Le pieghe oscure di un caso in apparenza “banale”
COPIA OMAGGIO
anno 2 – N. 14, Aprile 2015
STRAGE DI BRESCIA,
INTERVISTA ALL’AUTORE DELLA PERIZIA CHE
RIAPRE L’INDAGINE Indagine su costi e tempi della Giustizia
Cosa significa essere madri e disabili in Italia
A quali conclusioni porta l’analisi dell’ordigno esploso a piazza della Loggia nel 1974? L’inchiesta di Cronaca&Dossier su depistaggi e responsabilità
Indice del mese 4. Inchiesta del mese
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LA VERITÀ ESISTE MA NON SI VEDE
10. Inchiesta del mese
TRA NUOVE FOTO E CASSAZIONE SI RIAPRE IL PROCESSO SULLA STRAGE
16. Inchiesta del mese
QUELLA PERIZIA SU PIAZZA DELLA LOGGIA CHE RIEMERGE DOPO 41 ANNI
22. Sulla scena del crimine LE PIEGHE OSCURE DI UN CASO IN APPARENZA “BANALE”
28. Sulla scena del crimine
IL CONFINE SOTTILE TRA PERICOLI REALI E PRESUNTI
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34. Criminalistica
IL MONDO COMPLESSO DELLE “ARMI IMPROPRIE”
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38. Dossier da collezione
STEFANO CERATTI, L’UOMO CHE DENUNCIÒ GLI SPRECHI
Le pieghe oscure di un caso in apparenza “banale”
COPIA OMAGGIO
anno 2 – N. 14, Aprile 2015
STRAGE DI BRESCIA,
INTERVISTA ALL’AUTORE DELLA PERIZIA CHE
RIAPRE L’INDAGINE Indagine su costi e tempi della Giustizia
44. Dossier società
INDAGINE SU TEMPI E COSTI DELLA GIUSTIZIA
A quali conclusioni porta l’analisi dell’ordigno esploso a piazza della Loggia nel 1974? L’inchiesta di Cronaca&Dossier su depistaggi e responsabilità
Cosa significa essere madri e disabili in Italia
48. Diritti e minori
LE CONSEGUENZE DISASTROSE DELLA DIPENDENZA GENITORIALE DA SOSTANZE
ANNO 2 - N. 14 APRILE 2015
Rivista On-line Gratuita
54. Storie di tutti i giorni
Direttore Responsbile Pasquale Ragone Direttore Editoriale Laura Maria Gipponi
58. Indagare se stessi
Articoli a cura di Alberto Bonomo, Nicoletta Calizia, Nia Guaita, Nicola Guarneri, Dora Millaci, Paolo Mugnai, Gelsomina Napolitano, Katiuscia Pacini, Paola Pagliari, Mauro Valentini.
62. Media crime
Direzione - Redazione - Pubblicità Auraoffice Edizioni srl a socio unico Via Diaz, 37 - 26013 Crema (CR) Tel. 0373 80522 - Fax 0373 254399 edizioni@auraoffice.com
COSA SIGNIFICA ESSERE MADRI E DISABILI IN ITALIA VOCI ED EMOZIONI LE TECNICHE PER LE CHIAMATE D’EMERGENZA LIBRO, FILM, PROGRAMMA TV E RADIO CONSIGLIATI
Grafica e Impaginazione Giulia Dester
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Testi e foto non possono essere riprodotti senza autorizzazione scritta dall’Editore. Le opinioni espresse negli articoli appartengono ai singoli autori dei quali si intende rispettare la piena libertà di espressione. Registrato al ROC n°: 23491 Iscrizione al tribunale N: 1411V.G. dal 29 ottobre 2013
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Le bare sono pronte. I morti, riposti nel salone Vanvitelliano del municipio di Brescia, possono essere pianti. Piazza della Loggia straripa. Mezzo milione di persone presenti per rendere l’ultimo saluto alle vittime. Doveroso e normale essere lì a piangere uniti, quanto al contempo assurdo e anormale risulta essere lì a piangere uniti sconosciuti innocenti che, pochi giorni prima, avevano perso la vita proprio in quella piazza. La mattina del 28 maggio 1974, come in occasione dei funerali che si stavano svolgendo, la folla fremeva. Erano da poco passate le 10:00 ed era in corso una manifestazione indetta dai sindacati e dal comitato antifascista contro il terrorismo neofascista. Ben presto il teatro della scena politica si trasformò in un delirio incontrollato, un magma umano che si muoveva senza una vera direzione come quando dopo il fragore di uno sparo gli uccelli spaventati, d’istinto, fuggono via dagli alberi. Il fumo cominciò a invadere la strada, le urla di dolore dei feriti e le urla di paura di chi provava a scappare lontano si propagavano all’unisono. Poco dopo si seppe che un ordigno era stato piazzato dentro un cestino portarifiuti in prossimità dei portici. Furono otto le vittime e più di cento i feriti. Le indagini non tardarono a partire ma furono condotte in modo rocambolesco. A dir poco assurdo il pronto intervento dei Vigili del fuoco che, non più tardi delle 13:00 su ordine del funzionario di Polizia Aniello Diamare, ripuli-
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rono la piazza con i getti ad alta pressione cancellando per sempre possibili indizi sul luogo del disastro. Tale azione sconsiderata non impedì il proliferare d’ipotesi relative ad un possibile intervento dei servizi segreti italiani, atto a contaminare e disperdere con l’acqua sull’asfalto importanti prove. Le stesse supposizioni furono formulate in concomitanza della misteriosa scomparsa in ospedale di molti reperti appartenenti alle vittime trasportate d’urgenza quella mattina. Senza dimenticare i comprovati rapporti dei Servizi con Maurizio Tramonte, giovane militante del Movimento Sociale Italiano e di Ordine nuovo, nome in codice “fonte Tritone”. Perché le informazioni di cui era in possesso, attraverso le quali sarebbe stato possibile svelare i presunti piani bombaroli di Ordine nero, rimasero segrete? Nonostante il caos, le indagini proseguirono dando vita al primo filone istruttorio. Gli
investigatori, pochi giorni dopo il tremendo fatto, formalizzarono a Rieti l’arresto di tre estremisti di destra in possesso di armi e materiale esplosivo: Giancarlo Esposti (morto durante l’irruzione), Alessandro Danieletti e Alessandro D’Intino. Si pensò subito a una responsabilità dei ragazzi nella Strage ma al contempo una foto tessera trovata nelle tasche del cadavere consentiva l’ingresso nella storia di un nuovo personaggio da attenzionare: Cesare Ferri. Il giovane, in seguito rintracciato e fermato in compagnia di alcuni esponenti di Avanguardia nazionale, fornirà un alibi per la mattina dell’esplosione ma rimarrà nella cerchia degli indagati. Nel 1975 entrarono di prepotenza nelle investigazioni Ermanno Buzzi e Luigi Papa,
camaleontici estremista di destra. Il 2 giugno 1979 i giudici della Corte d’Assise di Brescia condannarono all’ergastolo il primo e a dieci anni il secondo. La bomba sarebbe stata messa nel cestino della spazzatura da Papa, mentre Buzzi l’avrebbe coperto. Anni d’intrighi, di congetture e di tasselli che non combaciavano, scomparvero così. Prima di poter arrivare al processo d’Appello, dopo il trasferimento al carcere di Novara, Ermanno Buzzi fu strangolato durante l’ora d’aria da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli, esponenti di spicco del movimento eversivo neofascista. Il primo ex terrorista e fondatore del Fronte nazionale rivoluzionario venne condannato all’ergastolo dopo l’uccisione di due Carabinieri (imputato anche nella
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strage del treno Italicus); il secondo, invece, terrorista di Ordine nuovo famoso per l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio nel luglio 1976. Un personaggio senza scrupoli che non provava rimorsi nel chiamarsi assassino, arrestato nel febbraio 1977 e condannato a quattro ergastoli. Buzzi fu ucciso, secondo le confessioni dei due, per l’infamia di essere un pederasta e un confidente della Polizia ma le ragioni più profonde sarebbero da ricercare nelle presunte dichiarazioni che la vittima avrebbe potuto fare durante la fase processuale d’Appello. Con un colpo di scena inaspettato nel marzo del 1982 (e nel settembre del 1987 definitivamente in Cassazione) a conclusione del processo d’Appello vi fu l’assoluzione di tutti gli imputati, compreso Papa (e moralmente anche del defunto Buzzi). La storia non fu mai davvero chiara e limpida. Come se non bastasse, le dichiarazioni rese da alcuni pentiti condussero quasi naturalmente verso l’apertura nel 1984 di una nuova istruttoria (“l’inchiesta bis” sulla strage) che pose la lente su alcuni esponenti della destra eversiva: Cesare Ferri, Alessandro Stepanoff e Sergio Latini. I tre, nel maggio del 1987, saranno assolti dalla Corte d’Assise di Brescia e poco tempo dopo, nel novembre del 1989, in via definitiva dalla prima sezione della Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale. Non passerà molto tempo prima che il giudice istruttore Zorzi smetterà di lottare nella battaglia per la conquista della verità nella strage
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di piazza della Loggia. In un’ordinanza, prima di lasciare l’ufficio istruzione, le sue parole: «Quei sette chili di esplosivo furono lo strumento non di una strage indiscriminata, di un atto di terrorismo puro, di un proditorio “sparo nel mucchio” finalizzato a seminare il panico e un diffuso senso d’insicurezza in relazione a qualunque situazione di vita quotidiana, ma un vero e proprio attacco diretto e frontale all’essenza stessa della democrazia; ossia al diritto dei membri della polis di ritrovarsi nell’agorà e di esprimere lì, direttamente, senza mediazioni di sorta, la propria soggettività politica, individuale e collettiva».
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Tra nuove foto e Cassazione si riapre il processo sulla Strage 41 anni dopo la bomba a piazza della Loggia si torna nelle aule di tribunale
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Dopo lo scoppio, quel 28 maggio 1974, un fotografo dello studio “Eden” si precipita in piazza, non sa che lo aspetta l’orrore, corpi dilaniati e la disperazione dei loro parenti, amici e compagni. Il reporter quasi si protegge dietro la macchina fotografica, scatta senza guardare oltre il mirino della sua reflex per filtrare quel dolore che acceca, sotto la pioggia fitta di quel giorno. Tra gli scatti che ritraggono volti storditi e terrorizzati, guardandoli bene uno ad uno trent’anni dopo, se ne riconosce uno, non un passante, non uno qualsiasi. La perizia antropologica del prof. Luigi Capasso, per conto della Procura di Brescia, afferma che quello in piazza tra le vittime e i parenti è Maurizio Tramonte, uno dei sei personaggi rinviati a giudizio nel maggio del 2008 per la strage. Lui era lì (anche se lo nega), il professore non ha dubbi. Lo chiamavano con il nome in codice di “Tritone”, il Sid (Servizio Informazione Difesa) lo aveva infiltrato in quella palude che era all’epoca Ordine nuovo.
Tritone viene rinviato a giudizio come esecutore materiale di quella strage il 15 maggio del 2008 insieme al gotha dell’eversione nera e cioè Delfo Zorzi, un habitué nei processi per strage ma sempre in contumacia, visto che da anni se la spassa in Giappone, Carlo Maria Maggi, Giovanni Maifredi, Pino Rauti che è il fondatore di Ordine nuovo. Insieme a loro viene accusato anche l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino. Un processo indiziario, una montagna di 750 mila documenti. Ma cosa c’è dentro questa pila incredibile di fogli e di faldoni che costerà 45mila euro solo di fotocopie, pagate dalla Regione Lombardia che corre in aiuto dell’Associazioni dei familiari delle vittime? Ci sono delle testimonianze che affermano di conoscere la dinamica degli eventi, chiamando in causa i sei imputati, coinvolti a vario titolo. Prove in realtà non ce ne sono molte, ma le testimonianze hanno convinto i Pm, il teorema per loro è chiaro: «Sullo sfondo di questa storia ci sono i servizi segreti italiani e americani».
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Roberto Di Martino e Francesco Piantoni, i due pm che hanno lavorato sodo, hanno prodotto un castello di accuse ben piantato nelle fondamenta, per loro le prove ci sono. Non fu dunque opera di una deriva impazzita di neofascisti bresciani, non furono bombaroli senza scrupoli della cellula nera milanese che volevano colpire l’anima ed il consenso sindacale, le due ipotesi dei primi processi lasciano il passo ad un maledetto intreccio tra chi dirigeva Ordine nuovo, i neofascisti veneti che ben sapevano come muoversi nella città “leonessa d’Italia” e apparati deviati dello Stato, anche ai massimi livelli. Ecco perché tra gli imputati c’è il generale Delfino, lui era comandato a Brescia in quel periodo. I Pm lo accusano di aver partecipato a riunioni anche organizzative della strage. Ma chi sono questi testimoni che hanno concorso ad ipotizzare le accuse? In primis ci sono le deboli ammissioni dell’imputato Tramonte e poi di due pen-
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titi, Martino Siciliano e Carlo Digilio, due personaggi davvero raccomandabili e con un curriculum che sembra uscito da un romanzo di Le Carrè, i quali costruiscono un quadro che appare probante. Soprattutto è la testimonianza di Digilio, raccolta prima della sua morte avvenuta nel 2005, a puntellare l’accusa. Lui che era un agente della CIA con il nobilitante nome in codice Erodoto, esperto di esplosivi nonché esponente di primo piano del gruppo ordinovista veneto, ha raccontato prima di morire che quell’azione fu ordita da Ordine nuovo, in particolare dalla cellula veneta con a capo Carlo Maria Maggi e che l’esplosivo lo fornì Delfo Zorzi. Digilio racconta ed è dettagliatissimo: ha visto la bomba, anzi, l’ha messa in sicurezza proprio lui su richiesta di Marcello Soffiati, che la doveva trasportare da Mestre a Brescia. Quella valigia con dentro 15 candelotti di dinamite con innesco formato da una pila di 4 Watt e una sveglia con il quadrante in plastica e le lancette rivolte verso l’alto per facilitare il contatto. A metterla nel cestino dei rifiuti sotto al
porticato centrale di piazza della Loggia, secondo quanto detto anche da Tramonte, fu Giovanni Melioli, ordinovista veneto come Soffiati. Soffiati e Melioli sono deceduti, non potranno confermare, ma le testimonianze concordano. Oltre quelli che hanno messo in atto la strage, i Pm perseguono anche e soprattutto chi l’ha ideata: il vertice di Ordine nuovo, quindi Pino Rauti. Al generale Delfino l’accusa addebita il ruolo di aver costruito con le sue indagini un colpevole perfetto, facendo cadere la colpa su Ermanno Buzzi (ucciso poi dal duo Tuti-Concutelli in carcere) mentre Maifredi, che morirà prima della sentenza era il collettore di informazioni, strategico nella stanza dei bottoni al Ministero dell’Interno. Il processo inizia, percorre stancamente l’iter senza sussulti, tanto che su La Stampa l’editorialista Michele Brambilla dopo dieci mesi di processo scrive senza mezzi termini che «a Brescia c’è un processo che sembra non interessare a nessuno. Si fanno due sole udienze alla settimana. Gli imputati non vengono mai. Sui giornali nazionali neanche una riga. Eppure il reato è strage: otto morti, 108 feriti». Solo Manlio Milani, il presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime, non si rassegna. Lui che era mano nella mano con sua moglie vicino a quel secchio dei rifiuti con la valigia piena di tritolo e che l’ha vista morire dice: «È un surreale pro-
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cesso ai fantasmi. Nonostante ciò, questo dibattimento sta comunque permettendo di scoprire ancora di più che cosa era l’Italia di quegli anni, quali trame si ordivano, quali folli progetti». La fiducia di Milani però cade miseramente il 16 novembre 2010, quando la Corte d’Assise assolve tutti gli imputati. Nelle motivazioni si fa riferimento all’articolo 530 comma 2, la vecchia insufficienza di prove, ordinando anche la revoca della misura cautelare per Delfo Zorzi, come se si fosse mai fatto un giorno di carcere per questo reato. La Corte d’Appello di Brescia conferma la sentenza il 14 aprile 2012, tutti assolti. «Abbiamo fatto tutto il possibile. È una vicenda che va affidata alla storia». La resa dei due Pm che tanto si erano prodigati in quasi 8 anni di ricerca della verità è totale ed amara. Il Procuratore generale di Brescia fa ricorso per tutte le assoluzioni, tranne che per il generale Delfino (Rauti è deceduto nel frattempo) e il 20 febbraio 2014 approda finalmente in Cassazione, dove il pg Vito D’Ambrosio chiede di annullare le assoluzioni in secondo grado per Zorzi, Maggi e Tramonte. La Cassazione accoglie il ricorso per Maggi e Tramonte, loro due saranno riportati davanti al Giudice per quella bomba. Zorzi esce definitivamente di scena. Un’ultima chance per arrivare almeno ad un brandello di verità, questo almeno
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si augurano ora i parenti delle vittime e la società civile, che quella bomba, quei morti e quei feriti non li ha dimenticati. E mentre si attende la prima udienza, esattamente 41 anni dopo la strage, ecco che ancora una volta dalle foto di quel giorno salta fuori l’ennesimo colpo di scena. In diverse immagini si nota un ragazzo giovanissimo che indugia in piazza appena dopo la strage, tra il sangue e i morti coperti con gli striscioni dei manifestanti della CGIL. Quel ragazzo sembra proprio esser Marco Toffaloni, all’epoca 16enne, veneto anche lui, molto attivo nella falange nera, da anni riparato con altra identità in Svizzera. Chi aveva parlato di lui come di una presenza di supporto al gruppo della morte quella mattina era stato a suo tempo Giampaolo Stimamiglio, anche lui collaboratore di giustizia. Le foto lo confermerebbero e in questo nuovo dibattimento ci sarà un altro iscritto nel registro degli indagati. La prima udienza di questo processo infinito è fissata per il 26 maggio 2015, 4.963 giorni dopo quello scoppio che uccise otto persone e ne ferì per sempre oltre cento.
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Quella perizia su
piazza della Loggia
che riemerge dopo
41 anni
Tritolo, indizi e prove: i punti della relazione tecnica che ha convinto la Cassazione Intervista al prof. gen. Romano Schiavi, uno dei tre periti (assieme ai proff. Alberto Brandone e Teonesto Cerri) che furono chiamati per la prima Istruttoria sulla strage di piazza della Loggia. Dopo 41 anni quella perizia è tornata d’attualità grazie all’intervento della Cassazione che ha sconfessato il lavoro peritale svolto nel 2010 dai dott. Paolo Egidi, Federico Boffi, Paolo Zacchei.
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La differenza tra la prima e l’ultima perizia è notevole: quella eseguita dal prof. Schiavi permette alla Corte di dare credibilità alle affermazioni di Digilo (indirizzando le responsabilità verso i neofascisti); quella eseguita nel 2010 è invece in contrasto con le parole di Digilo. In merito alle ragioni della Strage, nel tempo si è parlato anche di “errore”, ovvero l’ipotesi che in realtà la bomba fosse diretta ai Carabinieri e che solo per una fatalità, dovuta alla pioggia di quel giorno, quest’ultimi fossero rimasti indenni lasciando che sotto il porticato si rifugiassero invece i manifestanti. Nell’attesa del responso della Cassazione, per Cronaca&Dossier il generale Schiavi rilascia un’intervista importante che fa chiarezza sui punti cardine dell’inchiesta. Dalla sua perizia riparte la ricerca per la verità su piazza della Loggia.
IL TRITOLO Quale significato può assumere rinvenire
del Tritolo in fase peritale? E in modo particolare 41 anni fa al momento della Strage? «Ricordo, prima di rispondere, che in mancanza di precedenti e in assenza di letteratura in proposito, i vecchi periti avevano messo a punto un sistema di indagine eseguito tutt’ora, pur non avendo a disposizione i mezzi di oggi. Il rilevamento del Tritolo può essere importante in una perizia, nel caso ci siano ragioni o testimonianze di un suo uso da parte dell’attentatore. Ai tempi di piazza della Loggia i bombaroli che operavano a
Brescia, effettivamente, adoperavano Tritolo ricavato da ordigni bellici, ritrovato in molti casi, perché le bombe, normalmente, o non esplodevano o lo facevano solo parzialmente. Per i vecchi periti, quindi, era importante la ricerca del Tritolo proprio perché conoscevano i mezzi usati dai bombaroli. Questa è la differenza sostanziale, a parte gli studi specifici, che divideva i vecchi periti dai nuovi periti del 2010. Quando quest’ultimi parleranno di esplosivi esclusivamente militari hanno riferito un nonsense, in quanto il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza non prevede questo tipo di classifica, presente nella
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cultura anglosassone, in cui si identificano con questo attributo gli esplosivi HE che noi chiamiamo esplosivi di scoppio. Il TNT e tutti gli altri esplosivi nominati dai nuovi periti (si ignorano gli errori nell’elencarli perché potrebbero essere dei lapsus) figurano nell’allegato A del Regolamento per l’esecuzione del TULPS, fra gli esplosivi riconosciuti che si possono commerciare. Gli esplosivi non riconosciuti, vengono classificati “clandestini”. Non esistono quindi esplosivi di esclusivo impiego militare ma, eventualmente, esplosivi di prevalente impiego militare. Il Tritolo è sicuramente preferito dai militari perché facilita il caricamento dei proiettili per fusion e non consente l’arroccamento dell’esplosivo al momento della partenza del colpo; era sufficientemente sicuro anche al rude maneggio degli “zappatori” e può essere più facilmente conservato nei depositi per le guerre future. Questo non sarebbe possibile con le dinamiti che, già a qualche mese dal tentativo di ricovero di quelle sequestrate, apparivano “deteriorate” e bagnate non dalle “goccioline” della NGL di cui parlerà il nuovo perito, ma dalla deliquescenza del nitrato d’ammonio. Il Tritolo, viceversa, non è preferito dai civili per il suo scarso adattamento a tutte le diverse situazioni di lavoro e perché co-
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sta di più. Ma quando lo trovano a buon mercato, i “civili” lo adoperano anche se in genere miscelato con altri esplosivi per mitigarne le caratteristiche negative. L’unica citazione di “esplosivi militare” si trova in un decreto del 2010 riguardante il recepimento della normativa europea sui fuochi artificiali, senza senso dal momento che il divieto all’uso di esplosivi che non fossero polvere nere o miscele con effetto lampo, rendeva comunque superflua questa aggiunta. Tant’è vero che una legge successiva eliminerà l’errore».
Fumo nero dopo bombardamento con bombe al Tritolo (foto cortesemente concesse dal prof. Schiavi).
ESPLOSIVO “CIVILE” O MILITARE? Affermano i periti in udienza nel 2010: «Tutti gli esplosivi civili da mina conosciuti contenevano Tritolo e contenevano nitrato d’ammonio». Dunque sostengono che è troppo generico parlare di “Tritolo” in fase di prima Istruttoria. Come risponde a questa critica? «Noi avevano sotto controllo le due più grosse fabbriche di esplosivi in Italia, conoscendo bene il contenuto degli esplosivi “civili” che non necessariamente contenevano il tritolo anche se avessero inteso riferirsi alle dinamiti e neanche il nitrato d’ammonio perché alla SEI Esplosivi vendevano anche l’esplosivo plastico fatto fabbricare alla Bofors per lavori subacquei in un porto ligure. Chi parlerà di Tritolo saranno comunque proprio i nuovi periti e ancor più il consulente di parte civile, a ipotizzarne l’impiego nella Strage. I vecchi periti hanno ritenuto ci fosse principalmente una dinamite con una piccolo percentuale di TNT cui riconduceva, principalmente, il ritrovamento del Tritolo solamente in tracce». Davvero all’epoca non avete preso in considerazione l’ipotesi dell’uso di esplosivi militari? «I vecchi periti hanno preso in seria considerazione sia l’uso del Tritolo anche se magari non l’hanno chiamato esplosivo militare come avrebbero voluto i nuovi ed ancor più gli esplosivi ricavati da ordigni bellici, di largo uso da parte dei bombaroli, cui non occorre altro attributo per definirli. Proprio da questo attento studio è nata la possibilità di negarlo». I periti nel 2010 parlano della presenza di “tetrile” dicendo che è «firma della provenienza militare». Cosa ne pensa?
«Questa è una delle cose non corrette udite durante il processo del 2010. Il tetrile era presente assieme al Tritolo nei frammenti ricavati da ordigni bellici in casa Ferrari [Silvio Ferrari, giovane ordinovista saltato in aria sulla sua motocicletta nell’atto di trasportare degli esplosivi il 19 maggio 1974, ndr] ma anche in altri ritrovamenti durante le operazioni di bonifica ed antisabotaggio. L’esplosivo ricavato da un ordigno bellico sarebbe rimasto tale anche senza la presenza del tetrile o “militare” come usano dire i nuovi periti anche senza la presenza del tetrile. I vecchi periti, essendo del mestiere, sapevano di più, a questo proposito, di quanto hanno saputo dire i nuovi perché il tetrile, oltre che come buster nei proiettili di artiglieria e quindi separato dal Tritolo, era presente, per esempio, anche nelle cariche di demolizioni americane residuato bellico, per rafforzare l’innesco del Tritolo, notoriamente sordo all’innesco e presente per questo, anche nei detonatori. Uno dei nuovi periti ha parlato spessissimo di tetritolo perché è una parola più d’effetto, che è invece una miscela TNT e Tritolo di scarso uso. La presenza del tetrile che si rivela in traccia qualche volta anche nelle dinamiti, è dovuta a questo spesso necessario contatto esistente fra i due prodotti, finiti poi nella percentuale di Tritolo contenuto nelle dinamiti».
Esplosione con piccola quantità di TNT (foto cortesemente concesse dal prof. Schiavi).
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IL FUMO DOPO L’ESPLOSIONE La colonna annerita per circa 1.30 m in altezza non è forse prova del fumo nero dovuto all’esplosione? «L’affumicatura arrivava a circa 1.30 non da terra, ma da dove era posizionato il cestino; aveva quindi un’altezza di circa 30 o 40 centimetri e non l’intensità di quella riscontrata in una delle prove effettuate col solo Tritolo e notata e testimoniata da tutte le parti. D’altronde 25 testimoni affermano di aver visto fumo bianco e uno solo nero mentre in tutte le foto prese al momento del fatto si vede un persistente fumo bianco. C’è solo un consulente col suo avvocato di parte civile, che ha affermato che l’esplosione del Tritolo fa un fumo nero che sparisce nel tempo di girare la testa, perché produce anche vapore acqueo che, secondo lo stesso consulente, sarebbe “bianco”. Questo pitturerebbe di bianco il nero del Tritolo in meno di un secondo (questo lo ha ripetuto più volte). Questo fatto, secondo il consulente, non succederebbe col nitrato d’ammonio che produce fumo giallo ben visibile e persistente, invece. Credo che anche ai bambini delle elementari insegnano che a Milano la nebbia è scura perché è proprio il vapore acqueo che fa da supporto ai residui carboniosi e non il contrario».
I periti nel 2010 hanno criticato le prove di scoppio che avete eseguito in fase di prima Istruttoria. Come risponde in merito? «Le prove avevano principalmente lo scopo di determinare il peso dell’esplosivo adoperato attraverso le deformazioni riportate dal tubo che supportava il cestino. È chiaro che da queste prove sono state ricavate altre notizie e, cioè, la frammentazione dei congegni, la pezzatura dei frammenti, le affumicature provocate, etc. I nuovi periti hanno criticato queste prove dicendo che il palo che supportava il cestino era appena cementato, rilevandolo da fotografie fatte in bianco e nero fatte 36 anni prima mentre, in realtà, era ben fissato in posizione millimetricamente uguale a quello in piazza».
Fumo bianco generato da 800 gr. di dinamite (foto cortesemente concesse dal prof. Schiavi).
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«NON VOLEVO FARE IL PERITO PER PIAZZA DELLA LOGGIA» Dal punto di vista professionale ha avuto difficoltà, è stato osteggiato o mal visto, in seguito alla perizia redatta per la vicenda di piazza della Loggia? «Non volevo fare il perito e soprattutto non volevo fare il perito per piazza della Loggia. Volevo chiedere all’autorità militare di farmi esimere dall’incarico, non avendo a Brescia un comandante diretto, ma non sono riuscito a contattare nessuno. Ho detto allora al Gip di non sentirmi in grado di assolvere il compito. Il Magistrato rispose che Schiavi era universalmente noto come esperto di esplosivi e che dovevo farlo; forse perché avevo studiato gli esplosivi a livello universitario, forse perché avevo fatto la chimica degli esplosivi, forse perché insegnavo esplosivi alla Scuola di Polizia o agli ingegneri direttori di stabilimento di esplosivi o perché facevo l’antisabotaggio e la bonifica del territorio da mine ed ordigni bellici o per altro. Insomma, il perito Schiavi ha svolto l’incarico esclusivamente e per dovere civico. Oltre a questo, nessuno mi ha detto quello che
avrei dovuto fare perché non lo avrei accettato e nessuno ha fatto pressioni su di me se non per cercare di orientarmi su un esplosivo piuttosto che un altro, secondo la falsa credenza che ci fossero esplosivi fascisti o comunisti. Ho detto e fatto ciò che dettavano le mie conoscenze e l’esperienza».
Prof. Romano Schiavi in fase di raccolta reperti.
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Le pieghe oscure di un caso in apparenza
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Un intreccio complicato di affari tra l’Italia e la Svizzera sarebbe alla base del duplice omicidio Ferrari
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È un lunedì mattina come tanti a Brusio, comune del Canton Grigioni situato nella parte italiana della Svizzera. È un lunedì come tanti a Zalende, una delle tredici frazioni di cui è composto il comune di Brusio. È lunedì 22 novembre 2010 e ogni lunedì Gianpiero Ferrari Junior si reca nell’azienda di famiglia di buon mattino. Appena arriva trova fuori al cancello il fratello Giorgio e gli operai. Poiché nessuno risponde al citofono, Gianpiero apre il cancello con le sue chiavi. Stranamente il cane, un pastore tedesco addestrato e solitamente libero, è legato alla catena. Dopo averlo sciolto Gianpiero junior si dirige velocemente negli uffici. Apre e vede il padre, Gianpiero Ferrari, 58 anni, disteso sul pavimento privo di vita. Spaventato e in apprensione inizia a cercare la madre, Graziella Plozza, 57 anni, chiamandola a gran voce ma
senza ottenere risposta. La trova a terra, poco dopo, nel suo ufficio, deceduta, vicino alla fotocopiatrice. Sulla scrivania una cartelletta rossa, contenente dei fogli con contratti di vendita di alcuni mezzi, compravendita sconosciuta ai figli della coppia. Mentre chiama la Polizia elvetica Gianpiero junior sale al piano superiore, nell’appartamento dei genitori, per vedere se tutto questo scempio sia frutto di un furto. Con sorpresa si accorge che tutto è in ordine. All’arrivo degli inquirenti i coniugi Ferrari erano riversi nel sangue, con la testa fracassata e nel petto colpi d’arma da fuoco. I segni di lotta rilevati non lasciano spazio ai dubbi: Gianpiero e Graziella non sono morti subito ma hanno cercato disperatamente di difendersi. L’omicidio viene perpetrato con una modalità ben precisa, utilizzata di solito per i regolamenti di conti. Proprio dalla mo-
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dalità omicidiaria partono le indagini degli inquirenti che battono subito la pista di un incontro d’affari finito nel sangue. A rafforzare questa pista vi sono due indizi molto importanti. Il primo è la vendita di un camion che i coniugi Ferrari avrebbero concluso con dei clienti provenienti dall’Est europeo; il secondo è la telefonata ricevuta la mattina stessa dell’omicidio da Giampiero che, mentre beveva un caffè in un bar di Zalende, avrebbe salutato tutti dicendo di avere un appuntamento con «i bulgari» intendendo con questo termine i clienti dell’Est Europa. Tesi rafforzata poi da un testimone che riferisce di aver visto, la mattina dell’omicidio, un’auto con a bordo due o tre persone sconosciute parcheggiata davanti alla casa dei due coniugi di Zalende. Le indagini degli inquirenti proseguono senza sosta, anche con l’aiuto dell’Interpool, fino
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ad arrivare (grazie alle intercettazioni telefoniche e ambientali e ai pedinamenti) a ristringere il campo delle indagini intorno a due persone, un valtellinese e un uomo dell’Est. I Carabinieri del reparto operativo mettono un punto fermo nella vicenda arrestando con l’accusa di omicidio volontario e aggravato dalla premeditazione e dalla crudeltà, Ezio Gatti, un sondriese di 41 anni, e Ruslan Cojocaru, moldavo di 31 anni. Il primo la mente, il secondo il braccio: questo viene ipotizzato dagli inquirenti, i quali però ancora non riescono ad isolare con certezza il movente dell’omicidio. Cojocaru, presente in Italia con regolare permesso di soggiorno, sarebbe giunto in Valposchiavo con la banale scusa di fare affari con i coniugi Ferrari, che aveva conosciuto grazie al Gatti e con i quali aveva preso accordi nei giorni precedenti
l’omicidio. La presenza del moldavo sulla scena del crimine è ben tracciata da quanto rinvenuto dagli esperti e dal DNA presente sotto le unghie di Graziella. Ma anche Gatti il giorno dell’omicidio varca la frontiera. Dato certo grazie al rilevamento della cellula agganciata dalla sim del suo cellulare. Ma ancora non basta per dichiarare chiusa l’inchiesta. Anche se il movente inizia a delinearsi, il procuratore capo di Sondrio Fabio Napoleone è sempre più intenzionato a fare luce sui lati più oscuri della vicenda e sugli altri personaggi che nell’inchiesta vengono, per ora, solo accennati. Personaggi alquanto singolari, italiani e stranieri, che hanno avuto contatti a vario titolo con i due indagati nel periodo in cui sono state attivate (a nome di Antonio De Rosa, un personaggio inesistente, che curiosamente ha le stesse generalità di un Giudice del Tribunale di Sondrio) quattro sim telefoniche chiuse lo stesso gior-
no del delitto. Mentre l’inchiesta prosegue e si concentra su italiani e svizzeri che hanno avuto contatti telefonici con i due, spunta un terzo uomo che pare avesse un contenzioso con i Ferrari per un sospeso di quasi mezzo milione di franchi. Il nome del terzo uomo è Sergio Paganini, 48 anni, ex autotrasportatore della Valposchiavo, residente a Campascio, frazione vicinissima alla ditta dei coniugi Ferrari. Ma cosa c’entra il Paganini con i due arrestati e con i coniugi Ferrari? Il Paganini aveva lavorato per Gianpiero Ferrari (e poi anche per il fratello della vittima) quando, probabilmente sull’orlo della bancarotta, gli aveva venduto una motrice. Ma il Ferrari non avrebbe pagato un mezzo quanto promesso al poschiavino. Inoltre Paganini conosceva bene anche Gatti e con lui aveva fatto più di un affare e si suoi rapporti recenti con il Gatti sarebbero stati tracciati dalle sim che il Gatti aveva utilizzato prima dell’omicidio
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e spento definitivamente subito dopo. Pur se chiari erano gli affari che legavano i tre malviventi resta ancora da capire il ruolo di tutti coloro che girano intorno alla vicenda. Si dice che siano “pezzi grossi” di ambienti poco raccomandabili con precedenti penali da metter paura. Anche se la difesa dei due maggiori imputati fa il proprio dovere, gli elementi raccolti grazie a laboriose analisi dei tracciati telefonici passati al vaglio di un sofisticato software e l’analisi delle tracce biologiche rinvenute sotto le unghie della donna eseguita dagli svizzeri lasciano poco spazio all’immaginazione. Un altro mistero e altre circostante sospette si aggiungono alla vicenda. Due lettere anonime piene di minacce spedite ad un professionista che curava gli interessi della famiglia Ferrari, recapitate sia prima che dopo il
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delitto, la latitanza dei testi al processo e la loro reticenza nel deporre suggeriscono agli investigatori che ci sia ancora da scavare. Per ora e in attesa dell’Appello, dopo quattro anni dall’omicidio e a due dall’inizio del processo, è inflitta la pena dell’ergastolo a Ruslan Cojocaru, ritenuto il solo killer del duplice delitto di Brusio (il moldavo dovrà restare un anno in isolamento diurno), e a ventuno anni di carcere per Ezio Gatti che, pur non essendo riconosciuto come il mandante del delitto, dovrà rispondere della tentata estorsione ai danni delle vittime. Estorsione che, secondo la Corte, si è poi trasformata in omicidio. Al valtellinese è stata esclusa l’aggravante della premeditazione e riconosciuta l’attenuante prevista all’articolo 116 del codice penale (reato diverso da quello voluto dal concorrente).
Crimine ai Raggi X articolo di Alberto Bonomo
Lesioni da difesa Il coltello è un’arma adoperata nei casi di omicidio perché di facile reperibilità e soprattutto per il vantaggio di essere silenziosa rispetto alla deflagrazione dell’arma da fuoco. Nella classificazione delle lesioni da taglio esiste una particolare categoria fortemente caratterizzata: le lesioni da difesa. Il loro riscontro diventa fondamentale per le diagnosi differenziali nei casi di omicidio. In particolare, sono definite “da difesa” le ferite prodotte sulla vittima durante gli ultimi estremi tentativi di difendersi da un’aggressione, nel tentativo di evitare cosi la possibilità di essere attinta su regioni vitali del corpo. È possibile distinguere ferite da difesa attiva e passiva. Le prime sono localizzate ad esempio sul palmo delle mani e si producono nei casi in cui la vittima maldestramente tenta di bloccare la lama al fine di disarmare l’aggressore (si tratta in genere di ferite a lembo profonde); le lesioni passive, invece, si riscontrano sul dorso della mano, sugli avambracci e sui bracci. Sovente si producono quando la vittima utilizza gli arti superiori per difendere il proprio corpo dai colpi dell’aggressore. In questa seconda fattispecie possiamo ricomprendere anche le ferite da schivamento tipicamente ubicate nelle regioni posteriori del tronco, rappresentando, come sempre, il tentativo della vittima di sfuggire ai colpi inferti. 27
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Il confine sottile tra pericoli reali e presunti Da Milano la storia di persone perbene che uccidono un pregiudicato sulla scorta delle minacce
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Un bambino piange in piena notte, i genitori si allarmano e forse non si preoccupano troppo per il rumore che viene fatto e che arreca disturbo al vicino del piano di sotto, che vive da solo. La famiglia al piano superiore ha altri tre figli, dai 18 ai 3 anni, e un cane. Certamente non una combriccola da pochi decibel, in un contesto di palazzoni in zona Inganni, alla periferia sud-ovest di Milano, di quelli abitati dal ceto medio-basso, ma con ambizioni. Balconi con i fiori, non con i panni stesi, tanto per intenderci. L’inquilino del piano di sotto, Stefano Epis, 48enne disoccupato, un omaccione rissoso, dal bastone e dal martello facile, con un curriculum di tutto “rispetto”: arresti per spaccio, furti, rapina, resistenza a pubblico ufficiale, conditi da problemi di alcool e droga. Era infatti seguito dal SerT (Servizio per le Tossicodipendenze). In molti, nel palazzo, nel corso degli ultimi anni lo avevano querelato per minacce, ma era ancora lì, nel suo appartamento. Quando alzava troppo il gomito se la prendeva, a torto o a ragione, un po’ con tutti. Vi erano, infatti, denunce di altri sei condomini. Amava i fiori, però, quest’omaccione descritto da tutti come rissoso e violento. Curava il pezzetto di terra con le rose davanti al suo appartamento, al piano terra, e non sopportava l’abitudine di alcuni di gettare immondizia dall’alto.
Con Gaetano Teofilo la questione era aperta: il cane dava fastidio, il bambino piccolo piangeva in piena notte. Pochi giorni prima, Epis aveva minacciato con il solito bastone il più piccolo dei Teofilo, davanti a Mattia, il più grande, studente presso un istituto tecnico. Il 13 marzo scorso Stefano Epis viene ritrovato morto nel salotto di casa, in una pozza di sangue, colpito da coltellate al torace e ferite alla testa. A fare la sco-
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perta è il padre della vittima, tre giorni dopo, allarmato per il silenzio del figlio. Già dalle prime ore del mattino, tra le due famiglie erano volate parole grosse e minacce, come sempre causate dai rumori di cane e bambino, facilmente udibili da Epis attraverso pareti come carta velina, di palazzoni tirati su in economia. Liti, insulti, fino a quando, evidentemente esasperati, Mattia ed il padre si sono presentati alla porta del probabilmente altrettanto esasperato Epis, attrezzati di martello e coltello, le prime armi capitate a portata di mano, e non gli hanno dato modo di reagire. L’appartamento, infatti, non presentava tracce di colluttazione e le ferite su Epis non erano mortali, come rivelato dall’autopsia: l’uomo è deceduto per il molto sangue perso, non come conseguenza diretta dell’aggressione. Padre e figlio, dopo aver regolato la questione con il vicino si sono lavati, sono
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usciti ciascuno per le proprie incombenze quotidiane, il padre al lavoro, il figlio a scuola, non prima di essersi sbarazzati delle armi e degli abiti sporchi di sangue. Non particolarmente difficili le indagini: da subito tutti i vicini hanno raccontato delle intemperanze di Epis, quindi gli investigatori hanno verificato le liti pregresse, ascoltato i condomini coinvolti. I Teofilo, entrambi comunque incensurati, sono poi crollati e hanno fatto le prime ammissioni. Il primo è stato il padre, 46 anni, che ha spiegato al procuratore aggiunto Alberto Nobili e al pubblico ministero Letizia Mocciaro i dettagli della situazione che stavano da tempo vivendo con la vittima. Delitto da considerarsi d’impeto e non premeditato, nonostante le precedenti liti, in quanto avvenuto al culmine dell’accesa discussione di quella stessa mattina. I due si sono sì presentati al
cospetto dell’uomo armati di tutto punto, ma forse solo per spaventarlo, e non con l’intenzione di uccidere. La vicenda non può non richiamare alla mente quanto avvenuto nel 2006 a Erba, dove i due vicini di casa Olindo Romano e Rosa Bazzi hanno ucciso le vicine di casa Raffaella Castagna e il suo bimbo Youssef, la nonna Paola Galli, la vicina Valeria Cherubini e ferito il marito Mario Frigerio. Il tutto per “banali” liti condominiali, precedute da vicendevoli scambi di querele. Le liti di condominio sono, quindi, davvero così “banali”, se talvolta sfociano in brutali omicidi? Non sarebbe forse il caso, da parte delle Forze dell’ordine, sui cui tavoli arrivano le querele, prenderle maggiormente sul serio da un punto di vista preventivo, proprio per evitare che poi possa-
no diventare qualcosa di ben più grave? Si tratta spesso di fatti in un certo qual modo “annunciati” da precedenti querele e contro querele e che, specie in determinati contesti, possono passare dalle panche di un tribunale a quelle di un obitorio.
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Crimine ai Raggi X articolo di Alberto Bonomo
L ‘importanza della denuncia Quant’è sottile il confine che separa la minaccia di un male subito dall’azione vera e propria e le sue conseguenze nefaste? La denuncia, espressione di un popolo civile e democratico, è uno strumento molto antico che, nel corso della storia, è stato adattato alle diverse esigenze della giustizia e di ogni singola comunità. Tecnicamente rappresenta l’atto mediante il quale chiunque ha la possibilità di informare le autorità di una notizia di reato perseguibile. Nonostante la sua natura tipicamente discrezionale, esistono casi in cui essa diventa obbligatoria (ad esempio nei reati contro lo Stato). Può essere presentata in forma scritta o orale da privati cittadini e sulla base delle circostanze concrete diventa prerogativa di pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio (dunque soggetti nell’esercizio delle loro funzioni). Affinché questo particolare atto possa esplicare i propri effetti, dovranno essere rispettati i criteri contenutistici: l’esposizione sommaria dei fatti e di tutti gli elementi essenziali rilevanti; il giorno dell’acquisizione della notizia e tutte le fonti di prova raccolte; nei casi in cui ciò fosse possibile, le generalità o qualsiasi dato utile all’identificazione della/e persona/e alla quale il fatto sarebbe attribuito o le persone in grado di riferire circostanze utili a ricostruire l’accaduto.
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Il mondo complesso delle
“armi improprie� Quando le lesioni sono prodotte da strumenti da punta e taglio
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Continua il nostro viaggio nel mondo della Criminalistica, stavolta presentando le ferite traumatiche prodotte da strumenti da punta e da taglio. È infatti cronaca sempre più frequente che in fatti delittuosi di rilievo nazionale ed internazionale, anche efferati, vengono impiegate le cosiddette “armi bianche”, tra le quali distinguiamo quelle “proprie” (costruite con la finalità di offendere la persona) e quelle “improprie” (costruiti per altre finalità). Gli strumenti da punta e da taglio di normale uso lavorativo sono classificati infatti come “armi atipiche” (coltelli da cucina, taglierini, punteruoli, asce, martelli, scalpelli ecc.), a volte impiegati nelle liti familiari o da parte di giovani con modeste disponibilità economiche. Per il criminalista, in particolare per il medico legale, è di fondamentale importanza lo studio della ferita al fine di stabilire l’oggetto lesivo impiegato, magari non più presente sulla sede dell’evento in quanto gettato altrove. Altrettanto interessante è lo studio della direzione della lesione nonché della profondità raggiunta nel corpo della vittima. Questi elementi ci permettono di riconoscere se si è di fronte ad una lesione accidentale, ad un tentativo di suicidio o addirittura ad un omicidio. In questo contesto, molto importante è riconoscere se sono state poste in essere azioni di difesa da parte della vittima. Da non sottovalutare inoltre che la morte traumatica, in quanto causata da uno strumento contundente da punta e da taglio, è fra le più frequenti (si vedano i casi di cronaca nera come Rea, Gambirasio, Poggi e Kercher). Non sono pochi i casi nei quali una
L’importanza delle Scienze forensi è fin troppo evidente nelle dinamiche investigative. È per questo motivo che Cronaca&Dossier ha scelto di offrire ai propri lettori la rubrica “Criminalistica” grazie alla collaborazione del prof. Martino Farneti, direttore del corso pratico “Esperto in Balistica Forense e Scena del Crimine”, partendo dallo studio delle tracce per risolvere un crimine. Alcune fotografie pubblicate nel presente articolo sono state cortesemente concesse dal “Centro Balistica Forense”.
Prof. Martino Farneti.
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semplice bottiglia rotta all’estremità può trasformarsi in un’arma da taglio nei contesti familiari generando lesioni che a volte comportano notevole difficoltà al medico legale, il quale si trova davanti a ferite multiple, l’una diversa dall’altra, in relazione all’inclinazione dell’oggetto e alla pressione che viene esercitato sullo stesso. Generalmente una ferita prodotta da un’arma da taglio, come può essere una lama di coltello da cucina, si manifesta con una lacerazione netta dei tessuti le cui labbra possono combaciare immediatamente fra loro in quanto non vi è perdita di sostanza, gli angoli sono acuti e agli estremi presenta le tipiche “codette”. Lo studio dei prolungamenti superficiali del taglio ci permettono di capire il senso di entrata e di uscita della lama. L’esame della ferita ci fornisce informazioni utili sul tipo di lama usata che può essere “monotagliente” se avrà un’estremità molto acuta corrispondente alla zona di contatto con il tagliente e l’altra estremità più arrotondata, mentre se è a doppio tagliente presenterà entrambe le estremità con angoli acuti. In presenza di più ferite da taglio o da
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punta, un’attenta analisi del contesto e della posizione delle stesse ci può far comprendere la dinamica dell’evoluzione dell’evento traumatico. In casi di suicidio si ritrovano ferite anche multiple nella regione cardiaca, epigastrica, sul collo oppure ai polsi, generalmente con il corpo denudato nella zona interessata dalla lesione. Nei casi di omicidio si trovano spesso ferite multiple ma disposte in modo casuale. È importante la zona corporea sulla quale si trovano le ferite, soprattutto se alla schiena in quanto può voler dire che la vittima potrebbe essere stata sorpresa. Un altro indizio che di frequente viene riscontrato, nei casi di omicidio, sono le ferite da difesa presenti sulle mani e sulle braccia, dalle quali si evince che è stata posta in atto una disperata difesa dagli attacchi sferrati dall’aggressore. Tra le ferite da taglio rientrano anche quel-
le cosiddette a fendente, ovvero lesioni importanti e spesso mutilanti provocate dalla doppia azione recidente e contundente di una grossa lama, tipica di asce, spade, mannaie e machete. Una diversa morfologia della lesioni si osserva sulle ferite prodotte da strumenti da punta dove l’aspetto più importate è rappresentato dalla caratteristica della profondità che solitamente è maggiore rispetto alla sua superficie. Come sostiene il prof. Martino Farneti, lo studio delle dinamiche delle ferite da taglio rientrano nell’ambito della “Balistica Terminale” dove non un proiettile ma (in questo caso) la lama di un coltello o la punta di uno spiedo da camino producono lesioni molto caratteristiche. È in questo contesto che, nell’ambito degli studi che riguardano la formazione professionale per giovani che vogliono svolgere l’attività di esperto in Balistica forense e scena del crimine vengono svolti studi approfonditi, a carattere prettamente pratico su supporti di origine animale, dove si possono osservare le morfologie delle ferite di origine traumatica. «Risulta assai importante ‒ spiega il prof. Farneti ‒ osservare per poi riconoscere le ferite di strumento da taglio e da punta, rispetto a quelle prodotte dai proiettili di diversa forma e calibro. Premesso ciò è di fondamentale importanza, nell’ambito del corso in “Balistica Forense e scena del crimine”, esercitarsi a riconoscere le
diverse tipologie di ferite sia prodotte dai proiettili sia da armi da punta e da taglio a seguito della somministrazione di test ciechi». Inoltre, continua il prof. Farneti «manca una vera e propria disciplina che studia le lesioni provocate dagli strumenti da punta e da taglio da affiancare alla Medicina Legale e alla Balistica Forense in particolare che riguardi la Balistica Terminale. Infatti, in analogia ad un proiettile che attinge un corpo, anche nel caso di uno strumento da taglio o punta abbiamo ferite, energie, forze e direzioni da esaminare e che ci possono fornire molteplici ed utili indizi e prove da presentare nel dibattimento per chiarire le dinamiche di un evento delittuoso».
Momento dell’attività sperimentale durante il corso in Balistica Forense e Scena del Crimine.
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Il medico e segretario Dc venne ucciso contro ruberie e cattiva ammini
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Il 7 aprile 1992 Stefano Ceratti moriva presso il suo ambulatorio di Bianco (RC) mentre svolgeva il suo lavoro. Stava facendo un elettrocardiogramma a un pensionato della zona, tale Bruno Moio, quando un killer entrò a volto scoperto ed esplose cinque colpi calibro 7,65 che freddarono il medico. La Polizia venne avvisata attraverso una telefonata anonima, probabilmente dallo stesso Moio, che però si rifiutò di collaborare con gli investigatori, dicendo di aver girato la testa e di non aver visto l’assassino in volto. La sua testimonianza non venne considerata credibile, tanto che il sostituto procuratore Ezio Arcadi lo accusò di favoreggiamento. Le ragioni dell’assassinio di Ceratti restarono misteriose fino a qualche anno più tardi, il 1999, quando Sergio Prezio, un pregiudicato considerato non troppo importante, venne arrestato con 85 grammi di eroina. Prezio si rivelò una fonte importante: conosceva diversi particolari sullo spaccio di droga nel Cosentino e durante gli interrogatori arrivò ad autoaccusarsi dell’omicidio di Ceratti: «Ho ucciso per motivi di politica… lui dava fastidio». Ceratti effettivamente si era impegnato schierandosi con i “deboli”, denunciando gli sprechi dell’amministrazione comunale e l’utilizzo di diverse somme di capitali statali per finanziare interessi privati.
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La zona allora era controllata dai Pelle Gambazza, che usufruirono dei servizi di un killer esterno, Prezio appunto, in uno scambio di favori tra clan per eliminare Ceratti. Nel 2010 arriva dunque la sentenza definitiva della Cassazione: omicidio “politico-mafioso”, Prezio condannato a 30 anni come esecutore materiale, i Pelle Gambazza furono i mandanti. La famiglia Ceratti, costituitasi parte civile, ebbe diritto al risarcimento. Eppure, qualcosa non torna. La storia della famiglia Ceratti è quanto meno travagliata. Se Stefano venne ucciso nel 1992, il padre Umberto, direttore dell’ufficio postale, fu silenziato da ignoti sicari nel 1978. Pochi anni dopo, nel 1984, Stefano era in compagnia dei fratelli Pasquale e Adolfo. Stavano facendo un viaggio in auto quan-
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do vennero avvicinati da un altro mezzo che esplose diversi colpi verso il loro abitacolo. I tre fratelli rimasero miracolosamente illesi. Due mesi dopo la vita di Pasquale venne attentata nuovamente, ma fortunatamente il giovane se lo aspettava: sopravvisse alla sparatoria grazie al giubbotto antiproiettile che indossava. Pasquale riuscì a riconoscere due degli attentatori: erano Giuseppe Cidoni e Vincenzo Bagnato, rispettivamente veterinario e impiegato comuna-
le. La denuncia non servì a incriminarli e i due vennero assolti con la formula dubitativa. Cidoni non arrivò nemmeno al dibattimento dell’ottobre successivo, perché venne ucciso poco prima a colpi di fucile. È possibile che sotto questa faida tra famiglie ci siano stati interessi commerciali. Quella dei Ceratti è infatti una famiglia di imprenditori i cui prodotti hanno avuto un discreto successo a livello nazionale e internazionale: sono i produttori di un celebre vino, il “Greco”, tutt’oggi presente sugli scaffali dei maggiori supermercati e delle migliori enoteche. Forse che i Pelle Gambazza cercarono di inserirsi nel mercato vinicolo, magari spingendo con la violenza i Ceratti a vendere la loro attività sottoprezzo? Probabilmente non lo sapremo mai: non solo nessun membro del clan Pelle risulta indagato per l’omicidio, addirittura la matrice mafiosa della famiglia
non è mai stata appurata per mancanza di prove. Guarda caso, uno dei mandanti dell’omicidio Ceratti, Sebastiano Pelle, morì nel 2009, l’anno prima della sentenza. Come al solito, la conclusione “perfetta” di una vicenda tutta italiana.
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Indagine su tempi e costi della Giustizia Le cifre in Italia e il confronto con gli altri Paesi
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Il processo è il mezzo attraverso il quale si attua la giurisdizione civile, penale o amministrativa. Esso risolve controversie e permette di affermare o negare la responsabilità di una o più persone per un determinato fatto compiuto. Tende alla ricerca della verità e ha lo scopo di trarre le conseguenze giuridiche. I tempi di un processo in Italia sono molto lunghi e i costi salgono con il protrarsi della durata delle procedure. L’Italia, infatti, ha il primato per la lentezza e per l’eccessivo costo dei procedimenti giudiziari. Dal Rapporto OCSE 2013 emerge che nel 2010 la durata media stimata di un procedimento civile in primo grado è stato di circa 240 giorni nei paesi dell’OCSE. Il paese con la durata minore è il Giappone (107 giorni), seguono Portogallo e Slovenia con 420 giorni e poi c’è l’Italia con cifre più alte (564 giorni). Il tempo medio stimato per la conclusione di un procedimento, in tre gradi di giudizio, è di 788 giorni, con un minimo di 368 in Svizzera e un massimo di quasi 8 anni in Italia. La durata dei processi è connessa anche al grado di informatizzazione. La produttività dei giudici, infatti, risulta essere più elevata nei paesi che effettuano maggiori investimenti in questo settore. Quando le competenze informatiche sono alte, si rie-
sce a trarre maggiore vantaggio dai nuovi strumenti tecnologici e le procedure burocratiche si attuano con più facilità. La lunghezza dei processi, nel nostro paese, non viene attribuita alla mancanza di risorse. Secondo il Rapporto Ocse, l’Italia destina alla giustizia civile le stesse cifre degli altri paesi. Il problema è che le risorse non vengono impiegate in maniera efficiente e produttiva. I costi di accesso alla giustizia, stimati su spese amministrative, quote per esperti e avvocati, al netto dell’eventuale contributo dello Stato, si differenziano in maniera significativa tra i vari Stati. Le cifre, però, in Italia sono anche correlate ai tempi: più le procedure perdurano negli anni maggiori sono le spese di gestione. Tale lentezza provoca numerose complicazioni.
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Non vanno sottovalutati i danni arrecati alle vittime, agli imputati e alle famiglie. Il disagio si ripercuote non solo su di loro, ma anche su tutta la popolazione nazionale che perde la fiducia nella giustizia in genere e percepisce con maggiore ansia il rischio, soprattutto quando a prolungarsi nel tempo sono i processi penali. Agli ingenti danni psicologici si aggiungono anche quelli arrecati all’economia nazionale. Il dossier dell’associazione Detenuto Ignoto evidenzia il costo annuo della giustizia in Italia, stimato a 4.088.000.000 euro (contro i 3.350.000.000 della Francia, i 2.983.000.000 della Spagna, i 1.613.000.000 dei Paesi Bassi). Secon-
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do il rapporto Doing business 2012 della Banca Mondiale, la giustizia lenta costa circa 371 euro ad azienda e i ritardi costano alle imprese circa 2.300.000.000 di euro l’anno. La giusta durata di un processo è quantificata in tre anni per il giudizio di Primo Grado, in due per l’Appello e in uno per quello di Cassazione. Oltrepassato questo limite, la durata è eccessiva e determina il diritto al risarcimento del danno indipendentemente dall’esito del giudizio. A questo punto, ai costi del processo lento si aggiungono quello di risarcimento elevando le cifre in maniera vertiginosa. La cattiva gestione delle risorse e dei mezzi si ripercuote così ingiustamente sull’intero sistema sociale.
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La vita di milioni di bambini è determinata dall’uso di sostanze da parte dei loro genitori e in tutto il mondo sono più di 8 milioni a vivere con almeno un genitore che fa abuso o è dipendente da alcol o da droghe. L’uso di stupefacenti o alcol da parte degli uomini è sempre stabile, mentre negli ultimi anni si è verificato un aumento del numero di donne che abusano di sostanze. Molto spesso sono padri e madri, e ciò ha comportato la nascita di una problematica particolarmente delicata, quella della cosiddetta “genitorialità fragile”. Il problema ha suscitato in molti paesi notevole interesse, numerose ricerche sono state effettuate negli USA, ma in Italia risulta ancora scarsa l’attenzione su questo tema, anche per la mancanza di dati attendibili, aggiornati, da parte di organi ufficiali, che mettano in relazione il fenomeno della tossicodipendenza e dell’alcolismo con le competenze genitoriali. È stato dimostrato che l’esposizione, sia prenatale che postnatale, alla dipendenza genitoriale da sostanze può avere conseguenze disastrose per i bambini durante l’infanzia e l’adolescenza. Infatti, comparando i figli di genitori che non abusano di alcol o droghe con i bambini di genitori che ne fanno uso, è più probabile che questi ultimi esperiscano problemi fisici, intellettivi, sociali e psicologici. Per esem-
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pio, hanno più probabilità di sviluppare sintomi ansiosi e depressivi, di soffrire di malattie psicosomatiche o di ipocondria, di avere problemi comportamentali e di ottenere risultati più bassi a scuola. Gli effetti ad una esposizione alle droghe o all’alcol includono anche la rottura del processo di attaccamento, i problemi di sviluppo, l’adultizzazione, lo stigma sociale e l’uso di sostanze in adolescenza e la delinquenza. Questo perché lo sviluppo sociale e psicologico positivo, di solito, viene collegato a cornici familiari in cui la presenza
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dei genitori è costante e prevedibile, le relazioni sono buone e le abitudini quotidiane sono rispettate. Tali circostanze spesso mancano nelle famiglie con genitori tossicodipendenti o alcolisti, perché l’abuso o la dipendenza possono portare gli ambienti domestici a diventare caotici e imprevedibili, causando un malessere al minore. I bisogni fisici e psicologici dei bambini spesso passano in secondo piano rispetto alle attività dei loro genitori volte a ottenere, usare o recuperare le droghe o l’alcol. La ricerca di droghe o alcol, l’uso di già
scarse risorse per comprare queste sostanze, il tempo speso per racimolare i soldi in attività illegali, per riprendersi dai postumi dell’ubriachezza o dai sintomi dell’assunzione di droghe porta questi genitori ad avere poco tempo ed energie per prendersi cura dei loro figli e dei loro bisogni primari. Per questo motivo la dipendenza da sostanze è spesso un fattore presente nei casi di trascuratezza. Questi bambini, non appena crescono e si accorgono che i loro genitori non possono offrire una supervisione appropriata, per compensare si sentono responsabili e curano la loro famiglia, spesso estendendo il loro atteggiamento protettivo ai genitori, ma anche ai fratelli più piccoli. Questo processo viene definito “adultizzazione”.
Possono anche sviluppare loro stessi dipendenza da sostanze, perché potrebbero imitare i comportamenti che vedono nella loro famiglia. A loro volta, gli adolescenti che fanno uso di sostanze hanno più probabilità di venire coinvolti in attività criminali. Più sono esposti alla dipendenza dei loro genitori, più gravi saranno le conseguenze negative per il loro completo sviluppo e benessere. Ma c’è da dire che se metà di questi ragazzi sono inclini a diventare tossicodipendenti o alcolisti, c’è un’altra metà che non lo fa. Ciò è dovuto alla presenza di supporti e interventi esterni che riescono ad aiutare i bambini a superare il trauma di crescere in famiglie con questi tipi di problemi, tirando fuori le loro forze e massimizzando il loro naturale potenzia-
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le. Fattori protettivi, come il coinvolgimento di altri adulti di riferimento (per esempio altri membri della famiglia, maestri, sacerdoti, vicini di casa) possono aiutare ad alleviare l’impatto della tossicodipendenza o dell’alcolismo sui figli. Più specificatamente, la presenza di una figura di accudimento fidata aumenta la capacità di autonomia ed indipendenza e rende più forti le abilità sociali, le capacità di fronteggiare le esperienze emotive più difficili e le strategie di difesa adottate nella vita di tutti i giorni. Ma tutto questo da solo non basta, necessaria risulta – in termini più generali – un’integrazione efficace fra servizi socio-sanitari che si occupano di cura e riabilitazione di uomini e donne con problemi di tossicodipendenza e alcolismo e servizi che si occupano della tutela del benessere e della crescita dei minori, in quanto non si possono tenere separati il superiore interesse del bambino, da una parte, e il recupero delle competenze genitoriali, dall’altra. Tutto ciò al fine di prevenire quelle “perdite invisibili” che possono subire i figli di tossicodipendenti o alcolisti: perdita di amore, stabilità, un custode, un’infanzia spensierata.
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Cosa significa essere madri e disabili in Italia Una scelta difficile tra pregiudizi e paure dell’ignoto
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Diventare madre è per la maggior parte delle donne un bisogno fisiologico. Arrivate ad una certa età si sente la necessità, la voglia, il desiderio di procreare. È una forza interiore quasi inspiegabile che spinge ad avere un figlio. Per una donna disabile divenire madre però, non è così semplice. E il riferimento non è ad una difficoltà nel concepimento, bensì a tutta una serie di problemi nei quali si può incorrere, primo tra tutti la paura di non esserne all’altezza. Quali ostacoli può trovarsi davanti una donna disabile? Molteplici. Se oggi la società è riuscita ad accettare il diritto allo studio per una persona disabile e con un po’ di fatica, anche l’inserimento nel mondo del lavoro storce il naso quando si parla di gravidanza. In quest’ultimo caso la questione viene considerata assurda. Addirittura molti ginecologi non sono in grado di gestire queste situazioni o non
hanno strutture adatte dove poter effettuare le visite. Alcuni anni fa è stata fatta una ricerca dall’AIAS (Associazione Italiana Assistenza Spastici), ed è risultato che in Italia non esiste ancora una rete adeguata che possa seguire le donne disabili in gravidanza. A quanto pare il binomio disabilità-maternità non viene (spesso) preso in considerazione. Eppure sono tantissime a volere dei figli, nonostante le evidenti “difficoltà”. È innegabile che una donna disabile troverà maggiori avversità nel gestire la vita di un bambino, rispetto a chi non è nella medesima condizione; ci sarà per esempio il timore che il piccolo possa ereditare qualche malattia, oppure il non sentirsi all’altezza in certe situazioni. Nonostante queste titubanze è forse l’esempio di altre donne disabili che manca in grado di incoraggiare, stimolare le altre a fare questo passo importante, che cambierà per sempre la loro vita.
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La disabilità non deve e non può limitare una donna (tranne quando esistono reali problemi). Non lasciamo che l’ignoranza o il pregiudizio della società di oggi prevalga su quello che è fisiologico per qualsiasi essere di genere femminile, ovvero mettere al mondo una nuova vita. Esistono madri meravigliose pur vivendo sulla sedia a rotelle, oppure con altri deficit: quello che le distingue dalle altre è il loro grande coraggio, la forza, la determinazione nell’affrontare l’esperienza più bella del mondo.
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La nostra società deve porre più attenzione a quello che nel resto del mondo è la normalità. Troppe volte ci si dimentica degli aspetti di chi è meno fortunato. Ancora elevate sono le barriere architettoniche, ma quelle che fanno più paura sono quelle mentali e culturali. Una disabile che vuole diventare madre spesso non è vista come una donna che ha tutto il diritto di concepire un figlio. Una mamma così deve affrontare mille problemi e sicuramente avrà più timori, dubbi e paure. Invece di sostenerla e aiutarla in questa scelta ardimentosa, la società l’addita e, con pregiudizi, la mette al bando. Eppure, non è per nulla scontato che tutte le madri cosiddette “sane” sappiano da dove iniziare per crescere un figlio. Quello che rende una madre in quanto tale risiede nel cuore e nell’anima della persona, non nell’uso delle gambe o delle braccia.
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VOCI ED EMOZIONI Dagli USA nuove tecniche per analizzare le chiamate d’emergenza
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I toni, le frequenze emesse dalla voce non sono sempre le stesse, cambiano secondo le emozioni che si provano. Si è basato su quest’assunto uno studio fatto negli USA sulle chiamate al 911. Esaminando le chiamate al numero d’emergenza, si è visto che sarebbe possibile ricavare indizi importanti su chi ha effettuato la richiesta d’aiuto. In questo modo, gli investigatori avrebbero a disposizione uno strumento aggiuntivo in modo tale da poter sviluppare una strategia per indirizzare le proprie indagini in modo mirato. Quando si vuole dare enfasi a un’informazione che si sta per comunicare o mettere in risalto una parte del discorso che si vuole sia chiara e ben recepita, non solo ci si affida ai gesti e alle parole, ma anche alla voce e, soprattutto, al tono con cui ci si esprime. Naturalmente, il tono della voce può essere regolato a proprio piacimento, ma in determinate circostanze può accadere che cambi nonostante non si abbia intenzione di farlo. Basti pensare a quando si ride e si scherza con gli amici e dopo qualche minuto qualcuno chiede di abbassare la voce.
Solo in quel momento ci si accorge del tono che si è alzato. La stessa situazione si può presentare quando si discute con qualcuno e il volume della voce aumenta, senza accorgersene. Di conseguenza, è possibile stabilire l’emozione provata ascoltando la voce. Gli investigatori, oltre ad analizzare le parole utilizzate dalle persone che chiedono aiuto, hanno la possibilità di ascoltarle poiché ogni chiamata a un numero d’emergenza è registrata, e proprio da come una richiesta è effettuata si possono ricavare molte informazioni. Ad esempio, ci si può chiedere se la modulazione è avvenuta con voce alta, discorso veloce, picchi nei toni alti ed emotivamente coinvolti oppure nessuna modulazione comunicando con voce bassa, toni bassi senza alcun
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coinvolgimento. Una situazione d’emergenza richiede urgenza e normalmente questo è udibile nella voce di chi chiama, trasmettendo coinvolgimento, stress e agitazione. Spesso quindi la voce è modulata con toni alti, con molti picchi e le parole fuoriescono velocemente proprio per la criticità della situazione. In casi di grave emergenza le chiamate sono effettuate da persone molto agitate e sotto stress, ecco che le chiamate al 911 possono spesso contenere indizi importanti per aiutare gli investigatori a indirizzare le indagini. Vediamo alcuni esempi: «Mandate un’ambulanza all’indirizzo xxx, hanno sparato a un mio amico». Una telefonata di questo tenore denota una richiesta d’aiuto immediata, rientra nella “norma”, a differenza di: «Pronto, si signora... eh.... mio figlio non riesce a respirare». In questo caso, chi chiama conversa educatamente senza tono d’urgenza riguardo alle condizioni del figlio, senza chiedere aiuto, e questo desta l’attenzione degli investigatori. Anche le interruzioni di pensiero ovvero quando improvvisamente l’argomento cambia, potrebbero rivelare indizi importanti. In questo esempio, un uomo inizia dicendo che c’è stata un’intrusione in casa per poi cambiare argomento: Pronto Intervento: «Qual è la sua emergenza?» Risposta: «C’è stata un’intru.... mia moglie è stata uccisa, credo». Le condizioni critiche della moglie avreb-
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bero dovuto avere la priorità, ma il marito ha iniziato parlando di un’intrusione nella loro casa e questo desta sospetti. Anche il comportamento di una persona di fronte alla morte è analizzato. Alcune persone possono sopravvivere a ferite terribili come un colpo d’arma da fuoco alla testa o pugnalate al petto, per cui si chiama per chiedere aiuto anche quando la situazione è particolarmente critica. Chi chiama, difficilmente accetta la morte della persona che necessita di aiuto fino a quando la morte non viene dichiarata dal personale medico. È comune una richiesta d’aiuto tipo: «Non ha più polso, non sento niente. Fate presto!». Di conseguenza, quando chi chiama dichiara la morte della persona bisognosa d’aiuto (tranne che in casi evidenti) può creare sospetti. Comunicando al telefono è impossibile individuare un gesto del corpo o una microespressione facciale, ma le parole usate e i toni della voce restano una grande fonte d’informazione.
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LIBRO E PROGRAMMA TV
CONSIGLIATI
a cura di Mauro Valentini Piazza della Loggia
Pino Casamassima racconta la Strage tra vecchie foto e nuove testimonianze Quello striscione che qualcuno appese durante la commemorazione della strage pesa come un macigno. «Il 28 maggio 1974 a Brescia non è successo nulla» aveva scritto ed esposto quell’anonimo e rabbioso cittadino. Pino Casamassima, che proprio a Brescia in quegli anni caldi ha iniziò a collaborare con Il Giornale di Brescia e con Bresciaoggi, simbolicamente ha cercato nel suo Piazza della Loggia (Edizioni Sperling&Kupfer) di rispondere a quello striscione, raccontando con una provvidente e necessaria accuratezza tutto quello che è accaduto prima e dopo le ore 10:12 di quel 28 maggio di 41 anni fa. Tanto si conosce di quei momenti, ma manca la parte essenziale, il cuore di quella tragedia, manca ancora chi, come e perché ha contribuito alla detonazione. L’autore ricorda quei momenti con gli occhi del giovane studente appassionato e travolto dalla politica, che fu testimone oculare di quel fermento, con equilibrio, emozione e dati oggettivi che rendono avvincente la lettura. Si parte dalla morte di Silvio Ferrari, neofascista bresciano avvenuta dieci giorni prima della Strage, slegata dalla bomba finora e via via, seguendo attraverso le testimonianze e le carte processuali, si percorrono e si analizzano le piste, i mille rivoli di un’inchiesta che ancora ha un processo e degli imputati. «Gli elementi di novità sono diversi – ha dichiarato ad un’intervista qualche mese fa l’autore – alcuni sono stati da me trovati casualmente, ma non troppo, perché sono anni che raccolgo materiale sulla strage in funzione di un libro che sapevo di dover scrivere, prima o poi. Ho parlato con persone che non vedevo da parecchio, ripescato lettere e fotografie mezze ingiallite. Posso dire di aver passato al setaccio quarant’anni della mia vita». Prezioso è poi il supporto al lavoro d’archivio con l’aiuto della Casa della Memoria creata da Manlio Milani, infaticabile baluardo nella battaglia per la verità, a cui Casamassima ha affidato una toccante postfazione.
Diritto di Cronaca, la nuova rubrica di politica ed attualità in onda
ogni martedì e giovedì su Teleromauno (CH. 271). Tante le tematiche già affrontate, dal caso Cucchi al clan dei Marsigliesi, fino alle inchieste su sanità, sicurezza e criminalità. Tutte le puntate sono disponibili sulla pagina Facebook di “Diritto di Cronaca”, condotte dal giornalista Giovanni Lucifora.
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FILM E PROGRAMMA RADIOFONICO
CONSIGLIATI a cura di Nicola Guarneri
Al cinema
Squirrels - Gli scoiattoli assassini invadono la città
Pensate che gli scoiattoli siano dei dolci e docili animali? Forse dopo essere andati al cinema non lo penserete più. Con Squirrels torna sul grande schermo il genere horror, con tutti gli ingredienti che lo contraddistinguono: una tranquilla cittadina, un giovane uomo che torna dopo anni per cercare di capire qualcosa di più sulla misteriosa morte del padre e una mandria di scoiattoli assassini pronta ad assalire ogni anima viva.
In radio Nun te Radioreggae più, ideato e prodotto da Claudio Caruso, in onda ogni lunedì dalle 22:30 alle 00:00 su “Radio Libera Tutti” (www.radioliberatutti.it) o app RTL, è un’ora e mezza di puro intrattenimento con la conduzione di Claudio Caruso e Federico Mancini, per dire finalmente cosa non sopportiamo, parlando di attualità ma sempre con una vena ironica. La Radio lavora anche alla rubrica Dalla parte di chi non c’è ispirato a tutte quelle persone che sono vittime dello Stato o della mafia.
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