadavere. Il 4 marzo del 2015 Logli opta per il rito classico ma dopo due giorni arriva la sorprendente decisione del Gup di Pisa che dispone il «non luogo a procedere»; il più amareggiato e sorpreso sembra il Procuratore capo che definisce Logli come un «bugiardo patentato». Un grande peso nella decisione del Gup ha avuto l’assenza del cadavere, oltre alle incertezze di uno dei testimoni, caduto in contraddizione sotto le domande degli avvocati difensori. Sembra la fine del caso Ragusa ma la Procura non si arrende e prepara il ricorso insieme alle parti civili. È il 18 marzo 2016 quando la Cassazione si pronuncia sul ricorso ribaltando l’ultima decisione. La Corte Suprema esprime tutti i dubbi sull’innocenza di Logli e annulla così il non luogo a procedere: l’uomo dovrà
Palazzo della Cassazione, Roma
quindi presentarsi davanti al giudice. Durante l’udienza del 18 novembre Logli cambia idea e opta per il rito abbreviato. L’ultima notizia risale allo scorso 2 dicembre, quando l’accusa ha reso noto la sua richiesta: 30 anni di carcere, che per effetto delle riduzioni previste dal rito abbreviato diventano 20. Si attende ora la sentenza per mettere la parola fine almeno al Primo grado di giudizio: la decisione è attesa per il prossimo 21 dicembre.
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IL CASO DELLA GIOVANE DONNA DISSOLTA NEL NULLA Dov’è finita Roberta Ragusa? Quegli indizi che ricostruiscono una vicenda ancora con troppi lati oscuri
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Roberta Ragusa ha 44 anni, occhi azzurrissimi, sposata con Antonio Logli ed è madre di due bambini: la maledetta notte tra il 13 e il 14 gennaio 2012 a Gello di San Giuliano Terme scompare nelle tenebre. Che fine ha fatto? Il giorno seguente il marito si reca dai Carabinieri a denunciare la scomparsa, ipotizzando che la moglie possa essersi allontanata da casa in stato confusionale o colpita da amnesia, additando la causa di questi
Antonio Logli
presunti stati psicopatologici ad una caduta risalente al 10 gennaio durante la quale Roberta aveva sbattuto violentemente la testa. Questo episodio era stato annotato dalla stessa Roberta sulla sua agenda organizer, scrivendo le parole «tragedia» e «caduta dalle scale soffitta». Da quello che Roberta aveva raccontato alle sue amiche della palestra il fatto si era svolto con questa dinamica: Antonio si trovava sulla scala di accesso alla soffitta per riporre uno scatolone di addobbi natalizi, quando chiamava la moglie per essere aiutato. Nella manovra il corpo di Antonio si sbilanciava e colpiva Roberta, che cadendo tra due mobili sbatteva la testa. Ma per Roberta il movimento di Antonio non sarebbe stato accidentale, bensì una spinta volontaria per far perdere l’equilibrio della moglie e farla battere intenzionalmente contro lo spigolo di un mobile. Secondo Antonio Logli si è trattato invece di un incidente. Come sempre secondo quest’ultimo la loro vita coniugale era una vita normale e tutto filava senza apparenti problemi. Ma Antonio Logli sembra avere mentito su molte cose. Nasconde infatti da sette anni una relazione clandestina con Sara Calzolaio. L’amante l’ha conosciuta appena ventenne come allieva dell’autoscuola gestita da Roberta. Il rapporto tra Roberta e Sara era ottimo, tanto che alla giovane
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in un primo periodo venne offerto il lavoro di babysitter e successivamente quello di dipendente nell’autoscuola. Roberta oltre a condividere con Sara lo stesso credo religioso per la chiesa dei Testimoni di Geova, si confidava con lei anche su dettagli intimi della vita con il marito. Roberta è una donna energica che si spende tutta per il lavoro e i figli. Si ritaglia per sé soltanto qualche spazio intimo in palestra dove parla della propria frustrazione dovuta a rapporto logorante con il marito. Un rapporto che sta viaggiando ormai su due binari paralleli e distanti.
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Roberta invece ha la profonda convinzione che il marito la stia tradendo, senza però sospettare sull’identità dell’amante. La sera del 13 gennaio succede qualcosa, alle 23:30 circa Roberta sta scrivendo la lista della spesa, meticolosa come sempre, annota tutto con una penna blu, scrive in corsivo con una grafia continua ed ordinata ed alcune precisazioni in stampatello. Poi l’ultima riga della lista è scritta con una penna diversa, nera, vergata più frettolosamente e senza porre attenzione all’atto, tanto che la grafia risulta in parte sconfinante nel rigo sottostante. Questo può forse far ipotizzare che durante la scrittura della lista qualcosa ha catturato l’attenzione di Roberta, che si è alzata e si è mossa in direzione della fonte che ha richiamato il suo interesse, per poi ritornare di
nuovo sul foglio, impugnare la prima penna a disposizione e scrivere frettolosamente l’ultimo rigo in uno stato di agitazione. Logli sostiene di essere andato a letto alle 23:30 lasciando Roberta a scrivere la lista della spesa, ma l’analisi dei tabulati lo smentiscono registrando una sua attività telefonica dalle 23:08 alle 00:17, probabilmente svolta in soffitta, dove stava effettuando due lunghe chiamate all’amante ed una più corta della durata di 17 secondi che si concludeva con un «ti amo, buonanotte». Forse Roberta ha sentito quelle telefonate? È questo il motivo che la distrae dalla stesura della lista della spesa? Ha scoperto che l’amante del marito è la sua amica e confidente Sara Calzolaio? E dopo cosa è successo? Possiamo far riferimento soltanto alle testimonianze raccolte e a vari indizi. Sappiamo che alcuni testimoni vedono in via Ulisse Dini una donna in abiti leggeri che si dirige verso un fuoristrada che la aspettando parcheggiato sul lato della carreggiata. Vaghe e confuse testimonianze che potrebbero supportare un allontanamento volontario della donna. Contemporaneamente però altre due testimonianze vanno nella direzione
opposta. La prima è quella della signora Silvana, che uscita per andare in farmacia a prendere dei medicinali, riferisce di aver notato in via Gigli (perpendicolare di via Dini) una donna in pigiama rosa correre lungo la strada. Dopo circa 40 minuti, poco prima delle 01:00 Silvana rientra a casa e vede la donna con il pigiama al lato della strada con un uomo che identifica
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certamente con il Logli. La testimonianza di Silvana si intreccia con quella di Loris Gozi, uno zingaro di etnia Sinti, che in quei minuti stava rientrando a casa insieme alla moglie Anita. Loris afferma di aver visto Logli all’interno della sua Ford Escort nell’atto di coprirsi il volto. Intorno alle 01:00 Loris esce di nuovo per portare fuori il cane e nota questa volta una scena diversa, più lontana rispetto alla precedente, dove un uomo litiga violentemente con una donna
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che però non riesce ad identificare. La donna urla, chiede aiuto, poi Loris sente come un tonfo sordo sul metallo dell’autovettura, poi le portiere che si chiudono e l’auto che sgomma via. L’auto è diversa, probabilmente una Citroen C3, come quella di Roberta. Da quel momento il buio e diversi gesti sospetti di Logli, come quello di distruggere e far distruggere alla Calzolaio i telefoni segreti usati per le loro comunicazioni amorose. Ci sono poi anche testimonianze che parlano di graffi sulla fronte e su una mano del Logli, che lui stesso avrebbe giustificato come tagli procurati dai rami di un ulivo. Gli inquirenti puntano inoltre l’attenzione sul fatto che Logli, la mattina in cui le unità cinofile iniziarono le ricerche di Roberta a partire dalla sua abitazione, lasciò la sua auto e il suo giubbotto nei pressi del cimitero di Pisa, lontano dai nasi dei cani molecolari.
A complicare il tutto c’è poi un corpo mai ritrovato e nessuna traccia utile di Roberta recuperata durante i sopralluoghi del RIS. Nel corso del 2016, nonostante la decisione del gup Giuseppe Laghezza di non procedere contro Logli, il giornalista del Corriere della Sera Fabrizio Peronaci ha sollevato nuovamente il caso sottolineando le versioni di una vigilessa
sentenza annunciata il 21 dicembre prossimo. Per ora c’è soltanto una costante: Roberta una donna scomparsa, anzi per dirla alla maniera americana, una “vanished”, una dissolta nel nulla. Adesso tutto è rimesso in discussione dal processo con rito abbreviato richiesto dai legali di Logli, che dovrebbe dare i suoi risultati entro la fine del 2016.
e di una volontaria della Protezione Civile di San Giuliano Terme in riferimento ad un incendio avvenuto in un boschetto vicino a Gello, con successivi e sospetti movimenti di persone sempre nei pressi del bosco, tanto da far ipotizzare che il corpo della Ragusa possa essere stato occultato in quel terreno e poi spostato. Adesso tutto è rimesso in discussione dal processo con rito abbreviato richiesto dai legali di Logli, con Foto che mostra il terreno nel bosco prima e dopo (dal gruppo fb Giornalismo Investigativo del giornalista Peronaci)
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L’avvocato dell’Associazione Penelope dice la sua a poc di volta nel caso Roberta Ragusa sarebbe nelle
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chi giorni dalla sentenza nel processo Logli: la chiave dichiarazioni e nei comportamenti del marito
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L’avvocato Nicodemo Gentile
Nicodemo Gentile è da anni uno dei legali a fianco di “Penelope”, l’associazione che si occupa di assistere i familiari delle persone scomparse. Penelope che è stata ammessa come Parte Civile nel processo a carico del marito di Roberta Ragusa, Antonio Logli, accusato di aver causato la scomparsa e la morte della moglie. Sono giorni decisivi questi, il processo, svolto con rito abbreviato, è ad un passo dall’epilogo e “Cronaca&Dossier” incontra l’avvocato Gentile per fare il punto della situazione, cercando una decodifica in un procedimento che appassiona l’opinione pubblica e che presenta elementi davvero singolari.
Avvocato, grazie per la disponibilità in un momento così topico per la vicenda. Quanto potrebbero pesare sulla decisione della Corte quelle testimonianze che hanno collocato Logli fuori casa quella notte? Hanno secondo Lei un peso reale di prova del fatto per dimostrare che Logli avrebbe mentito? «Hanno sicuramente una valenza indiziaria fortissima perché costituiscono l’alibi falso del Logli, che in un processo
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altamente indiziario come quello che si sta celebrando, rappresenta un elemento a carico imponente e estremamente rappresentativo della responsabilità. Queste testimonianze, che alcune criticità sicuramente presentano, vanno poi valutate con tutti gli altri elementi del fascicolo in modo da superarne le ambiguità». Un procedimento indiziario come questo, pensa che abbia le stesse
caratteristiche del caso di Guerrina Piscaglia e che quindi sussistano le condizioni per una condanna? «Sì, sono fiducioso. Il caso Piscaglia ha confermato e rafforzato un indirizzo giurisprudenziale che con forza ci dice come l’assenza di un cadavere non sia ostativo ad una sentenza di condanna. Anche nel caso di Roberta l’assenza del corpo può essere superata con un ragionamento inferenziale che parte dal dato certo che la sua scomparsa non è ascrivibile né ad un allontanamento volontario, né ad un suicidio o incidente».
Dove crede che Logli si sia tradito? Qual è secondo Lei l’elemento che potrà condizionare la decisione del giudice. Dalle dichiarazioni mendaci riguardo alla sua relazione allo strano movimento in auto la mattina successiva alla scomparsa (quando la macchina prima non parte poi riparte), il suo andare a chiedere mirato a Gozi se avesse visto qualcosa: quale Le sembra l’elemento più debole nella sua ricostruzione? «È nel complesso di tutti questi comportamenti e dichiarazioni che va
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individuata la responsabilità del marito. Farsi portatore di dichiarazioni mendaci e di comportamenti diffusamente ambigui mal si attaglia con l’idea di un marito con la coscienza a posto. Logli avrebbe dovuto mettere a fuoco l’intera Italia, non tanto per ricercare la moglie con la quale ormai era separato in casa, ma la mamma dei suoi figli, che avevano un rapporto simbiotico con Roberta». Ritiene che le ricerche siano state fatte con la sufficiente accuratezza o ha il sospetto che non sia stato fatto tutto il possibile e che la fortuna possa aver fornito un aiuto inaspettato all’assassino? «Faccio un plauso agli inquirenti che pur muovendosi in condizione difficili non hanno trascurato nulla. Credo che chi ha fatto sparire Roberta abbia avuto dalla sua parte anche fortuna, tra l’altro la scomparsa è avvenuta in concomitanza con la tragedia della Concordia che per
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Guerrina Piscaglia
mesi ha avuto i fari mediatici accesi, offuscando un po’ la vicenda di Roberta». Secondo Lei la scelta del rito abbreviato è stata fatta dalla difesa per evitare che testimonianze importanti come quella di Sara o dei figli potessero danneggiare l’accusato? «Anche e soprattutto sono convinto che in un processo ordinario le testimonianze
anche quelle in ambito familiare avrebbero appesantito la posizione del Logli. Cristallizzare il materiale probatorio può aiutare la difesa, anche se il Giudice d’ufficio potrebbe sempre d’ufficio disporre integrazioni probatorie ritenute indispensabili al fine del decidere».
Lei crede che il corpo di Roberta sia vicino quella casa? «Domanda da un milione di dollari. Quello che mi sento di dire è che ormai il corpo di Roberta o meglio i resti cadaverici senza il contributo del marito difficilmente si ritroveranno».
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LIBRO E PROGRAMMA TV
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a cura di Mauro Valentini
IL RAGIONEVOLE SOSPETTO Quando il dubbio sopravvive alla verità
Cataldo Calabretta è senza ombra di dubbio uno dei più misurati e pragmatici volti noti che in televisione raccontano la cronaca nera. La sua storia professionale del resto lo colloca di “diritto” al centro del crimine, avendo con sé un bagaglio ricchissimo di conoscenze forensi e di capacità di gestione dell’informazione. Informazione che è anche il pane quotidiano di Vittoriana Abate, da decenni inviata di Porta a Porta, apprezzata dal grande pubblico per l’equilibrio narrativo. Cataldo Calabretta e Vittoria Abate, raccogliendo queste loro esperienze sul campo, hanno appena scritto un libro dall’eloquente titolo Il ragionevole sospetto (Edizioni Imprimatur), un’opera a metà tra saggio e racconto, che attraversa alcuni tra i crimini più controversi degli ultimi anni alla ricerca di quello che dovrebbe ma spesso non è il fulcro di ogni indagine: il dubbio. Di quel ragionevole sospetto richiamato nel titolo che potrebbe regalare una visione diversa e sorprendente. Il rigore dell’analisi dei due autori sfiora con eleganza queste brutte storie, facendole rivivere nella memoria del lettore che poi potrà, alla luce di quello che legge, avvicinarsi sensibilmente appunto a quella linea di confine che spesso viene calpestata dalla furia della notizia, quel confine analitico della verità oggettiva. O della sua assenza. Vittime e carnefici riletti con attenzione quindi, in un libro tutt’altro che didascalico che al contrario coinvolge e appassiona, dove la sensazione di “vicinanza” di chi scrive si percepisce e si fa evidente, scavando sulle dinamiche emozionali e psicologiche dei protagonisti, che nascondono sempre nel loro intimo l’evidenza del male.
Diritto di Cronaca,
la nuova rubrica di politica ed attualità in onda ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.
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FILM E PROGRAMMA RADIOFONICO
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a cura di Nicola Guarneri
NAPLES ‘44
Il film documentario sulla Napoli del Secondo dopoguerra Debutta in questi giorni nella sale italiane Naples ’44, il film documentario basato sul libro dell’ufficiale inglese Norman Lewis, che nel 1943 sbarcò a Salerno e partecipò alla liberazione di Napoli con le Forze Alleate. Lewis rimase colpito da quell’anima devastata e coraggiosa del Sud Italia nel secondo dopoguerra e annotò tutti i suoi ricordi in un diario, poi pubblicato nel 1978. Nel film, scritto e diretto da Francesco Paterno, si alternano immagini e spezzoni inediti della Napoli del tempo, frutto di una lunga ricerca tra archivi pubblici e privati. In sottofondo la voce narrante (Benedict Cumberbatch nell’opera originale, Adriano Giannini nella versione italiana) legge stralci delle memorie di Lewis, moltiplicando esponenzialmente lo sconforto e la desolazione che le immagini restituiscono allo spettatore.
In radio La Storia Oscura
Storia, crimine e criminologia su Radio Cusano Campus dal lunedì al venerdì dalle 13:00 alle 15:00 con “La Storia Oscura”, un programma curato e condotto da Fabio Camillacci. Conoscere la storia per capire l’attualità.
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FERDINAND GAMPER, L’ODIO DIVENTA TERRORE
Da subito si ipotizza un movente di tipo passionale, in Italia addirittura, si parla di omicidio su commissione, commesso da killer professionisti. La svolta arriva una settimana dopo, quando con la stessa arma, viene assassinato un contadino in una zona isolata. Dopo questo nuovo evento, inizia a diffondersi la paura, e gli inquirenti, iniziano a pensare alla presenza di un serial killer.
Lo strano caso e la morte del serial killer altoatesino che odiava gli italiani Ăˆ l’8 febbraio 1996 quando, a Merano, Hans-Otto Detmering, 61 anni, alto funzionario della Deutsche Bundesbank, e la sua amante Clorinda Cecchetti, marchigiana, 50 anni, vengono uccisi con due colpi di pistola alla nuca. I due amanti stanno facendo una passeggiata e lui, Hans pare intenzionato a voler lasciare la moglie per potersi rifare una nuova vita con Clorinda. Ferdinand Gamper
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In realtà gli inquirenti non sono lontani dalla verità, e infatti, il 27 febbraio viene uccisa un’altra coppia mentre sta passeggiando: l’uomo è colpito alla nuca, la donna è terrorizzata ma si salva, e fornisce un identikit completo. Ma la serie di omicidi non finisce qui: il 1 marzo a Rifiano, vicino a Merano, viene ucciso con un colpo alla fronte Tullio Melchiorri, muratore. Questa volta però c’è una novità nel modus operandi del killer. Infatti, c’è una “rivendicazione”: due foglietti, scritti in
lingua tedesca, uno contenente frasi razziste: «Italiano maiale, ti sei insediato nel Sud Tirolo». L’altro è indirizzato ai Carabinieri: «Io sono un italiano emigrato, o nazi. Sono responsabile solo dell’infanticidio. Anche questa volta siete arrivati in ritardo». L’identikit di cui gli investigatori sono in possesso e il fatto che Melchiorri sia un suo vicino di casa portano i carabinieri nel maso abitato da Ferdinand Gamper, un altoatesino, un uomo schivo e riservato che parla solo tedesco di lingua tedesca e che ha aderito a un movimento secessionista tirolese. Nella sparatoria con i Carabinieri accorsi verso la sua abitazione, viene così ferito a morte il maresciallo Guerrino Botte, colpito in piena faccia. Circondato, Gamper si suicida utilizzando una carabina modificata, la stessa arma che poi verrà riconosciuta come l’arma di tutti gli omicidi. Gamper non potrà mai raccontare a nessuno che cosa esattamente l’abbia spinto a uccidere: era l’odio contro l’etnia italiana o si trattava semplicemente di un pretesto cui si era aggrappata la sua presunta schizofrenia?
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LA PSICHE DEL MOSTRO DI MERANO
Approfondimento della psicologa forense Francesca De Rinaldis Allo stato dei fatti e per le modalità con le quali la vicenda si è svolta e conclusa, più che tra gli assassini seriali, Gamper andrebbe annoverato tra quelli che secondo la definizione dell’FBI, sono degli “spree killer”, o altrimenti detti, assassini compulsivi. Secondo la definizione classica lo spree killer è colui che uccide due vittime o più in luoghi diversi ma adiacenti, in un lasso di tempo molto breve. Tali crimini hanno spesso un’unica causa scatenante e sono tra loro concatenati; l’assassino non conosce le sue vittime, e lasciando 30 30
molte tracce dietro il suo passaggio, tende ad essere catturato facilmente. Tuttavia, ad onor del vero, va anche detto che ad oggi non possiamo stabilire con certezza se Gamper fosse o meno un potenziale serial killer, nella misura in cui non possiamo sapere se, qualora non fosse stato individuato ed ucciso, avesse continuato ad uccidere. Inoltre, proprio perché rimasto ucciso durante la sua cattura, non siamo in possesso di un esame della personalità di Gamper, che avrebbe potuto chiarire aspetti caratteriali e comportamentali che avremmo
potuto con certezza ancorare ad un comportamento seriale. Se è vero che dietro ad ogni mostro che la storia giudiziaria ci fa conoscere c’è sempre un volto umano, vale la pena evidenziare alcune tappe della vita di Gamper, che in base alle poche informazioni in possesso, appare costellata di difficoltà e di sofferenze. Abusato dal padre e incapace di un normale approccio nei confronti delle ragazze Gamper colleziona anche precedenti penali, tra il 1977 e il 1981, per oltraggio, resistenza a pubblico ufficiale e ubriachezza. Passa gran parte della sua vita a svolgere lavori umili, in solitudine, fra la Svizzera, dove fa il pastore, e un fienile di Rifiano nel quale aiuta i contadini locali. Passa il tempo e due eventi cronologicamente molto vicini segnano ancora di più la psiche dell’uomo, già incline a fantasie di odio e vendetta: uno dei suoi fratelli
si uccide nel 1989 sparandosi un colpo in testa e cadendo su un coltello posizionato per terra. Nello stesso periodo muore anche il padre. Gamper si trasferisce allora a vivere con la madre, elemento quest’ultimo di ulteriore destabilizzazione in quanto la donna soffre da tempo di disturbi mentali. È in questo periodo che i sentimenti anti-italiani dell’uomo, che lo ricordiamo, parla solo tedesco, prendono infine la forma di un piano di pulizia etnica che sedimenta, rafforzandosi, per qualche anno, fino allo scoppio finale in quelle tre settimane che hanno terrorizzato la zona di Merano. Nel suo delirio schizofrenico Gamper identifica nell’Italia il demone che gli ha causato ogni tipo di male e vive in questo tormento intrapsichico, fino a che nel febbraio 1996, non passa all’azione.
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CASO MARTA RUSSO, UNA STORIA CON TROPPE ANOMALIE Nel libro del giornalista Mauro Valentini raccolti gli indizi e le testimonianze che suscitarono più clamore
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Il libro inizia in modo “anomalo”, cioè non partendo dal caso Marta Russo ma dalla morte di Giorgiana Masi. Perché? «Perché quella morte assurda, come assurda è stata quella di Marta, fu evocata subito come possibile pista politica dal pm Lasperanza, in quanto cadeva quasi nel ventennale quel giorno in cui Marta Russo è stata colpita. Ma soprattutto, 9 mesi dopo la sua morte fu rinvenuta nei bagni del rettorato della Sapienza una pistola calibro 22, compatibile sia con quella che ha ucciso Giorgiana Masi sia con quella utilizzata per uccidere Marta. Coincidenza incredibile, direi. Si parlò molto di quella pistola, ma non si riuscì a determinare nessun collegamento certo. Eppure, quella pistola con la matricola abrasa e nascosta in un passamontagna ha lasciato non pochi dubbi». Mauro Valentini
Fra testimonianze e indizi il caso Marta Russo continua a far parlare di sé soprattutto alla luce del libro “Il mistero della Sapienza” (Sovera Edizioni) appena pubblicato dal giornalista Mauro Valentini. Una storia controversa che pone ancora la fatidica domanda: furono giuste le condanne a carico di Scattone e Ferraro?
Una pista che ha sempre destato curiosità è quella relativa alla Pul.Tra e alle armi rinvenute. Può dirci cos’era la Pul.Tra e perché alla fine quella pista venne abbandonata dagli inquirenti? «La Pul.Tra era la società che si occupava delle pulizie del perimetro dove è avvenuto lo sparo. Nel deposito della società furono trovati dei bossoli e delle scalfitture sul muro segno inequivocabile di prove di sparo. La Digos in un’informativa di pochi giorni dopo lo sparo scrisse apertamente che quella poteva esser la pista giusta e di cercare in quell’ambito.
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almeno due operai non fossero compatibili e questo bastò a chiudere le indagini contro di loro. Come se si potesse sperare che chi avesse sparato e ucciso Marta poi riportasse a casa l’arma».
Luogo nel quale è avvenuto lo sparo
Però poi quella pista che appariva la più logica fu abbandonata, anche per le dichiarazioni degli operai della ditta che ammisero di avere delle armi seppur artigianali e di aver provato in quei luoghi alcune pistole. Se mi chiede perché rispondo che non c’è un perché. Si ritenne che le pistole trovate in casa di
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Lei ha avuto modo di leggere la documentazione relativa al caso. Ritiene che il proiettile, prima di impattare con il cranio di Marta Russo, abbia avuto un precedente impatto? «No, direi proprio di no. Il colpo ha raggiunto la testa di Marta penetrando secondo la perizia medico-legale in maniera perfetta, quindi integro nella sua forma, frantumandosi poi nella teca cranica in più di 10 parti, segno che era un proiettile non incamiciato, fragile nella sua consistenza e che, qualora avesse colpito un altro oggetto prima si sarebbe frantumato salvando la vita alla ragazza».
Un altro motivo che rende il caso interessante a livello accademico è relativo allo Stub. Ritiene attendibili le tracce di Residui dello sparo rinvenute dalla Polizia scientifica? «Lo stub è l’elemento da cui parte l’inchiesta che porterà a localizzare il luogo dello sparo nell’Aula 6. Ma quella particella di Bario e Antimonio trovata sul davanzale della Sala Assistenti sarà poi giudicata da tutti gli altri periti, intervenuti nelle successive perizie, non come residuo di colpo d’arma da fuoco ma come possibile elemento dovuto allo smog o a
residui di freni meccanici. Quella stessa particella fu trovata anche in altre finestre nei primi giorni dopo lo sparo, e tre anni dopo durante un altro rilievo per una perizia nel processo d’Appello. No, a parer mio non era una prova attendibile, ma fu decisiva perché concentrò le indagini in quell’aula». Nel 1998 in questa storia compare anche lo scrittore Andrea Camilleri che commenta un’arma rinvenuta nel bagno del Rettorato. Perché racconta di Camilleri? Ma soprattutto, per Lei
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la Beretta calibro 22 rinvenuta in quel bagno potrebbe essere la pistola che ha ucciso Marta Russo? «Già, quella pistola di cui si è parlato prima. Camilleri si chiese da arguto osservatore come mai quella pistola era stata ritrovata a seguito di una riparazione per una perdita, ipotizzando che quel guasto fosse stato creato ad arte proprio per far ritrovare l’arma. E fece un paragone sinistro e calzante con il ritrovamento del covo delle B.R. in via Gradoli a Roma, affermando in un’intervista che se fosse stato Montalbano ad investigare avrebbe chiamato un esperto idraulico per valutare la dolosità del guasto prima di chiamare un esperto d’armi». Si è sempre ipotizzato l’uso di un silenziatore applicato all’arma che ha fatto fuoco. Qual è il suo parere nel merito della dinamica balistica e qual era, secondo Lei, la posizione della testa della vittima al momento dello sparo? «La posizione della testa di Marta è semplicemente non ipotizzabile. Lo scrivono tutte le perizie, che infatti ammettono come possibili punti di sparo tante altre finestre oltre quella dell’Aula 6, ritenuta da una perizia altamente
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improbabile ma non impossibile. La testa di Marta si muoveva, parlava con l’amica Jolanda, c’era il sole di fronte, aveva appena incrociato lo sguardo di un ragazzo che le aveva sorriso. Un piccolo spostamento di pochi gradi verso destra o verso sinistra avrebbe determinato una variabile che di fatto rese impossibile
appunto ogni valutazione. Eppure, nonostante questa logica valutazione, si fecero tante perizie tutte spettacolari, con i laser e caschetti luminosi indossate da modelle della stessa altezza della vittima. Un dispendio di energie che la Cassazione sentenziò poi del tutto inutile, rimandando alle sole testimonianze la valutazione dei colpevoli. Sul silenziatore, posso rispondere che è molto probabile si sia utilizzato, ma neanche questo si può dire con certezza, dal momento che quel colpo seppur descritto come un “tonfo”
non forte, fu udito dall’amica Jolanda e descritto dalle testimoni chiave, Maria Chiara Lipari e Gabriella Alletto. Gabriella Alletto che però nella sua descrizione dettagliata, 35 giorni dopo lo sparo, dirà che la pistola che vide non aveva nulla sulla canna». Un capitolo a parte meritano le testimonianza alternatesi nel caso. A ciascun lettore il “piacere” di imbattersi nell’intricato puzzle, ma in questa sede rovesciamo la classica
Giovanni Scattone all’epoca dei fatti
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domanda: piuttosto che dirci se qualcuno ha mentito, secondo Lei c’è qualcuno che ha detto tutta la verità? «Domanda interessante ed insidiosa, visto che alla fine le tre testimoni principali sono state credute in primis proprio dai giudici chiamati a decidere. Tre donne, tre testimoni così diverse tra loro per cultura, estrazione e coinvolgimento all’interno della struttura universitaria. Però posso dare una mia valutazione frutto di una lettura attenta delle carte e dire che molto probabilmente una ha detto cose che non ha visto, una ha detto cose che ha creduto di aver visto, l’altra infine, ha visto così poco e che quel poco non sarebbe stato sufficiente, da solo, ad assurgere a elemento di prova. Ma sono mie valutazioni, le valutazioni di chi ha riletto e incrociato i verbali delle loro testimonianze rese nel tempo». Il libro restituisce i colori ad una storia piena di luci e ombre e l’impressione è che il caso sia meno chiuso di quello che sembra. Sentenze a parte, Lei pensa che la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro sia un punto certo e oggettivo o questa storia è da riscrivere? «La sentenza è definitiva. In questo senso direi chiusa, con due colpevoli.
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Però questa storia presenta a mio giudizio molti, troppi punti oscuri e mai chiariti. Nella mia ricerca ne ho contati ben 18. Possibile mi sono chiesto più volte nel corso delle mie ricerche, che quello che ho riletto e raccontato nel mio libro sia stato ritenuto non determinante per ribaltare la verità giudiziaria in questi 13 anni che ci distanziano dall’ultima sentenza in Cassazione? Evidentemente sì, è possibile. È andata così. E le sentenze vanno sempre rispettate».
Salvatore Ferraro nel 2015
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CARLOTTA BENUSIGLIO,
È STATO DAVVERO UN SUICIDIO? Due ipotesi sul perché della sua morte: la famiglia chiede nuove indagini sul caso
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Carlotta Benusiglio è una promettente stilista di 37 anni, bella e piena di vita. Viene trovata impiccata con una sciarpa ad un albero di piazza Napoli a Milano, a pochi metri di distanza dalla sua abitazione, la mattina del 31 maggio scorso. Si ipotizza subito un suicidio e, come da prassi, si puntano i riflettori sul fidanzato con il quale aveva una storia. Come si sta scoprendo solo ora dopo l’esame del suo computer e del cellulare, il rapporto tra i due non era certo privo di momenti difficili. Gli inquirenti hanno rinvenuto anche foto, accuratamente catalogate dalla donna, dove lei è ricoperta di lividi e percosse. Dall’autopsia, però, non sono emerse tracce di violenze, colluttazioni o ferite, né altri elementi che facciano pensare, almeno per il momento, ad un omicidio. Pertanto i pm Alberto Nobili e Antonio Cristillo hanno richiesto l’archiviazione dell’indagine, avallando così la tesi del suicidio, ma l’avvocato Gian Luigi Tizzoni, legale dei familiari della donna, si è fermamente opposto chiedendo al Gip di disporre nuove indagini con una serie di approfondimenti. L’avvocato Tizzoni ritiene «debba essere vagliata con maggior attenzione la ricorrenza, nel caso di specie, degli elementi costitutivi del reato» di istigazione al suicidio a carico dell’uomo, che non è indagato. Infatti, continua l’avvocato Tizzoni: «Potrebbe essere stata istigata al suicidio dal suo fidanzato, che la maltrattava e la picchiava», oppure «configurarsi l’ipotesi
di un omicidio colposo determinato per imprudenza» a seguito «della esecuzione di un gioco erotico pericoloso, qual è il bondage». Quindi, a sua detta, la donna potrebbe essere morta durante una maldestra esecuzione di tale pratica, usuale per la coppia. I medici legali dovranno comunque effettuare ulteriori accertamenti tossicologici e genetici per completare il quadro, ma per gli inquirenti l’ipotesi più accreditata rimane quella del suicidio. I familiari della donna non ci stanno, in modo particolare la sorella Giorgia, per la quale
Carlotta Benusiglio
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Carlotta non si sarebbe mai tolta la vita, tantomeno in un luogo così appariscente come un albero vicino casa, a non più di 150 passi dalla sua abitazione, al civico 24 di piazza Napoli, alla mercé degli occhi di tutti. Vicino al corpo non è stato trovato alcun oggetto personale, borsa, cellulare, né oggetti che avrebbero potuto consentirle di salire al ramo al quale è stata ritrovata appesa. Desta perplessità anche la posizione in cui è stata rinvenuta: legata con una sciarpa ad un ramo, con i piedi che toccavano terra. Una circostanza che richiama alla mente un altro caso ormai noto alle cronache:
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la morte, classificata come suicidio, del cameraman palermitano Mario Biondo, pure rinvenuto “suicida”, con i piedi che toccavano terra, per mezzo di una sciarpa annodata al collo e legata ad una libreria. La donna più volte, negli ultimi mesi, si era recata al Pronto soccorso per litigi col fidanzato e le erano state riscontrate lesioni gravi, più di una volta, di cui c’è traccia nei referti medici e almeno in una denuncia, che risale allo scorso febbraio. Molto chiari anche i pareri di alcuni vicini di Carlotta che non credono al suicidio: «Qui non ci crede nessuno. Non ci spieghiamo come ci si può legare, senza
appoggio, a un ramo che è a due metri da terra». La vicina Cristina parla delle liti col fidanzato: «Marco e Carlotta erano una coppia conosciuta. Ne abbiamo parlato molto dopo la tragedia. In casa i litigi erano continui, e i condomini si lamentavano anche per le feste e il trambusto nel cortile. Ma loro litigavano anche in strada, discutevano e urlavano». Una storia ben diversa da quella dello strangolamento autoindotto e, comunque, una vicenda tragica che va a colpire una famiglia già fortemente segnata da altri momenti difficili: la 33enne sorella Giorgia, che non crede assolutamente al suicidio di Carlotta, è la nota scrittrice, autrice del libro Vuoi trasgredire? Non farti!. Da ragazzina aveva rischiato di morire per gli effetti terribili provocati dall’assunzione di una mezza pastiglia di ecstasy. Si salvò dopo un trapianto di fegato e da allora ha incontrato migliaia di studenti per raccontare la sua storia
e fare prevenzione contro le droghe. «Ringrazio veramente tutti dell’affetto e della vicinanza in un momento così difficile a cui non riesco a trovare un senso», ha scritto nel suo blog. Gli inquirenti e gli investigatori «stanno facendo tutto il possibile per consegnarci la verità su mia sorella e a loro va tutta la nostra gratitudine. Per noi è il tempo del dolore». Si saprà presto se l’opposizione all’archiviazione presentata dall’avvocato Tizzoni verrà accolta e quindi sarà possibile proseguire nelle indagini.
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SUICIDI IN ITALIA:
IL DRAMMA CHE NESSUNO VUOLE VEDERE Un’indagine sugli adulti che pongono f ine alla loro vita: ecco i dati che fanno rabbrividire
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Il suicidio è uno dei fenomeni più frequenti nella società odierna. Esso si presenta, anche se con diverse motivazioni, in tutte le varie fasi dell’esistenza. Questo triste gesto implica un rapporto profondo, seppur conflittuale, con la vita. Pur presentando delle cause diverse a seconda dei casi, esso ci riporta ad un elemento comune: il disagio dell’individuo. Tale disagio può essere legato a diversi fattori: individuali, sociali, lavorativi, familiari e così via, ma un’azione così estrema mette in evidenza un’insoddisfazione personale che annienta tutto ciò che circonda l’individuo. Chi decide di porre fine alla sua esistenza non vede più una via d’uscita; è entrato in un profondo tunnel buio sicuramente per qualche motivo. La depressione che lo colpisce è un forte disagio che può essere curato ancor prima che l’individuo commetta un gesto così estremo. Negli ultimi anni, tra le motivazioni più
comuni, c’è quella della crisi economica. Non passa giorno senza che i mezzi di comunicazione di massa ci riportino i casi di piccoli imprenditori o titolari di qualche attività che, non riuscendo più a far fronte ai debiti accumulati e alle difficoltà di sopravvivenza giornaliera, decidono di porre fine alla propria esistenza. Un dramma che nell’ultimo periodo ha fatto riflettere un po’ tutti, ma a questi casi si aggiungono anche quelli legati ad altre problematiche individuali che si riflettono automaticamente in una società che non riesce più a fronteggiare il disagio.
Suicide of Cato the Younger, 1646
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I dati dell’Osservatorio di Ricerca Sociale della Link Campus University ci riportano ad una realtà abbastanza critica. Solo nel primo semestre del 2016 sono stati registrati 81 casi di suicidio per motivazioni
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economiche in Italia. La Campania, seguita da Sicilia, Lombardia, Lazio e Marche è la regione con il maggior numero di vittime (13,6%) mentre per la prima volta il Veneto perde il triste primato, con un’incidenza passata dal 21,2% del 2015 al 7,4% di questo primo aggiornamento 2016 dell’Osservatorio. I dati degli anni precedenti, inoltre, ci riportano al reale dramma del disagio generale. I 628 casi di suicidi per crisi economica tra il 2012 e il 2015 fanno rabbrividire: 189 nel 2015 (12 episodi in meno rispetto al 2014). In più, i 135 tentati suicidi segnano nel 2015 il record negativo degli ultimi 4 anni. La fascia d’età in crescita riguarda gli adulti dai 35 ai 44 anni (25,4%). Tra il 2014 e il 2015 risale la percentuale degli imprenditori (da 40,3% a 46,1%), dei lavoratori dipendenti (da 5,5% al 14,8%) e dei pensionati (da 0,9% al 2,6%). In calo invece i disoccupati (dal 48,3% al 34,9%). L’Osservatorio mette in evidenza la dimensione prettamente maschile del fenomeno (92,6%), ma mostra sul lungo periodo l’aumento dell’incidenza anche nella popolazione femminile. Nel 2015, così come nel 2014, sono state 14 le donne che si sono tolte la vita per ragioni economiche, contro i 3 casi
del 2012 e i 5 del 2013. Il dato appare ancor più significativo se si valuta anche la progressione dei tentati suicidi, che passano dai 10 del 2012 ai 14 del 2013 e 2014, fino ai 32 del 2015. Una carrellata di dati che mettono in evidenza il problema dal punto di vista numerico tralasciando, però, tutti gli aspetti personali, emozionali, relazionali e sociali di chi commette un gesto così estremo. È necessario fermarsi un attimo, capire cosa si può fare per fronteggiare questo disastro e come si può intervenire in situazioni di rischio. A seconda del grado di difficoltà, i problemi vanno affrontati, ma è necessaria la capacità e la voglia di fronteggiarli senza giungere a gesti così estremi. Per consentire ciò, probabilmente, bisognerebbe investire di più su azioni volte a garantire il benessere psicologico e sociale, prima che si giunga ad una conclusione così triste e assurda. Queste azioni di contrasto al malessere vanno inserite nelle principali agenzie di socializzazione cioè in quei gruppi o istituzioni che hanno sempre avuto un ruolo di primo piano nel processo di socializzazione, come la famiglia e la scuola. Un’attenzione particolare ai contesti lavorativi sarebbe altrettanto
utile. Spesso persone deboli e in crisi per motivi personali si ritrovano a lavorare in ambienti malsani, soprattutto dal punto di vista psicologico. Qui il burnout è ancor più dietro l’angolo.
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QUANTO È ALTO IL RISCHIO DI SUICIDIO NEI MINORI? Sono quasi 500 i decessi all’anno: fattori di rischio e fattori protettivi per prevenire il suicidio
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I bambini sono davvero a rischio suicidio? Molta gente risponderebbe: “No! Come potrebbero?”. Purtroppo, sia le evidenze scientifiche che i fatti di cronaca suggeriscono il contrario. Come mai molti credono che i minori siano immuni a fantasie e azioni suicidarie? Un motivo è dato dalla relativa rarità dei suicidi che coinvolgono i bambini. Le statistiche dimostrano che si verificano pochi suicidi di minorenni, ma c’è da dire che questo dato può essere parzialmente spiegato dalla presenza del numero oscuro. Quando vi è un suicidio, molto spesso viene denunciato come incidente, tuttavia numerosi studi indicano che il
numero di bambini che muoiono per suicidio è più alto di quanto diversamente riportato dai dati ufficiali. Un’altra ragione è che si ritiene che i minori non abbiano uno sviluppo maturo tale da tramutare in atto i pensieri suicidiari. La ricerca, però, dimostra che all’età di 8 e 9 anni i bambini hanno già una profonda consapevolezza della gravità del suicidio. Spesso i minori hanno l’intento di infliggersi ferite o morte, indipendentemente da una piena comprensione della letalità o finalità dell’atto. Loro, più che altro, desiderano mettere fine al loro dolore emotivo, senza avere coscienza delle conseguenze delle loro azioni.
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Sebbene i suicidi infantili non sono frequenti, molti bambini tentano il suicidio e questi tentativi sono i principali predittori di un futuro suicidio (in adolescenza e in età adulta). È essenziale, perciò, identificare questi ragazzi il prima possibile. Emerge, nelle ricerche fatte, un’incidenza bassa del suicidio tra i minori ed una scarsità di dati per quanto riguarda i minori di anni 10; mentre tra i 10 e i 14
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anni il suicidio è la quarta causa di morte nel mondo, e tra i ragazzi sotto i 20 anni, invece, è la seconda causa di morte. Se ne parla poco, ma in Italia sono 4.000 i decessi legati a questo gesto estremo, il 12% dei quali tra giovani e giovanissimi, ossia quasi 500 ogni anno. Quali sono i campanelli di allarme? Dobbiamo prestare attenzione a un cambiamento nel comportamento assunto di solito, comportamenti pericolosi, sintomi di depressione, discorsi che comunicano pensieri e piani suicidiari. E i fattori di rischio maggiormente da tenere sotto controllo? Possono essere: precedenti tentativi di suicidio, una depressione non curata (spesso manifestata attraverso l’aggressività), malattie mentali trascurate, un’incompleta comprensione della morte, comportamenti rischiosi, l’autolesionismo, il diretto accesso a strumentazione suicidiaria, disturbi fisici, l’abuso di droghe o alcol, l’esposizione a violenza o abuso (fisico, emotivi, sessuali), una storia famigliare di problemi psichiatrici o di suicidi, una situazione famigliare instabile o la presenza di multipli tutori qualora questi minori fossero collocati in istituto, prematuri eventi stressanti (per esempio il divorzio), esperienze negative a scuola (come il bullismo).
I fattori protettivi possono riguardare: relazioni positive (famiglia, insegnanti, mentori, parenti, gruppo dei pari e fratelli), l’autostima, una buona capacità nel risolvere i problemi, una solida coesione famigliare, forti legami scolastici, insegnanti e tutor solidali, impegno in attività extracurriculari, coinvolgimento in comunità religiose. Importante risulta, dunque, in questo delicato e difficile campo la prevenzione. La maggior parte dei minori che potrebbero presentare sintomi di depressione o altri disturbi mentali non riceve adeguata assistenza da parte dei servizi di salute mentale. Analizzare i bisogni di questi ragazzi diventa la priorità. I medici dovrebbero essere meglio informati sulle caratteristiche dei minori a rischio, per tale motivo bisogna fornire corrette informazioni ai professionisti della salute mentale. Sovente un tentativo di suicidio verrà riportato come incidente e il paziente verrà dimesso senza un follow-up utile ad affrontare le problematiche del caso.
Le ricerche indicano che la progettazione e l’implementazione di programmi utili a prevenire i disturbi mentali possono salvare le vite e avere un impatto durevole sui tassi di suicidio. Un altro luogo dove si possono individuare bambini a rischio è la scuola. Insegnanti, staff di supporto e psicologi possono tutti giocare un ruolo fondamentale in questo primo ed importante accertamento, dal quale partire al fine di tutelare e proteggere i bambini da questo evento così difficile da accettare e comprendere per la società intera.
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QUANDO UN GENITORE UCCIDE IL FIGLIO DISABILE Solitudine, impotenza, lotta tra amore e sconforto nel gesto terribile di un genitore che uccide
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Quante, troppo volte abbiamo ascoltato al telegiornale fatti di cronaca che parlavano di gesti estremi, terribili, assurdi e ci siamo domandati il perché. Per quale motivo un padre, una madre arriva al punto di togliere la vita al figlio solo perché non autosufficiente o perché malato grave? Che cosa scatta nella loro mente? Un tira e molla tra speranza e disperazione. Drammi della solitudine che hanno un epilogo drammatico. Vediamo insieme un caso e cerchiamo di comprendere meglio le possibili spiegazioni.
La notizia è della fine di novembre, ed è quella di un agricoltore ottantenne di Pavia, che ha ucciso il figlio disabile di 50 anni e poi, con la stessa arma, si è tolto la vita. A scoprire i due corpi è stata la moglie. La domanda ricorrente di un genitore avanti con l’età che ha un figlio disabile è: che cosa ne sarà di mio figlio quando io non ci sarò più? Non sempre è facile trovare risposta. Non sempre ci sono familiari disposti ad assumersi un tale carico, e in altri casi non ci sono altri parenti.
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Nella solitudine di una stanza mille pensieri affollano la mente di un anziano genitore, che sentendo venire meno le forze guarda quel figlio che ha accudito con tanto amore per una vita, ed ecco il baratro aprirsi davanti. Quando poi esce la notizia sentiamo che le persone al di fuori di quel mondo, danno giudizi affrettati del tipo: «È uscito fuori di testa». È più semplice, a volte, giudicare che comprendere e immedesimarsi in una situazione che pare più grande di noi. Non sapremo mai quante volte quel
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genitore avrà pianto, pregato, chiesto aiuto. In quel cuore straziato, lacerato dall’amore e dal dolore, si è svolta la battaglia più grande, il conflitto interiore. Il nostro Paese non aiuta di certo. Fino a quando il disabile è bambino e diciamo fino ai 17 anni, esistono strutture che assistono e supportano i genitori. Ma un disabile adulto non autosufficiente, che non ha più i genitori e non ha parenti, che fine fa? Quelle persone che giudicano, si sono mai poste il problema? Forse no, anzi, per la collettività è solo
una seccatura in più! A questo punto viene spontanea una domanda: “Esiste un modo per arginare questi fenomeni?” Possibile che la società non possa fare nulla a riguardo? Il Governo, con la legge “Dopo di Noi” non dovrebbe andare incontro alle famiglie che si trovano in queste condizioni? Le associazioni non possono sostenere, tutelare e informare chi si trova ad accudire un disabile adulto? Qualcosa si sta muovendo, ma troppo lentamente per chi ha un carico così pesante addosso, per chi ogni giorno si trova a fare i conti con la realtà amara della vita. In televisione vediamo spot pubblicitari di ogni tipo, ma quanti se ne fanno per chiedere di stare accanto a genitori anziani che hanno figli non autosufficienti o malati gravi? Questa è una categoria che non interessa proprio a nessuno. Le luci della ribalta si accendono solo ed esclusivamente quando accade la tragedia, quando oramai è troppo tardi e non c’è nulla da fare, e per
di più c’è ancora chi ha il coraggio di non capire il dramma che si cela dietro un gesto che pare dissennato. Una lucida follia dettata dall’amore più grande: quella di non lasciare solo un figlio disabile ad un destino ignoto. Chissà se con il nostro aiuto qualcuno lo avremmo potuto salvare. Auspichiamo che presto qualcosa si muova in questo ambito, perché mai più accada ancora che un genitore debba prendere una tale decisione.
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