Cronaca&Dossier28

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COPIA OMAGGIO

anno 3 – N. 28, Luglio-Agosto 2016

45 anni fa IL DELITTO DELLA CATTOLICA

Ancora troppe ombre e un assassino senza volto nel caso Simonetta Ferrero

Speciale

MISTERI DA LABORATORIO i casi Lidia Macchi, Simonetta Cesaroni e Serena Mollicone al microscopio


Indice del mese 4. La finestra sul crimine DELIRIO DI SANGUE

8. Crimini ai Raggi X SCENA DI UN CRIMINE IRRISOLTO

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14. Criminalistica

I LABORATORI TRA SCIENZA E GIUSTIZIA

20. Sulla scena del crimine

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IL CASO LIDIA MACCHI TRA DEPISTAGGI E VETRINI

26. Sulla scena del crimine L’ODONTOLOGIA NEL GIALLO DI VIA POMA

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32. Sulla scena del crimine LA DOPPIA INDAGINE NEL CASO MOLLICONE

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COPIA OMAGGIO

anno 3 – N. 28, Luglio-Agosto 2016

38. Dossier e società

DA DOVE NASCE LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE?

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45 anni fa IL DELITTO DELLA CATTOLICA

Ancora troppe ombre e un assassino senza volto nel caso Simonetta Ferrero

Speciale

MISTERI DA LABORATORIO i casi Lidia Macchi, Simonetta Cesaroni e Serena Mollicone al microscopio

42. Ricerca e analisi

VIOLENZA SULLE DONNE: LA DIFESA DIVENTA PREVENZIONE

46. Media crime

LIBRO, FILM E PROGRAMMA RADIO CONSIGLIATI

48. Diritti e minori

ABUSI SU MINORI ECCO COME PREVENIRLI

54. Memorabili canaglie MINORI, IL PERCHÉ DEGLI ABUSI

62. Dossier inchiesta MINORI SENZA FUTURO

68. Storie di tutti i giorni «CHE NE SARÀ DI NOI?»

ANNO 3 - N. 28 LUGLIO-AGOSTO 2016 Rivista On-line Gratuita Direttore Responsbile Pasquale Ragone Direttore Editoriale Laura Gipponi Articoli a cura di Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Nia Guaita, Nicola Guarneri, Dora Millaci, Paolo Mugnai, Gelsomina Napolitano, Paola Pagliari, Mauro Valentini, Francesca De Rinaldis Direzione - Redazione - Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com Grafica e Impaginazione Federica Bonini Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione. Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1/2014 Reg. Stampa dal 15 gennaio 2014


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DELIRIO DI

SANGUE L’orribile omicidio di Simonetta Ferrero, un delitto irrisolto e apparentemente senza senso

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Simonetta è pronta, iniziano le sue ferie. Le prime da lavoratrice a tempo pieno. Ha deciso di andare in Corsica, una vacanza da tempo desiderata e pianificata in ogni particolare. Perché Simonetta Ferrero è fatta così: precisa e metodica. Esce di casa quel sabato 24 luglio e corre in centro a Milano in corso Magenta per fare le ultime compere, quei dettagli da mettere in valigia più per sicurezza che per reale bisogno. Poche fermate di tram ed è nel cuore della città, una metropoli vivace e già proiettata in quel 1971 verso quel percorso post-industriale che la renderà in poco tempo salotto d’Europa. Entra in una libreria e compra un dizionario di quelli tascabili, poi percorre una strada che ben conosce fino ad una farmacia, dove acquista un balsamo e una crema. Quella strada l’ha percorsa centinaia di volte perché proprio vicino a Sant’Ambrogio c’è quella che è stata la sua Università, la “Cattolica”. Si è laureata da due anni e ormai lavora alla Montedison, ma quella mattina passando da lì, davanti a quel portone e a quell’androne semivuoto per l’inizio della stagione estiva, decide di entrare. Sale le scale andando spedita nell’ala laterale dell’edificio. Ha bisogno di andare in bagno, certo potrebbe utilizzare quelli prossimi alla hall dell’Università

Simonetta Ferrero

oppure entrare in un qualsiasi bar dei dintorni, ordinare un caffè e poi chiedere di utilizzare i servizi. Ma Francesca non prende caffè e forse sa che quelli prossimi all’ingresso di servizi sono i peggiori. Quella è stata per quattro anni casa sua, sempre lì per lezioni ed esami. Sa benissimo che nell’ala “G” ci sono i bagni migliori. Del resto si muove con disinvoltura in quell’Ateneo che è tra i più prestigiosi del Paese. Spinge la porta a molla e fa per accedere in uno dei quattro

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servizi a disposizione che sono uno di fronte all’altro. Ma forse la porta alle sue spalle non arriva al battente facendo lo scatto di fine corsa perché qualcuno la riapre prima che si chiuda. Qualcuno che ha in mano un coltello dalla lama che non lascia scampo. Francesca viene colpita con inaudita e cieca violenza dappertutto, tante volte. Tante da render vano ogni suo tentativo di difesa. Prova a cercare la via

Milano, piazza Sant’Ambrogio e Università Cattolica

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di fuga ma viene costantemente respinta dall’aggressore da quella porta che sarebbe la sua salvezza. Simonetta lotta e grida, ma proprio lì sotto ci sono degli operai che stanno utilizzando il martello pneumatico, le sue urla sono soffocate dalla furia omicida e dal trambusto. Il sangue della vittima è sparso in ogni angolo del bagno, Francesca ha provato a salvarsi ma non c’è riuscita. Chi l’ha uccisa


è completamente sporco di sangue e ha un problema ora: uscire da quel locale in quelle condizioni e con un coltello a lama grande da nascondere. Apre la porta e controlla se c’è qualcuno lì fuori. Nel farlo lascia una traccia enorme di sangue sulla porta e una sullo stipite, evidentemente non c’è nessuno e nessuno lo vede. Lascia l’acqua del lavandino nel bagno che scorre e si dilegua. Francesca viene cercata dai genitori quel sabato e la domenica senza risultato. Sanno che qualcosa di terribile è successo perché la loro ragazza non si può essere assentata senza avvisare nessuno. È lunedì 26 luglio quando di prima mattina un seminarista che passa davanti a quei bagni nota quello scorrere dell’acqua ed entra, trova il corpo di Simonetta a terra in un lago di sangue. Scappa atterrito e questa fuga per lui sarà

successivamente fonte di guai perché chi lancia l’allarme è una studentessa che vedendolo fuggire da quel corridoio si insospettisce, apre quella porta e scopre l’orrore. Sul suo corpo i segni di ben 33 coltellate, come se l’assassino fosse stato preso nel pieno della propria furia omicida, del proprio delirio; nessun segno di violenza sessuale, né tracce in grado di dare un indirizzo specifico al gesto atroce. Si sa solo che Simonetta è entrata nella sua vecchia università e da lì non è più uscita viva.

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SCENA DI UN CRIMINE

IRRISOLTO Pochi indizi e indagini che non portano a nulla: dopo 45 anni il caso Ferrero è ancora un quadro indecifrabile

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È un sabato d’estate il 24 luglio 1971, quando in uno dei tanti bagni dell’imponente plesso dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano giace il cadavere di Simonetta Ferrero. A farle tristemente compagnia solo lo scroscio di un rubinetto d’acqua aperto per due interminabili giorni. Ogni angolo della stanza, parete, sanitario è intriso di sangue, l’immagine della ragazza distesa sul pavimento straziata sarà insostenibile per il ragazzo che casualmente compirà la scoperta. Prontamente si reca sul posto la Squadra mobile di Milano all’epoca diretta dal dott. Enzo Caracciolo. Gli occhi piombano sulla mostruosità di uno scenario irreale ma sin da subito si capisce quanto sarà difficile indirizzare le indagini correttamente perché purtroppo gli elementi a disposizione sono davvero pochi. L’autopsia condotta dai professori Giuseppe Basile e Guglielmo Falzi stabilisce che Simonetta è stata aggredita e uccisa con 33 colpi d’arma da taglio (di cui 7 mortali) inferti al collo, al torace e all’addome. Vi sono anche alcune ferite da difesa, riscontrate sulle braccia e alle mani, come se la povera ragazza, per cercare di sottrarsi alla furia

dei colpi che la investiva, avesse tentato di ripararsi con le braccia e poi di afferrare il coltello, bloccando la lama con le mani. L’arma viene identificata come un tipico comune coltello, dalla lama lunga non meno di 15 centimetri e larga 2 cm. L’esame tossicologico dà esito negativo ma sotto le unghie ci sono piccoli frammenti di pelle, forse dell’assassino: il seminarista che ha trovato il corpo non ha però segni di graffi. Non può essere lui. L’esame autoptico stabilisce che, approssimativamente, Simonetta è stata uccisa fra le 35 e le 40 ore prima del ritrovamento del suo corpo e comunque non più tardi delle ore 11:3012:00 di sabato 24 luglio. Le indagini riescono solo a ricostruire le ultime ore di vita della giovane donna ma niente di più.

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D’altra parte sono davvero pochissimi gli indizi: non una rapina (i soldi nella borsetta e l’anello al dito sconfessano l’ipotesi), non una vendetta e nemmeno un tentativo di stupro. Allora perché Simonetta è stata uccisa? La Squadra mobile di Milano lavora senza sosta al caso e conduce tutti gli accertamenti necessari su ogni singolo individuo dagli atteggiamenti ambigui che proprio in quei giorni frequentava l’Università. Nessuno però corrisponde a un possibile identikit del protagonista dell’atroce

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gesto. Come se non bastasse, non mancano i mitomani e neanche squallide speculazioni da parte di detenuti che vogliono approfittare del clamore suscitato dal caso per raccontare frottole e sperare in benefici carcerari. Come può un atto così definitivo, compiuto in un plesso universitario, brulicante di ragazzi e addetti ai lavori, passare inosservato? Tra tutti gli ipotetici sospettati ne spicca uno che per peculiarità risulta fortemente compatibile con un possibile identikit dell’assassino di Simonetta Ferrero. Alcune studentesse


di Saronno parlano, infatti, di uomo che viaggia spesso nella tratta ferroviaria Novara-Milano; il soggetto è solito cominciare la sua corsa dalla stazione di Cesate, è un individuo dai modi strani e a tratti preoccupanti. Fissa le persone e quando può, infastidisce le ragazze. Il particolare più inquietante raccontato agli investigatori è rappresentato da una borsa che viaggia sempre con lui e che sembra contenere un grosso coltello maneggiato e riposto ripetutamente durante il tragitto fino a Milano. L’uomo viene fermato ma nessun indizio porta a considerarlo responsabile di un gesto così efferato, anche quando la Polizia perquisisce l’abitazione dell’uomo: ci sono numerosi coltelli ma nessuno di questi presenta tracce di sangue. Inoltre la Polizia verificato l’alibi ed è costretta al rilascio. Tutto finisce così, nessun colpevole. Il caso vive solo un ultimo sussulto nel 1993, quando il questore Achille Serra (che all’epoca delle indagini aveva preso

parte al caso Ferrero) riceve una lettera anonima: parla di un sacerdote 50enne veneto (dunque con meno di 30 anni nel 1971) che era solito importunare le ragazze e per questo mandato via dall’Università. A farne le spese, secondo la misteriosa mittente, un’amica che mai aveva denunciato il fatto. Una breve riapertura del caso Ferrero e poi nient’altro: troppo tempo è passato per fare giustizia e oggi, a 45 anni di distanza, il sangue non ha smesso di scorrere tra le mattonelle di quel bagno maledetto.

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I CRIM

La storia di Simonetta Ferrero è particolarmente emblematica perché se il delitto fosse avvenuto oggi ci saremmo ritrovati dinanzi una scena del crimine piena di elementi utili: la pelle sotto le unghie, per esempio, senz’altro oggetto di analisi da laboratorio; oppure i sistemi di videosorveglianza oggi molto diffusi. In realtà un delitto è fortemente condizionato dalle tecnologie utilizzate per arrivare al colpevole, ecco allora la necessità di comprendere cosa accade oggi nei laboratori, negli ultimi decenni sempre più centrali nell’economia delle indagini forensi.

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I LABORATORI TRA SCIENZA E GIUSTIZIA Basta la sola conoscenza scientif ica per risolvere i casi?

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«Qualunque passo il criminale muova, qualunque cosa tocchi, qualunque cosa lasci anche inconsciamente, sarà un testimone silenzioso contro di lui»; «Il criminalista infatti ricostruisce il criminale dalle tracce che questi lascia dietro di sé, come l’archeologo ricostruisce un essere preistorico dai reperti dissotterrati». Queste due massime, pronunciate nei primi anni del secolo scorso da Edmond Locard, l’inventore della Polizia scientifica, e da Paul Kirk, chimico e scienziato forense esperto nell’analisi delle tracce di sangue, sono più attuali che mai. Si rimane addirittura stupiti nel leggere alcuni passi del trattato di Polizia Giudiziaria scritto più di cento anni fa del magistrato austriaco Hans Gross (colui che coniò il termine “criminalistica”), dove vengono riportate con estrema chiarezza e semplicità le prescrizioni fondamentali per muoversi e gestire la scena del crimine, limitando il più possibile le contaminazioni esterne. Ancora più stupiti si rimane oggi, quando invece molti casi di cronaca nera ci mostrano come un’indagine possa venire inquinata e compromessa a causa del

cattivo operato degli addetti al sopralluogo sulla scena del crimine. Tuttavia, se le procedure di raccolta e di analisi delle tracce vengono adottate con criterio, le Scienze forensi moderne offrono delle possibilità enormi per la risoluzione di un crimine tramite le più avanzate tecniche di laboratorio. La Genetica forense Pensiamo ad esempio alle potenzialità della Genetica forense, che analizzando le invisibili tracce di DNA (ovvero la nostra carta di identità molecolare) repertate sulla scena del crimine è in grado tramite analisi comparative di individuare esattamente la persona a cui appartiene quel DNA. Un omicida per esempio, lascia sempre qualcosa di sé sulla scena del crimine: un capello, della saliva, del sangue oppure delle cellule di sfaldamento. Quando lo scienziato forense trova queste tracce le raccoglie, le conserva e le analizza con sofisticate tecniche di Biologia molecolare. A questo punto basterà raccogliere delle tracce biologiche da uno o più sospettati, magari ricavandole da

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un mozzicone di sigaretta lasciato cadere a terra dal presunto omicida, oppure da una tazzina del caffè lasciata sul bancone del bar, analizzarle e compararle con il DNA trovato sulla scena del crimine. Se troviamo una sovrapposizione tra il DNA repertato durante il sopralluogo e il campione di comparazione ricavato da un sospettato, abbiamo individuato con sicurezza a chi appartiene il materiale genetico. Tuttavia per poter incastrare l’assassino dovrà essere spiegato in maniera convincente come e perché quel DNA è finito sulla scena del crimine. L’Antropologia forense Considerata una branca fondamentale della Criminalistica, l’Antropologia forense si applica prevalentemente allo studio dei resti umani. Essa infatti rappresenta una sottoclasse di quella che viene tradizionalmente definita come Antropologia fisica, la quale è dedicata allo studio degli aspetti biologici, anatomici e fisiologici delle attività umane. Idealmente l’Antropologia forense cammina di pari passo con la Patologia forense,

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infatti dove quest’ultima si ferma, viene affiancata ed integrata dall’Antropologia che ha come punto cardine delle sue attività lo studio dello scheletro umano ma anche dei corpi in avanzato stato di decomposizione oppure di corpi carbonizzati, ai fini di identificare il cadavere e trarne informazioni importanti necessarie per l’indagine.

L’analisi ossea può fornire informazioni anche sui motivi della morte, identificando possibili lesioni a carico dell’apparato scheletrico. L’ultima frontiera dell’Antropologia forense riguarda invece i viventi e si applica in quei casi dove si deve accertare ad esempio l’età di imputabilità attraverso


la stadiazione dentaria, oppure intervenire nei casi di presunta pedopornografia tramite l’analisi di materiale video fotografico, oppure ancora identificare dei sospettati attraverso lo studio e la comparazione delle immagini registrate dalle telecamere di videosorveglianza. L’Entomologia forense Rimanendo ancora nel campo della Biologia, un’altra tra le più interessanti branche della Criminalistica è rappresentata dall’Entomologia forense, ovvero lo studio degli insetti presenti sulla scena del crimine. Le sue origini risalgono addirittura al XIII secolo, come riportato nello Hsi Yuan Chi Lu, il più antico testo conosciuto sull’investigazione scientifica scritto dal medico cinese Sung T’zu. Nel libro si evidenzia come l’arma da taglio di un assassino può essere identificata tra le tante appartenute ai vari sospettati, se su di essa mosche ed altri insetti vengono attratti dalle impercettibili tracce di sangue lasciate dalla vittima. Grazie ad un approfondito studio entomologico sulla dimensione delle larve

della mosca carnaria, per esempio è stato rimesso in discussione l’ultimo delitto del Mostro di Firenze, anticipandolo di due giorni rispetto alla data stabilita dal processo. La Dendrocronologia Altrettanto importanti nelle indagini forensi sono le discipline come la Botanica e la Micologia e non ultima la Dendrocronologia, ovvero lo studio della struttura e dell’andamento degli anelli di crescita di una pianta. Celebre è il caso di Charles Lindbergh Jr, bimbo rapito e ucciso nel 1932, dove l’analisi dendrocronologica condotta su una scala di legno utilizzata per l’omicidio, servì ad incastrare l’assassino poiché nel suo magazzino furono trovati delle assi di legno provenienti dallo stesso albero utilizzato per la costruzione della scala. Questi pochi esempi che abbiamo citato non possono che rimandarci ad un’altra citazione del criminalista Hans Gross: «Il progresso della Criminalistica significa meno fiducia nei testimoni e più nelle prove materiali».

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ECCO PERCHÉ AFFID

Intervista alla Dottoressa Marina Baldi, genetista forense di fa

tecnici sono soprattutto afferenti alla Genetica forense per lo studio e la comparazione dei profili di DNA, all’Antropologia forense per lo studio dei resti umani e l’identificazione di sconosciuti, all’Entomologia forense che studia il ciclo vitale delle larve con il quale si ottiene un importante aiuto per datare con precisione l’epoca della morte, fino alla Palinologia, ovvero lo studio dei pollini».

Dott.ssa Marina Baldi

Quali sono oggi le tecniche di punta per lo studio della scena del crimine? «La Criminalistica è un insieme di scienze fondamentali per comprendere le modalità con cui si effettua un evento delittuoso. Afferiscono in questa grande branca numerose scienze, tutte ugualmente importanti e convergenti verso un unico risultato: la ricerca della verità. I progressi

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Qual è il destino della Genetica forense e quali saranno i suoi sviluppi entro il breve periodo? «La Genetica è destinata a specializzarsi sempre di più, e quindi a fornire informazioni sull’età e sull’aspetto delle persone, una sorta di identikit biologico. L’avvento dell’analisi di polimorfismi da singola base rivoluzionerà completamente la genetica, sia medica, dove già ci sono grandi novità, che forense, dove si riuscirà a distinguere anche gemelli monozigoti, che ad oggi sono gli unici individui non distinguibili».


DARSI ALLA SCIENZA

ama internazionale, direttrice del Laboratorio Genoma di Roma

a cura di Paolo Mugnai Quanto è importante durante il sopralluogo la corretta repertazione delle tracce per evitare artefatti nell’analisi? «La contaminazione è la bestia nera della genetica forense e può verificarsi per tante ragioni, prima fra tutte la possibilità di un sopralluogo sulla scena del crimine non eseguito correttamente. Repertare in modo impreciso una traccia può portare anche alla impossibilità del suo utilizzo. Per questa ragione si cerca di formare più persone possibili tra gli inquirenti che effettuano i primi accessi sulla scena del crimine». L’importanza del lavoro che viene svolto in laboratorio oggi è notevole, eppure esistono dei limiti di cui bisogna tenere conto. La Scienza è in grado di dare un grande contributo, ma ciò che davvero fa la differenza è sempre e solo lo sguardo di chi indaga, il ruolo di chi è chiamato a valutare ogni pezzo nel suo insieme e non separatamente. Per questo motivo abbiamo voluto raccontare tre casi. Ciascuno ha fatto scalpore nel decennio in cui è avvenuto (il caso Macchi negli anni Ottanta, il caso Cesaroni negli anni Novanta e il caso Mollicone negli anni Duemila). In tutti e tre la Scienza è stata chiamata in causa sfoderando le tecniche più moderne, ma nonostante ciò sono ancora casi irrisolti e oggetto in questi giorni di importanti indagini da laboratorio. Ecco le rispettive storie dei tre celebri delitti e l’importanza e al contempo i limiti della Scienza in ciascuno dei casi trattati.

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IL CASO LIDIA MACCHI

TRA DEPISTAGGI E VETRINI Analisi in laboratorio e prove perdute: la Scienza per giungere alla verità 30 anni dopo

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Un foglio firmato in fretta, nel marasma della giustizia, senza leggere bene tra le righe. E così, una banale firma potrebbe porre fine alla caccia all’assassino di Lidia Macchi. Qualche speranza tuttavia c’è ancora, ma andiamo con ordine. Lidia Macchi, studentessa 21enne di Cittiglio (in provincia di Varese), scompare misteriosamente il 5 gennaio 1987 mentre va trovare un’amica ricoverata in ospedale. La giovane Lidia fa parte del gruppo di Comunione e Liberazione (Cl). Saranno proprio tre amici di Cl a trovare il

cadavere della ragazza, due giorni dopo, vicino alla sua auto in un bosco a 700 metri dall’ospedale. La dinamica dell’omicidio è subito chiara: l’aggressore ha ucciso la giovane con 29 coltellate, non prima di aver avuto un rapporto sessuale con lei. Non è dato sapere se il rapporto sia stato consenziente o meno, ma un dato è certo: Lidia, fervente cattolica, era vergine fino a pochi istanti prima di morire. Un particolare che, come vedremo in seguito, potrebbe incastrare il suo assassino. Le prime indagini puntano forte verso

Cittiglio (Varese)

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Lidia Macchi

il gruppo di Comunione e Liberazione, ma le ricerche del procuratore Agostino Abate danno fastidio. La Curia di Milano invia a Varese il proprio legale chiedendo che l’inchiesta venga affidata ad un altro procuratore, depistando di fatto le indagini. Nonostante molti indizi e una lettera (intitolata “In morte di un’amica”) inviata alla famiglia pochi giorni dopo l’omicidio l’inchiesta si chiude in un nulla di fatto. Nemmeno la battaglia del giornalista Enzo Tortora, presentatore del programma

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tv Giallo, risulta vincente: Tortora era sostenitore della prova del DNA, una nuova prova scientifica utilizzata per la prima volta in quegli anni in Inghilterra per incastrare due ragazze. Purtroppo i residui di sperma trovati sul cadavere di Lidia Macchi non sono sufficienti a sostenere un test. Arriviamo così ai giorni nostri: il 15 gennaio 2016 Stefano Binda, ex ciellino e compagno di liceo di Lidia Macchi, viene arrestato per l’omicidio. Ad incastrarlo, proprio la lettera inviata alla famiglia.


Il merito è di Patrizia Bianchi, anch’essa ciellina e amica di Binda e della Macchi, che in una puntata di Chi l’ha visto? dell’agosto 2015 riconosce nella grafia proprio quella del compagno di Cl. Iniziano così nuovamente le indagini e per incastrare Binda si pensa subito alla prova del DNA. L’evoluzione degli esami e delle tecniche di laboratorio permetterebbe un esame anche sui pochi residui di sperma raccolti ormai quasi trent’anni prima. Purtroppo nulla è facile e scontato in questo intricato caso perché tutti i vetrini del caso Macchi sono stati distrutti nel 2000. Nessun depistaggio stavolta, ma banale prassi. Una firma in un foglio, probabilmente per fare spazio in qualche archivio a casi e prove più recenti, e gli undici vetrini contenenti lo sperma dell’assassino vengono distrutti. Lo sconforto, soprattutto per una famiglia che da anni aspetta di sapere la verità, è immenso. Tanto da giungere ad una decisione dolorosa come quella di avallare la richiesta di riesumazione ricavando così pochi residui: un capello, alcuni denti, unghie e peli pubici.

Proprio quando le indagini sembrano a un punto morto, l’ennesimo colpo di scena: un vetrino si è salvato. Non contiene lo sperma, ma l’imene di Lidia Macchi, che appunto era vergine fino a pochi istanti prima di incontrare il suo killer. Quel vetrino era stato mandato all’Istituto di Medicina legale di Pavia per ulteriori

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esami ma poi non tornò a Varese, sfuggendo casualmente alla distruzione ordinata nel 2000 dal Pm. Nonostante il campione sia già stato analizzato senza portare a risultati significativi, le recenti tecniche danno ancora speranza. È l’anatomopatologa forense Cristina Cattaneo a proporre questo nuovo tipo di analisi, che prevede un sezionamento stratigrafico del lembo di pelle per cercare tra le cellule un minimo residuo di sperma utile a un esame del DNA.

Un’analisi molto difficile e che potrebbe essere fatta anche sulle tracce rinvenute in seguito alla riesumazione. Per quanto difficile e complicata, l’analisi della tracce resta l’ultima speranza per risolvere un caso che il prossimo gennaio compirà mestamente trent’anni. Non resta che aggrapparsi alle parole della Dottoressa Cattaneo, intercettata lo scorso maggio dal Corriere della Sera poco dopo l’udienza dell’incidente probatorio: «Della scienza si deve sempre avere fiducia».

Esempio analisi dentatura

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L’ODONTOLOGIA

nel giallo di via poma Il dubbio della Scienza rende giustizia a Raniero Busco ma il colpevole è ancora libero

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La morte di Simonetta Cesaroni, uccisa il 7 agosto del 1990 a Roma in uno stabile in via Carlo Poma 2, ha ancora tanto da dire. La Cesaroni condivide con la Ferrero quel nome, Simonetta, e il comune destino di non avere trovato ancora giustizia. Tuttavia, a differenza del delitto della Cattolica, nel giallo di via Poma i colpi di scena non sono mancati e su tutti il processo celebratosi dal 2011 al 2014 a carico di Raniero Busco, ex fidanzato della Cesaroni che si era pensato fosse l’assassino. Secondo l’accusa, i segni sul capezzolo sinistro di Simonetta

Cesaroni erano indicatori di un morso che l’omicida aveva inflitto alla ragazza negli istanti concitati del delitto o poco prima. Nel processo è entrata in gioco così l’Odontologia forense (a metà strada fra Medicina legale e Odontoiatria) che si occupa anche dello studio dei denti, ma la cui applicazione può portare a tracciare un vero e proprio identikit della persona a cui appartengono determinati resti o determinate tracce. Nel caso in questione l’analisi delle impronte lasciate dai denti (bitemarks) da parte dell’assassino sembrava condurre

Roma, via Carlo Poma

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verso la risoluzione del caso perché i segni di un morso possono essere riscontrati anche su oggetti o cibi così da poter avere una valenza investigativa di non poco conto. L’assoluzione di Busco nasce proprio da un particolare scontro tra perizie in sede dibattimentale sul presunto morso. La linea condotta dalla difesa dell’imputato prende spunto dal presupposto che secondo la scala di Pretty (punto di riferimento in Odontoiatria

Raniero Busco all’epoca del delitto Cesaroni

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forense) i segni del presunto morso sul capezzolo della Cesaroni sono di scarsa significatività e non sufficienti a provare in modo inconfutabile la paternità di Busco. Sia la dentatura dell’imputato che le caratteristiche del morso sono state analizzate e studiate dall’American Board of Forensic Odontology (l’organo che regola l’operato degli odontoiatri forensi in Usa) e le risultanze ottenute dimostrano come, in effetti, l’analisi di un morso umano possa portare a pareri discordanti in base a chi analizza i campioni e in base alla quantità e qualità degli stessi. La scala di Pretty è uno strumento utilizzato per evidenziare la significatività di una presunta lesione da morso e si suddivide in 4 punti principali. Nei primi due la significatività forense è davvero molto bassa poiché non è osservabile la seconda


arcata dentale e le piccole ferite ascrivibili alla lesione principale non sono sufficienti o idonee per parlare di sicurezza sulla paternità. Nei punti successivi della predetta scala gli elementi d’analisi sono sufficienti in quanto sono presenti entrambe le arcate. Il consulente di Busco, il Dott. Emilio Nuzzolese, ha definito i due segni riscontrati in sede autoptica come segni di bassa significatività, con un valore 2 della Scala. In sede scientifica, dunque, così come in aula, si è ribadito quanto i dati incerti in possesso avrebbero portato a false diagnosi e non di certo a verità oggettive e inconfutabili. In questo caso la giustizia è riuscita con lucidità a

Protesi ricreata per sperimentazione in laboratorio

non seguire la pista del “mostro a tutti i costi” scagionando un uomo ad oggi innocente.

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LA DOPPIA

INDAGINE nel CASO

MOLLICONE Sul corpo di Serena Mollicone e nella Caserma la Scienza cerca tracce che possano portare alla veritĂ

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Sono passati tanti, troppi anni da quel primo giugno 2001, quando il corpo della 18enne Serena Mollicone venne trovato nel boschetto di Anitrella, morta soffocata con un sacchetto in testa dopo ore di agonia e con i polsi legati dietro la schiena. Quindici anni che hanno rincorso e sfiorato più volte la soluzione di questo tragico enigma che si è portato via una ragazza piena di vita. Serena Mollicone scompare da Arce, dove testimoni la vedono

camminare di ritorno dall’ospedale di Isola del Liri dove era andata per una banale ortopanoramica. Il mistero inizia e finisce in quelle poche vie attorno alla piazza e alla caserma dei Carabinieri. Quella mattina è di turno il brigadiere Santino Tuzi che anni dopo racconterà di avere visto Serena salire in caserma e chiedere di vedere il Comandante della Stazione. Guglielmo, il padre di Serena che da anni combatte per trovare chi ha ucciso la figlia,

Cassino, Palazzo di Giustizia

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ha sempre urlato che è lì, da quell’edificio che Serena ha iniziato il suo calvario. Santino Tuzi racconterà di avere visto Serena, ma non potrà verbalizzarlo in un incidente probatorio perché si suiciderà qualche giorno prima dell’incontro con il Pm. Un suicidio che è esso stesso un giallo date le circostanze incredibili in cui è avvenuto. Ma le sue dichiarazioni hanno lo stesso spostato di nuovo, dopo

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anni, l’attenzione sulla Caserma e sugli appartamenti in uso ai militari. L’ipotesi accreditata dalla Procura di Cassino, che ha riaperto l’indagine, si fonda sul fatto che Serena quel giorno sarebbe salita in casa della famiglia Mottola e che avrebbe avuto con loro un diverbio sfociato in tragedia. A supporto di questa tesi ci sarebbe la dichiarazione rilasciata in prima istanza dalla colf della famiglia del Comandante,


Passaggio nell’ambito delle tecniche istologiche

chiamata a ripulire, con l’uso di acidi, un appartamento vuoto interno alla caserma. Finalmente a marzo di quest’anno il RIS ha effettuato un sopralluogo alla ricerca di tracce ematiche in quella caserma. Un atto importante al quale ha fatto seguito l’esumazione della salma di Serena

Mollicone, avvenuta il 22 marzo scorso. In questa storia l’esumazione potrebbe risultare un atto piuttosto importante. La salma ora riposa a Milano in attesa degli accertamenti che eseguirà la Dottoressa Cristina Cattaneo. L’obiettivo è verificare alcuni punti non indagati all’epoca dei

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fatti, come la presenza di segni alla tempia di Serena Mollicone. Ad esempio, nell’appartamento oggetto dell’indagine del RIS, andrebbe esaminata una porta con un punto sfondato a circa un metro e cinquanta da terra, forse in grado di aiutare a ricostruire la possibile scena del crimine. Ma soprattutto il corpo stesso di Serena Mollicone, nonostante siano passati quindici anni, potrebbe rivelare tracce del proprio aggressore grazie anche a quanto potrebbe essere rimasto sotto le unghie della giovane: se così fosse inizierebbe la caccia ad un altro “Ignoto 1”, come già accaduto nel caso Gambirasio, con un intero paese sottoposto ad analisi del DNA. Allo stesso modo anche la Caserma potrebbe nascondere e conservare tracce biologiche così come il corpo di Serena: una doppia indagine difficile ma non impossibile. D’altra parte, con le nuove tecniche si potrebbe dare un nome a chi, in un’estate di quindici anni fa, per motivi sicuramente abbietti e infami ha ucciso Serena ma che forse un errore lo ha fatto, un errore che Serena potrebbe avere gelosamente custodito e che ora la Scienza potrebbe tradurre in un nome.

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Significherebbe dare un’identità, un volto, ad uno dei tanti assassini che commettono atti brutali contro donne e ragazze di ogni età, all’improvviso sottratte all’affetto dei propri cari in nome di una violenza cieca.

Serena Mollicone


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DA DOVE NASCE LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE? Un’analisi dei casi di violenza perpetrata dagli uomini verso l’altro sesso

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Il fenomeno della violenza degli uomini sulle donne è stato studiato più volte da psicologi e sociologi. Il risultato delle ricerche è sconcertante. Spesso si pensa che tale violenza sia opera di estranei o di persone non legate affettivamente alle vittime invece le ricerche e le statistiche mettono in evidenza che questi soprusi sono spesso opera di fidanzati, mariti, conviventi e familiari in genere. Nella maggior parte dei casi, la violenza avviene nel contesto del rapporto di coppia. Un fenomeno di questo genere dà una chiara dimostrazione di come un sistema di valori proprio di una società si

introduce inevitabilmente nei modelli di comportamento che contraddistinguono la vita relazionale delle persone. La condizione di inferiorità in cui le donne sono state tenute per anni, in quasi tutte le culture, influisce molto sulle relazioni tra uomo e donna. Anche se oggi ci consideriamo “liberali” viviamo in una società in cui la donna, per molti anni, è stata valutata solo per il suo aspetto fisico e per la sua funzione di moglie e mamma nella società, più che per quello culturale e sociale. Anche il mito della bellezza femminile è profondamente radicato in molte culture e il dominio

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dell’uomo sulla donna offre spesso all’uomo il vantaggio di soddisfare il suo bisogno di autoaffermazione. Per alcuni, l’autoaffermazione avviene con la violenza. Naturalmente il discorso non può essere generalizzato; per fortuna una piccola parte di uomini compie certi gesti, ma la stragrande maggioranza non alza neanche un dito, come è giusto che sia. Ogni singolo caso è una storia a sé, ma ci sono dei fattori comuni che devono far ragionare. La maggior parte degli uomini che compiono atti così assurdi ed estremi, ha spesso difficoltà nel gestire le relazioni. Alcuni vedono la donna come un oggetto, come un qualcosa da possedere e non riescono a gestire le sensazioni,

Candele nella giornata contro la violenza sulle donne

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le emozioni e le esigenze dall’altra. Il rapporto emotivo trova in questi casi uno scoglio: l’ascolto, il confronto e la volontà di compensarsi nelle differenze. L’idea del distacco, poi, non è facilmente accettata e, nei casi di allontanamento, alcuni compiono atti talmente estremi volti a sancire il loro potere sulla vita dell’altra. La violenza, in questi casi, raggiunge dei picchi molto alti sfociando in omicidi assurdi e premeditati che lasciano sconcerto e disperazione tra familiari e conoscenti delle vittime. Nella maggior parte dei casi, però, l’omicidio è il frutto di un percorso persecutorio iniziato già da tempo con maltrattamenti e atti oppressivi, a volte taciuti o sottovalutati.


Secondo i dati Istat, dall’inizio del 2016, ancora in corso, ci sono stati oltre 30 omicidi di donne in Italia. Nel corso degli anni, però, stando ai numeri, si sono evidenziati dei piccoli cambiamenti positivi. Dal 2014 si intravede una piccola riduzione del fenomeno: 43 vittime in meno nel 2014 rispetto al 2013, 8 in meno nel 2015 rispetto al precedente, 30 nel 2016 ancora in corso. Il Rapporto Eures 2015 fa riferimento alle regioni evidenziando un aumento del fenomeno in alcune e una riduzione in altre. Al primo posto per numero di omicidi di donne c’è la Lombardia, con 30 vittime nel 2014 rispetto alle 19 del 2013. Si evidenziano dei casi in aumento anche in Toscana, Veneto, Basilicata, Liguria e Sicilia e Lazio. La flessione più rilevante si osserva, invece, in Campania, Puglia e Calabria. Zero casi in Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Molise e Valle d’Aosta. Naturalmente i numeri sono solo un riflesso di ciò che accade. La cifra resta tale o si modifica, le vittime pagano un prezzo

altissimo, i familiari e le persone care subiscono invece un dolore indelebile. Bisognerebbe prestare maggiore attenzione alle singole cause per poter intervenire in anticipo, evitando che omicidi così assurdi alimentino la follia di altre persone. Bisognerebbe educare alle relazioni, all’ascolto, all’accettazione delle differenze e delle idee e chiedersi perché in alcune regioni si uccide di più, in altre di meno e in altre ancora non accade tutto ciò. Un’analisi delle cause a livello territoriale potrebbe essere utile per comprendere meglio il fenomeno al fine di intervenire efficacemente. Non basta più parlarne, bisogna agire ed intervenire. Se riuscissimo a fare questo, l’umanità senz’altro ne beneficerebbe.

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VIOLENZA sulle DONNE: la DIFESA diventa

PREVENZIONE Tecniche e strategie da adottare quando si è dinanzi ad una minaccia

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Da sempre la donna è oggetto di aggressioni, più o meno gravi, solo per il fatto di essere fisicamente più debole dell’uomo. Prevenire però si può, a condizione di rendere automatici pensieri, comportamenti e atteggiamenti favorevoli alla prevenzione. Prevenire significa saper “leggere” il contesto, la situazione, l’ambiente fisico, percependo il pericolo che può essere insito in loro. Molte volte, chi ha subito un’aggressione racconta di come gli eventi sono precipitati in modo rapido e imprevedibile. In realtà, non sempre è così: troppo spesso sono

mancate delle chiavi di lettura in termini di attenzione al contesto e ai messaggi inviati dal futuro aggressore. Attenzione al contesto, significa avere il giusto grado di attenzione e di valutazione di ciò che si sta facendo, di dove ci si trova e di chi ci circonda. È un aspetto fondamentale, perché è molto difficile passare in un attimo da uno stato di disattenzione a quello di percezione del pericolo. Il nostro organismo, il nostro cervello, non lo consentono: la scarica di adrenalina travolge le difese fisiche e psicologiche determinando panico, paralisi o, al contrario, reazioni impacciate, rigide ed inefficaci. È molto più facile difendersi dal panico se si percepisce il pericolo con qualche istante di anticipo ed si ha il tempo di prepararsi. Saper interpretare il linguaggio del corpo è uno degli elementi più importanti per verificare le intenzioni di chi sta di fronte e potrebbe dare quel prezioso secondo

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in più per organizzare una qualsiasi tattica difensiva. Vediamo, quindi, quali sono gli aspetti più importanti della Comunicazione Non Verbale, che possono aiutare. Sotto l’effetto dell’adrenalina, l’aggressore subisce la perdita della visuale periferica. Si tratta di un fenomeno fisiologico e quindi incontrollabile che determina la sensazione di vedere il bersaglio come attraverso un cannocchiale. La perdita della visuale periferica è accompagnata dalla necessità di muovere freneticamente lo sguardo a destra e sinistra per controllare che la scena sia libera da testimoni. Questo segnale, al cospetto di uno sconosciuto o nel corso di una lite, deve mettere immediatamente in allarme. Quando l’aggressore si avvicina, la mimica del viso può apparire moderata, fin suadente ma attenzione al tentativo di avvicinarsi troppo. Quando si discute pacificamente, anche se in modo animato, ci si pone in modo frontale rispetto all’altro ed ogni parte del

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corpo è visibile, mani e volto in particolar modo. Bisogna diffidare in modo tassativo di chiunque si presenti con posture angolate o non rilassate: una postura angolata può anche servire a nascondere una mano che impugna un’arma. Si consideri che chi ha cattive intenzioni cercherà di avvicinarsi. Attenzione alle contraddizioni tra contenuto verbale e comportamento. Se si sta litigando con qualcuno che dice «non voglio litigare» si controlli che nel frattempo egli non cerchi di avvicinarsi. È un segnale tutt’altro che rassicurante.


Negli attimi che precedono un’aggressione spesso si osservano improvvisi rallentamenti, interruzioni del discorso o cambiamenti repentini del tono della voce. Ma il linguaggio del corpo può essere usato anche come difesa: è importante evitare in tutti i modi che il malintenzionato, parlando, si avvicini troppo. Bisogna rispondere con calma ma anche muoversi per allontanarsi quel poco che consente di stare fuori tiro. Si eviti di alzare la voce o comunque di alterare il proprio tono abituale. Se l’altro sta gridando, bisogna lasciare che si sfoghi ed è importante ricordare che più delle parole, in quel momento, conta il proprio atteggiamento. Non bisogna rispondere alle urla con le urla ed è assolutamente necessario evitare tutto ciò che possa alimentare un’escalation della violenza. È importante non fissare l’altro: uno sguardo duro e fisso negli occhi rappresenta una sfida, ma bisogna evitare anche di abbassare gli occhi mentre si viene affrontati, poiché questo gesto è interpretato come un segnale di paura. Ricordiamoci infine che, in caso di conflitto, non esiste solo la reazione aggressiva

o passiva. È possibile agire secondo una logica assertiva, basata cioè su un duplice obiettivo: la salvaguardia di sé e la possibilità per l’altro di abbandonare la scena o il suo atteggiamento aggressivo, senza che si senta sconfitto o umiliato.

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LIBRO E PROGRAMMA TV

CONSIGLIATI

a cura di Nicola Guarneri

LE AMICHE CHE NON HO PIÙ La tragica fine di tre donne raccontata dalla giornalista di “Quarto Grado” Francesca Carollo con postfazione di Luciano Garofano Tre donne, tre storie diverse, la stessa tragica fine con un comune denominatore: la violenza dell’uomo, marito o amante che sia. Il libro della giornalista di Quarto Grado Francesca Carollo racconta le storie di Lucia Manca, Federica Giacomini e Roberta Ragusa, tre casi trattati dalla nota trasmissione televisiva e a cui la giornalista si è particolarmente affezionata. Proprio gli stringenti tempi televisivi hanno convinto la Carollo a scrivere Le amiche che non ho più (Tullio Pironti editore). Amiche, sì, perché in questi mesi la giornalista si è appassionata alle loro vicende parlando con i loro cari. E così si scopre l’incredulità dei genitori di Federica Giacomini, ai quali la figlia aveva nascosto il lavoro da pornodiva, o l’amica di Roberta Ragusa, che racconta tutta la sua infelicità nei giorni precedenti la sparizione. La postfazione è di Luciano Garofano, ex comandante del RIS di Parma, che spiega quale sia l’iter da seguire nel caso di persone scomparse, un terribile fenomeno con dati allarmanti che colpisce indiscriminatamente da Nord a Sud, molte volte senza buon esito investigativo. Un monito anche per i comuni lettori, visti i continui depistaggi e gli errori degli investigatori, come dimostra proprio il caso di Roberta Ragusa.

Diritto di Cronaca,

la nuova rubrica di politica ed attualità in onda ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.

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FILM E PROGRAMMA RADIOFONICO

CONSIGLIATI

Al cinema

a cura di Nicola Guarneri

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Dopo numerosi successi torna sui grandi schermi un romanzo di Stephen King Dalla settimana scorsa nei cinema italiani, Cell si presenta forse con un po’ di ritardo al grande pubblico. Ispirato all’omonimo romanzo del maestro dell’horror Stephen King (autore anche della sceneggiatura) il film diretto da Tod Williams vede protagonisti Clay Riddell (John Cusak), un autore di fumetti, e Tom McCourt (Samuel L. Jackson), un conducente di metropolitana. I due si incontrano casualmente dopo un cataclisma mondiale: un segnale inviato tramite i cellulari trasforma tutti coloro che in quel momento stanno utilizzando un telefono in zombie. I due scappano da Boston attraverso le gallerie della metropolitana per cercare di raggiungere la famiglia di Clay nel New Hampshire; nel tragitto conosceranno anche la diciassettenne Alice Maxwell (Isabell Fuhrman). Un film carico di energia e momenti di tensione, come solo il miglior King riesce a regalare. Stephen King

In radio La Storia Oscura

Storia, crimine e criminologia su Radio Cusano Campus dal lunedì al venerdì dalle 13:00 alle 15:00 con “La Storia Oscura”, un programma curato e condotto da Fabio Camillacci. Conoscere la storia per capire l’attualità.

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ABUSI SU MINORI

ECCO COME

PREVENIRLI Un’analisi sociologica del fenomeno partendo dal caso della piccola Maria

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Il caso della piccola Maria, una bambina rumena di 10 anni trovata morta in una piscina di un resort a San Salvatore Telesino, nel Beneventano, la sera del 20 giugno, è pieno di ombre e lascia sgomenti. Sì, perché la bimba è stata lasciata annegare. Anzi ‒ come se non bastasse ‒ l’autopsia sul corpo della ragazzina avrebbe rivelato abusi sessuali. Allo stato attuale ci sono due indagati in questa vicenda, ma quello che più sconcerta è che l’omicidio di Maria segue quello di Fortuna, la bimba violentata e uccisa, a

Caivano, in provincia di Napoli, anche qui probabilmente da un conoscente. La madre di Maria, intervistata subito dopo il tragico avvenimento, sconvolta, ha ripetuto: «Mia figlia mi raccontava sempre tutto, tutto» (proprio come la mamma di Fortuna). Tutto proprio no, dato che dall’esame autoptico sul corpo della bimba è emerso che sarebbe stata vittima di abusi sessuali pregressi. Ma chi violentava Maria? E perché nessuno tra le persone che avrebbero dovuto proteggerla non si

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è accorto di niente, non ha mai captato qualche strano segnale e non ha mai avuto qualche dubbio circa quello che era costretta a subire? Da questi fatti di cronaca emerge un’infanzia violata, non protetta e non ascoltata. Sembra esserci indifferenza, silenzio, omertà tra la gente, ma soprattutto molta trascuratezza e poca attenzione da parte dei genitori ai bisogni, ai segnali e alle richieste di ascolto e di tutela di queste creature indifese. Proprio il Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza della

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Regione Campania, Cesare Romano, ha lanciato un allarme: «In Italia ci sono aree geografiche, non solo in Campania, che hanno per diversi motivi accumulato sacche di disagi, povertà e carenza di servizi dove gli abusi sessuali sui bambini e l’incesto trovano terreno fertile e vengono tollerati». Proprio così, dall’analisi sociologica di questi crimini, appare importante prendere in considerazione il contesto sociale e culturale in cui questi abusi avvengono. Si riscontrano situazioni simili in diverse parti dell’Italia (a Nord come a Sud),


maggiormente a rischio, però, risultano le zone più degradate di grandi aree urbane dove manca il senso di comunità e vi sono carenze o disomogeneità nei servizi, a tal punto che è difficile intercettare il disagio dei minori perché problemi molto più grandi finiscono per mettere in secondo piano l’importanza, invece, della tutela dell’infanzia e dell’adolescenza. Per comprendere meglio le radici della violenza, potremmo rifarci al funzionalismo di Durkheim o allo struttural-funzionalismo di Parsons, ma anche al più recente “modello ecologico di Bronfenbrenner”, secondo cui le cause sarebbero da ricercare ‒ oltre che nelle caratteristiche individuali (in questo caso dell’aggressore) ‒ nel contesto sociale, ambientale e culturale, ossia nelle caratteristiche della comunità in cui si vive, come la povertà, l’assenza di servizi, l’isolamento, la mancanza di coesione sociale e di assistenza reciproca. In aggiunta, problemi di disoccupazione, abitazioni inadeguate, disorganizzazione familiare, assenza di supporto, problemi finanziari contribuiscono ad aumentare il rischio per un bambino di essere oggetto di abusi sessuali e trascuratezza. Di certo non bisogna generalizzare o pensare che solo nelle famiglie povere

o problematiche succedono questi fatti incresciosi. Per di più, non bisogna sottovalutare come nella società moderna i bambini vengano sempre più spesso adultizzati e adultocentrati, ossia devono adattarsi alle abitudini e alle richieste degli adulti, e non viceversa. Per questo un bambino che non può trarre dall’ambiente socio-culturale in cui cresce tutte le risorse necessarie al suo

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benessere psicofisico e ad un armonico sviluppo relazionale è un bambino a rischio. Ovviamente, è da ribadire che il contesto è solo uno degli agenti causali, in quanto è stato osservato che molti minori

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posseggono una discreta capacità di adattamento anche in condizioni di vita svantaggiose (la cosiddetta “resilienza”) quando i fattori di rischio vengono attenuati e sopraffatti dai fattori protettivi. Per tale motivo, assicurare alle famiglie un sistema forte di welfare è essenziale nel prevenire l’abuso sui minori. Programmi ed interventi efficienti devono basarsi su un’analisi dei bisogni della comunità locale e su un supporto alle famiglie vulnerabili di tipo personalizzato e centrato sulla comunità di appartenenza. Questi tipi di azioni basate sulla famiglia rappresentano non solo un elemento pratico ed importante per la prevenzione, ma anche e soprattutto per il contrasto dei casi di abuso su minore, allo scopo di permettere alle famiglie di apprendere, potenziare e sviluppare i loro rapporti e la loro capacità genitoriale in un ambiente sano e solidale.


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MINORI, IL PERCHÉ DEGLI ABUSI

La violenza contro i minori ha spesso motivazioni differenti alla base: ecco alcuni casi celebri

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Uccidere un bambino è forse uno degli atti criminali che più è in grado di attivare in noi emozioni profonde di rabbia e sdegno perché, ironia della sorte, come disse Mario Alessi (l’assassino del piccolo Tommaso Onofri) in un’intervista prima del suo arresto: «I bambini non si toccano!». Spesso davanti a tanta brutalità che vede coinvolte vittime innocenti, inermi ed impossibilitate a difendersi, siamo portati a voler ricercare ancora più fortemente le ragioni ed i perché di tali comportamenti, ma le ragioni per le quali un adulto può decidere di uccidere un bambino sono molteplici e differenziate. La storia della Criminologia italiana ed internazionale ci hanno fatto conoscere storie mostruose che hanno come protagonisti proprio i bambini vittime di predatori. Pensiamo infatti ai serial killer di bambini: tra i più noti nella storia criminale c’è senza dubbio Gilles de Rais, barone francese che visse a cavallo del 1400, passato alla storia come uno dei più sanguinari assassini, avendo torturato e poi ucciso almeno 140 tra bambini e adolescenti; spostiamoci poi in epoca più recente per incontrare un altro predatore di bambini, Albert Fish, il Vampiro di Brooklyn, pedofilo e omicida seriale, che nei primi anni del ‘900 stuprò ed uccise almeno 5 bambini, anche se lui stesso asserì di averne molestati e uccisi oltre

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400, soprattutto afroamericani poiché la loro scomparsa destava meno scalpore. La particolarità che contraddistinse Albert Fish e la sua mostruosità, sta nel fatto che egli si cibasse anche di alcune parti del corpo delle sue piccole vittime. Egli era anche fortemente instabile di mente, asserì infatti che come un angelo aveva fermato la mano di Abramo un attimo prima che uccidesse suo figlio, così qualcuno avrebbe dovuto fermare lui, e se nessun angelo ancora ci aveva provato, era evidente che le sue azioni erano ben volute dal Signore e che forse egli era un messia.

Gilles de Rais

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Avvicinandoci ai nostri giorni, incontriamo Luigi Chiatti, un serial killer, predatore di bambini che nei primi anni Novanta ne uccide due (Simone Allegretti di 4 anni e Lorenzo Paolucci di 11). Luigi Chiatti è un ragazzo dagli occhi buoni che vive nella tortura della solitudine dell’isolamento. La solitudine infatti manipola la sua mente, una solitudine che conosce fin dai primi momenti della sua vita abbandonato dai genitori naturali e che lo porterà a rapire bambini per condurli nel suo mondo, dove l’adulto non può e non deve entrare. Oltre ai bisogni, per certi versi patologici, della serialità, c’è un altro lato oscuro del

Albert Fish nel 1903


comportamento umano che si evidenzia nella scelta di uccidere i bambini, o meglio i propri figli: si tratta della cosiddetta Sindrome di Medea, inizialmente ricondotta ad un comportamento tipicamente femminile che vede nell’uccisione del figlio una vendetta contro il marito traditore e abbandonico, ma che oggi, alla luce anche dei cambiamenti sociali, vede coinvolti sempre di più gli uomini. Non è raro purtroppo infatti apprendere dalla cronaca che un padre ha ucciso il proprio o i propri figli, come atto vendicativo nei confronti della moglie che ha “osato” lasciarlo e abbandonarlo. L’omicidio del figlio assume infatti i connotati di una vendetta nei confronti della moglie che lo ha allontanato dal nido familiare e che dunque nega l’amore, l’accudimento e il sostentamento del figlio. Intollerante al

pensiero di tanto dolore l’uomo decide di provocare altrettanto dolore alla moglie uccidendo il figlio. Anche in casi come questo c’è premeditazione dell’atto e può evidenziarsi da parte dell’assassino un’assoluta anestesia psichica ed emotiva dopo il fatto, al quale in alcuni casi può seguire il suicidio.

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CHIATTI E BRIGIDA: DELITTI A CONFRONTO

Approfondimento della psicologa forense Francesca De Rinaldis Nelle intenzioni originarie di Luigi Chiatti non c’è quella di uccidere, bensì egli desidera prendere un bambino da tenere con sé per non sentirsi più solo. Per lui i bambini vanno amati e vorrebbe solo vederli felici, proprio come lui non è mai stato. L’attrazione verso la sessualità infantile è l’unica che conosce e che ha sperimentato a causa degli abusi subiti nella primissima infanzia. Quando si trova davanti a Simone Allegretti egli non riesce a resistere all’impulso di possedere quel corpicino e così Simone morirà tra le sue mani con 58

l’unica colpa di essersi ribellato ad un tentativo di approccio sessuale al suo carnefice; stesso destino anche per Lorenzo Paolucci. Come proprio Luigi Chiatti ha ammesso, se non fosse stato catturato avrebbe inevitabilmente continuato ad uccidere, tanto che nel processo si afferma infatti che è nel suo Dna uccidere ancora. Tullio Brigida è forse colui che per primo nella cronaca nazionale ha acceso i riflettori su una tipologia comportamentale per certi aspetti ancora sommersa e misconosciuta: l’uccisione dei figli per vendetta.


Sono trascorsi 18 anni da quella notte del 4 gennaio 1996 quando Tullio Brigida uccide e seppellisce i bambini in un terreno di campagna nei pressi di Cerveteri in provincia di Roma. Quella di Tullio Brigida, ex operaio con qualche precedente penale, è la storia di un padre che soffoca con l’ossido di carbonio i suoi bambini all’interno dell’auto collegando il tubo di scarico alla Ford. Tullio Brigida non ha mai amato i suoi figli, nei loro confronti nutriva soltanto una forma di possesso, erano diventati uno strumento contro la ex moglie con la quale aveva avuto vari scontri a volte sfociati in episodi di violenza, e li uccide proprio per colpire lei, per vendicarsi di lei che lo aveva lasciato, per infliggerle la più grande delle sofferenze. Brigida, arrestato subito con l’accusa di sequestro, aveva tenuto tutta l’Italia con il fiato sospeso per un anno e mezzo. Aveva dato mille versioni,

facendo addirittura credere che dietro il rapimento dei figli ci potesse essere un dispetto della ‘ndrangheta. Ma nella primavera del 1995 Tullio Brigida confessava: «I piccoli sono morti, i loro corpi sono seppelliti in un terreno nei pressi di Cerveteri». Insisteva però per una morte accidentale. Ma le perizie medico legali stabilirono che ad ucciderli fu proprio lui. Mentre la mattina del 20 aprile 1995 si scavava per cercare i cadaveri dei fratelli, Tullio Brigida non batté ciglio, non si fece sfuggire una lacrima. Soltanto lui restò impassibile. Tutti gli altri furono assaliti dall’emozione quando dalla buca vennero fuori i resti dei bambini che indosso avevano ancora le giacche a vento, le felpe, le scarpe. «Vi ho punito» disse durante un’udienza rivolgendosi alla ex moglie e alla sua famiglia.

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FUTURO Lo smarrimento della “Millennial Generation”: dove sta andando la nostra meglio gioventù?

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Il nostro è un paese che invecchia e invecchia male. Nascono sempre meno bambini e aumenta il numero delle morti: nel 2015 si è registrato il picco più alto di decessi dal Secondo dopoguerra; attualmente meno del 25% della popolazione italiana ha un’età compresa tra 0 e 24 anni. Il 2015 è stato un anno record per il calo delle nascite, tale da far parlare di un vero e proprio allarme demografico in Italia, che si unisce anche ad un picco dei decessi che non trova valide giustificazioni. Mediamente è di 30,7 anni l’età per primo figlio, di conseguenza diminuiscono i secondi e terzi figli.

Considerando questi dati, l’Italia sembra essere il paese più anti-famiglia d’Europa: le politiche di sostegno e di incentivazione alle nascite sono decisamente scarse e pensare che proprio in Italia, intorno al 1920, Luisa Spagnoli fondò il primo asilo nido aziendale. Attualmente mancano strutture, agevolazioni e detrazioni. Spesso, per le donne, si pone una scelta drammatica tra carriera lavorativa e vita famigliare. L’unico compromesso inevitabile consiste nel rimandare il più possibile la gravidanza, con tutti i rischi e l’aumento delle difficoltà che necessariamente questo spostamento comporta.

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A questo quadro già triste si uniscono i dati sulla dispersione scolastica: il 34,4% degli studenti che non consegue diplomi di secondaria superiore o di formazione professionale è nato all’estero, mentre tra gli studenti nativi la percentuale scende al 14,8%. L’Italia risulta anche tra i paesi con le più forti disparità tra tassi di abbandono maschile e femminile, con una percentuale del 20,2% per i maschi e del 13,7% per le femmine e, comunque, i nostri studenti certo non eccellono: il 24,7% degli alunni di 15 anni non supera il livello minimo di competenze in matematica e il 19,5% in lettura. Non sono in grado di ragionare in modo matematico, utilizzare formule,

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procedure e dati, per descrivere, spiegare e prevedere fenomeni, in contesti diversi. Nel caso della lettura, non sono in grado di analizzare e comprendere il significato di ciò che hanno appena letto. Si trovano, quindi, in uno stato di povertà cognitiva. L’Italia si colloca così al 24° posto su 34 paesi OCSE. In compenso, ad usare uno smartphone è oggi l’84% dei giovani tra i 15 ed i 24 anni, “connessi” per oltre 15 ore al giorno. Per 6 giovani su 10 internet è “irrinunciabile” e quasi uno su quattro senza i suoi amici virtuali “si sente solo”, ma ciò comporta rischi per la salute: sovrappeso (causato dalla vita sedentaria), problemi ortopedici,


di postura, di vista; difficoltà nell’apprendimento scolastico (dovuta al poco tempo dedicato allo studio e alla scarsa concentrazione perché distratti dal gioco), isolamento, sbalzi di umore e tendenza all’introversione. I videogiochi sostituiscono sempre più i rapporti personali e le relazioni sociali. Tocca ai genitori inventare attività e giochi per staccare i loro figli dagli schermi, anche se proprio i genitori sembrano aver ormai abdicato al loro ruolo di controllo: due su tre non impongono neanche una regola sull’uso di tablet, tv, telefonini e videogiochi. Al contrario, una ricerca dimostra che il 48% dei giovani che fanno esercizio fisico studiano tre ore in più alla settimana, perdono meno giorni di scuola e fanno poche assenze ingiustificate. Bastano solo cinque minuti al giorno di allenamento per avere migliori risultati scolastici.

L’abuso della rete ha portato anche a nuovi fenomeni delinquenziali, ovvero il bullismo giovanile, da sempre esistito, nella sua declinazione moderna: il cyberbullismo. Secondo l’ultimo rapporto Istat il 5,9% dei ragazzi che usano internet ha denunciato di aver subìto ripetutamente azioni vessatorie via sms, chat, mail o simili, soprattutto ragazze di età compresa tra

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i 14 e i 17 anni, con effetti talvolta tanto devastanti da portare al suicidio. In Italia non è previsto uno specifico reato per il bullismo e, comunque, si tende a non denunciare. Il quadro è sconcertante ma ancora non completo. I giovani italiani sono “mammoni”: Il 62,5% tra i 18 e i 34 anni vive ancora con i genitori, con una forte differenza tra le donne (56,9%) e gli uomini (68%), ma soprattutto una consistente differenza con la media europea, che si attesta al 48,1%. Sempre più trentenni

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rimangono in casa con i genitori, si formano meno famiglie, nascono meno bambini: tutto viene spostato in avanti, a cominciare dal matrimonio, si sposta il primo figlio e anche l’età nella quale si diventa nonni. Non si tratta di pigrizia, però: i Millennials sperimentano in modo massiccio le difficoltà del mercato del lavoro, che taglia posizioni soprattutto tra i più giovani, non garantisce stabilità e penalizza le retribuzioni. C’è poi l’altra faccia della nostra società, quella che sempre più sta prendendo


forma, ovvero i figli di quanti sono emigrati nel nostro paese. Oltre il 46% di quest’ultimi, così come il 42% dei loro coetanei italiani, vorrebbe andare via dall’Italia. Aumentano le disuguaglianze e il futuro risulta fortemente determinato dalla posizione economico-sociale dei genitori. E se in passato la laurea era un forte fattore di spinta e di miglioramento sociale, oggi neanche l’istruzione superiore mette al riparo i giovani dalla precarietà e dalla disoccupazione, o dalla sottoccupazione della quale sono le vittime principali. Oggi ciò che fa molta più differenza è nascere nella famiglia “giusta”. C’è una correlazione sempre maggiore tra il livello professionale dei genitori, la proprietà della casa e la posizione dei figli. Alla Sicilia e alla Campania va il triste primato di essere le regioni italiane con più “povertà educativa”, ossia dove è più scarsa e inadeguata l’offerta di servizi e opportunità che consentano ai minori di far fiorire capacità

e aspirazioni. Fanno da contraltare Lombardia, Emilia-Romagna e Friuli. Sconfortante sapere che in Italia il 48% dei minori tra 6 e 17 anni non ha letto neanche un libro (se non quelli scolastici) nell’anno 2015, il 69% non ha visitato un sito archeologico e il 55% un museo, il 46% non ha svolto alcuna attività sportiva. Ecco, questo è il quadro di quello che siamo e c’è da temere per i giovanissimi che guardano al futuro.


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»CHE NE SA DI NOI?

Un fondo per persone con disabilità grave c al dramma di chi non avrà più assisten

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così da far fronte nza genitoriale

In Italia abitano ben 13 milioni di persone con disabilità e di queste il 25% ha un’invalidità grave. Una grande fetta della popolazione quindi è colpita nel quotidiano da problemi molto grossi. Se si pensa che la maggior parte di questi individui sono seguiti dai genitori perlopiù anziani, è naturale che si giunga alla fatidica domanda: «Che ne sarà dopo di noi?». È giunto all’esame del Parlamento un decreto che con la sua attuazione può cambiare in meglio la vita dei disabili, il famoso “Dopo di noi”. Dopo lunghe sedute, finalmente il 14 giugno 2016 con 312 voti favorevoli, 64 contrari e 26 astenuti, la Camera dei Deputati ha dato il via libera definitivo al testo del disegno di legge. Entriamo nel dettaglio e vediamo esattamente che cosa prevede questo provvedimento che è composto da ben 10 articoli. Sono state inserite importanti novità per quanto riguarda le agevolazioni per persone disabili. Prima cosa è stato istituito un Fondo di assistenza, con una dotazione di 90 milioni di euro per l’anno 2016, 38,3 milioni di euro per l’anno 2017 e in 56,1 milioni di euro annui a decorrere dal 2018. Il fondo è ripartito fra tutte le regioni, da emanare entro sei mesi dall’entrata in vigore del Provvedimento di legge. Nello stesso troviamo anche

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i requisiti per l’accesso alle misure di assistenza, cura e protezione a carico del Fondo. Ogni regione a sua volta definirà i criteri per l’erogazione del finanziamento, verificando l’attuazione delle attività svolte e in taluni casi addirittura la revoca dei medesimi. Si alzerà la soglia delle detrazioni per le polizze vita. Le polizze assicurative con oggetto rischio morte, se destinate a tutela persone con disabilità, sarà alzata da 530 a 750. Inoltre l’art. 6 prevede altre agevolazioni fiscali per la costituzione di

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trust, cioè beni mobili e immobili destinati a disabili gravi (come per esempio Onlus). In definitiva perché questa Legge è così importante? Con l’approvazione del “Dopo di noi” i genitori anziani di persone con disabilità possono stare più tranquilli, in quanto un domani, quando loro (i genitori) verranno a mancare, i figli potranno godere di strumenti assistenziali che fino ad oggi sono mancati. Per esempio saranno create strutture abitative di tipo familiare, realizzati interventi di permanenza temporanea extrafamiliare per far fronte ad eventuali emergenze, inoltre saranno sviluppati programmi di accrescimento della consapevolezza ‒ nell’ambito di abilitazione e di sviluppo delle competenze per la gestione della vita quotidiana del disabile ‒ per il raggiungimento del maggior livello di autonomia possibile. Il presidente della F.I.S.H. (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap)


Vicenzo Falabella ha così esordito: «Questo confronto e interesse deve ora diffondersi nei territori e nelle comunità locali per rendere operativi e concreti gli intenti della norma, ma deve anche estendersi ad altri aspetti altrettanto drammatici che riguardano il rischio di segregazione e di isolamento delle persone con disabilità. Ora la norma deve essere concretamente applicata. […] Le novità che riguardano il trust e le agevolazioni

fiscali non dovrebbero incontrare difficoltà applicative, rimangono al contrario una incognita i tempi e le modalità di concreta attuazione dei servizi e dei sostegni diretti alle persone e alla famiglie». Nonostante le varie perplessità, l’approvazione di questa legge è un piccolo ma importante passo in avanti che il nostro Paese ha fatto per una fascia debole ma presente, che dev’essere sempre tenuta in grande considerazione.

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